martedì 30 giugno 2015

GESTI INDELEBILI - A. L. Kennedy


Ancora una volta devo iniziare una recensione partendo dalla copertina. E questo perché molto probabilmente se non fossi rimasta così attratta dalla copertina dell’edizione tascabile di questo libro, Gesti indelebili di A. L. Kennedy, il cui progetto grafico è di Riccardo Falcinelli, difficilmente lo avrei letto. O ci sarei arrivata ancor più tardi, visto che questo libro è uscito per minimum fax già nel 2006 e io non l’avevo minimamente considerato. 
Poi mi è passata sott’occhio l’immagine del libro. Non so nemmeno più bene dove e quando. Mi è piaciuta la sua semplicità, la scelta dei colori e il modo in cui quella macchia risaltava sullo sfondo bianco. Allora mi sono informata, ho scoperto che si trattava di una raccolta di racconti, un genere che amo tantissimo, e l’ho fatta mia.

I racconti che compongono Gesti indelebili parlando di persone che hanno perso qualcosa. Che sentono la mancanza di qualcosa e che non sanno come fare per ritrovarla. Parlano di amori finiti o forse mai nemmeno iniziati, di tradimenti, di prese di coscienza, di violenza, di dolore. Ma anche di speranza, che le cose cambino, che le cose migliorino o tornino anche solo ad essere come sono sempre state.
Come sempre succede nelle raccolte di racconti, alcuni mi sono piaciuti più di altri. Il mio preferito è senza ombra di dubbio Non qualcosa che ha a che fare con l’amore, che parla di un amore passato, un amore che ha fatto soffrire e che il buon senso direbbe di dimenticare, ma entrambi i suoi protagonisti sanno che sarà impossibile lasciarsi perdere. E subito dopo ci metterei Altrove, per quella fragile protagonista e il suo gesto di dover dare fuoco a tutto per poter ricominciare.

In comune, comunque, tutti i racconti hanno la bella scrittura di A.L. Kennedy, questa autrice anglosassone che riesce a creare un racconto quasi dal niente, come da un incontro in coda ad acquistare formaggi o dalla ricerca disperata di scatoloni per un trasloco. E di questi protagonisti mette sulla carta l’aspetto più umano, le debolezze, le fragilità, senza alcuno sconto. Perché ci sono dei momenti nella vita in cui tutti noi siamo così, distrutti, disperati, tristi, confusi, con un aspetto orribile o con pensieri ancor più orribili. Umani, insomma. E per me non c’è niente di meglio di un autore che riesce a riportare tutto questo su carta, in modo onesto, a tratti anche ironico, perché ogni situazione per quanto terribile ha qualcosa di buffo, senza giudizi e con uno sguardo benevolo rivolto un po’ a tutti.

È indubbio che per poter apprezzare al meglio questo libro si debba essere amanti dei racconti, del loro raccontare una vita in poche pagine, basandosi sul detto ma anche tanto sul non detto. Perché alcuni racconti di questa raccolta sono effettivamente molto brevi  e so che in molti non si ritrovano in questo tipo di narrazione.

Se invece li adorate, come me, sono sicura che Gesti indelebili di A.L. Kennedy non vi deluderà.

Titolo: Gesti indelebili
Autore: A.L. Kennedy
Traduttore: Federica Aceto
Pagine: 203
Editore: minimum fax
Acquista su Amazon:
formato brossura: Gesti indelebili
formato ebook:Gesti indelebili

lunedì 29 giugno 2015

LA RAGAZZA DI FRONTE - Margherita Oggero


Non avevo mai letto libri di Margherita Oggero che non appartenessero la serie della professoressa investigatrice Camilla Baudino. In parte forse perché non ce n’è mai stata davvero l’occasione, in parte anche perché ho sempre paura di leggere qualcosa di altro di quegli scrittori che ho conosciuto e amato per un motivo ben preciso (mi viene in mente Carofiglio, ad esempio, di cui adoro la serie con Guido Guerrieri mentre gli altri romanzi mi hanno sempre lasciato un senso di insoddisfazione più o meno forte). 
E quindi, sebbene questa scrittrice torinese abbia scritto diversi libri che non siano gialli, fino a quest’ultimo romanzo, La ragazza di fronte, io non ne avevo letto nessuno.
E, se tutti sono così, mi sa che è ora di rimediare.

La ragazza di fronte è una storia d’amore e una storia di vita. È ambientato a Torino, ovviamente, perché, come ho già detto, non riesco davvero a immaginare un romanzo di Margherita Oggero ambientato da qualche altra parte. Protagonisti sono Marta, appartenente all'alta borghesia torinese, figlia di un famoso cardiochirurgo e fresca di un’esperienza di studi all'estero, e Michele, un napoli venuto su a Torino quando era bambino e cresciuto dal nonno, che gli ha trasmesso tra le altre cose, la sua passione per i treni. Oggi Marta lavora come archivista nella fondazione di una ricca vedova, Michele, invece, guida i Frecciarossa. I due si erano già incontrati da bambini, quando incrociavano i loro sguardi da un terrazzo all’altro. Non si sono mai parlati, ma Michele era innamorato perso. Per uno strano scherzo del destino, oggi vivono di nuovo di fronte e di nuovo si scrutano da dietro le finestre. 
A far loro da contorno c’è tutta una serie di personaggi buffi e ben caratterizzati, con il loro passato e la loro storia, che aiutano a far conoscere meglio i due protagonisti. C’è il fantastico nonno di Michele e ci sono i due fratelli gemelli di Marta. C’è la coppia omosessuale del piano di sopra, che colleziona clessidre, e Augusto, il miglior amico di Michele, che da lui si trasferisce per cercare di superare pene d’amore. E poi ci sono commissari di polizia, cameriere un po’ impiccione e tanta, tanta Torino. 

La ragazza di fronte è un libro leggero, questo sicuramente. Ma è anche un libro intelligente, che parla di legami affettivi in modo originale e non per questo meno reale (lo so,  spiarsi dalla finestra potrebbe sembrare una cosa un po’ morbosa, ma almeno una volta nella vita sono sicura che sarà capitato a tutti di farlo) e che offre un ritratto della società torinese del passato e del presente, con quella contrapposizione tra ricchi e meno ricchi che ancora oggi, soprattutto per i primi, è difficile da superare.
Mi sono divertita un sacco leggendolo. Un po’ perché, pur abitando in provincia, ancora una volta riconosco i luoghi e gli atteggiamenti. Un po’ perché adoro il modo di scrivere di Margherita Oggero, la sua ironia, il suo modo di descrivere e dar voce ai sentimenti, allegri e dolorosi che siano.

Quando un paio di settimane fa sono andata una sua presentazione, il relatore ha detto che La ragazza di fronte è forse il libro più bello di questa autrice. Lì sul momento ho pensato “questo è matto”. Ora, a lettura compiuta, mi sa che devo dargli ragione.


Titolo: La ragazza di fronte
Autore: Margherita Oggero
Pagine: 223
Editore: Mondadori
Acquista su Amazon:
formato brossura: La ragazza di fronte
formato ebook: La ragazza di fronte

venerdì 26 giugno 2015

LE ANATRE DI HOLDEN SANNO DOVE ANDARE - Emilia Garuti



Per poter recensione in modo onesto di Le anatre di Holden sanno dove andare di Emilia Garuti, devo innanzitutto fare due piccole premesse personali.

La prima è che tra una settimana compio trent'anni e, per quanto io mi senta ancora ragazzina dentro e mi sembri ieri che io abbia preso la patente, è innegabile che un certo distacco verso tutte quelle cose che si fanno a diciotto-venti c’è.  Si cresce e cambiano, ovviamente, le priorità.
La seconda cosa è che la mia vita tra i sedici e i vent'anni è stata un po’ atipica. Facevo su e giù tra un ospedale e l’altro per seguire mio padre; ero dovuta diventare indipendente molto in fretta perché i problemi in casa erano altri e ben più gravi di quelle che potevano essere le turbe di un adolescente; non avevo tanti amici (più per colpa mia che per colpa loro, in realtà); studiavo un sacco, forse per distrarmi e per non dare ulteriori problemi; e ho dovuto scegliere l’università praticamente da sola (chiedendo a mio padre, ormai verso la fine, di alzare un braccio o l’altro se era o meno d’accordo con le mie scelte). Insomma, non posso certo definire la mia post adolescenza un periodo normale. (Ci sono state anche cose belle, ovviamente, perché nel male e nel dolore a volte ci sono anche quelle).
Ecco, credo che queste due premesse siano fondamentali per comprendere come mai Le anatre di Holden sanno dove andare non mi sia piaciuto.

Il libro, scritto in forma di diario, racconta la storia di Willelmina, che da tutti sa fa chiamare Will perché il nome originale è davvero terribile.  Will ha appena finito le scuole superiori e deve decidere che università frequentare. Come tutte le ragazze e i ragazzi della sua età, insomma. Solo che lei nel mentre va anche da una psicologa, da cui i genitori l’hanno mandata per cercare di risolvere alcuni suoi “problemi” emotivi. Di seguirla loro non ne hanno alcuna voglia, sono troppo impegnati a fingere di essere una famiglia perfetta in pubblico e a odiarsi dopo. Ma sta psicologa a Will non è che stia poi così simpatica, forse proprio perché vuole aiutarla. Un giorno, però, nella sala d’aspetto incontra Matteo, che ha anche lui i suoi problemi, ma che sembra volersi occupare anche di quelli di Will. E insieme, forse, riusciranno a guarire entrambi. 

Per la maggior parte della lettura avrei voluto prendere la protagonista a schiaffi. O darle almeno un qualche scossone. Perché è vero che ognuno reagisce ai problemi in modo diverso, è vero che la paura può colpire chiunque in ogni momento e toglierci il fiato, anche per cose stupide, così come è vero che scegliere l’università, se non si hanno tanto le idee chiare, è un momento importante e difficile. Però, che cavolo, a diciannove anni si dovrebbe essere in grado di sopportare tutto questo. Soprattutto considerando che Will è tutto fuorché sola. È vero, i genitori non la seguono (non che lei abbia mai provato a parlarci veramente), ma ha tante amiche che la cercano, con cui esce, ma che ai suoi occhi hanno la colpa di sapere già cosa fare nella loro vita.
Il linguaggio è sicuramente fresco e spontaneo, in alcuni punti anche molto intelligente. Devo dire, però, che da come era stato lanciato, un romanzo che, come dice la quarta, non vuole “scadere negli stereotipi della giovinezza,  da questo libro mi aspettavo qualcosa di meglio, qualcosa di più. Di molto di più.  Gli stereotipi ci sono tutti, secondo me. La ragazza contro. La ragazza che si sente incompresa. La ragazza che ha problemi con i genitori. La ragazza che sa tutto di letteratura eppure non sa cosa fare della sua vita, etc… etc.. etc… 

Ma ora devo riportare alla mente le mie due premesse. Sto invecchiando e non ho avuto una post -adolescenza normale. Quindi non lo so se i giovani di oggi sono così e se il libro a loro, reale target, potrebbe piacere oppure no. Non so, insomma, se sia un problema mio o un problema del libro. 

So, però, che a me non è piaciuto e, soprattutto, che Il giovane Holden io, per un libro così, non lo avrei disturbato.

Titolo: Le anatre di Holden sanno dove andare
Autore: Emilia Garuti
Pagine: 141
Editore: Giunti editore
Acquista su Amazon:

mercoledì 24 giugno 2015

Di libri e di mode: una piccola riflessione sconclusionata

Oggi parliamo di moda. No, non mi sto convertendo davvero da book blogger a fashion blogger (sebbene mi abbiano fatto presente che se fossi una fashion blogger probabilmente potrei vivere facendo questo). Semplicemente, vorrei provare a parlare del concetto di moda nella lettura.
E’ da un po’ che ci penso in realtà. Quanta gente c’è che legge un libro perché lo stanno leggendo tutti? Quanta gente c’è che sceglie un libro da leggere in base a quante copie abbia venduto o da quanto se ne sia parlato in giro? E quanto bene fa a un libro tutto questo?
Illustrazione di Nerina Canzi
L’altro giorno una ragazza mi ha scritto chiedendomi di consigliare un libro che va di moda in questo periodo. La mia primissima reazione, devo ammettere, è stata di snobismo. Io non leggo libri perché vanno di moda e non mi preoccupo minimamente se il libro che sto leggendo lo hanno letto in due milioni o la mia è la prima copia che vendono. Non mi interessa, onestamente. Io leggo un libro perché mi ispira la trama, perché mi piace il suo autore, perché ne ho sentito parlare bene, o per mille altri motivi che non saprei nemmeno spiegare. Tendo anzi a star ben lontana da quei libri che leggono tutti (per dirvi, probabilmente se non avessi scoperto la Ferrante prima che ne scoppiasse la mania difficilmente l’avrei letta ora).
Poi però ho cercato di mettere a tacere il mio animo snob e riflettere sul perché di questa richiesta. Che mi è arrivata da una persona sola (che tra l'altro ringrazio perché mi ha dato modo di riflettere su una cosa su cui non avevo mai riflettuto poi tanto a fondo), ma che sono sicura sia un pensiero abbastanza diffuso, soprattutto visto che siamo un popolo di lettori scarsi e, a volte, anche un po’ troppo omologati.
Che cos’è esattamente un libro di moda? Le Cinquanta Sfumature sicuramente lo sono state e non appena uscirà lo sarà anche Grey, lo stesso libro ma visto dal punto di vista maschile. Ma in passato lo è stato anche Gomorra di Roberto Saviano (che, per quanto antipatico possa stare Saviano a molti, non credo che possa essere paragonato alla celebre trilogia pornosoft) o il Codice da Vinci di Dan Brown, ma anche I love shopping della Kinsella e tutto ciò che è ambientato da Tiffany o che ha Tiffany in copertina, passando per Il cacciatore di aquiloni di Hosseini e Fabio Volo… giusto per citarne qualcuno.

Quindi, mi chiedo di nuovo, che cos’è un libro di moda? E come fa a diventarlo?
Alcuni fenomeni pare partano direttamente dai lettori e da quel fantomatico passaparola che viene sempre tanto osannato su alcune fascette. Un libro piace a una persona e questa lo consiglia a un altro, che lo consiglia a un altro, che lo consiglia a un altro… et voilà, tutti in spiaggia  a leggere  porno.
Altri vengono spinti tantissimo dagli uffici stampa, che tramite radio, tv, giornali e una pubblicità massiva, riescono a generare quello strano effetto per cui se tutti ne parlano allora deve essere qualcosa che merita e, soprattutto, devo poterne parlare anche io.
Un effetto strano, almeno per quanto mi riguarda, che sono sempre stata ben lontana dalle omologazioni e da questa necessità di parlare a tutti costi anche di cose che non si sanno.
Da un libro di moda, e chi frequenta assiduamente le librerie lo sa bene, ne partono poi mille altri, che tentano in qualche modo di emularlo, seguendone il filone, copiandone magari anche un po’ la copertina e inserendo piccole variazioni di trama, così da non sembrare esattamente lo stesso libro. E’ successo con i vampiri di Twilight, se vi ricordate, con Dan Brown e tutti i codici di qualcosa o di qualcuno che sono spuntati dopo, con Hosseini e tutti i romanzi ambientati in medio oriente con titoli e copertine simili, per non parlare ovviamente di ciò che hanno generato le Cinquanta Sfumature.

Ora, io non voglio certo sostenere che il fatto che un libro sia di moda e diventi un best seller implichi necessariamente che sia un brutto libro. Io stesso quando l’ho letto mi sono appassionata a Langdon e alle sue avventure parigine.
Però, da lettrice fortissima, riesco a cogliere le differenze che ci sono tra un libro scritto apposta per diventare un best seller e un libro che invece non nasce con questo obiettivo (dando per scontato ovviamente che ogni editore sarebbe ben contento che un suo libro diventasse un best seller inaspettato, così da rimpolpare un po’ le sue casse sempre troppo vuote in questi tempi di magra di lettori). E credo che chiunque legga anche altro, almeno una volta, se ne renda conto.
Ma al di là di questo, quello che più di tutto mi risulta difficile comprendere è come faccia un libro a essere una moda. Non è un vestito, non sono un paio di scarpe o una borsa, che quest’anno sono in e l’anno prossimo out, ma conservateli che poi tra qualche anno ritorneranno.
Un libro racconta una storia e dovremmo scegliere una storia che ci piace e ci appassiona, e non leggere qualcosa perché lo fanno gli altri o perché l’autore ha venduto sei milioni di copie in tutto il mondo o è stato il caso editoriale in Uzbekistan (massimo rispetto per i casi editoriali dell’Uzbekistan, sia chiaro… ma è per sottolineare come dati francamente inutili di certi libri vengano utilizzati per vendere).
Soprattutto considerando quanti libri vengono pubblicati ogni anno, quanta scelta c’è, se solo non ci si fermasse di fronte a una gigantografia o a una pubblicità sentita in radio o in tv (tra l’altro io le pubblicità dei libri che fanno in tv, tra un detersivo e la carta igienica, le trovo allucinanti. Del libro non dicono mai niente, parlano solo ed esclusivamente dell’autore e del numero di copie che ha venduto).

Ok, forse il mio animo snob ha di nuovo preso il sopravvento. Ognuno deve essere libero di leggere quello che vuole, per la motivazione che vuole, e non sta certo a me o ad altri book blogger (che poi anche noi, quando vogliamo, con sta cosa dell’omologazione siamo abbastanza bravi eh… tipo che escono dieci recensioni dello stesso libro in due giorni su dieci blog diversi. La differenza è in alcuni casi si tratta di libri che altrimenti non arriverebbero in nessun modo) dire che cosa uno debba o non debba leggere.

Mi spiace solo che per star dietro a delle mode, un po’ per omologazione, un po’ forse semplicemente per pigrizia e poca voglia di informarsi, libri che meriterebbero di essere conosciuti e letti da tutti, passano un po’ in secondo o in terzo piano.

In ogni caso, vi prego, non chiedetemi mai più di consigliarvi un libro di moda. Chiedetemi di consigliarvi un libro che a me è piaciuto un sacco, un libro che tratta una tematica che vi sta a cuore o che abbia dei protagonisti con caratteristiche precise, che sia ambientato al mare o in montagna, nel passato o nel futuro. Qualunque cosa, anche la più assurda. Ma che sia di moda, ecco, no.

martedì 23 giugno 2015

FUGA DAL CAMPO 14 - Blaine Harden


I campi di lavoro nordcoreani, tuttora funzionanti, esistono da un periodo di tempo doppio rispetto ai gulag sovietici e dodici volte superiore rispetto ai campi di concentramento nazisti. Sulla loro collocazione geografica non ci sono dubbi: le immagini satellitari ad alta risoluzione, disponibili su Google Earth a chiunque abbia accesso a internet, mostrano ampi perimetri recintati disseminati lungo le impervie montagne della Corea del Nord. Secondo le stime del governo Sudcoreano sarebbero circa centocinquantamila i prigionieri rinchiusi nei campi, mentre secondo il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America il numero toccherebbe quota duecentomila.
Ho deciso di partire da qui, da questi dati tratti dall’introduzione, per tentare di parlare di Fuga dal Campo 14 di Blaine Harden. Ero molto indecisa se citare questo o una delle dieci regole, “i dieci comandamenti”, che i prigionieri di questi campi di lavoro devono seguire per riuscire a vivere lì dentro senza venire pestati, torturati o fucilati (non che seguirle sia una garanzia che una di queste cose non succeda comunque, sia chiaro). Ma alla fine ho scelto per dei dati concreti, dati alla portata di tutti. Basta andare su Google Earth per vedere tutto questo.
Ci sono dei campi di lavoro in Corea del Nord. C’erano ancora nel 2012, quando il libro è uscito, e ci sono ancora oggi nel 2015. Campi di lavoro in cui si viene rinchiusi per generazioni, per espiare colpe (come quella di abbandonare il paese) a volte proprie, ma molto più spesso di parenti lontani e sconosciuti. 

Fuga dal Campo 14 racconta la storia di Shin, che in questo campo ci è nato e vissuto fino ai 22 anni. Ne ha seguito le regole in modo ferreo, perché così gli è stato insegnato fin da piccolo. Fare la spia alle guardie è cosa buona e giusta. Partecipare ai pestaggi collettivi di altri per punirli è cosa buona e giusta. Non ci sono legami, non c’è affetto, non c’è amore, nemmeno in famiglia, nemmeno verso la propria madre, colpevole, con le sue scelte, di avergli provocato del dolore inutile.
Poi, un giorno, un nuovo prigioniero gli svela che là fuori c’è un mondo. E Shin decide quindi di provare a scappare. L’unico, proveniente da quel campo, ad esserci riuscito. Il libro racconta la sua fuga, le difficoltà incontrate per raggiungere la Cina prima e la Corea del Sud dopo. Il suo arrivo negli Stati Uniti e il suo impegno di oggi per denunciare quei crimini di fronte a un mondo che sembra ignorarli.

Il libro è agghiacciante. Per la vita nel campo, le torture, le sofferenze, l’ingiustizia e l’incredibile negazione da parte del governo. È agghiacciante perché sembra di leggere un romanzo utopico, di quelli ambientati in quei posti in cui tutto è controllato, tutto è imposto (anche il pentimento… e quei momenti di “pentimento collettivo” richiamano tantissimo 1984 di Orwell), ma in realtà un romanzo non è. È vita vera. 
Per me è stato davvero sconvolgente scoprire tutto questo. Sì, sapevo che esistono questi campi ma ne avevo un’idea molto vaga, molto imprecisa. Come quasi sempre succede di quelle cose che sentiamo distanti e di cui quindi tendiamo a disinteressarci. Eppure, cavolo, basta aprire google maps per vederli. Possibile davvero che nessuno faccia niente?
In America gli studenti delle scuole superiori discutono sul perché Franklin D. Roosvelt non abbia bombardato le linee ferroviarie che portavano ai campi di concentramento nazisti. I loro figli potrebbero chiedere, più o meno tra una generazione, perché l’occidente sia rimasto a guardare le ben più esplicite immagini satellitare dei campi di Kim Jong Il. Senza far nulla.
Il libro è scritto molto bene. Non è una lettura difficile a livello di scrittura o di comprensione. E di questo bisogna dare merito a Blaine Harden, il giornalista che ha raccolto le parole di Shin e ne ha scritto la storia. Solo scrivendolo in questo modo, con il giusto numero di dati e di riferimenti bibliografici, soffermandosi principalmente sulla vita di Shin, questo libro può arrivare a tutti. 

Magari non servirà a cambiare le cose. Ma forse saperne di più del mondo in cui viviamo, delle atrocità che ancora oggi vengono commesse senza alcun motivo logico (non che le guerre di oggi abbiano un motivo logico, ma essere rinchiusi in un campo, essere pestati a sangue o lasciati alla fame per me hanno ancora meno senso) e forse cambieremo un po’ le nostre battaglie personali.

Da leggere, preparandosi a stare male.

Titolo: Fuga dal campo 14
Autore: Blaine Harden
Traduttore: I. Oddenino
Pagine: 290
Editore: Codice edizioni
Acquista su Amazon:
formato brossura: Fuga dal campo 14
formato ebook:Fuga dal campo 14

venerdì 19 giugno 2015

JANE LA BRUTTINA - M.C. Beaton



Ho conosciuto M. C. Beaton, come forse la maggior parte dei suoi lettori, grazie al primo volume della serie di Agatha Raisin, Agatha Raisin e la quiche letale, questa donna londinese che si reinventa investigatrice privata nel piccolo paesino in cui ha deciso di trasferirsi una volta in pensione. Mi era piaciuto molto, per la sua scorrevolezza, la sua sottile ironie e il grande tributo fatto alla regina del giallo. Non ho però poi letto altro di questa serie, un po’ perché non ci sono state più offerto sui suoi ebook e non mi andava di comprare in cartaceo un secondo volume, un po’ perché temevo molto l’effetto ripetitività.
L’anno scorso ho però letto L’avaro di Mayfair, primo episodio della serie 67 Clarges Street, che racconta attraverso le vicende di una casa e dei suoi abitanti, la società londinese di inizio ‘800. Il libro mi era piaciuto molto, al punto da decidere quest’anno di tornare in quegli ambienti, con Jane la bruttina.

Jane si potrebbe definire una ragazza insignificante. È intelligente e curiosa, sì, ma si sa che a quel tempo nell’alta società più che l’intelligenza nelle donne si guarda la bellezza e il portamento. E Jane ci può fare proprio poco. Anche perché sua madre, Mrs Hart, è tutta dedita alla figlia maggiore, la bellissima Euphemia, pronta a fare il suo debutto nella società londinese. È proprio per questo che la famiglia Hart arriva a Londra, prendendo in affitto per la stagione dei debutti la casa al 67 di Clarges Street, con tutta la sua servitù. Jane, con i suoi modi di fare e la sua spontaneità, riesce ad attirare l’attenzione di Lord Tregarthan, un uomo un po’ più anziano di lei e famoso per la sua allegria in faccende amorose. L’uomo si sente molto protettivo nei confronti di Jane e,  quando la ragazza decide di indagare sulla misteriosa morte di Clara, passata inquilina della casa trovata morta in un parco poco distante apparentemente senza motivo, Lord Tregarthan decide di aiutarla. Ma non è questo l’unico rapporto che nasce nel corso del libro: anche il maggiordomo Rainbird è in fermento, e così Joseph e la piccola Lizzie. Riuscirà questa volta la casa a togliersi di dosso la sua sfortuna? 

Avevo proprio voglia di tornare al 67 di Clarges Street a Londra a vedere come se la stavano passando i suoi domestici, dopo le avventure di L’avaro di Mayfar. Avevo voglia di immergermi di nuovo nella vita londinese di inizio ‘800 attraverso le parole di M.C. Beaton e il suo buffo e originale modo di raccontare la società, senza critiche eccessive ma anche senza sconti per nessuno.
Leggendo Jane la bruttina mi sono divertita molto, ancor di più che con il primo libro, forse perché la stessa Beaton ha acquisito più confidenza e ha osato un po’ di più, mescolando sapientemente più elementi, dalla critica dell’alta società londinese ai riscatti famigliari, dalla trama gialla a quella rosa, così da creare uno spaccato fedele dell’epoca.

Mi sono piaciuti molto i personaggi, a partire dalla povera Jane sempre bistrattata a tutti i membri della servitù, che pur non avendo legami di sangue dimostrano più di tutti di essere una vera grande famiglia.

È un libro leggero, scorrevole e davvero molto piacevole da leggere, che racconta una Londra forse già raccontata più volte da altri, ma in modo diverso, ironico al punto giusto. E non vedo l'ora di leggere anche tutti gli altri!
Assolutamente consigliato!

Titolo: Jane la bruttina
Autore: M.C. Beaton
Traduttore: Simona Garavelli
Pagine: 197
Editore: Astoria
Acquista su Amazon:
formato ebook: Jane la bruttina


mercoledì 17 giugno 2015

ITADAKIMASU. UMILMENTE RICEVO IN DONO - Fabio Geda



Non so bene per quale motivo, ma il Giappone non mi ha mai attratta più di tanto. Ne riconosco il fascino e le particolarità, questo sì, però se mi dovessero regalare un viaggio di cui posso scegliere io la meta, di sicuro non è il primo posto in cui andrei. Forse perché hanno una cultura molto diversa dalla nostra, altamente tecnologica e sviluppata e al tempo stesso molto tradizionale e non saprei come muovermici. Forse semplicemente per una predisposizione mentale che mi porta a preferire altri paesi.
Questo si riflette sicuramente anche sulle mie letture. Ho letto pochissimi libri di scrittori e scrittrici giapponesi, e quei pochi che ho letto devo dire che non mi sono nemmeno piaciuti. 

E allora perché ho letto Itadakimasu- Umilmente ricevo in dono di Fabio Geda? Per diversi motivi: innanzitutto volevo leggere qualcosa di questo autore dopo averlo conosciuto a una presentazione; poi perché parla di Giappone attraverso il cibo, in questa bellissima collana Allacarta di EDT, che affida a scrittori italiani il compito di descrivere la cucina di diversi posti del mondo dal loro punto di vista, e io adoro mangiare; ultimo, e non meno importante, perché me l’hanno prestato, e se così non fosse stato non so se ci sarei mai arrivata.

Fabio Geda racconta di un suo viaggio in Giappone. Parla di cibo, ovviamente, e di tutte quelle persone che ha incontrato che glielo hanno fatto conoscere. Ho adorato il suo incontro con Mikage, conosciuta a colazione e diventata compagna di pranzi e cene. Ma ho amato soprattutto la storia di Nakata e del signor Otsuka, il gatto che vuole scrivere lettere d’amore alla sua padrona, bella e commuovente.  Talmente bella e commuovente, che avrei quasi fatto a meno del cibo, per saperne di più di questo signore e questo gatto.

Anche sulla carta, Fabio Geda si è rivelato la bella persona che ho scoperto essere dal vivo. Mi piace come scrive, mi piace il suo soffermarsi sui piccoli dettagli che possono rendere bello il mondo, e la passione che è riuscito a trasmettere con le sue parole per il Giappone e la sua cultura.
Da leggere, insomma, sia che siate appassionati di quella cultura e quel cibo, sia che non lo siate. Scoprirete qualcosa di nuovo e qualcosa di bello.
Però, mi spiace, ma io con le bacchette proprio non riesco a mangiare.

Titolo: ITADAKIMASU. Umilmente ricevo in dono
Autore: Fabio Geda
Pagine: 133
Editore: EDT
Acquista su Amazon:

lunedì 15 giugno 2015

IL POZZO - Juan Carlos Onetti

 


Ammetto di aver pensato di non scrivere questa recensione di Il pozzo di Juan Carlos Onetti. Non perché non mi sia piaciuto o non ci sia niente da dire, ma perché le mie sensazioni fisiche hanno influenzato in qualche modo la mia percezione del libro, rendendo questa mia opinione quasi inutile per altri lettori. Al tempo stesso però non posso prescindere da quello che ho provato leggendo e magari, scrivendone, la cosa acquisisce anche un po' più di senso.

Il pozzo di Juan Carlos Onetti è un romanzo breve, stando almeno alla definizione data da Juan José Saer nella prefazione: più lungo di un racconto, (molto) più breve di un romanzo, si colloca insomma in una posizione di mezzo tra l’uno e l’altro. Un’idea nata e sviluppata all'improvviso ma con un ampio margine narrativo per dipanarsi.

Protagonista è Eladio Linacero che un giorno si alza e decide di scrivere le sue memorie. Perché «un uomo quando arriva a quarant'anni deve scrivere la storia della sua vita, soprattutto se gli sono capitate cose interessanti. L’ho letto non so dove». E quindi lui inizia a scrivere e a raccontare, di ricordi del suo passato che lo tormentano ancora nel presente, e di amori, soprattutto di amori. Che arrivano inspiegabilmente, che a volte si fanno pagare e altre no, che finiscono. Inesorabilmente.
 L’amore è una cosa troppo meravigliosa perché uno possa stare a preoccuparsi del destino di due persone che non hanno fatto altro che averlo, inspiegabilmente.
Eladio Linacero è un personaggio pessimista, cinico e anche un po’ triste, probabilmente. Un personaggio che ha bisogno di tornare al suo passato, quello vicino e quello lontano, per affrontare ed edulcorare un po’ la sua realtà e sentirsi meno solo. Un po’ come facciamo tutti noi, in alcuni momenti della nostra vita.

Il problema grosso di Il pozzo, per quanto mi riguarda ovviamente, è che è davvero troppo breve. Sì, forse va un po’ più a fondo di certi racconti (ma in realtà nemmeno poi di tutti), e la narrazione è sviluppata al punto giusto. Ma la mia sensazione, una volta chiuso, è che manchi qualcosa. Forse se fosse stato inserito in qualche raccolta, questa sensazione sarebbe stata un po’ smorzata. Così, pur essendomi piaciuto tanto, soprattutto considerando che è l’esordio narrativo di Onetti, ho quasi l’impressione di non averlo letto (sebbene lo abbia riletto almeno un paio di volte, prima di mettermi a scriverne), che non mi sia rimasto in mente.
È sicuramente un limite mio, che forse non mi fa nemmeno troppo onore rivelare così, senza pudore. Perché effettivamente quella di Il pozzo è una storia bella, scritta bene e con un grande personaggio che sicuramente ricorderò nel tempo. Ed è letteratura sudamericana, e si sente in ogni pagina, con quel mix tra realtà e finzione, a tratti quasi indistinguibili tra loro, tra bellezza e miseria, tra meraviglia e orrore, il potersi identificare con tutti ma anche con nessuno. Quegli elementi, insomma, che tanto amo nella letteratura del cono sud. 
Non lo so, forse non amo troppo i libri con meno di sessanta pagine,. Non mi piacciono da tenere in mano né da sfogliare e questa sensazione fisica influenza anche, in un modo o nell'altro, quella mentale. 

Se però voi siete persone normali e non avete di questi problemi, allora Il pozzo di Juan Carlos Onetti fa sicuramente per voi. 

Titolo: Il pozzo
Autore: Juan Carlos Onetti
Traduttore: Ilide Carmignani
Pagine: 56
Editore: Sur
Acquista su Amazon:
formato brossura: Il pozzo
formato ebook:Il pozzo

venerdì 12 giugno 2015

Incontrando... MARGHERITA OGGERO

Ieri pomeriggio, in un bell’orario da pensionati che il mio stato attuale di non occupata mi consente di sfruttare al meglio, sono alla biblioteca Movimente di Chivasso a sentire la presentazione del libro La ragazza di fronte di Margherita Oggero insieme al suocero rampante.
Ok, non ho ancora letto il libro ed effettivamente andare a una presentazione di qualcosa che non ho letto un pochino mi indispone: ho sempre paura o di non capire di che cosa stiamo parlando o di capirne troppo e rovinarmi così la lettura. Però era da parecchio tempo che volevo assistere a un incontro con questa per me fantastica scrittrice torinese. E quindi chissene frega. Prendiamo e andiamo alla presentazione.

Innanzitutto, la biblioteca Movimente di Chivasso è un posto bellissimo che se non fosse così distante, e non avesse orari di apertura non proprio agevoli, frequenterei quasi tutti i giorni. E’ nuova, è luminosa, è spaziosa, è bianca e verde, è piena di libri e di giornali, ma anche di pc, di dvd e, soprattutto, di gente. Che si siede e legge, che naviga, che sfoglia giornali. C’ero già stata in passato, ma solo di sera, e ora ho avuto la conferma che è proprio un posto a misura di lettore.
Ma veniamo alla presentazione. Dunque, l’evento era organizzato dalla biblioteca e dall'Associazione Buongiorno Canavese e a moderare l’incontro c’era proprio il suo presidente, Roberto Tentoni.


Durante la presentazione si è parlato, come logico che sia, principalmente di La ragazza di fronte, libro da poco uscito per Mondadori (ma che ha una copertina tremendamente simili ai Garzanti). Si è parlato dei vari temi e dei vari personaggi, forse un pochino troppo a fondo per chi non ha letto il libro, ma anche della scelta della scrittrice di allontanarsi dai gialli, tema dominante dei suoi romanzi precedenti, quelli con la profia Camilla Baudino. Un po’ perché Margherita Oggero è sempre stata controcorrente (“ho iniziato a scrivere gialli quando non erano poi così di moda, e ora che lo sono tornati ho deciso di smettere”), un po’ perché comunque in realtà continua a scriverli, ma per la tv (ha anticipato che a ottobre andranno in onda le nuove puntate di Provaci ancora prof). Insomma, in questo nuovo libro ha voluto cimentarsi in altro, parlare di amore e di sentimenti, senza però abbandonare quello che, secondo me, è uno dei suoi personaggi principali, ovvero Torino. Non penso che Margherita Oggero, piemontese di nascita e soprattutto di stile (sia sulla carta sia dal vivo!), possa scrivere un romanzo ambientato da qualche altra parte.

La cosa più bella dell’incontro sono stati i buffi aneddoti che è ha piazzato qua e là durante il dialogo con Roberto Tentoni. Tipo il suo odio profondo per le Stelle di Natale, che abbandona immediatamente sul balcone sperando in una gelata assassina. O di quando, raccogliendo informazioni per scrivere il libro, ha scoperto che il treno Frecciarossa nelle tratte brevi ha un solo conducente. Alle sue rimostranze, le hanno risposto “Beh, la metropolitana di Torino non ne ha nessuno. Meglio uno che nessuno, no?”. O di quella volta che su un volo Air France ha chiesto alla hostess di metterle nella cappelliera il bagaglio perché lei è piccolina e non ci arriva, la hostess le ha risposto che è piccolina anche lei, di chiedere a qualcun altro e allora lei le ha risposto che potrebbe cambiare mestiere. Cose piccole, che mi rendo conto che scritte non hanno lo stesso effetto, ma che sentite dal vivo lasciano trasparire anche di persona tutto quello che ho sempre amato nei suoi libri. L’accorgersi dei dettagli, anche quelli più scemi, l’osservare il mondo e trarne una storia, seppur breve. 
Alla domanda su come si fa a scrivere dei libri così, Margherita Oggero ha parlato proprio di questo, dell’importanza di osservare il mondo, di vivere in mezzo agli altri, di provare empatia, per le persone e il mondo circostante. (Sottolineando che non sono sicuramente i 5000 amici di Facebook che fanno sentire una persona meno sola e più empatica, ed elogia poi la lectio magistris di Umberto Eco, riassumibile con “Facebook da’ voce agli imbecilli”). Se non si osserva il mondo, cosa si ha da raccontare? 

Al termine della presentazione, non avendo il libro, mi sono defilata, pensando che suocero rampante mi seguisse. Invece lui si è avvicinato al bancone, ha acquistato una delle poche copie disponibili, è andato da Margherita Oggero e poi mi ha raggiunta, porgendomi il libro e dicendomi “Tieni, te l’ha autografato”. E quindi, ta-da! Libro nuovo e autografo nuovo!


Insomma, l’incontro è stato piacevole e a tratti molto divertente. Avrei forse parlato un po’ meno del libro in sé e un po’ più di come è nato e di Margherita Oggero scrittrice. Ma è comunque andata bene anche così. E sono contenta che lei sia esattamente come me l’ero immaginata.

giovedì 11 giugno 2015

FELICI I FELICI - Yasmina Reza

 Felices los amados y los amantes y los que 
pueden prescindir del amor.
Felices los felices
 C’è Borges all’inizio di questo libro. C’è la frase da cui è tratto il titolo, ma soprattutto quella che ne riassume alla perfezione il contenuto.  Felici gli amati e gli amanti e quelli che possono vivere senza amore. Felici i felici.
La cosa buffa è che dentro a questo bel libro di Yasmina Reza la felicità che c’è è solo apparente, dura poche righe in ogni racconto, giusto il tempo per presentare al lettore quello che in un mondo ideale dovrebbe essere ma non è.
Ci sono coppie sposate che non sanno se si amano o si odiano, ci sono figli problematici e genitori ammalati, ci sono mariti traditori che non sopportano che la propria moglie abbia un amante e giovani che ancora di amore non hanno capito nulla, ci sono coppie anziane che non si amano più e ricordi del passato che rimangono vivi anche dopo anni, donne che vogliono amare ma non hanno il coraggio e altre che sperano che presto arrivi qualcuno a cui appoggiarsi per poter camminare sicure. Ci sono gesti semplici, come guidare un’auto, che diventano difficilissimi se negli anni abbiamo deciso di non farlo più; e gesti difficili, come ricoverare un figlio in una clinica psichiatrica, che diventano semplici quando non si riesce a trovare nessun’altra soluzione. C’è amore, c’è odio, tradimento, amicizia, logoramento, apparenza, sofferenza, gioia, dolore. Vita.
Un giorno bisognerebbe studiarlo, questo particolare silenzio dei viaggi in macchina, della notte, quando si torna a casa dopo aver sfoggiato una serenità a uso e consumo degli altri, un misto di conformismo e autoinganno. Un silenzio che non può essere rotto neanche dalla radio, perché chi, in questa muta guerra di resistenza, avrebbe il coraggio di accenderla?
Yasmina Reza è brava a farci vedere tutto questo in tanti piccoli spaccati di quotidianità di vita di coppia. Tanti piccoli racconti, che possono essere a se stanti ma anche collegati tra loro, perché tra tutti c’è un legame: nei personaggi, che si chiamano tra una storia e l’altra, ma soprattutto in quella sensazione di apparenza e impotenza, di amore che c’è ma non si manifesta o che non c’è ma potrebbe esserci se solo lo si volesse.

“Non puoi essere felice in amore se non hai un talento per la felicità” dice a un certo punto uno dei protagonisti, che ama e odia la moglie al tempo stesso, che ha un’amante ma a casa torna sempre, rivolto a un suo amico, che la moglie la ama eccome, ma che si ritrova ad affrontare insieme a lei qualcosa di troppo grande e difficile.
Qui sono pochi gli amati e gli amanti felici, sono pochi quelli che possono prescindere dall'amore (ma c’è davvero qualcuno che può vivere senza amore?). Pochi i felici che sono davvero felici.

Felici i felici di Yasmina Reza è stata una vera sorpresa. Un libro molto bello, a tratti un po’ destabilizzante per quanto a fondo, nella sua semplicità, analizza l’amore e quella felicità che si presuppone dovrebbe lasciare, ma che troppo spesso invece non c’è.

Titolo: Felici i felici
Autore: Yasmina Reza
Traduttore: Maurizia Balmelli
Pagine: 165
Editore: Adelphi
Acquista su Amazon:
formato brossura: Felici i felici

martedì 9 giugno 2015

I MIEI PICCOLI DISPIACERI - Miriam Toews

Non è per niente facile parlarvi di I miei piccoli dispiaceri di Miriam Toews. Non so da quale tema del libro partire, su qualche focalizzarmi, su quale sia il modo migliore per convincervi a leggere questo piccolo, e difficile, capolavoro.
Non è stato facile nemmeno leggerlo, in realtà. Ma questo lo sapevo già fin dalla prima volta che l’ho avuto tra le mani e ne ho letto la trama. O forse anche da prima, da quando ho letto il meraviglioso In fuga con la zia e ci ho lasciato dentro il cuore e qualche lacrima.

Qui si parla di suicidio. Di persone che non ce la fanno più a vivere, anche se poi guardando alla loro vita non si riesce nemmeno a capirne il motivo. O almeno non ci riesce Yoli, che si ritrova a dover accudire la sorella Elf, pianista di fama internazionale ora ricoverata in ospedale dopo aver tentato di togliersi la vita. Non capisce perché una donna così perfetta, così amata, non riesca ad affrontare la fragilità che prova dentro di sé. Che sia colpa dell’educazione mennonita ricevuta in passato e alla quale lei si è sempre ribellata? O di quelle altre grandi tragedie che hanno colpito la loro vita e che forse, anche loro, non sono riuscite a capire? Non lo sa, Yoli. Così come non lo sa sua madre, né la zia Tina, che in una situazione simile ci è già passata una volta. Le tre, insieme a Nic, marito di Elf, cercano di farle capire quanto sia bello vivere e quanto dolore stia causando con questa sua fissa di voler morire. Elf capisce. Capisce il dolore della madre e quello della sorella. Ma il suo dolore è ancor più grande, forse proprio perché inspiegabile. E quindi chiede alla sorella di accompagnarla in Svizzera, a morire assistita. Che farà Yoli?
Che farei io? Che fareste voi?

Ma qui si parla anche, e soprattutto, di famiglia e di amore. Di quanto sia dura lasciare andare le persone che si amano e poi riuscire comunque a sopravvivere dopo.  Di quanto il dolore possa unire o anche solo far capire quanto uniti si fosse già.

Miriam Toews è bravissima nel caratterizzare i suoi personaggi: la fragile Elf, che vorresti scuotere per tutto il libro ma di cui al tempo stesso comprendi la sofferenza e la precarietà; la scapestrata Yoli, che avuto due figli con due uomini diversi e ora non è più sposata con nessuno dei due, che cerca di scrivere il libro della vita e ora si ritrova suo malgrado a dover pensare se accompagnare sua sorella a morire; la fantastica madre e la fantastica zia Tina, che cercano di godersi ogni piccola cosa bella della vita, senza pensare a tutto il dolore che hanno provato. E con loro tutti i personaggi di contorno, le amiche di Yoli e quelli incontrati per caso, che hanno uno scopo anche se compaiono solo in poche righe.
Così come mi è piaciuta molto tutta la letteratura, tutte le citazioni presenti tra le pagine, a partire dal titolo, I miei piccoli dispiaceri di Samuel Coleridge, e tutto il potere che viene dato ai libri, nel bene e nel male.
Bene, Elf, ho pensato, sei davvero furba.  Fare in modo che ti lasci sola col pretesto di mandarlo a prendere dei libri. In biblioteca. Ovvio che l’avrebbe fatto. I libri sono quello che ci salva. I libri sono quello che non ci salva.
Amo questa autrice. La amavo già prima, in realtà, e ora ne ho avuto la conferma. Amo il suo stile umoristico e profondo. Amo il suo modo di trovare la poesia nelle piccole cose, così come il suo affrontare il dolore attraverso la scrittura, senza piangersi addosso e senza facili (e comprensibili) compatimenti.

Non voglio soffermarmi su cosa farei io se mia sorella o mio fratello non volessero più vivere e mi chiedessero di aiutarli. Onestamente non so, perché ogni fragilità, ogni dolore sono storie a sé, in momenti a sé, un momento a sé, e per me non ha senso ragionarci se non ci sono dentro veramente. 

E poi, non sono nemmeno sicura sia questo ciò che l’autrice vuole che il lettore faccia. Secondo me ha voluto solo farci capire che ci si deve voler bene sempre e comunque, senza giudicare, che tu abbia fatto figli con qualunque uomo della tua vita o abbia una voglia inspiegabile e incomprensibile di toglierti la vita. Si deve cercare di capire, di accettare, litigando e urlandosi contro magari, e di vivere ogni singola emozione, bella o dolorosa che sia, che l’essere al mondo ci regala ogni giorno.


Titolo: I miei piccoli dispiaceri
Autore: Miriam Toews
Traduttore: Maurizia Balmelli
Pagine: 365
Editore: marcos y marcos
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formato brossura: I miei piccoli dispiaceri

venerdì 5 giugno 2015

LASCIA STARE IL LA MAGGIORE CHE LO HA GIA' USATO BEETHOVEN - Alessandro Sesto


Quando ero bambina, insieme a mio fratello e a un nostro amico vicino di casa, avevo creato una band musicale. Le nostre chitarre erano le racchette da tennis e la batteria un fustino del detersivo (allora li facevano cilindrici, non so se oggi esistono ancora). Non mi ricordo esattamente né quale strumento suonassi io, né che quali canzoni eseguissimo effettivamente durante i nostri privatissimi concerti, però mi ricordo che ci divertivamo un sacco. La cosa buffa è  sia io sia mio fratello siamo stonati come campane e che non abbiamo mai preso in mano un vero strumento musicale in vita nostra,  a parte il flauto alle scuole medie e la pianola che ci era stata regalata un anno a Natale. Il nostro amico invece da adulto ha fondato un gruppo musicale vero, inciso un paio di cd e avuto un discreto successo, anche se oggi so che tutto è in sospeso.

Questo lungo preambolo è per parlarvi di Lascia stare il la maggiore che lo ha già usato Beethoven di Alessandro Sesto, pubblicato dagli amici di Gorilla Sapiens edizioni (sì, quelli del peluche del gorilla). Di questo autore avevo già letto, e amato alla follia, Moby Dick e altri racconti brevi, in cui parla di come la letteratura ha fisicamente influenzato la sua vita. 
In questo nuovo libro il soggetto cambia. Si parla di musica, attraverso le vicende di una sgangherata band musicale che cerca di affermarsi nei locali della pianura padana. Un gruppo di amici, tra cui verosimilmente c’è Alessandro Sesto stesso, che il lettore segue durante la loro “carriera” musicale e, soprattutto, durante i loro ragionamenti sulla musica e su come la loro vita, più o meno profondamente, da essa è influenzata. 
Alcuni ragionamenti sono effettivamente molto profondi, come il doversi adattare alle mode o le canzoni dell’estate (ok, queste non sono esattamente profonde, ma sono una caratteristica ben precisa del mondo musicale di oggi), altri che fanno davvero morire dal ridere (il capitolo che si intitola Calaf, primo fra tutti).

Lo stile di Alessandro Sesto in questo libro è molto simile a quello del primo: alterna momenti filosofici ad altri puramente goliardici, prende personaggi un po’ cazzoni e far loro dire cose molto profonde, per poi stemperare il tutto con qualcosa di comico, tocca diversi argomenti dedicando loro capitoletti ben precisi e ben caratterizzati e lascia nel lettore sempre il dubbio se stia parlando sul serio o stia prendendo per il culo un po’ tutti.
Ed è uno stile che adoro, anche se ho preferito Moby Dick e altri racconti brevi rispetto a Lascia stare il la maggiore che l’ha già usato Beethoven, ma semplicemente perché mi muovo molto più facilmente nel mondo della letteratura che in quello della musica.
In ogni caso sono libri geniali, piccole perle che fanno sorridere (ok, a volte proprio ridere di gusto) e qua e là anche riflettere. 

Ora sono davvero curiosa di sapere qual è la terza passione di questo autore, per capire cosa aspettarci dal terzo libro. 

Sa, vado a prendere la racchetta del volano e suono qualcosa.


Titolo: Lascia stare il la maggiore che lo ha già usato Beethoven
Autore: Alessandro Sesto
Pagine: 153
Anno di pubblicazione: 2015
Editore: Gorilla Sapiens Edizoni
ISBN: 978-8898978052
Prezzo di copertina: 13 €
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giovedì 4 giugno 2015

La mia GRANDE INVASIONE 2015

Ed eccomi qui, a due giorni dalla sua conclusione, a cercare di raccontarvi la mia Grande Invasione, il festival della lettura che ha popolato Ivrea dal 30 maggio al 2 giugno. Dico cercare, perché sono talmente tante le cose che ho fatto, le belle cose che ho fatto, che sicuramente mi perderò qualcosa per strada.
Scriverò un post unico che racchiude tutti gli eventi a cui ho partecipato perché credo sia il modo migliore per trasmettere quanto intensa è stata. Quanti begli incontri, quante belle persone, quante belle sensazioni si sono accumulate in quei quattro giorni.

Il container di La Grande Invasione in piazza Ottinetti a Ivrea

Il programma di quest’anno era parecchio ricco, ma per fortuna sono riuscita a seguire più o meno tutto quello che mi ero prefissata. A partire da sabato 30, con il primo incontro con Alessandro Baricco e Fabio Geda che hanno parlato dei libri della loro vita. Il cortile del museo Garda dove si è svolto l’evento era stracolmo. Ed è stato davvero bello vedere tutta quella gente per due scrittori. Ammetto di non aver segnato quali fossero i libri, anche se ne hanno indicati ben tre a testa (ma se cercate su twitter l’hashtag #invasione15 troverete tutto). Ho preferito ascoltare, ridere e applaudire come non mai. Ho rivalutato un po’ Baricco, di cui ho letto solo Novecento e che da sempre considero uno scrittore un po’ altezzoso, e mi sono metaforicamente innamorata di Fabio Geda, della sua umiltà e della sua simpatia (ha fatto un pellegrinaggio in America nella casa in cui hanno girato il film I Goonies, vi dico solo questo), al punto da farmi prestare uno dei suoi libri dall'amica che era con me). È bello vedere scrittori che parlano di altri scrittori e di altri libri. È bello vedere la loro passione, il loro entusiasmo e il loro rispetto per questi autori del passato che tanto hanno influenzato la loro vita. Mi piacerebbe essere in grado di parlare in quel modo degli autori che amo.

Alessandro Baricco e Fabio Geda

La sera di sabato siamo poi andati a sentire il reading di Francesco Piccolo Momenti di trascurabile (in)felicità, tratto dai suoi due libri dall'omonimo titolo pubblicati da Einaudi. Era una vita che volevo assistere a un evento con lui, dopo averlo incrociato spesso al Salone del Libro o per strada a Ivrea (e questo è uno dei motivi per cui più amo i festival letterari e le fiere, tu sei lì che ti fai i fatti tuoi e di colpo ti trovi davanti uno scrittore che si sta facendo altrettanto i fatti suoi, indisturbato) ma senza aver mai avuto il coraggio di fermarlo. È un personaggio e un uomo incredibile, almeno da quello che è apparso sul palco (per dirvi, prima di incominciare, oltre ad avvisarci personalmente che lo spettacolo avrebbe ritardato un po’, si è anche scusato per i ruttini che molto probabilmente avrebbe fatto, visto che stava bevendo una birra) e dal momento delle firme dopo. Ho riso tantissimo. Anche perché sono grande sostenitrice della felicità che le piccole cose ci posso lasciare, ma anche dello sconforto che ci possono provocare.

Francesco Piccolo

La domenica mattina, il 31 maggio, ho invece assistito al workshop di narrativa Tre tigri contro tre tigri: a tenerlo è stato Alessio Torino che ha analizzato insieme a noi il racconto Campo indiano di Ernest Hemingway. E di nuovo, si è vista la passione di Alessio Torino per questo autore e questo racconto. Una passione che è riuscito a trasmettere anche a noi, al di là dell’analisi del testo vera e propria, perché, come ha detto lui, “Hemingway può solo insegnare qualcosa, a tutti noi”.

I miei appunti del worshop su Campo indiano

Doppio incontro al pomeriggio. Il primo con Björn Larsson in conversazione in un perfetto italiano con Emilia Lodigiani di Iperborea, la casa editrice che lo pubblica in Italia. Di questo autore io non ho mai letto niente, ma ho in casa La vera storia del pirata Long John Silver, che il mio compagno ha letto. Beh, uscita dall'incontro, grazie alla sua simpatia (essere simpatici in una lingua che non è la propria, imparata “per poter parlare con voi lettori”, non è per niente semplice), le sue risposte intelligenti, il bello scambio con Emilia Lodigiani, con cui ripubblicherebbe mille volte, pur essendo un piccolo editore, mi hanno fatto venire voglia di recuperare tutti i suoi libri.
Björn Larsonn, Emilia Lodigiani e Marco Cassini

Subito dopo è stato il turno di Nickolas Butler, autore di Shotgun Lovesongs, in dialogo con la sua traduttrice Claudia Durastanti (e con un interprete molto brava, di cui purtroppo non ricordo il nome). A me il libro, lo confesso candidamente, non aveva fatto impazzire. Carino, sì, ma non era minimamente all'altezza delle mie aspettative. Sentendolo parlare, però, dell’importanza degli amici di infanzia, della propria terra di origine, del lasciarsi andare ai sentimenti senza aver paura di raccontarli o di viverli, mi ha fatto un po’ ridimensionare il giudizio sul libro. Effettivamente in Shotgun lovesongs tutto questo c’è. Anche lui è stato simpatico (“un mio amico ha detto che non ha voglia di leggere il libro, che aspetterà poi il film”) e molto carino, nel comprensibile e naturale impaccio della sua prima presentazione in Italia.
Claudia Durastanti e Nickolas Butler

Lunedì 1 giugno ho preso parte invece a soli due incontri, entrambi nel pomeriggio. Il primo è stato Esordire, in cui sono intervenuti Iacopo Barison, autore di Stalin+ Bianca edito da Tunué, e Mario Pistacchio e Laura Toffanello, autori di L’estate del cane bambino edito da 66than2nd, in conversazione con il giornalista di Linkiesta Andrea Coccia. Si è parlato di etichetta di esordienti e di come questa abbia più un valore prettamente commerciale che non reale. Si è parlato, di nuovo, della bellezza di essere pubblicati con piccoli editori (bellissimo il laconico “rifarei tutto” di Iacopo Barison) che ti considerano importanti e non semplicemente pescati a caso dal mucchio. E poi di editoria a pagamento e di autopubblicazione. Molto azzeccata è stata secondo me la scelta di non focalizzarsi sulla mera presentazione dei libri, ma far parlare gli autori di tutto ciò che c’è attorno, dal momento della scrittura alla pubblicazione. Il libro di Barison già l’ho letto, e ora leggerò sicuramente anche quello di Mario Pistacchio e Laura Toffanello.

Mario Pistacchio, Laura Toffanello, Andrea Coccia, Iacopo Barison e Marco Cassini

Nel tardo pomeriggio c’è stato poi l’incontro “Leggere i classici per reggere i contemporanei”, con Martina Testa e Matteo Nucci a parlare del rapporto che c’è tra i classici e i contemporanei e di come i primi abbiano influenzato e ancora influenzino i secondi. Ed è stato bellissimo, soprattutto gli interventi appassionati di Matteo Nucci (tra tutti “Non bisogna andare nelle scuole di scrittura, bisogna leggere Omero”) e l’esaltazione finale di Francesco Totti.



Il 2 giugno è stato l’ultimo giorno di Festival e io ho seguito due eventi targati marcos y marcos. Il primo al mattino, con il dialogo tra Davide Ferraris della Libreria Therese di Torino e Marco Zapparoli, fondatore insieme a Claudia Tarolo della casa editrice. 
Allora, quanto io ami la marcos y marcos credo lo sappiate già. L’ho ribadito più volte e credo continuerò a farlo in eterno. E sentendo finalmente parlare l’editore ho avuto la conferma che il mio amore per loro non sia ben più che motivato.  La casa editrice è prima di tutto una casa, in cui bisogna sentirsi a proprio agio, in cui bisogna far famiglia, per poi portarla fuori. Ed effettivamente, se penso a quelle belle copertine colorate, che fanno capolino dalla mia libreria, se penso al fatto che io compro i libri marcos y marcos sulla fiducia e a prescindere, anche quando non li ho mai sentiti nominare, beh, mi pare che questa idea di famiglia, con me, stia funzionando.
E poi mi è venuta un po’ di tristezza, per la distanza fisica che c’è tra me e la libreria Therese (che è Torino, ok, non così lontana, ma non posso ogni volta fare 60 km per comprare un libro), un posto magico che Davide Ferraris con le sue parole e il suo entusiasmo rende ancor più magico.  Ce ne dovrebbero essere di più di librai che dicono frasi come “Il problema non è amazon, non è il grande editore. Il problema sono i non lettori. E per me questo è uno stimolo e non una fonte di sconforto, perché vuol dire che là fuori è pieno di gente da dover conquistare”.
Insomma, credo che adesso i libri marcos y marcos li comprerò solo più alla libreria Therese.

Davide Ferraris e Marco Zapparoli

Il secondo incontro, al pomeriggio, è stato invece con Stefano Amato, autore di Bastaddi (nonché del blog L’apprendista libraio), e con Hakan Günday, autore di A con Zeta. Entrambi ovviamente pubblicati da marcos y marcos e presentati in quell'incontro da Claudia Tarolo (con l’aiuto della stessa interprete che aveva lavoro con Butler). Un siciliano e un turco, entrambi appena pubblicati per la prima volta dall'editore, hanno parlato sì dei loro libri ma anche e soprattutto della loro terra, delle difficoltà passate  e di quelle che ancora ci sono. Il libro di Stefano Amato è un remake letterario ambientato in Sicilia dei Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino (con la stessa dose di violenza, sebbene lui sia un pacifista, nonché molto mingherlino quindi non tanto credibile come assatanato di sangue, perché non sarebbe stato rispettoso edulcorare l’opera originale), mentre quello di  Günday una storia di fuga e d'amore.



Ecco, ho finito. Perdonate la lunghezza del post e perdonate soprattutto se non sono riuscita a far trasparire tutto lo spirito che si respirava a Ivrea in quei giorni, nelle sale degli incontri, ma anche fuori, per le vie e le piazze, dove davvero era possibile incontrare autori e personaggi come se nulla fosse.
È stato bello riconoscere i visi tra un incontro e l’altro, ma anche scoprirne ogni volta di nuovi. È stato bello (anche se un po’ faticoso, lo ammetto) twittare in diretta, per condividere tutta quella passione, tutta quelle letteratura con chi non poteva essere fisicamente lì.

Quindi bravi a tutti gli organizzatori, l’editore Sur con un Marco Cassini sempre presente, e la libreria Galleria del Libro con Gianmario Pilo (è una libreria che io frequento poco, lo ammetto, ma dovrò rimediare). Bravi al Birrificio del Canavese per la loro Birra Rabel e a tutti quelli che in un modo o nell’altro hanno contribuito a rendere La grande invasione un grandissimo evento.

mercoledì 3 giugno 2015

IL LIBRO DI JULIAN. A WONDER story - R.J. Palacio



Voi lo avete letto Wonder di R.J. Palacio? Quel  bel romanzo per ragazzi che racconta la storia di August, Auggie per gli amici, un  ragazzino da una malattia congenita che comporta la deformazione di parte del viso. In quel romanzo, ci viene raccontato quando il ragazzino, di un’intelligenza e ironia fuori dal comune, entra per la prima volta a scuola, dopo aver sempre studiato a casa. Si vedono le reazioni dei compagni e dei loro genitori, le difficoltà che si ritrova ad affrontare ma anche le belle cose che piano piano, passata la diffidenza, gli succedono. E parla, ovviamente, di bullismo. Quello che Julian gli infligge.
Un libro intenso nella sua semplicità, per ragazzi ma anche per adulti, che aveva una particolarità. Ogni capitolo infatti era narrato da un personaggio diverso, così da offrire più punti di vista sulla vicenda. L’unico a non intervenire mai era proprio Julian, il bullo, il bambino “cattivo”, con i genitori sempre pronti a difenderlo, che tanto ha tormentato Auggie. R.J. Palacio ha detto di non averlo voluto inserire per non dare troppa voce e troppo spazio al bullismo, e per non offendere i sentimenti dei lettori con problemi simili a quelli di Auggie. Poi però ha cambiato idea, e ha scritto Il libro di Julian.

Julian è un bambino un po’ viziato, un leader nato, sempre accontentato in tutto dai suoi genitori. Ha però un piccolo segreto, che lo accompagna da quando era piccolino: di notte gli capita di essere tormentato da incubi terribili, con mostri deformi, che gli lasciano addosso un senso di ansia e angoscia.  Incubi che sembravano essere passati, finché non gli viene chiesto di fare da tutor a questo nuovo bambino che arriva nella scuola. August, appunto.  Per combattere questa sua paura,  riesce a fare solo una cosa: prenderlo in giro, isolarlo, chiamarlo “scherzo della natura”,  fino ad arrivare a scrivere dei bigliettini con minacce di morte, che costringono il preside a sospenderlo. I genitori di Julian, infuriati, lo difendono e accusano la scuola di non aver gestito al meglio l’ingresso del nuovo ragazzino, di aver fatto favoritismi e di non rispettare gli altri.
Ci vorrà l’intervento della nonna francese di Julian, che gli racconterà una storia che non ha mai raccontato a nessuno, sul suo passato durante l’occupazione nazista e su chi l’ha aiutata a salvarsi, per far prendere consapevolezza al bambino di avere sbagliato e ai genitori di avere un tantino esagerato.

Anche Il libro di Julian è, ovviamente, un romanzo per ragazzi. Forse anche un tantino di più di quanto non lo fosse Wonder, perché non va poi così a fondo nel raccontare le motivazioni di Julian e la follia (non mi viene altro termine, scusate) dei suoi genitori. Ed è una scelta comprensibile, perché l’argomento è difficile da affrontare con i termini giusti, senza offendere nessuno, visti quanti bambini bulli e quanto genitori che li giustificano senza se e senza ma ci sono al mondo.

Da lettrice adulta, però, ho avuto l’impressione che questa scelta, questo andarci così cauti, penalizzi un po’ il messaggio che il libro vuole trasmettere, arrivando a dare a volte l’impressione che si giustifichi i gesti di Julian e dei suoi genitori.
Certo, un bambino non è cattivo a prescindere ma succede qualcosa perché lo diventi. Così come i genitori che le danno tutte vinte ai figli e che li difendono sempre e comunque è perché cercano ad ogni costo di fare il loro bene, e sono disposti a calpestare chiunque per ottenerlo. Però questa è una visione davvero troppo semplice. Forse a R.J. Palacio è mancato un po' di coraggio, per andare davvero a fondo in un argomento così complesso. Ed è un peccato, perché di libri che affrontano il tema del bullismo ce ne sarebbe proprio bisogno, di questi tempi.

In ogni caso, il libro è scorrevole e piacevole da leggere. Soprattutto nella parte finale, quella che chi ha letto Wonder ancora non conosceva, quando Julian parla con sua nonna e finalmente prende consapevolezza di sé, di quello che ha fatto, ma anche della vita in generale. 

La cosa buona della vita Julian è che qualche volta possiamo rimediare ai nostri errori. Impariamo, dai nostri errori. Miglioriamo.

Insomma, è un libro carino, molto lontano da quanto mi era piaciuto Wonder, ma comunque godibile, soprattutto se da adulti riuscite a leggerlo come se foste bambini, senza pensare troppo.
Sarei davvero curiosa, ora, di vedere le reazioni di bambini bulli e genitori sempre pronti a difendere i propri figli di fronte a questa lettura. 

Titolo: Il libro di Julian
Autore: R.J. Palacio
Traduttore: Alessandra Orcese
Pagine: 125
Editore: Giunti editore
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