mercoledì 31 dicembre 2014

I migliori 10 del 2014 (+2 autori)

Se per trovare i peggiori dieci libri letti quest'anno ho avuto qualche difficoltà, lo stesso problema non si è posto con i migliori. Anzi. La lista sarebbe un bel po' più lunga. Sarà che ho letto tanto, sarà che, come ho già detto più volte, ho sviluppato (fortunatamente) un buon radar anti-ciofeche, ma di libri che davvero meritano di essere ricordati, quest'anno nella mia testa ne sono entrati parecchi.
Ma devo darmi un limite o non se ne esce.

©Antonia Roselló
Quindi, ho riguardato un po' tutte le recensioni, risfogliato i libri, ricordato il momento in cui li ho letti e le sensazioni che mi hanno fatto provare e sono arrivata a questa TOP TEN + 2 autori che ho scoperto, letto tantissimo e imparato ad amare quest'anno e che meritano di entrare in classifica con tutta la loro opera.

Luce d'estate ed è subito notte - Jón Kalman Stefánsson
In fuga con la zia - Miriam Toews
In viaggio contromano - Michael Zadoorian
Olive Kitteridge - Elizabeth Strout
Ho paura Torero - Pedro Lemebel
Chiamate la levatrice - Jennifer Worth
Morte di un uomo felice - Giorgio Fontana


 + tutto ciò che ho letto di J.R. Moehringer e la serie dell'Amica Geniale di Elena Ferrante

Come sempre, a titolo corrisponde recensione. Quella di Olive Kitterdige non è mia, ma rimanda al blog di Solo libri belli. Per qualche motivo, la recensione di quel libro non l'ho scritta, ma condivido quanto scritto dalla "collega".
C'è poca letteratura italiana quest'anno. E non perché non ne abbia letta, ma forse perché non mi sono trovata tra le mani il libro giusto (se la lista fosse più lunga di dieci forse aggiungerei anche Come un respiro interrotto, di Fabio Stassi). In compenso ci sono però un bel po' di donne. Non che io ci faccia molto caso, però spesso in passato, di fronte a queste liste, mi viene detto "manca questo, manca quell'altro"... quindi, ecco, metto le mani avanti.
Quale sia il più bello in assoluto di questi, onestamente, non saprei dirvelo. Tutti i personaggi e le loro storie mi accompagneranno per parecchio tempo, alcuni per tutta la vita.

Questi dieci, prima o poi, nella vostra vita, secondo me li dovreste proprio leggere.

Spero che il vostro 2014 sia stato ricco di letture belle tanto quanto lo sono state le mie. E che il 2015 lo sia ancora di più!

BUON ANNO A TUTTI!

martedì 30 dicembre 2014

LA PIZZA PER AUTODIDATTI - Cristiano Cavina

Dubito fortemente che possa esistere al mondo, o almeno in Italia, qualcuno a cui non piaccia la pizza. Magari non ti piace con i funghi, magari non digerisci quella con la cipolla o sei allergico ai formaggi. Ma sono sicura che almeno una pizza che piaccia, tra tutte le varianti esistenti, la si trovi di sicuro. Anche una semplicissima Margherita, la mia pizza preferita di quando ero bambina, prima di passare a quella con i wurster prima, a quella ai formaggi poi e ora alla fase rucola e stracchino... una pizza Margherita, dicevano, se fatta bene, può aprirti a un mondo di sapori e di sensazioni incredibili.

Quando ho letto dell'uscita di La pizza per autodidatti di Cristiano Cavina ne sono stata quindi subito attratta. Perché ero davvero curiosa di sapere come uno scrittore possa scrivere un libro intero su di essa. E poi conosco anche la storia di Cavina, pizzaiolo scrittore (dualismo che lui ripete ad ogni occasione, un po' per modestia un po' perché effettivamente l'idea fa sorridere), che quando non è impegnato in presentazioni o serate conclusive di concorsi letterari aiuta suo zio alla Pizzeria Il Farro, a Casola Valsenio.

Il libro si rivolge, come il titolo lascia intendere, ad aspiranti pizzaioli casalinghi, a cui Cavina tenta di insegnare trucchetti e fornisce qualche rassicurazione sui principali problemi e le difficoltà che si possono incontrare nel padroneggiare l'arte del fare la pizza. Parla di impasti e di farine, di forni e di cotture, di ingredienti usuali e ingredienti più strani per ricoprirla. Il tutto condito dai riferimenti e l'esperienza personale del suo lavoro di pizzaiolo, con anche qualche aneddoto sulla nascita e la vita della sua pizzeria.

Il potenziale per fare un bel libro c'era tutto. Ma qualcosa, per quanto mi riguarda, non ha funzionato. E pensandoci mi rendo conto che in tutte le opere di Cavina che ho letto finora (Alla grande, I frutti dimenticati, ITIS) c'è sempre stato qualcosa che non ha funzionato. Sono libri scritti bene, a volte  divertenti altre commoventi, con radici molto profonde nella vita privata dello scrittore e del suo paese. Un bell'omaggio, sicuramente, ma che forse, a poco a poco, inizia ad avere un gusto di già sentito. La maggior parte degli aneddoti raccontati qui li avevo già letti o già sentiti: in un libro precedente, in un'intervista o durante una presentazione. Di nuovo c'erano i suggerimenti per fare la pizza. Utili, sicuramente, anche piacevoli da leggere... se si ha intenzione di fare la pizza di lì a pochi giorni.

 Forse Cavina dovrebbe non dico smettere di guardare al suo paese (e ci mancherebbe altro, perché la trovo una cosa bellissima), ma provare a distanziare un po' lo sguardo, per provare a non scrivere quello che, alla lunga, sembra sempre lo stesso libro.

Comunque, aggiungerò La pizza per autodidatti sullo scaffale dei libri di ricette, nel caso in futuro mi venisse in mente di provare a fare la pizza con i fiori di acacia.

Titolo: La pizza per autodidatti
Autore: Cristiano Cavina
Pagine: 286
Editore: Marcos y Marcos
Anno: 2014
Acquista su Amazon:
formato brossura: La pizza per autodidatti

lunedì 29 dicembre 2014

I peggiori 10 del 2014

Ed eccoci quasi arrivati alla fine anche di questo 2014. Un anno che è passato in fretta, per me ricco di novità e di momenti belli e brutti. 
Come ogni anno, gli ultimi due post del mese di dicembre saranno due classifiche: quella dei dieci libri più brutti e dei dieci libri più belli letti quest'anno. 
Non sono una grande fan degli elenchi e delle classifiche, ma mi piace a fine anno fare mente locale di quali libri mi hanno tenuto compagnia negli ultimi dodici mesi: alcuni di questi entreranno nei miei preferiti in assoluto, altri spero di dimenticarli presto.
Iniziamo con i peggiori dieci, così poi il 31 chiudiamo in bellezza con i migliori.


Ammetto che è stato un po' più difficile del solito. Sto affinando sempre di più i miei, personalissimi, gusti di lettura e quindi riesco a incappare sempre meno in delusioni letterarie. Dei 110, libro più libro meno, letti quest'anno, solo sette si meritano senza ombra di dubbio di rientrare in questa classifica. Per gli altri ci ho dovuto riflettere un po' di più. E quindi la dividerò in due categorie: libri proprio brutti e libri che avrebbero avuto del potenziale che però è stato mal sfruttato. 

Ovviamente si tratta di giudizi del tutto personali e in alcuni casi, o in tutti magari, potreste non trovarvi d'accordo. Fa parte del bello dei libri e della lettura.

Libri proprio brutti

La casa nel bosco - Gianrico e Francesco Carofiglio
Cento strappi - Liesl Jobson
Braccialetti Rossi - Albert Espinosa
Una mutevole verità - Gianrico Carofiglio
Mandami tanta vita - Paolo di Paolo
Giuseppino - Joe Bastiniach e Sara Porro

(Prego notare la presenza di due romanzi di Carofiglio in classifica)

Libri che avrebbero avuto del potenziale che però è stato mal sfruttato.

Non dirmi che hai paura - Giuseppe Catozzella
Il mondo non mi deve nulla - Massimo Carlotto


Cliccando su il titolo del libro si viene reindirizzati alla relativa recensione, in cui spiego cosa non mi è piaciuto del libro e, di conseguenza, il motivo per cui sia finito in questa lista.

E i vostri peggiori quali sono?


mercoledì 24 dicembre 2014

L'UOMO CHE METTEVA IN ORDINE IL MONDO - Fredrik Backman

Fino all'anno scorso vivevo in una villetta a schiera, la quinta di una fila di dieci. I miei genitori sono stati tra i primi ad andarci ad abitare, quando le hanno costruite alla fine degli anni ’70. A poco a poco poi si sono popolate tutte, con persone più o meno diverse, più o meno simpatiche che comunque, in un modo o nell'altro, hanno fatto parte della mia infanzia e della mia adolescenza. Ci sono stati momenti drammatici (le tre alluvioni, per esempio, e il vicino ripescato per un pelo dall'acqua) e momenti comici (le battaglie a palle di neve da un cortile all'altro o la corsa agli addobbi di Natale), litigate pazzesche e chiacchierate tranquille, momenti tristi e grandi dimostrazioni d’affetto. Se ci ripenso ora, non cambierei per nulla al mondo il contesto in cui sono cresciuta.

Un contesto che ho ritrovato in L’uomo che metteva in ordine il mondo di Fredrik  Backman e che, più di altre cose, me ne ha fatto innamorare.
Il romanzo ha come protagonista Ove, un cinquantanovenne rimasto vedovo da poco che ha appena saputo di essere stato messo in prepensionamento dalla sua azienda. Difficile da accettare per lui, grande lavoratore fin da ragazzo e, soprattutto, molto abitudinario. E ora si ritrova a non avere più un lavoro e nemmeno le sue perlustrazioni mattutine in giro per il quartiere, ad assicurarsi che non ci siano auto parcheggiate sul vialetto, biciclette fuori posto o che la rimessa sia chiusa, riescono a distrarlo. Così decide che la cosa migliore sia raggiungere sua moglie, dalla cui morte non si è mai del tutto ripreso. Peccato che abbia deciso di mettere in pratica questa sua decisione proprio il giorno dell'arrivo dei suoi nuovi vicini di casa: un simpatico imbranato, incapace di guidare un auto con rimorchio, con una moglie incinta e due bambine piccole e chiacchierone.  Questa famiglia irrompe letteralmente nella vita di Ove e, con il passare dei giorni, gli farà capire che forse qualcosa per cui vale ancora la pena vivere c’è.

Devo ammettere che all'inizio il romanzo non mi convinceva del tutto. Il protagonista, soprattutto, mi lasciava qualche dubbio. Presentato come un cinquantanovenne, in realtà sembrava nei modi di fare e nella caratterizzazione, un signore davvero anziano, molto solo, di quelli che purtroppo spesso si vedono in giro. Non lo vedevo credibile come uomo di neanche sessant'anni. Andando avanti con la lettura, però, a un certo punto questa caratterizzazione ha smesso di darmi fastidio e mi sono resa conto di avere di fronte un libro divertente e molto, molto dolce.

È bella la storia d’amore tra Ove e la moglie, sia la storia passata e sia quella presente, sebbene lei non ci sia più. È bello il rapporto che si crea con i vicini nuovi e il modo in cui invece viene recuperato quello con i vicini più anziani, con cui da anni, per motivi futili che nessuno ricorda, l’uomo non parlava più. È  bello il contatto con gli ex alunni della moglie e, ancor di più, quello con il gatto.
È sicuramente una storia molto, forse troppo, buonista. Ma è anche un romanzo divertente e intelligente che parla di solitudine, di malattia, di diversità, di ingiustizie e di come queste possano essere superate con l’amicizia, l’affetto e l’amore che può arrivare anche dalle persone più impensabili.

Quando ho chiuso il libro, dopo la prevedibile lacrimuccia, il mio primo pensiero è stato un ricordo di quasi dieci anni fa, di quella volta in cui un mio vicino di casa (uno dei più pittoreschi, diciamoci la verità) è andato a trovare mio padre quando era in ospedale e uno dei due ha detto all'altro una frase tipo “Noi abbiamo discusso spesso negli anni, ma c’è sempre stata grande stima reciproca”.
Il secondo è che voglio assolutamente un gatto.
Il terzo è che quello che avevo appena chiuso è sicuramente un libro bellissimo.

Titolo: L'uomo che metteva in ordine il mondo
Autore: Fredrik Backman
Traduttore: Anna Airoldi
Pagine:320
Editore: Mondadori
Anno: 2014
Acquista su Amazon:

domenica 21 dicembre 2014

Un libro per tè: L'uomo che metteva in ordine il mondo e il tè al cioccolato


Primo giorno di inverno e meno quattro a Natale! E come iniziare a festeggiare? Ma leggendo uno dei libri che per Natale mi sono stati regalati (sì, che alcuni regali si possono anche aprire prima, dai) e bevendo il tè al cioccolato fondente di Whittard, ovviamente!

Di L'uomo che metteva in ordine il mondo di Fredrik Backman ho sentito parlare solo bene. Per ora ho letto solo una sessantina di pagina e ancora non mi sta entusiasmando (c'è qualcosa di fondo che non mi convince, ma non saprei bene dire cosa)... ma magari è solo uno di quei romanzi che ci mette un po' di tempo a decollare!

Il tè al cioccolato fondente, invece, mi piace molto. Lo avevo già assaggiato in passato, in tisaneria, ma non questa versione di Whittard. Che sa tanto di cacao, ma che richiede anche una buona dose di zucchero per renderlo più appetibile.
Da capire quindi se, a livello di calorie, è meglio mettere lo zucchero nel tè o bere direttamente una cioccolata calda

sabato 20 dicembre 2014

Di editoria a pagamento, di doppi binari e di politiche discriminatorie dei blogger

©Kaan Bagci
Oggi parliamo di editoria a pagamento. Sì, di nuovo, anche se forse l’argomento rispetto a qualche anno fa sta passando un po’ di moda. E non che io ne abbia parlato poi così spesso qui sul blog. Direttamente solo una volta, quando ho intervistato un autore che aveva pubblicato a pagamento. Indirettamente, invece, ne parlo sempre, ogni volta che non accetto di leggere o di recensire un libro che so arrivare da una di queste case editrici.
Però ne voglio parlare di nuovo, perché proprio in questi giorni mi è capitata una cosa che, credo, meriti un post. Non farò alcun nome, un po’ perché questo non vuole essere un post di condanna verso nessuno, un po’ perché sono convinta che un autore o un’autrice che è in grado di scrivere un libro dovrebbe essere anche in grado, prima di pubblicarlo, di fare un minimo di ricerca e decidere da solo/a a quale editore rivolgersi e quale no.

Un po’ di tempo fa mi ha contattata l’Ufficio Stampa di un autore, giunto già al suo terzo libro, per propormene la lettura ed eventualmente una recensione sul blog. Conosco da diversi anni, proprio grazie al blog, la persona che mi ha scritto e quindi, senza pormi troppi problemi (leggi “stupidamente”), ho deciso di accettare.
Ho letto il libro e mi è piaciuto molto. Prima di scrivere la recensione ho deciso di fare qualche ricerca sull’editore che l’ha pubblicato, più per curiosità che non per indagine, abbastanza sicura, vista anche la bellezza del libro, di trovarmi di fronte a una di quelle piccole case editrici che tanto amo ultimamente, che fanno della loro passione per la letteratura il loro lavoro. 
E magari sarà così anche in questo caso, ma la casa editrice in questione è una casa editrice a pagamento (sotto forma di acquisto copie da parte dell’autore) e doppio binario. Il primo caso non viene dichiarato sul loro sito internet, il secondo, molto apertamente, sì. 

Mi sono consultata con un paio di blogger, una che aveva ricevuto il libro come me e che, ancor prima di me, aveva avuto qualche dubbio in merito, e un’altra che so conoscere questo mondo in modo molto più approfondito. Ho parlato con chi mi ha inviato il libro e, alla fine, ho scritto direttamente all’editore (che, dal canto suo, bisogna ammettere essere stato molto onesto sia nella rapida risposta sia nel contenuto… cosa non poi così scontata quando si fanno certe domande un po’ “scomode”).

La risposta, devo dire, non mi è piaciuta. Il succo è “fanno tutti così, piccoli, medi e grandi editori. La differenza è che noi pubblichiamo anche emergenti, mentre i grandi si affidano solo alle agenzie letterarie, con un esborso economico da parte dell’autore ancor più grande del nostro obbligo di acquisto copie”.

Ammetto che per un momento ho avuto il dubbio che fosse vero. Ok, è durato mezzo secondo, ma credo, non essendo una vera addetta ai lavori ma una semplice lettrice un po’ curiosa, che fosse anche giusto che questo dubbio nascesse. Per togliermelo del tutto ho fatto l’unica cosa che potevo fare: scrivere ai piccoli e medi editori che conosco e chiedere loro come funziona la pubblicazione con la loro casa editrice. 

© Illulla
Nessuno di quelli con cui ho parlato chiede soldi agli autori per la pubblicazione, né impone alcun obbligo di acquisto copie. Anzi, solitamente qualche copia del libro viene mandata all’autore “in omaggio” e poi sono previsti sconti se l’autore decide di acquistarne altre copie.
Alcuni si sono anche un po’, e giustamente, alterati non tanto di fronte alla mia domanda quanto al motivo della mia domanda. “Un editore mi ha detto che questa prassi è comune a tutti gli editori. Confermi, smentisci?”.

Non so se il dire “lo fanno tutti”  sia davvero ciò che certi editori credono (che poi è il motivo per cui non faccio nomi, perché non riguarda sicuramente solo l’editore con cui ho parlato io) o se venga semplicemente usato per far credere agli autori, a volte un tantino allocchi, che la prassi sia quella e che quindi possano tranquillamente pubblicare con loro. Non lo so. Così come non so bene come funzioni con le grandi case editrici, perché non ho mai avuto modo di rivolgermi direttamente a loro per fare una domanda del genere. Sicuramente alcuni passano tramite agenzie editoriali, che altrettanto sicuramente non costano poi così poco, però credo anche che altri invece abbiano avuto, oltre all’indiscussa bravura, la fortuna di essere scoperti e pubblicati senza dover sborsare un euro.
L’editore mi fa notare poi che non applicano questo obbligo di acquisto a tutti i libri che pubblicano (e qui sta il doppio binario, se ho capito bene), ma solo a quelli che vengono loro proposti direttamente dagli autori o dalle agenzie letterarie. Ci sono quindi due canali, quelli selezionati da loro, su cui hanno un certo rischio d’impresa, e quelli che invece pubblicano su richiesta, anche se ammetto non mi è ben chiaro se utilizzino lo stesso marchio o se differenzino bene le due modalità. (Avrebbe più senso? Ne avrebbe meno? Non lo so…  da un lato farebbe sorgere qualche dubbio sui libri pubblicati gratis, dall'altro farebbe sì che la casa editrice stessa considerasse, in qualche modo, i libri pubblicati a pagamento “inferiori” o comunque diversi).
Nella mail mi viene fatto notare (in modo, ripeto, molto, molto educato) che forse con questa politica di non leggere o recensire libri pubblicati dalle case editrici che prevedono un pagamento, di soldi o di acquisto copie, da parte dell’autore in qualche modo io sia discriminatoria e crei uno svantaggio nei confronti di quelle piccole case editrici indipendenti e di quegli autori con la passione per la scrittura (che immagino siano un po’ tutti) che per poter sopravvivere e farsi conoscere avrebbero bisogno proprio dell’incoraggiamento di tutti.

Anche su questo ho riflettuto a lungo. E se da un lato comunque dubito che una recensione sul mio blog possa avere questo effetto, dall’altro credo che di spazio sul mio blog per i piccoli editori ce ne sia. Per quelli che, a mio personalissimo giudizio, questo spazio se lo meritano davvero, però.
 Per quelli che fanno cultura e letteratura, senza  far leva sull’ego dell’autore che crede talmente tanto nel suo lavoro (e ci sta, ci mancherebbe!) da essere disposto anche ad acquistare qualche copia pur di vederlo pubblicato.

Per quelli che investono e rischiano, perché quello è il loro lavoro. Che pubblicano magari poco, ma buono.

Per quelli che non rispondono mai “fanno tutti così”. 

Pur non essendo un’esperta del settore, so anche io che il mondo dell’editoria dall’interno è molto complesso. So che per un autore è difficile farsi pubblicare e che forse, a volte, oltre alla bravura ci va anche la fortuna. Così come so che sulla frase “gli editori oggi non rischiano e non pubblicano emergenti” si fondano le basi sia dell’autopubblicazione sia, soprattutto, degli editori a pagamento.

Quindi, l'unica cosa che posso dire agli autori è di valutare bene cosa vogliono dal loro libro e a quali condizioni pubblicarlo, perché in alcuni casi è meglio tenerlo in un cassetto che pubblicarlo con una casa editrice che su di voi non è poi così disposta a scommetere.

venerdì 19 dicembre 2014

A PESCA NELLE POZZE PIU' PROFONDE - Paolo Cognetti


Ogni volta che leggo un racconto, un libro di racconti o un libro che parla di racconti... insomma, ogni volta che leggo qualcosa che ha a che fare con i racconti, non posso fare a meno di chiedermi perché, in Italia, il genere sia così tanto bistrattato. Ultimamente le cose stanno un po' migliorando, in parte forse grazie anche al Nobel vinto da Alice Munro nel 2013, in parte al grande lavoro fatto da certi editori che sebbene il genere non venda continuano comunque a pubblicare (o ripubblicare) raccolte di racconti.
Ovviamente intendo i racconti con la R maiuscola. Quelli di Alice Munro, ma anche di Carver, Saunders e, ovviamente, Hemingway, giusto per citarne qualcuno.

Di italiani il primo che mi viene in mente è Paolo Cognetti. Da Sofia si veste sempre di nero, romanzo in forma di racconti che me l'ha fatto conoscere un paio di anni fa, alle raccolte Manuale per ragazze di successo e Una cosa piccola che sta per esplodere, che me ne hanno fatto definitivamente innamorare, credo che Cognetti sia uno dei migliori scrittori italiani contemporanei.

E questo suo nuovo libro, A pesca nelle pozze più profonde, me ne ha dato ulteriore conferma.

Non è un romanzo, non è un raccolta di racconti, non è nemmeno un saggio. È Paolo Cognetti che parla dei più grandi scrittori di racconti mondiali e dell'influenza che hanno avuto su di lui, del perché li ama tanto. Parla di Salinger e di Hemingway, di Carver e della Munro, di Flannery O'Connor e di David Foster Wallace. Tramite le loro storie, i loro racconti, Cognetti spiega la sua visione di questo genere, il modo in cui lui li scrive, li pensa, li immagina, mettendo spesso in luce le differenze con i romanzi. Lo fa da scrittore, sicuramente, ma anche da lettore, raccontando (sì, per quanto un po' ripetitiva, è la parola migliore) cosa ha trovato lui in ogni storia che ha letto.

Leggendo posiamo la mano sulla mano di uno scrittore, e se lo scrittore è bravo, e noi siamo fortunati, mentre la mano scrive riusciamo a vedere ciò che ha visto lui.

Cognetti ti fa innamorare persino dei libri che non hai letto. Ti fa venire voglia di cercarli e di buttarti subito tra le loro pagine (a me sta succedendo con i Nove Racconti di Salinger, che devo assolutamente trovare).

E poi c'è il suo stile, il suo modo di raccontare, semplice eppure profondo. La sua capacità, forse tipica di chi scrive racconti, di soffermarsi su un dettaglio e renderlo importante al punto da costruirci una storia.

Il libro si conclude con quattro raccontini su Sofia, la protagonista di Sofia si veste sempre di nero, che anche dopo la pubblicazione del libro l'autore non è riuscito a lasciare andare. Dice che ogni tanto sente il bisogno di tornare da lei. Non so se li avrei messi alla fine di questo libro, onestamente. Due mi sono piaciuti molto, due non sono così sicura di averli capiti in realtà, ma a prescindere da questo, qui avrei lasciato tutto lo spazio agli altri scrittori, al grande grandissimo omaggio che questo libro vuol fare loro.

In ogni caso, A pesca nelle pozze più profonde è un libro bello, sul valore letterario dei racconti e su quanto lavoro ci sia dietro per poter scrivere il racconto perfetto. E quindi è un libro che dovrebbe essere letto da chi, come me, ama i racconti e da chi invece li considera un genere in qualche modo inferiore rispetto al romanzo. Sono sicura che cambierebbe idea.


Titolo: A pesca nelle pozze più profonde
Autore: Paolo Cognetti
Pagine:130
Editore: minimum fax
Anno: 2014
Acquista su Amazon:

mercoledì 17 dicembre 2014

Due titoli, un solo libro: ma perché? #102 Speciale Natale

Considerando che questa potrebbe essere l'ultima puntata della rubrica di confronto tra titoli prima di Natale (che mercoledì prossimo è la Vigilia e non so se avrà tempo di scriverla), ho deciso di dedicarla proprio a questa ricorrenza. Che in questo periodo alcune case editrici danno il meglio di loro, tirando fuori romanzi ad hoc (o non proprio ad hoc, ma cambiando il titolo per farli diventare tali) per chi vuole immergersi nello spirito natalizio ma rabbrividisce a sentir parlare del Canto di Natale di Dickens.

Ne ho selezionati quattro, tutti usciti di recente, ma sicuramente ce ne sono anche molti altri (ma il mio amore per il Natale sarebbe scemato improvvisamente se avessi fatto una ricerca più lunga di questa).
Il primo è Eine wundersame Wehnachtsreise di Corina Bomann, tradotto in italiano da Sara Congregati per la casa editrice Giunti e uscito con il titolo Un sogno tra i fiocchi di neve


Letteralmente il titolo originale si potrebbe tradurre con Un meraviglioso viaggio di Natale. Difficile capire perché sia stato cambiato, in quanto perfettamente traducibile e, soprattutto, in tema natalizio. Forse la neve fa più effetto, non lo so.

Il secondo libro è Calling Mrs Christmas di Carole Matthews, tradotto in italiano da C. Serretta per la casa editrice Newton Compton, che gli ha dato il titolo Appuntamento sotto l'albero



 Letteralmente l'originale si potrebbe tradurre con Chiamando la sig.ra Natale (ok, è terribile, forse avrei lasciato Mrs. Christmas anche in un'ipotetica traduzione italiana, ma parlando di traduzioni letterali bisogna andare fino in fondo). Sicuramente in italiano il titolo andava cambiato. Da valutare se il cambiamento avrebbe dovuto essere necessariamente così drastico da diventare Appuntamento sotto l'albero (per non parlare della triste copertina con l'albero di natale fatto di scarpe e vestiti, completamente diversa rispetto all'originale)

Rimaniamo in casa Newton Compton con Christmas at Claridge's di Karen Swan, tradotto da L. Faspi e reso in italiano con Natale a Londra con Amore.

Il titolo italiano sembra quello di un cinepanettone. Lo trovo molto brutto, oltre che poco scorrevole (non so voi, io arrivo a Londra e mi incaglio, come se la parte "con amore" non ci volesse proprio rientrare). Letteralmente l'originale si tradurrebbe con Natale al Claridge, che è il lussuoso hotel londinese in cui lavora la protagonista. Capisco che Natale in hotel o Natale in albergo avrebbero forse amplificato ancor di più l'effetto "titolo da film demenziale di Natale", però si poteva sicuramente pensare a qualcosa di meglio, se proprio non si poteva tradurre letteralmente.

L'ultimo libro di questo Speciale Natale è Sleigh Bells in the snow di Sarah Morgan, pubblicato in Italia dalla casa editrice Harlequin Mondadori con la traduzione di Roberta Marasco e il titolo Mentre fuori nevica

Il titolo originale, traducibile letteralmente con Campane della slitta nella neve,  fa riferimento a una strofa della celebre canzone White Christmas, scritta da Irving Berling nel 1943:

I'm dreaming of a white Christmas 
Just like the ones I used to know 
Where the treetops glisten 
And children listen 
To hear sleigh bells in the snow.

La traduzione letterale del titolo, effettivamente, non avrebbe avuto poi molto senso. Si poteva forse valutare la sostituzione con una canzone natalizia italiana (anche se al momento non me ne vengono in mente), ma anche in questo caso sarebbe stato un po' rischioso. Condivido abbastanza il titolo scelto dalla casa editrice, che lascia il riferimento alla neve. E per una volta, anche la copertina italiana si rivela migliore dell'originale.

Bene, mi fermo qui, che per quanto io ami il Natale, a leggere sti titoli mi è quasi venuta la nausea. Buon natale a tutti!

martedì 16 dicembre 2014

DI LAMA E D'OCARINA - Francesco Scarrone

Per qualche strano motivo, nella mia testa sto scrivendo questa recensione in spagnolo. Quello argentino, per essere precisi, con la sua cadenza cantilenata e le sue sfumature lessicali che ben lo differenziano dal castellano.  Parole come pasión, corazón, dolor, amor mi stanno rimbalzando nella mente da quando ho iniziato a leggere questo libro. Ed è strano, perché Di lama e d'ocarina parla sì di tango e di tangueros, di milongas e di amor, ma è scritto da uno scrittore, Francesco Scarrone, italianissimo.

Eppure, questa raccolta di racconti d'amore, di morte, di passione, di dolore e di musica, riesce a prendere il lettore, ovunque lui sia, e portarlo laggiù, nella Pampa. Prima, per conoscere Diego Alvaro de Marenquio Manasnero y Gregorio, che suona l'ocarina ma sogna di diventare tanguero. Un sogno che potrà realizzare solo quando riuscirà ad avere un'ombra sul volto (difficile, per un ottimista di natura), un cerotto sul cuore (ancor più difficile quando l'unica donna nei paraggi non è esattamente una bellezza) e una pallina in tasca. Il lettore parte con Diego Alvaro verso il cielo della Pampa, che si tinge di un rosso tramonto, come fa il cielo della Pampa quando qualcuno si allontana verso di lui, e lo accompagna a Buenos Aires, per diventare un vero tanguero.

Abbandonado Diego Alvaro, il lettore si ritrova poi un altre piccole storie d'amore, di lame affilate e spine nel cuore, di amori passati e ormai disillusi, di passioni future e di baci al cioccolato, di onori da difendere e di musica, tanta, tanta musica.

Francesco Scarrone ha scritto un piccolo gioiello, in cui mescola alla perfezione ironia (il racconto di Diego Alvaro è spettacolare) e poesia, e che, per quanto mi riguarda, ha come unico difetto quello di essere un po' troppo corto. Si arriva alla fine del libro e si avrebbe voglia di leggere ancora e ancora. La lettura dura il tempo di una serata in una milonga, di un tango appassionato, di una spina che affonda piano piano nel cuore e di un bacio saporito, che vorresti non finisse, ma che invece, a un certo punto, ti abbandona.

Già dalla prefazione dell'autore si capisce la sua grande passione per il tango e per le sue struggenti e appassionati canzoni, ed è stato davvero bravo a riuscire a trasmettere questa sua passione al lettore che, se non leggesse il nome sulla copertina, nemmeno si renderebbe conto di non stare leggendo un libro scritto da un argentino. Consigliatissimo!

-Ti amo - , dice Antón
- Anche io -, risponde una donna; poi chiude gli occhi, gli appoggia la testa sulla spalla e di lì non si muove; ballando, ballando, ballando.


Titolo: Di lama e d'ocarina
Autore: Francesco Scarrone
Pagine:122
Editore: Gorilla Sapiens edizioni
Anno: 2013
Acquista su Amazon:

domenica 14 dicembre 2014

Un libro per tè: Di lama e d'ocarina e di tè pesca e albicocca


Perché bisogna spiegare, a chi non lo sappia, che il tango è musica; ma non è solo musica. Il tango è un modo di vivere. Un modo di sentire la vita. Un modo di guardare. Una maniera di camminare. Il tango è un profumo, è il fumo di una sigaretta, è una luce che taglia in due una stanza buia. E poi è la passione travolgente, l'amore disperato. Il tango è quella musica struggente e meravigliosa, è il ballo. E il ballo, a sua volta, è una metafora così pregnante della vita che meriterebbe un discorso tutto a sé.
Sì, il tango è un mondo. Anzi, è il mondo, ma vissuto e non lasciato vivere.
Di lama e d'ocarina - Francesco Scarrone - Gorilla sapiens edizioni

Sono convinta che, così come per i libri, anche regalare un tè sia una cosa difficilissima. Al di là dell'essere sicuri che l'altro beva tè, bisogna anche conoscerne i gusti precisi. Io, ad esempio, non riesco a bere i tè speziati, né i tè troppo tradizionali (l'English Breakfast della Twinings, per esempio, per me è quasi indigesto). Sbagliare, quindi, è molto semplice. Il tè di oggi, alla Pesca e Albicocca della Mlesna, una marca che ammetto non avevo mai sentito prima, mi è arrivato come regalo anticipato di Natale, ma in realtà non era quello che era stato pensato per me. Il mio avrebbe dovuto essere tè al mirtillo, che non mi piace per niente. L'amica che me l'ha regalato ha ammesso che si ricordava avessi detto qualcosa in proposito, ma non era sicura se avessi detto che mi piace tantissimo o per niente. Fortunatamente comunque, a questo scambio anticipato di regali abbiamo partecipato in quattro e ho potuto fare cambio senza alcun problema. Pesca e albicocca sono due dei miei frutti preferiti in assoluto e la loro combinazione, in forma di tè, mi piace davvero tantissimo.
Così come mi piace tantissimo il tango, anche se non l'ho mai ballato. E Di lama e d'ocarina di Francesco Scarrone ha un incipit davvero strepitoso.

venerdì 12 dicembre 2014

IL CARDELLINO - Donna Tartt

Credo di avervi  già comunicato più e più volte il mio amore per gli scrittori e i libri che hanno vinto il premio Pulitzer. E’ un amore abbastanza recente, ma che aumenta in modo sconsiderato ogni volta che mi capita tra le mani uno dei libri premiati. 
Ammetto  però che di Il cardellino di Donna Tartt, che ha vinto il premio quest’anno, avevo un po’ paura. In parte per lo spessore, sicuramente, perché per leggere un libro con più di 600 pagine deve essere il momento giusto, o il rischio di rimanere incagliata a metà diventa molto alto. E poi ne avevo timore anche perché leggendo commenti e pareri, ancor prima di comprarlo in realtà, mi sono trovata di fronte a reazioni molto discordanti. C’è chi parla di un romanzo meraviglioso e chi di un romanzo carino, ma forse un po’ sopravvalutato, chi lo ha divorato in pochi giorni e chi lo ha abbandonato a metà, senza alcun rimpianto.
 Ho aspettato quindi arrivasse il momento giusto, non ho più letto commenti di altre persone e, via, l’ho iniziato. Nei primi due giorni ho divorato più di cinquecento pagine. E non perché leggo veloce, ma perché davvero non riuscivo a metterlo giù.

Il cardellino racconta la storia di Theo, che a soli tredici anni sopravvivere a un attentato terroristico in un museo di New York. Mentre sta uscendo, da solo e stordito, dal museo, decide portare con sé un quadro, Il cardellino appunto, perché non è sicuro che la madre, nella confusione delle esplosioni, sia riuscita a vederlo. La madre, però, a casa non torna più e Theo si ritrova così solo, con un padre in ritracciabile e dei nonni che non lo vogliono. Viene ospitato dalla famiglia di un suo compagno delle elementari, Andy. Una famiglia molto ricca in cui Theo si sente incredibilmente solo.  E poi passano gli anni, Theo cresce, ritrova suo padre e poi lo perde di nuovo, si innamora perdutamente e inizia a drogarsi e a bere, conosce  Boris, un ragazzo problematico e un po’ teppista, l’unico con cui però si sente davvero a suo agio, e impara il mestiere di antiquario. Il cardellino e il ricordo doloroso della madre rimangono negli anni il suo punto fisso. Poi però qualcosa va storto e Theo si ritrova immischiato in qualcosa di pericoloso e molto più grande di lui.

Potete immaginare anche voi quanto difficile possa essere riassumere la trama di un libro di novecento pagine. Succedono tante cose, grandi e insignificanti, che è inutile tentare di parlarvene. Onestamente, non so nemmeno dirvi che cosa mi abbia tenuta incollata così saldamente alle pagine di questo libro. Lo stile di Donna Tartt, certo, che riesce a rendere perfettamente la tristezza,  la solitudine e il ricordo che attanagliano e torturano Theo, ma anche a caratterizzare perfettamente tutto i personaggi che gli ruotano intorno. La trama, anche, molto più avvincente di quanto la quarta di copertina lascerebbe presagire. Ma anche qualcosa di più, in Theo e nel suo dolore, nel suo senso di colpa che lo sta a poco a poco annientando e che non sa come combattere. L’ho trovato molto vero, molto forte e commuovente.

Sicuramente anche con un centinaio di pagine in meno il romanzo sarebbe stato lo stesso molto bello, perché a volte si è dilungato un po’ troppo in momenti in cui non era necessario.
Non che abbia faticato a leggerle, per carità, però forse avrebbero potuto anche non esserci (così come il finale, proprio le ultime cinquanta pagine, avrebbero potuto essere, non so, diverse, più all’altezza di tutto il resto del romanzo… ma forse qualunque finale, dopo una storia così, sarebbe stato deludente).

Insomma, mi schiero dalla parte di chi ha amato il libro, di chi lo considera un capolavoro. E vorrei davvero stringere la mano a chi assegna i premi Pulitzer, perché fa davvero un grande, grandissimo lavoro per il mondo della letteratura.

Titolo: Il cardellino
Autore: Donna Tartt
Traduttore: Mirko Zilahi de' Gyurgyokay
Pagine:893
Editore: Rizzoli
Anno: 2014
Acquista su Amazon:
formato brossura: Il cardellino

giovedì 11 dicembre 2014

Di autori, relatori e di presentazioni di libri non proprio ben riuscite

©Davor Pavelić
L’altra sera nella cittadina vicino al paese in cui vivo c’è stata la presentazione dell’ultimo romanzo di Gianrico Carofiglio.  Sarei dovuta andare, ma tra che non ero tanto in forma e che c'era Masterchef in TV, dopo un po’ di indecisione, alla fine ho deciso di rimanere a casa.  Sbagliando forse, perché avrebbe potuto essere la volta buona per togliermi dalla mente i brutti ricordi dei miei incontri precedenti con questo autore. Il primo era stato al Circolo dei Lettori di Torino l’anno scorso: l’autore presentava il suo precedente romanzo in compagnia di una relatrice semplicemente imbarazzante. E non lo dico perché sono pignola, era stata una sensazione comune. 
Il secondo incontro in realtà non c’è stato, ma avrebbe potuto, se solo Carofiglio non fosse stato in ritardo di mezz'ora all'appuntamento fissato alle otto di sera al Salone del Libro. Abbiamo aspettato cinque, dieci, quindici minuti, poi alla fine ce ne siamo andati. Dopo queste due esperienze, unite al fatto che gli ultimi romanzi sono francamente pessimi, devo ammettere, nei confronti di questo autore ho un po’ di titubanze, che mi hanno spinta a rimanere a casa l’altra sera.

Eppure a me andare alle presentazioni dei libri piace molto. Mi piace vedere dal vivo gli autori, mi piace sentirli raccontare le curiosità relative al libro e rispondere alla domande che vengono loro rivolte dal relatore o dal pubblico, e mi piace anche il momento degli autografi, sebbene la mia timidezza mi porti ad arrivare davanti all’autore o autrice di turno con la faccia tutta rossa, la sudorazione a mille e nulla di interessante da dire. Ci provo eh, e il più delle volte mi ritrovo coinvolta in bizzarri siparietti, a volte divertenti (certo non per merito della mia bravura), a volte imbarazzanti.

Alle presentazioni quindi, se posso fisicamente e logisticamente, ci vado sempre volentieri. Il problema è che mi è capitato spesso di uscirne delusa. E il più delle volte è colpa del relatore.  Perché non tutti sono capaci di parlare in pubblico, di interagire con una persona di fronte ad altre persone, di tenere desta l’attenzione e di esaltare al punto giusto lo scrittore o la scrittrice che sono chiamati a presentare. Così come non è detto che uno scrittore sia necessariamente anche un buon oratore, anche chi lavora in altri ambiti della cultura, dal giornalista al presidente di uno dei più importanti circoli di lettori di una grande città, non è detto che davanti al pubblico riesca a dare il meglio di sé. Anzi.

Sono diverse le situazioni che si possono creare: mi è capitato di vedere relatrici flirtare con gli autori che stavano presentando; relatori che parlano per più di dieci minuti prima di dare finalmente la parola all’autore, vero oggetto dell’interesse del pubblico (e in un incontro di meno di un’ora, questo tempo è, onestamente, abbastanza sprecato); relatori che non hanno letto il libro che stanno presentando e inventano di sana pianta, arrabbiandosi poi se vengono corretti (“l’ispettore Guerrieri”), relatori che fanno domande che capiscono solo loro o che non se ne sono preparate abbastanza, o che le fanno senza poi ascoltare la risposta.
Tutte queste situazioni, per quanto mi riguarda, hanno una certa ripercussione sull’esito finale della presentazione, provocando un  senso di insoddisfazione nel pubblico, al punto da spingerlo, nei casi più estremi, a non acquistare o leggere più nulla dell’autore in questione, o comunque a sviluppare nei suoi confronti una certa antipatia. 

Sicuramente non è colpa dell’autore o dell’autrice, se chi gli è stato messo accanto, in quel momento o sempre, non è in grado di gestire la situazione. Certo, dovrebbe stare a lui risolvere il problema, emergere e far vedere comunque la sua bravura anche nei momenti di, chiamiamola, difficoltà. Ma in tutte le presentazioni a cui ho assistito non mi è mai capitato di sentire un autore dire al suo presentatore “ehy, ma che cavolo stai dicendo?”. Un po’ perché non c’è la confidenza, un po’ perché non starebbe poi così bene, sebbene spesso siano visibilmente imbarazzati.

Le presentazioni più belle, secondo me, sono quelle in cui tra autore/autrice e relatore/relatrice si crea un certo feeling. Un feeling dettato magari da un’amicizia precedente che si riflette anche nella chiacchierata pubblica, o da quella naturale predisposizione che certe persone sviluppano nei confronti di alcune e non di altre, o ancora da una vicinanza letteraria (la presentazione di John Niven fatta da Marco Rossari, suo traduttore, è stata una delle presentazioni più belle in assoluto a cui abbia assistito) Sono le presentazioni da cui imparo di più, da cui esco più soddisfatta e che, se vediamo il lato commerciale della cosa, mi spingono più facilmente verso l’acquisto del libro presentato, se già non l’ho letto, o di altri che vengono citati sul momento.

La cosa buffa è che l’impressione su uno stesso autore può cambiare in base a chi lo presenta. Mi vengono in mente le tre presentazioni di Marco Malvaldi a cui ho assistito (sì, lo so, è quasi stalking). La prima a Orbassano, due anni fa, durante la festa del libro. L’incontro era fissato alle sei e mezza di una domenica pomeriggio, subito dopo la premiazione dei cosplay (massimo rispetto per i cosplay eh, però diciamo che il momento per l’autore non era esattamente propizio). Ed  è stato un incontro piatto, in cui era evidente che chi presentava non avesse letto il libro in questione. Malvaldi, per quanto bravo, non ha potuto fare molto al momento della presentazione, però si è poi ripreso dopo, quando il relatore se n’è andato e le dieci persone presenti all’incontro si sono avvicinate per gli autografi. Ha iniziato a raccontare aneddoti della sua vita, e nello specifico di suo nonno, che mi hanno fatto tornare il buonumore dopo una presentazione non del tutto esaltante. Il secondo incontro, invece,  l’anno scorso a Chivasso durante la rassegna I luoghi delle parole, è stato meraviglioso. Malvaldi conosceva bene i suoi relatori, i librai della libreria Therese di Torino, e tutti insieme sono riusciti a trasformare la presentazione di un libro in qualcosa di più. Mi è piaciuta talmente tanto che sono tornata anche quest’anno e di nuovo mi sono divertita tantissimo.

Presentare un libro non deve essere facile. Non è facile per l’autore che, come dicevamo prima, non sempre si trova a suo agio davanti a un branco di sconosciuti che lo ascoltano anziché leggerlo, e che spesso si ritrova a rispondere a domande o troppo banali o troppo difficili, senza sapere quale può essere la reazione di chi ha di fronte. E non lo è nemmeno per i presentatori, sicuramente, che spesso si ritrovano spinti all’ultimo su un palco a presentare una persona che non hanno mai incontrato prima (sulle pagine forse sì, ma non è detto nemmeno quello). 
Però, almeno per quanto riguarda la mia esperienza non poi così vasta di presentazioni, il problema  principale con i relatori è stato di troppa spavalderia, che li ha portati a mettere in ombra l’autore e il libro che stavano presentando, concentrandosi più sul far vedere quanto loro ne sapevano che non su i veri protagonisti della serata. Ed è davvero un peccato.

Concludo con quelle che forse avrebbe dovuto essere una premessa, ma che vedo bene anche alla fine. Mi è capitato solo due volte di vestire i panni di relatrice e, se ci penso, ancora sono stupita di esserci riuscita. La prima è stata al Salone del Libro (così, giusto per iniziare in modo tranquillo) e devo ammettere che se non ci fosse stata un’altra relatrice accanto a me sarebbe stato un vero disastro. La seconda è andata un pochino meglio, ma forse non di molto.  E questo dimostra, in piccolo, quanto ho cercato di dire nel post: ovvero che puoi essere bravo a scrivere, puoi avere una cultura immensa, puoi amare i libri come nessun altro, ma poi, quando Sali su un palco e hai accanto a te una persona che aspetta che tu la aiuti nel presentare il suo lavoro, ci va anche altro, una faccia tosta, una spigliatezza, una bravura che, ovviamente, non tutti possiamo avere.

mercoledì 10 dicembre 2014

Due titoli, un solo libro: ma perché? #101


Dai su, era da qualche settimana che non parlavo di un romanzo Garzanti. E recupero, grazie alla segnalazione di Cristina, con un libro che incarna perfettamente tutte le mie battaglie, perse, contro i titoli sempre uguali. The map of true places di Brunonia Barry, letteralmente traducibile con "la mappa dei luoghi veri", diventa La ragazza che rubava le stelle. Effettivamente la traduzione letterale del titolo originale non suona poi così bene ma, anziché pensare a un titolo che potesse avere più o meno lo stesso senso, la casa editrice ha fatto ricorso alla solita "Ragazza che..." fa qualcosa. Nello specifico qui ruba le stelle (come faccia, di preciso, non lo so)

A questo si aggiunge poi la copertina, con la solita figura di spalle (ricorrente tanto quanto i faccioni, sulle copertine Garzanti) che guarda verso l'infinito. C'è da dire che l'originale è molto simile, e addirittura un meno poetica di quella italiana, che sarebbe anche bella, se non fosse che si è già vista e rivista. 


Titolo originale: The map of true places
Titolo italiano tradotto in modo assai bislacco: La ragazza che rubava le stelle
Autore: Brunonia Barry
Traduttore italiano: Alba Mantovani
Editore italiano: Garzanti

venerdì 5 dicembre 2014

Incontrando... Giorgio Fontana

Ieri pomeriggio sono andata alla presentazione di Morte di un uomo felice di Giorgio Fontana al Centro Congressi Unione Industriale di Torino. In mia compagnia Thais, amica, ex compagna di università, nonché blogger di Solo libri belli. Memore dell’incontro passato con Diego De Silva sempre organizzato dal Centro Congressi Unione Industriale, l’avevo già avvisata che l’età media sarebbe stata di circa sessantacinque anni. Che non c’è nulla di male, anzi! Questi incontri letterari sono solitamente al pomeriggio di proposito, proprio perché ci vada solo un pubblico di pensionati (più qualche imbucato… anche se ieri eravamo davvero solo noi due, tant'è che non abbiamo influenzato in alcun modo la media dell’età). Ed è una cosa molto bella che spero vivamente esisterà ancora quando (se) andrò in pensione io. 

A presentare Giorgio Fontana c’era Bruno Quaranta, penna de La Stampa e in particolare di Tuttolibri, che già mi aveva creato qualche difficoltà alla presentazione di De Silva. Bruno Quaranta ha iniziato a presentare l’autore e il suo libro con un lungo monologo, letto da un foglio e quindi per nulla naturale (che va bene segnarsi qualcosa, ci mancherebbe, ma non tutto!) ricco di citazioni, paroloni che, onestamente, più che destare il mio interesse e la mia attenzione mi hanno lungamente distratto. Più lui parlava, più io pensavo “Sì, ma quando fai parlare l’autore?”.  



Dopo una decina di minuti buoni, finalmente, ecco che interviene Giorgio Fontana. La prima domanda che gli viene rivolta è relativa al suo concetto di felicità e come si possa intendere Giacomo Colnaghi, il magistrato protagonista del romanzo, un uomo felice. Lui ha risposto dicendo che non intende la felicità come uno stato di perenne godimento, ma che sta più nelle piccole cose: nell'essere innamorati della vita, nel farsi continuamente domande e interrogarsi, senza prendere per buone le cose, nei piccoli gesti quotidiani, come comprarsi il Topolino o fare le corse in bici con gli amici, anche a cinquantanni.
Da questa risposta si è poi entrati nel vivo del personaggio di Colnaghi: un magistrato cattolico di sinistra (sebbene sia un’espressione un po’ abusata), che vive la fede però a modo suo. Una fede intima, non sporcata da rituali e che spesso gli causa dubbi e incertezze, che derivano dalla difficoltà e dal tormento di trovare un punto di incontro tra giustizia divina e giustizia umana. Un ritratto che a Fontana è uscito effettivamente molto bene, anche considerando che lui è ateo.
Parlando sempre di Colnaghi, dal pubblico (che in questa sede non fa le domande a voce, ma tramite dei bigliettini… un sistema forse per abbattere quella timidezza che solitamente in queste occasioni si risolve in un “nessuno ha domande”) è stato chiesto se il padre di Fontana, che è un magistrato, abbia in qualche modo influenzato il personaggio.  L’autore ha risposto di no, che è stato utile sicuramente dal punto di vista tecnico, per acquisire informazioni su quel mondo, ma che non ci sono elementi di comunanza tra il magistrato Colnaghi e il magistrato Fontana. Se c’è qualche vicinanza, che però non si tratta di elementi autobiografici, è tra Colnaghi e Giorgio stesso: entrambi sono uomini di provincia, nati a Saronno, sebbene Colnaghi la ami e Fontana la odi; entrambi amano Milano e passeggiare per le sue vie e, “soprattutto”, entrambi sono interisti.

Un aspetto che è stato sottolineato molto, sia ieri durante la presentazione sia in tutte le interviste fatte all'autore che mi è capitato di leggere, è il fatto che Giorgio Fontana sia giovane. È nato nel 1981 (quindi ha 33 anni, che è giovane, certo, ma dal punto di vista letterario mi viene spontaneo domandarmi fino a che età si è considerati giovani), proprio l’anno in cui Morte di un uomo felice finisce.  Ha raccontato quindi di un’epoca che non ha vissuto direttamente ma di cui è in qualche modo figlio, ammettendo che secondo lui è più facile scrivere un libro di un periodo se si è nati dopo: certo, si ha una grande responsabilità storica (e non per niente ha dovuto studiare tantissimo per poter raccontare senza errori la storia) e si è ispirato a personaggi realmente esistiti, lasciando poi però che il personaggio acquisisse una sua storia personale, che fosse inserito nel contesto storico in modo fedele, ma che poi vi si potesse muovere tranquillamente all'interno.

Fontana ha poi parlato della stesura dell’altra parte del romanzo, quella ambientata all'epoca della resistenza, in cui il protagonista è il padre di Colnaghi, Ernesto, dicendo che è quella che gli è piaciuto di più scrivere, (insieme alle descrizioni di Milano, che  sono anni che nessuno scrittore descrive più bene), avendo per quel periodo un interesse personale, alimentato poi dai racconti del nonno e da memorie orali della sua zona.

Una delle domande più belle è stata “Come si fa a scrivere un libro così?”. Lui ha risposto “Leggendo tanto, buttando tanto, riscrivendo tanto” e poi ha citato Paolo Cognetti, che dice che scrivere è come mangiare un crostaceo: ci si sporca tanto le mani e si butta via tanto per arrivare allo scheletro, alla parte buona.

Sul finale Fontana, dopo aver ammesso che il libro gli ha lasciato un’enorme stanchezza fisica ma anche esistenziale, ha parlato dei suoi autori di riferimento: scrittori della narrativa americana, tra cui Bernard Malaud, Don De Lillo, Powers e, “ovviamente”, Hemingway; scrittori della narrativa europea, tra cui Joseph Roth e Stig Dagerman; e poi, su tutti, Frank Kafka che per lui è “tutto quello che uno scrittore dovrebbe essere”.
E tra gli italiani? Dino Buzzati con Un amore, Giovanni Arpino con Randagio è l’eroe, Luciano Bianciardi con La vita agra e Giovanni Testori con Il ponte della Ghisolfa.

A fine presentazione è stato poi il momento degli autografi e, come al solito, mi sono fatta riconoscere. Quando gli ho dato il libro, infatti, è avvenuto più o meno questo dialogo:

“Ciao!” 
“Ciao!”
“Sono Elisa… il libro è molto bello, davvero, ma quanto mi hai fatto penare con sti due punti”
“Ah, eh lo so, me lo hanno fatto notare in molti, ma io li uso così, il mio stile è quello. E comunque li usava anche Manzoni”
“Beh, anche Manzoni mi avevo fatto penare eh.  Ci va un po’ per abituarcisi… però il libro è davvero molto bello, bravo!”
“Grazie”

(ammetto che dopo mi è venuto il dubbio che si sia offeso. Spero vivamente di no, ma del suo bislacco uso dei due punti dovevo proprio dirglielo!)



L’impressione generale che ho avuto di Giorgio Fontana è di uno scrittore molto colto, molto preparato e sicuro della sua penna, ma anche molto modesto e umile (dal fatto, ad esempio, che nonostante il successo del romanzo, la vincita del premio Campiello e tutte le proposte che sono seguite, ancora non se la senta di lasciare definitivamente il suo lavoro principale in un’azienda informatica). Ha messo in luce poi un aspetto su cui spesso ho riflettuto riguardo alle presentazioni dei libri, ovvero che gli scrittori sono persone che si chiudono in una stanza a scrivere e che quindi per alcuni di loro è molto difficile trovarsi di fronte a tutte queste persone, questi lettori arrivati lì per sentire quello che hanno da dire. È bello, emozionante, ma anche faticoso. Lui, ieri, è stato davvero molto bravo.

Diverso, almeno per me, è il discorso del relatore, che ha davvero il potere di influenzare, in meglio ma anche in peggio, la presentazione di un libro e la voglia o meno di leggerlo.
 Ma questo argomento, prima o poi, avrà un post tutto per sé.

giovedì 4 dicembre 2014

FINCHÉ C'E' PROSECCO C'E' SPERANZA - Fulvio Ervas

Ero molto curiosa di leggere qualcosa di Fulvio Ervas. Sì, certo, avevo già letto, come hanno fatto in molti, Se ti abbraccio non aver paura, il libro che racconta del viaggio fatto per l'America da Franco e Andrea, padre e figlio, autistico. Un libro che ha avuto un successo strepitoso, forse più per il valore umano, per aver raccontato qualcosa di cui non si parla molto e, soprattutto, per aver dimostrato che anche di fronte a certe malattie che sembrano insormontabili si può comunque continuare a vivere (certo, bisogna avere i mezzi per farlo). Sono anche andata a sentire una presentazione dell'autore, l'anno passato. La centosettantesima, mi pare abbia detto, che faceva da quando era uscito il romanzo. 
Era da un po', però, che mi chiedevo come fossero le storie inventate da Ervas, come fosse Ervas romanziere e non semplice (per modo di dire, ovviamente) penna prestata alla storia di qualcun altro. Ho approfittato quindi di una mia amica, che aveva acquistato, letto e apprezzato Finché c'è prosecco, c'è speranza, e me lo sono fatta prestare.

Il romanzo è il quarto della serie che ha come protagonista l'ispettore Stucky, mezzo veneziano e mezzo iraniano, che si ritrova immischiato in uno strano caso di suicidio: un uomo, il conte Ancillotto, viene ritrovato in pigiama, morto, sulla tomba di famiglia, con accanto una magnum di champagne. Ed è strano, molto, molto strano che un grande produttore di prosecco si faccia trovare morto con accanto una bottiglia di uno dei suoi maggiori concorrenti. E ancora più strano che, qualche giorno dopo, nello stesso paese del conte Ancillotto, avviene invece un omicidio, quello dell'ingegner Speggiorin, direttore del detestato cementificio locale. Che i due casi siano più legati di quanto possano sembrare? E soprattutto, davvero l'erede del conte Ancillotto, Celinda Salvatierra, vuole sostituire le viti con una piantagione di banane?

Anche in questo caso, c'è una forte componente regionale nello stile di Ervas. Una componente che, per chi conosce poco quelle zone, all'inizio risulta un po' ostica. A poco a poco però ci si abitua a questo linguaggio, ai buffi "antimama!" pronunciati da Stucky e dai suoi, e ci si ritrova immersi in una storia che è molto meno leggera di quanto possa all'apparenza sembrare. C'è un dolore di fondo, accompagnato da una certa poesia, personificata da Isacco Pitusso, il matto del paese, che passa le sue giornate a grattare via la ruggine dalle tombe di alcune persone, di cui racconta la storia, in una sorta di Antologia di Spoon River (sono sicura che Edgar Lee Masters, se avesse letto il libro, mi perdonerebbe questo paragone sicuramente un po' ardito), sperando così che non vengano dimenticate.
È difficile spiegarvi esattamente quello che ho provato leggendo senza fare spoiler. Perché al di là dello stile di Ervas, che può piacere o meno e che, devo ammettere, a volte risulta poco scorrevole; al di là dei suoi buffi personaggi e della vita di paese che riesce a raccontare così bene; al di là della trama gialla, delle scene comiche (ah, le due vicine di casa di Stucky!) e del vino, il romanzo racconta una storia che è comune, purtroppo, a molti paesi d'Italia, che troppo spesso prima hanno sfruttato e poi si sono domandati quanto male potesse fare agli altri quello che stavano facendo.

Sicuramente se fossi partita dal primo romanzo della serie avrei avuto meno difficoltà a raggiungere una certa familiarità con i personaggi, conoscendone già il passato e le caratteristiche, e quindi ad apprezzare meglio lo stile dell'autore. Però devo ammettere di essere rimasta piacevolmente stupita (e anche un po' commossa, sebbene mai avrei pensato che un libro con un titolo così, Finché c'è prosecco, c'è speranza avrebbe potuto farmi un effetto del genere... considerando che a me nemmeno piace il prosecco), al punto che mi è venuta voglia di leggere anche tutti gli altri.
Con Se ti abbraccio non avere paura non ha assolutamente nulla a che fare, ovviamente, però se il successo avuto da quel libro è servito per far conoscere anche gli altri romanzi di Ervas, come è successo ad esempio con me, ne sono davvero molto felice.

Titolo: Finché c'è prosecco c'è speranza
Autore: Fulvio Ervas
Pagine: 301
Editore: marcos y marcos
Anno: 2010
Acquista su Amazon:
formato brossura: Finché c'è prosecco c'è speranza

mercoledì 3 dicembre 2014

Due titoli, un solo libro: ma perché? #100



Io capisco che"Leggere è viaggiare senza la seccatura dei bagagli" (che poi, non è ben chiaro se il buon Salgari abbia detto "scrivere" o "leggere"), però come abbia fatto "La valigia di Mrs Sinclair" (semplicissima e, per me, anche d'effetto traduzione letterale di Mrs Sinclair's Suitcase) a diventare un Libro dei ricordi perduti davvero non riesco a spiegarmelo.

Titolo originale: Mrs Sinclair's Suitcase
Titolo italiano tradotto in modo assai bislacco: Il libro dei ricordi perduti
Autore: Louise Walters
Traduttore italiano:  Elisabetta De Medio
Editore italiano: Corbaccio

lunedì 1 dicembre 2014

TUTTI I NOMI - José Saramago

José Saramago è uno di quegli autori che mi imbarazza sempre un po' recensire. Mi imbarazza perché so che qualunque cosa io dica, non sarà sufficiente a far capire a chi non lo ha mai letto quanto grandi siano i suoi libri e, di conseguenza, quanto grande sia (sì, al presente, anche se è mancato nel 2010) lui.

E quindi, proprio come con L'uomo duplicato, il mio primo Saramago, con il meraviglioso Cecità, con Il Vangelo secondo Gesù Cristo e Caino,  anche per Tutti i nomi la tentazione è quella di non dirvi nulla se non, semplicemente, di leggerlo. 
Difficilmente non vi appassionerete all'ordinaria e abitudinaria vita del Signor José, di mestiere scritturale ausiliario presso la Conservatoria Generale dell'Anagrafe di una città sconosciuta, che un giorno trova, infilato tra le schede degli uomini famosi della sua città che come passatempo colleziona, quella di una donna che famosa non è. Una coincidenza, forse, che però sconvolge talmente tanto l'uomo da convincerlo a iniziare una ricerca per dare a questa donna un volto. La sua ricerca lo porterà a compiere azioni illegali, ad andare a bussare a porte di sconosciuti, senza che nemmeno per lui sia ben chiaro il perché.

Lo stile di Saramago è semplicemente fenomenale. Un po' ostico forse nelle prime pagine, soprattutto se non avete mai letto un suo libro o se è da un po' che non ne leggete uno. Ci va un attimo di tempo per abituarsi alla sua sintassi, al suo uso della punteggiatura, ai suoi dialoghi senza virgolette. Però, una volta che si entra nel meccanismo, si viene completamente rapiti. Sono belli i personaggi che questo autore sa creare, personaggi all'apparenza insignificanti, come il signor José appunto, ma capaci di grandi cose (entrare in una scuola di notte, ad esempio, ma anche parlare con il soffitto ricevendone risposta). Ed è bello il modo in cui porta il lettore a riflettere, sulle cose più complesse, come la vita, la morte e l'amore, ma anche su quelle più semplici e banali.

Insomma, se ancora non l'avete fatto,  senza che io vi dica altro, dovreste proprio leggere José Saramago.


Titolo: Tutti i nomi
Autore: José Saramago
Traduttore: Rita Desti
Pagine: 250
Editore: Einaudi / Feltrinelli
Anno: 2014
Acquista su Amazon:
formato brossura: Tutti i nomi