martedì 30 aprile 2013

ZeroZeroZero - Roberto Saviano

"Scrivere di cocaina è come farne uso. Vuoi sempre più notizie, più informazioni, e quelle che trovi sono succulente, non ne puoi più fare a meno. Sei addicted. Anche quando sono riconducibili a uno schema generale che hai già capito, queste storie affascinano per i loro particolari. E ti si ficcano in testa, finché un'altra - incredibile, ma vera - prende il posto della precedente. Davanti vedi l'asticella dell'assuefazione che non fa che alzarsi e preghi di non andare mai in crisi di astinenza. Per questo continuo a raccoglierne fino alla nausea, più di quanto sarebbe necessario, senza riuscire a fermarmi. Sono fiammate che divampano accecanti. Assordanti pugni nello stomaco. Ma perché questo rumore lo sento solo io? Più scendo nei gironi imbiancati dalla coca, e più mi accorgo che la gente non sa. C'è un fiume che scorre sotto le grandi città, un fiume che nasce in Sudamerica, passa dall'Africa e si dirama ovunque. Uomini e donne passeggiano per via del Corso e per i boulevard parigini, si ritrovano a Times Square e camminano a testa bassa lungo i viali londinesi. Non sentono niente? Come fanno a sopportare tutto questo rumore?"


Parlare di Roberto Saviano non è mai una cosa semplice. Tante sono le reazioni che suscita anche solo pronunciare il suo nome: reazioni che vanno dalla venerazione all'odio profondo. Un contrasto tanto forte e drastico che ancora faccio fatica a spiegarmi. Ne avevo già parlato poco tempo fa in un post, "Parlando un po' a caso di Roberto Saviano", e c'era chi lo difendeva a spada tratta e chi lo accusava di aver rovinato per sempre Napoli e la sua immagine nel mondo. 
Come credo di aver già fatto capire più volte, a me Roberto Saviano piace. Piace come scrittore e piace come persona, anche se, effettivamente, forse suo malgrado, si è trasformato in un personaggio, rendendosi per qualcuno a volte un po' antipatico.

Voglio però recensire questo libro cercando di dimenticarmi da chi è stato scritto. Parlare solo ed esclusivamente del contenuto, del modo in cui è stato esposto, senza pensare a chi ci sia dietro. Non è semplice ma ci proverò.

ZeroZeroZero parla di cocaina. Lo fa in un modo un po' particolare, alternando parti saggistiche e d'inchiesta a parti romanzate. O, come pensavo leggendo, parti noiose e non semplici da seguire a parti scorrevoli e appassionanti. Una lettura complessa, lunga, faticosa a tratti e leggerissima in altri. 
La cocaina è ovunque e ammetto, con somma vergogna o forse ingenuità, che non lo sapevo. Basta solo il primo capitolo, un esercizio di stile notevole e molto efficace, a farti accapponare la pelle. Poi il libro parte e ci porta in Messico prima, in Colombia poi, ma anche in America, in Italia, in Spagna, in Russia e in Africa. Ci parla dei narcos, delle lotte per la supremazia e della loro violenza. Ci parla di 'ndrangheta e camorra. Ci parla di come la droga viene trasportata e di come viene scoperta. Ci parla di corrieri, canini e umani, e di cosa spinge la gente a diventarlo. Il tutto, come dicevo, alternando saggio e inchiesta (le cui fonti sono riportate in fondo al libro e non all'interno dello stesso) al romanzo. 
Un sistema questo che è marchio di fabbrica dell'autore, il suo stile, criticabile o apprezzabile, ma comunque estremamente efficace. Perché per leggere le bellissime parti romanzate bisogna per forza leggere anche quelle saggistiche. E quindi alla fine, in un modo o nell'altro, le cose arrivano.

Uno dei pregi di Roberto Saviano e di tutti i suoi libri è quello di mettere insieme informazioni e renderle alla portata di tutti. Prima di leggere Gomorra, di camorra sapevo solo quello che veniva detto di sfuggita nei telegiornali. Prima di leggere ZeroZeroZero, la cocaina per me era una droga qualunque, che spesso viene sequestrata negli aeroporti, nascosta nei posti più impensabili, e per la quale in Messico e in Colombia tendono ad ammazzarsi. Non sapevo che fosse così tanto diffusa. Non sapevo che la usasse anche gente comune. Conoscevo per sentito dire, grazie a qualche romanzo letto in passato (ad esempio "Senza tette non  c'è paradiso" di Gustavo Bolivar Moreno, che viene citato nel libro e che vi consiglio caldamente) di quanto la bellezza e l'immagine svolgano un ruolo fondamentale in certi paesi e in certi ambienti dell'America Latina e di quanto, di conseguenza, siano legati al potere dei narcos. Ma non ero mai riuscita a mettere insieme tutti i pezzi, forse per un po' di disinteresse, forse perché collegare tutti i tasselli non è facile.

Mi rendo conto solo ora, scrivendo, che è impossibile mantenere il mio proposito iniziale di non parlare di Roberto Saviano ma solo del libro. Perché dentro al libro la presenza dell'autore è più forte e viva che mai. Certo, lo è in tutte le opere e in tutti i romanzi. Ma qui si sente ancora di più, perché qua e là si trovano delle  riflessioni personali sulla sua situazione, che mi sono sembrate a volte delle grida di aiuto e di disperazione. Fa inchiesta, scrive, si documenta e cerca di informare anche il lettore. Ma poi, ogni tanto, qua e là, si chiede perché lo sta facendo, perché non è stato zitto prima e perché non sta zitto ora. Perché deve rischiare così tanto per ricevere poi insulti e critiche anche violente. Eppure dice di non poterne fare a meno. Come non ne possono fare a meno tutti gli altri giornalisti che hanno rischiato, rischiano o hanno perso la vita facendo il loro lavoro.

Onestamente, non so se consigliarvi o meno di leggerlo. Non so nemmeno se si possa dire se un libro così piace o non piace. E' scritto bene, un po' noioso a volte, non sempre scorrevole, ma comunque scritto bene. Però credo che non avrà mai la forza e il ruolo che ha avuto Gomorra. E che Roberto Saviano, se davvero vuole allontanarsi da quel libro e andare oltre, debba osare qualcosa di più.

"Credo che i lettori dovrebbero fare questo con le parole. Metterle in bocca, masticarle, triturarle e infine ingoiarle, perché la chimica di cui sono composte faccia effetto dentro di noi e illumini le turbolenze insopportabili della notte, tracciando la linea che distingue la felicità dal dolore"

Titolo: ZeroZeroZero
Autore: Roberto Saviano
Pagine: 444
Anno di pubblicazione: 12013
Editore: Feltrinelli
ISBN: 978-8807030536
Prezzo di copertina: 18,00 €
Acquista su Amazon:
formato brossura:ZeroZeroZero

mercoledì 24 aprile 2013

FOLLIA - Patrick McGrath


Una grande storia di amore e morte e della perversione dell'occhio clinico che la osserva. Dall'interno di un tetro manicomio criminale vittoriano uno psichiatra comincia a esporre il caso clinico più perturbante della sua carriera: la passione tra Stella Raphael, moglie di un altro psichiatra, e Edgar Stark, artista detenuto per uxoricidio. Alla fine del libro ci si troverà a decidere se la "follia" che percorre il libro è solo nell'amour fou vissuto dai protagonisti o anche nell'occhio clinico che ce lo racconta.


E' così finalmente ho letto anche io Follia di Patrick McGrath. Dico finalmente perché questo libro mi perseguitava già da un po', senza che riuscissi a decidermi di leggerlo.
"E' un libro stupendo", "E' meraviglioso", "E' il libro più bello del mondo"  ma anche "Non mi ha convinto per niente", "Mi aspettavo di più" sono grossomodo i commenti che ho sentito o letto in giro in merito a questo romanzo. Bello ma anche brutto. Attrazione ma anche repulsione. L'ho amato ma anche l'ho odiato. 
E ora che l'ho finito, riesco a capire perfettamente ognuna di queste posizioni. Che poi forse sono proprio quelle che lo stesso autore voleva provocare nei lettori. 

Il libro parla essenzialmente d'amore. Un amore forte, passionale, violento, folle. Quello che Stella prova per Edgar Stark e che le fa violare ogni regola di buon senso e di etichetta. Edgar è infatti un paziente del manicomio criminale in cui lavora il marito della donna. E' lì perché ha ucciso la moglie. Eppure, agli occhi di Stella è un uomo colto, intelligente, normale. Un uomo che non mentirebbe mai e che la ama con tutto se stesso, proprio come lei ama lui. Fuggirà con lui e poi da lui. Senza però riuscire a dimenticarlo. Perché l'amore non si può definire né gli si può fuggire.
"Già, l'amore" dissi. "Parliamo di questo sentimento che non riuscivi a dominare. Come lo descriveresti?". Qui Stella fece un'altra pausa. Poi, con voce stanca, riprese: "Se non lo sai non posso spiegartelo".
"Allora non si può definire? Non se ne può parlare? E' una cosa che nasce, che non si può ignorare, che distrugge la vita delle persone. Ma non possiamo dire nient'altro. Esiste, e basta"
La cosa che mi ha colpito maggiormente di questo libro non è tanto la trama, che a tratti, una volta messa in moto, ho trovato quasi prevedibile. La forza sta soprattutto nella narrazione. Come se ogni parola usata da McGrath fosse una calamita, messa  per attrarre il lettore tra le pagine e impedirgli di staccarsi, anche solo per respirare. La voce narrante è quella di Peter, collega di Max e amico di Stella, che poi avrà in cura. Ci parla di lei come di una paziente, come un caso clinico, analizzando con freddezza ogni situazione ed emozione, senza giudicare. Uno sguardo clinico. Non credo di aver mai letto nulla di scritto in questo modo, perfetto e geniale.

Eppure, come dicevo all'inizio, capisco anche le perplessità e il fatto che questo romanzo possa non essere piaciuto. Perché ogni tanto, io stessa mi ritrovavo a provare una certa avversione verso i personaggi, a domandarmi come fosse possibile che potesse davvero succedere quello che stava succedendo. Soprattutto con Stella ho avuto qualche difficoltà, ma forse anche perché sono totalmente a digiuno di malattie mentali e dei meccanismi che queste possono creare. Sempre che Stella sia realmente malata e che l'amore sia davvero una malattia.

Basta, non vi dico nient'altro. Vi rovinerei troppo la lettura e la vostra interpretazione. Concludo dicendo che questo è uno di quei libri che vanno assolutamente letti. Anche se la trama non vi ispira o se avete letto solo commenti negativi (mi sembra un po' incredibile, ma può succede). Perché merita anche solo per lo stile. Una volta iniziato, magari non vi piacerà, magari lo odierete con tutti voi stessi... ma non riuscirete a metterlo giù finché non sarete arrivati alla fine.

Nota alla traduzione: nulla da segnalare (a parte la scelta editoriale di Adelphi di eliminare le d eufoniche anche quando servono, a cui mi devo un po' abituare)

Titolo: Follia
Autore: Patrick McGrath
Traduttore: Matteo Codignola
Pagine: 296
Anno di pubblicazione: 1998
Editore: Adelphi
ISBN: 978-8845926983
Prezzo di copertina: 12,00 €
Acquista su Amazon:
formato brossura: Follia

Due titoli, un solo libro: ma perché? #31

Ho deciso che per questa puntata farò un'eccezione a una regola che avevo fissato nella mia mente al momento di aprire questa rubrica, ovvero di non parlare di libri pubblicati dalla Newton Compton. Che questa casa editrice non mi piaccia (se si escludono i Mammut), credo di averlo già detto in tutte le salse. Forse sono pregiudizi del tutto ingiustificati, forse no, ma in ogni caso, essendoci talmente tanti bei libri da leggere pubblicati da altre case editrici, per il momento non ho intenzione di scoprirlo.

Non volevo parlare di questa casa editrice perché praticamente tutti i libri da loro pubblicati ultimamente (quelli con la copertina rigida, a 9,90€ per intenderci) non rispettano il titolo originale. Sarebbe stato troppo facile, insomma. Basta prendere un libro con qualche spezia e un po' di amore nel titolo e la rubrica si sarebbe scritta da sola.
Eppure, adesso, a causa di un libro arrivato da poco nelle nostre librerie non riesco davvero a non parlarne. E' più forte di me. E mi consola molto il fatto che anche altre persone lo abbiano segnalato (sia sulla pagina Fb del blog, sia su altri book blog).

In romanzo in questione è SHAKESPEARE IN KABUL di Stephen Landrigan e Qais Akbar Omar, uscito in Italia con il titolo LEGGERE SHAKESPEARE A KABUL (traduzione di M. Togliani e E. Cantoni)


I più accorti avranno già storto il naso. Di per sé non si può nemmeno dire che sia una traduzione troppo distante o che non c'entri nulla con l'originale.  Certo, non è letterale e io sarei stata sicuramente più attratta da "Shakespeare a Kabul", perché mi avrebbe lasciato un minimo di curiosità. Però, comunque, quella tradotta ha un senso.
E allora dove sta il problema? Il problema sta nel perché è stato fatto questo cambiamento. Un motivazione non direttamente confermata dalla casa editrice, ma comunque estremamente plausibile.
Ovvero richiamare un libro bellissimo, che ha avuto molto successo e che secondo me tutti gli amanti della lettura dovrebbero leggere, nella speranza forse che questo richiamo di titolo faccia da traino per le vendite (ma davvero pensano che noi lettori siamo così deficienti?).
Sto parlando ovviamente del libro di Azar Nafisi LEGGERE LOLITA A TEHERAN, pubblicato in Italia dalla casa editrice Adelphi con la traduzione di R. Serrai:

La primissima cosa che sono andata a controllare è stata se Adelphi avesse rispettato nella scelta del titolo quello originale. E la risposta è sì.

Se si prende il catalogo Newton Compton, si scopre che non è la prima volta che questa casa editrice sceglie un titolo che richiami quello di un altro, preferibilmente di successo. Il caso più eclatante, che avevo notato già in passato ma di cui per la regola esposta in precedenza avevo deciso di non parlare, è quello di BUNHEADS di Sophie Flack, tradotto in italiano da E. De Giorgio, con il titolo BALLA, SOGNA, AMA


Un richiamo forse meno evidente, ma che comunque è impossibile non notare con un po' di accortezza, al romanzo MANGIA PREGA AMA di  Elizabeth Gilbert edito da Rizzoli.

Se questo richiamo a un'altra opera nel titolo non è voluto dall'autore o dall'autrice, perché un editore compie questo azzardo? Non so, trovo che questa pratica sia ancora peggiore di quella di cambiare in toto i titoli per adeguarli a una moda (ok, forse peggiore no, ma sicuramente di pari livello).

Comunque, tenetevi pronti perché a breve arriverà in libreria "Leggere Stoker ad Acapulco".

lunedì 22 aprile 2013

DOPO LUNGA E PENOSA MALATTIA - Andrea Vitali

Sono le tre di notte del 4 novembre. Il dottor Carlo Lonati viene chiamato per un'urgenza, il paziente lo conosce bene. Attraversa sotto una pioggia micronizzata i cinquecento metri che lo separano dalla casa del notaio Luciano Galimberti, suo antico compagno di bagordi. Può solo constatarne la morte per infarto. Ma c'è qualcosa che non lo convince, e nelle ore successive arrivano altri indizi e i sospetti crescono. Il dottore non può fare a meno di indagare: vuole sapere se il suo vecchio amico è davvero morto per cause naturali. Per farlo, dovrà conquistare la fiducia della moglie e della figlia di Galimberti. E scoprire che la verità si trova forse sull'altra sponda del lago di Como. "Dopo lunga e penosa malattia" è l'unico giallo scritto da Andrea Vitali. E forse non è un caso che abbia come protagonista un medico sensibile e acuto. L'indagine è concentrata in una settimana, tra le esitazioni dell'improvvisato detective e il moltiplicarsi di tracce e confidenze, fino al colpo di scena finale.

"Vuoi leggere un libro carino, leggero, veloce e ben scritto?"
Con questa frase mi è stato messo in mano questo libro. Certo, chi me l'ha prestato sa benissimo quanto mi piaccia leggere Andrea Vitali di tanto in tanto. I suoi sono romanzi leggeri leggeri, utili quando si cerca qualcosa da leggere che non richieda eccessivo sforzo mentale, già a partire dalla struttura in capitoli corti e veloci. Certo, le trame non gli riescono sempre molto bene, soprattutto ultimamente, forse per stare dietro a logiche editoriali e commerciali che gli richiedono uno o due libri all'anno.
Però, prendendo i romanzi più vecchi, solitamente con Vitali vado abbastanza sul sicuro. Basta leggerli con un giusto intervallo di tempo e non si viene mai a noia.

Dopo lunga e penosa malattia ha però qualcosa di diverso rispetto ai suoi soliti romanzi. Bellano c'è sempre (e se non ci fosse probabilmente ne sarei rimasta parecchio delusa), ma non è così fondamentale come nelle altre sue opere. Non è il protagonista questa volta. Così come non lo sono le chiacchiere e i pettegolezzi di paese che fanno progredire le storie negli altri suoi libri. No, qui siamo di fronte a un giallo e per scriverlo Vitali alza anche un po' il registro.
Un giallo che effettivamente funziona, ben scritto e ben studiato e che coinvolge il lettore al punto da non poter chiudere il libro finché non si arriva alla fine (cosa abbastanza fattibile, visto che è di sole 160 pagine). Ci si appassiona al destino di Luciano Galimberti, apparentemente morto d'infarto, e alle indagini del dottor Carlo Lonati, i cui sospetti che ci sia qualcosa di più sotto vengono confermati dai piccoli indizi che qualcuno gli lascia perché non perda interesse sulla vicenda. Un manifesto mortuario volutamente sbagliato, telefonate anonime continue. Bugie e ambiguità. Insomma, un bel giallo vecchio stile.
Però, purtroppo, c'è un però che rovina un po' tutto. Il finale. Uno si aspetterebbe, come in tutti i gialli di questo tipo, che tutti i tasselli vadano al loro posto: assassino e movente rivelati e giustizia finalmente fatta. E almeno in parte questo succede. Ma qualcosa rimane in sospeso, qualcosa non viene spiegato (purtroppo non vi posso dire cosa o vi rovinerei tutto il libro), lasciando quel senso di incompleto che un romanzo del genere non dovrebbe lasciare.

Il libro è sicuramente scritto bene e, pur non essendo sicuramente all'altezza di Una finestra vistalago che per me è il miglior Vitali in assoluto (tra quelli che ho letto, ovviamente), riesce a intrattenere e a divertire. Non è un libro scritto di fretta e solo ed esclusivamente per vendere, e, come si diceva all'inizio, è perfetto per lasciare andare la mente e i pensieri senza sforzi. Ma gli manca qualcosa.

(Comunque la prossima volta che mi viene chiesto "Vuoi leggere un libro carino, veloce e ben scritto?" provo a rispondere di no... solo per il gusto di vedere la faccia di chi me l'ha chiesto)

Titolo: Dopo lunga e penosa malattia
Autore: Andrea Vitali
Pagine: 176
Anno di pubblicazione: 2008
Editore: Garzanti
ISBN: 978-8811686521
Prezzo di copertina: 14,60 €
Acquista su Amazon:
formato brossura: Dopo lunga e penosa malattia

domenica 21 aprile 2013

Riflessioni sul comodino...

No, non sono appollaiata sul mio comodino a riflettere sul senso della vita (anche perché tecnicamente un comodino nemmeno ce l'ho). Semplicemente mi sono resa conto che è parecchio che non pubblico post per la rubrica "sul comodino" e il motivo di questo mancato aggiornamento mi ha spinto a qualche considerazione.
Non pubblico più quella rubrica perché non riesco a stare dietro ai nuovi libri che mi entrano in casa. Davvero, non ci riesco. Sembra quasi che arrivino da soli e io me li ritrovi lì, in attesa, più o meno paziente, di essere letti.

Ieri, ad esempio. Sono arrivata a casa del lettore rampante, che tutto trullo mi ha dato il nuovo libro di Roberto Saviano, "Zerozerozero", che volevo da ancor prima che uscisse. Nel mentre, è arrivato suo papà, tutto trullo pure lui, con in mano "Dopo lunga e penosa malattia" di Andrea Vitali dicendomi: "vuoi leggere un bel libro, carino e scorrevole, per passare qualche ora?". Ora, a una domanda così, c'è qualcuno che potrebbe rispondere di no? Poi siamo usciti, sebbene fosse una giornata estremamente piovosa, per andare in un grosso mercatino dell'usato che c'è vicino a Torino. Lì, incredibilmente, non ho trovato niente che mi ispirasse (quelli che mi interessavano li avevo già letti tutti), ma il mio ragazzo ha comprato qualcosa, ora nemmeno mi ricordo i titoli, che sicuramente in futuro, se sarò disperata e senza libri, potrò sicuramente leggere. Da lì siamo andati in un centro commerciale, in cui tutti i tascabili Adelphi erano scontati del 25% (è una promozione che dura fino al 19 maggio, approfittatene) e ho presto "Follia" di Patrick McGranth. Insomma, era lì... potevo mica non prenderlo?

E' questo è solo ieri.

Poi, da quando ho quel marchingegno infernale ma tanto, tanto comodo, dell'e-reader ogni giorno mi ritrovo a combattere (senza molto successo, ammettiamolo) contro le offerte lampo di amazon, contro i classici in lingua originale a costo zero, contro e-book non in offerta ma che comunque costano poco... al punto che, esaurito il credito sulla carta ricaricabile, ho deciso di cercare di evitare di ricaricarla finché i libri in attesa non diminuiscono un po' (notare il "cercare di evitare").

Come se non bastasse, l'altro giorno mi è venuta voglia di leggere "Anna Karenina" e "Uomini e topi". Mentre cercavo negli scaffali dei libri che erano di mio papà se già li avevamo in casa, ho trovato L'Aleph di Borges e un paio di opere di Kafka che non conoscevo, che sicuramente prima o poi leggerò.

Insomma, ho come l'impressione che il mio comodino si autorigeneri, senza che io possa farci nulla. Capirete anche voi che non posso scrivere un post ogni volta, perché c'è il rischio che il blog si riduca solo a quello (potrei cambiargli nome: "il comodino rampante"). Per cui, se volete sapere che libri ho in attesa, potete guardare la pagina dedicata, in cui troverete un mero elenco che anziché accorciarsi si allunga.

Questo mi ha portato anche a un'altra considerazione, riguardo non tanto al numero di libri lì impilati quanto al tipo. Crescendo, inevitabilmente, i gusti cambiano. Cambia lo spirito critico, cambia il modo di rapportarsi con il mondo e, conseguentemente, cambiano anche le letture.
Se un tempo leggevo cose molto più leggere, in relazione forse anche a un periodo della vita più complicato che richiedeva letture di contrappasso, ora le cose sono cambiate. Ho in attesa, ad esempio, un libro di Roth, Franzen (sì, da mesi ormai, lo so), Hrabal e Murakami per citarne qualcuno. Ci sono tanti italiani: due di Vitali, Malvaldi, Saviano, la Bignardi (che onestamente non so sicura che leggerò) e Saviano appena arrivato. Letture non sempre impegnative, ma comunque lontane dai romanzetti che leggevo una volta (non è una critica nei confronti nei romanzetti eh, è solo una considerazione sull'evoluzione delle mie letture).

Di pari passo sono cambiate anche le case editrici più rappresentate nella mia libreria. Editori come Marcos y Marcos, minimumfax, Sellerio, di cui fino a qualche anno fa leggevo poco o nulla,  sono andate ad occupare il loro meritatissimo spazio in mezzo agli Einaudi e alla Guanda e alla Feltrinelli. Così come sono drasticamente diminuite le entrate Garzanti, casa editrice che un tempo amavo ma che ora, per via della bislacca politica di titoli e copertine (di cui vi ho già parlato più e più volte), mi sta irritando parecchio.

Concludo questa riflessione quasi senza senso con una bella ovvietà, che però mi piace molto: i libri crescono e cambiano con noi, in base al nostro stato d'animo, in base alla nostra vita e al percorso che sta seguendo, in base a quello che ci succede attorno e a come reagiamo. Ma, almeno nel mio caso, ci sono sempre. E sempre ci ricordano quello che siamo stati e quello che stiamo, a poco a poco, diventando.
E non so voi, ma io trovo che sia estremamente bello.

venerdì 19 aprile 2013

ISTRUZIONI PER RENDERSI INFELICI - Paul Watzlawick


"È giunta l'ora di farla finita con la favola millenaria secondo cui felicità, beatitudine e serenità sono mete desiderabili della vita. Troppo a lungo ci è stato fatto credere, e noi ingenuamente abbiamo creduto, che la ricerca della felicità conduca infine alla felicità". Watzlawick costruisce qui uno specchio ironico che, pur tenendo viva una costante tensione tra il divertimento e il disagio di riconoscersi, non priva il lettore del piacere di interpretare il messaggio: come rendersi felicemente infelici?

Sto fissando questo post bianco da più di un'ora, senza riuscire a scrivere nulla. Odio quando mi succede così, perché vuol dire che qualcosa, nel libro che ho letto e che sto tentando di recensire, non ha funzionato. E questo di solito capita con i libri che non sono né bruttissimi né bellissimi, quelli che potevi leggere o non leggere e non avrebbe fatto alcuna differenza. Eppure, non credevo che "Istruzioni per rendersi infelici" potesse essere uno di questi di libri. Avevo tante, tantissime aspettative e non posso nemmeno dire che tutte siano state disattese. Eppure, boh. Non so. C'è qualcosa che non mi torna in questo piccolo saggio che, ovviamente solo in apparenza, vuole insegnarti come essere infelice.
Ah, la felicità. Questo concetto tanto ribadito, tanto ripetuto, a cui tutti aspiriamo sempre. Che sia forse un po' sopravvalutato? Mica si deve essere felici per forza, no? Si può continuare a crogiolarsi nel proprio dolore, a non capire perché le persone ci amano, a non chiedere un martello al nostro vicino di casa perché tanto sicuramente non ce lo presterà, a rimanere incollati al telefono in attesa di una telefona che mai arriverà e al diavolo gli amici che cercano di tirarti fuori dalla tua depressione. Si può continuare ad accusare di mancanze che in realtà non esistono chi abbiamo accanto. Nasconderci alla realtà perché non ci piace. Credere all'oroscopo al punto da fare in modo che quanto scritto si avveri. Non uscire di casa per paura di tutto quello che ci possa succedere, ma anche aver paura a rimanerne dentro, perché nemmeno lì si sta al sicuro. Insomma. Si può essere infelici e fieri di esserlo.

Questi libricino di Watzlawick, filosofo e psicologo, è un saggio intelligente, che mette alla berlina manie e fissazioni in cui ci stupiremo di poterci identificare. Lo fa riportando fonti, citazioni, esempi di vita che potrebbero argomentare perfettamente questa idea di "viva l'infelicità". Potrebbero, ma ovviamente non lo fanno. Perché l'intento di Watzlawick è proprio quello opposto: enfatizzare, ridere e prendere in giro in modo più o meno velato tutti quei meccanismi mentali, quelle situazioni, quelle fissazioni che ci impediscono di essere felici. 

E' geniale, certo. Ma, devo ammetterlo, l'ho trovato anche un po' superficiale. Perché se fosse davvero tutto così semplice, tutti al mondo sarebbero davvero felici. La teoria finale, che si capisce già all'inizio, è quella già espressa da Dostoevskij nel suo Demoni, ovvero: "L'uomo è infelice perché non sa di essere felice. Soltanto per questo. Questo è tutto, tutto! Chi lo comprende, sarà subito felice [...]". Già, sarebbe bello.

Pur essendo per natura una persona abbastanza ottimista e in grado di trovare la felicità nelle cose più piccole e insignificanti, credo sia questo a non avermi convinto, questo "se vuoi essere felice, basta che tu decida di esserlo". Come non mi convince mai nessuna teorizzazione sulla felicità o sul suo contrario (così come provo una forte irritazione nei confronti dei manuali di auto-aiuto), perché non può essere, non è, tutto così semplice. Certo, in realtà nelle piccole cose il nostro potere è più forte di quello che possiamo immaginare ed è influenzato dal nostro carattere e dal nostro modo di vedere la vita, in modo positivo o negativo. Però non ci sono sempre e solo le piccole cose.

Watzlawick è geniale, certo. Ed espone le sue argomentazioni in modo scorrevole (anche se in alcuni capitoli mi sono un po' persa) e con un'ironia facile da cogliere ma mai offensiva nei confronti di chi si comporta realmente nel modo che lui descrive e che mi ha fatta ridere e sorridere. 
Però secondo me, felicità e infelicità racchiudono troppe cose per poter essere descritte in un libricino tanto sottile.


Nota alla traduzione: nulla da segnalare, direi!


Titolo: Istruzioni per rendersi infelici
Autore: Paul Watzlawick
Traduttore: Franco Fusaro
Pagine: 112
Anno di pubblicazione: 1997
Editore: Feltrinelli
ISBN: 978-8807814525
Prezzo di copertina: 6,50 €
Acquista su Amazon:
formato brossura: Istruzioni per rendersi infelici

giovedì 18 aprile 2013

MENDEL DEI LIBRI - Stefan Zweig

Non sono mai stata una grande amante dei proverbi. Me ne ricordo pochi e non riesco comunque mai a inserirli in una conversazione con naturalezza. Eppure, ogni volta che chiudo uno di questi libretti piccini piccini, non posso fare a meno di pensare che molto spesso "nella botte piccola ci sta il vino buono" e che devo smetterla di giudicare un libro anche dal numero di pagine che lo compone. Romanzo breve, racconto lungo... non so mai nemmeno come devo chiamarli. Ma poi, pensandoci, non è poi così fondamentale dar loro un nome. L'importante è leggerli, senza pensare che se è corto gli mancherà di sicuro qualcosa.

Mendel dei libri rientra in questa categoria. Poche, pochissime pagine, che si leggono in un meno di un'ora e che riescono comunque a entrarti dentro, lasciandoti poi un'infinita tristezza. Mendel è dei libri perché è il maggior esperto di titoli e di prezzi che si possa trovare a Vienna. Tu vai da lui, al Caffè Gluck dove trascorre le sue giornate, e gli chiedi ciò che ti serve. E lui te lo procura. Solo i libri, gli interessano. O meglio, i loro titoli, le loro edizioni, i loro prezzi. Non li legge tutti, certo che no, come potrebbe. Però vive in mezzo a loro e dentro di loro, incurante di quel che accade nel mondo esterno. "Perché lui leggeva come gli altri pregano, come i giocatori giocano e gli ubriachi tengono lo sguardo fisso nel vuoto", lontano, isolato da tutto quello che con il suo mondo non c'entra nulla.

Nemmeno la guerra, che si sta già portando via molte vite e molte coscienze, lo scalfisce. O almeno non ci si ritrova immischiato,  suo malgrado e sempre per colpa della sua passione. E così, fuori dal mondo protetto delle rilegature, delle edizioni da collezione, delle bibliografie, Mendel si troverà a contatto con un mondo che non capisce, che nessuno in realtà può capire, e che gli toglierà la voglia di vivere. 

E' triste questo libro. E' triste il destino che viene riservato a quest'uomo, che poi è forse molto simile a quello riservato a molti altri, in momenti e circostanze diverse. Vivi per qualcosa, che sarà la tua rovina. Vivi per qualcosa, che ti impedirà di vedere altro. Vivi per qualcosa, e una volta morto, saranno in pochi a ricordarsi di te. Ma lo faranno proprio grazie alla tua passione.
Non si può non provare affetto per Mendel, non commuoversi di fronte al suo triste destino e non provare rabbia verso chi gli ha distrutto quel suo piccolo microcosmo, in cui non faceva del male a nessuno.

Leggete Mendel dei libri e sono sicura che voi di lui non vi dimenticherete.
"I libri si fanno solo per legarsi agli uomini al di là del nostro breve respiro e difendersi così dall'inesorabile avversario di ogni vita: la caducità e l'oblio".

Nota alla traduzione: nulla da segnalare, direi.

Titolo: Mendel dei libri
Autore: Stefan Zweig
Traduttore: Ada Vigliani
Pagine: 53
Anno di pubblicazione: 2008
Editore: Adelphi
ISBN: 978-8845922749
Prezzo di copertina: 6,00 €
Acquista su Amazon:
formato brossura: Mendel dei libri

mercoledì 17 aprile 2013

NESSUNO E' INDISPENSABILE - Peppe Fiore


Impiegato modello in un'azienda modello - italiano medio tragicamente modello -, Michele Gervasini fa coincidere la sua idea di felicità con gli angoli acuti del contratto a tempo indeterminato. E poco importa se ogni mattina deve affrontare il traffico isterico della via Pontina per raggiungere il suo ufficio alla Montefoschi, azienda leader nella produzione di latte e derivati. Lì lo aspettano gli altri dipendenti dell'Ufficio pianificazione e controllo, una pattuglia di buffi animali da scrivania che vive - non solo simbolicamente - all'ombra dell'enorme, minacciosa mucca aziendale in vetroresina che campeggia davanti agli stabilimenti. Ma un giovedì mattina la più mite fra le colleghe si dà fuoco nello sgabuzzino delle scope, e all'improvviso bisogna rivedere i confini di quelle giornate che fino ad allora avevano funzionato con l'efficienza di un formicaio. 

"Dormi che è meglio pensarci domani..."
Nella mia testa sto canticchiando questa canzone dei Subsonica da ieri sera. Da quando ho chiuso il libro, a mezzanotte passata,  dopo aver aggiornato via sms il mio ragazzo sulla conta dei suicidi presenti in queste pagine, e aver deciso che era meglio dormirci su prima di anche solo di tentare di fare un po' di chiarezza nella mia mente e nelle emozioni che questo romanzo ha fatto nascere in me. 
Se avessi scritto subito la recensione, credo che avrei utilizzato solo due parole: FOLLIA PURA. Avrei poi fatto il confronto, inevitabile e secondo me anche cercato dall'autore, con Ammaniti e i suoi romanzi grotteschi, in particolare con "Che la festa cominci" e buttato magari in mezzo qualche ragionamento etico e morale sulla situazione lavorativa attuale, sui suicidi per la crisi, e su quanto questo romanzo risulti quasi inappropriato, insensibile e offensivo se letto in questo contesto.
Ma ho lasciato perdere, ho staccato il cervello e ho dormito, perché a libri così è sempre meglio pensarci domani, perché il rischio di scrivere banalità è davvero forte.

Ma oggi è quel domani e la mia mente ancora non ha ben chiaro cosa pensare di questo romanzo di Peppe Fiore. Non riesce a trovare ordine in quel caos di pensieri, non riesce a trovare una logica a quanto ha letto e non riesce a capire se questa logica volutamente non ci sia o se sia lei a essere troppo limitata per comprenderla. 
Siamo nella periferia di Roma, in una grande azienda casearia che sta per essere quotata in borsa, in cui i dipendenti vengono trattati bene, non hanno problemi di crisi né rischio di perdere il posto, non hanno un'associazione sindacale perché non hanno nulla per cui protestare e ogni mattina vengono accolti da una statua in vetroresina di una mucca gigante che dà loro il buongiorno. Colleghi normali, un po' piacioni a volte, ma con cui si può convivere tranquillamente, senza creare grossi rapporti. E poi, questo mondo perfetto, a poco a poco crolla con una catena di suicidi che, nell'arco di due settimane, mandano tutto allo sbando. L'azienda perfetta non è poi così perfetta allora, se qualcuno si dà fuoco, qualcun altro si taglia le vene, qualcun altro si butta dalla finestra e i colleghi superstiti fanno scommesse su chi sarà il prossimo a cedere. Fino a un epilogo grottesco, assurdo e forse ancor più esagerato di tutto il resto del libro.

Ammaniti, vi dicevo. Un tentativo più blando, più smorzato, quello di Peppe Fiore di ricreare quella stessa follia, quello stesso grottesco che caratterizza tutti i romanzi del suo collega e concittadino. Eppure, ogni volta che chiudo un libro di Ammaniti non mi sento così. Certo, mi chiedo cosa si sia fumato, mi chiedo perché non vada da uno psicologo. Ma nella sua follia, nelle sue storie, ritrovo sempre un senso, una logica. Qui, questo non succede.
Non capisco se si vuole fare una critica all'alienante società fatta di impiegati modello che in realtà nascondono un passato più o meno torbido. O una critica alle aziende, che sembrano perfette ma non lo sono. Una critica alla mediocrità e all'accontentarsi. Una critica nei confronti della freddezza delle relazioni umane, al punto che non si sa niente del proprio vicino di scrivania pur trascorrendo con lui la maggior parte della nostra vita. Non capisco, davvero, dove Peppe Fiore voglia arrivare. Né perché, visti i tempi in cui siamo, si debba per forza cercare del marcio anche in quelle aziende, sicuramente non perfette, sicuramente vincolate, come tutti, alle vendite e alle logiche di mercato, che comunque stanno a galla, che non lasciano a casa persone, che pagano gli straordinari o in cui c'è possibilità di fare carriera.
Certo, forse la routine di un impiegato modello non è un granché, soprattutto se, come il protagonista Gervasini a casa ad aspettarci non c'è nulla, se non un sito d'incontri online da cui è impossibile cancellarsi. E capisco che alla lunga questa possa portare alla follia. Ma non così. Non ora. Non in questi termini.

Peppe Fiore volutamente esagera, al punto che sembra quasi non sappia nemmeno lui dove andare a parare.  E scrive bene, per carità, riesce a tenerti incollato al libro e ti costringe a non metterlo giù finché non sei arrivato alla fine. Però in questo caso, almeno per me, l'esagerazione non funziona, perché non è giustificata in nessun modo e, soprattutto, non porta a nulla.

E quindi no, preferisco non pensarci più. Né oggi né domani né mai. Perché tanto arriverei sempre alle stesse conclusioni. FOLLIA PURA.

Titolo: Nessuno è indispensabile
Autore: Peppe Fiore
Pagine: 212
Anno di pubblicazione: 2012
Editore: Einaudi
ISBN: 978-8806210915
Prezzo di copertina: 17,00 €
Acquista su Amazon:
formato brossura: Nessuno è indispensabile

Due titoli, un solo libro: ma perché? #30

Ieri stavo spulciando tra i libri che ho sul comodino in cerca di qualche suggerimento per il confronto di titoli di oggi. Sebbene fossero diversi i libri con titoli più o meno stravolti che avevo a disposizione, ho scelto quello con il cambio più radicale, quello che quando l'ho scoperto mi ha fatto esclamare un bel "porca miseria".

Sto parlando di un romanzo di Penelope Lively, scrittrice brittanica di narrativa per adulti e bambini, e del suo ACCORDING TO MARK ovvero AMORI IMPREVISTI DI UN RISPETTABILE BIOGRAFO (eddai su, non ditemi che un porca miseria non è scappato anche a voi!):



Uscito in lingua originale nel 1984, il romanzo è arrivato in Italia nel 2011 per la casa editrice Guanda con la traduzione di Corrado Piazzetta.
Protagonista, come il titolo originale lascia intendere, è Mark, di mestiere, come il titolo "tradotto" ci suggerisce, biografo. L'uomo viene incaricato di scrivere la biografia dello scrittore e saggista Gilbert Strong, di cui conosce la nipote, con la quale inizia una relazione più o meno clandestina, essendo lui sposato.

La differenza tra titolo originale e titolo della versione italiana è palese. La traduzione letterale sarebbe stata "Secondo Mark" ed è sicuramente meno accattivante rispetto alla scelta italiana. Devo ammettere che io stessa mi sono interessata al libro proprio perché attratta dal titolo, cosa che non so se sarebbe successa se fosse rimasto l'originale. Però, siamo punto e capo. Perché cambiare un titolo, tanto semplice da tradurre e  inerente alla storia e al lavoro del protagonista (che appunto racconta la vita degli altri, secondo lui) e , soprattutto, voluto dall'autrice? E poi, vista anche la quarta di copertina, inserire la parola "amore" nel titolo non è un po' azzardato?
Non riesco a decidere se la scelta mi convinca o meno.

Voi che dite? Scelta azzardata e sbagliata o scelta efficace?

lunedì 15 aprile 2013

VIAGGI A PERDERE - Rossana Vesnaver

Una casa accogliente, uno steccato dipinto di bianco, una tavola con tanti amici e un vociare allegro che riempie le stanze e il cuore. Solo un sogno però. Perché tra le fessure si nasconde una verità tagliente e brutale, che ferisce e lascia un senso di frustrazione e fallimento: un marito che tradisce, da sempre. E allora lei smette di mangiare riducendosi all'osso, passando le serate in bagno per liberarsi di tutto il male che si porta dentro. Poi arrivano i quarant'anni e decide che lei a questo gioco non vuole più giocare. Prende in mano la sua vita, di nuovo, e libera ricomincia il suo viaggio in cerca dell'amore. Anna, l'amica astrologa, l'ha avvertita: incontrerà l'uomo della sua vita su un mezzo in movimento. Da allora la ricerca si fa attenta, puntuale e tutto ciò che si muove può essere il posto giusto per incontrare il principe azzurro. Anche i pattini, uno skilift e persino un palazzo a Venezia, daltronde è sull'acqua, magari vale anche quello. Una vita scandita da incontri a volte divertenti, altre preoccupanti. C'è chi dopo pochi appuntamenti compra case immaginando futuri avventati, chi è solo l'avventura di una notte e chi, invece, lascia il segno. 

Ci sono dei libri che senza un trascorso personale simile a ciò che viene narrato, probabilmente non si apprezzerebbero. E non perché siano scritti male o la trama sia brutta. Ma semplicemente perché non si capirebbe. 
"Viaggi a perdere" è uno di quei libri. Si può apprezzare lo stile, ironico e fresco, ma anche poetico a volte. Si può sorridere delle avventure sentimentali poco fortunate (per usare un eufemismo) della protagonista e sperare insieme a lei che il principe azzurro prima o poi arrivi davvero. Ma se non si è vissuta una rottura, soprattutto se di una storia lunga, con conseguente momento di sconforto, panico ma anche euforia e follia, forse non si riescono a cogliere tutte le sfumature, dalle più assurde alle più tristi, che questo libro porta alla luce.

Perché quando una storia finisce, non importa se per un tradimento, per il semplice esaurimento dell'amore o per tutti gli altri motivi (e sono davvero tanti) per cui una relazione può finire, si prova davvero quel senso di spaesamento e di paura che la protagonista incarna tanto bene. Si sta malissimo. Si piange. Si beve più mojito di quanto il tuo fisico possa sopportare. Si ha paura di rimanere soli. Si smette di credere nell'amore e nel principe azzurro. Si guarda a ogni persona come un possibile futuro fidanzato. Si conoscono le persone più bislacche, in chat o sul treno. Si accetta di andare ad appuntamenti combinati, si lascia il numero a uomini che in momenti normali vorresti che nemmeno sapessero il tuo nome. Si attende con un'ansia che rasenta la follia un messaggio, una chiamata, e ci si fanno mille paranoie se queste non arrivano.
Insomma, si fanno un sacco di cazzate di cui, a poco a poco, con il passare del tempo, si riesce a ridere.

In questo libro, tutto questo viene descritto davvero bene. All'inizio si prova un po' di pena per la protagonista, che potrebbe risultare un po' patetica. Ma poi, a poco a poco, si inizia a ridere insieme a lei, per le situazioni in cui suo malgrado si mette. Ci si arrabbia un po', perché gli uomini descritti purtroppo a volte (non sempre eh), sono davvero così: paura di crescere, paura di impegnarsi o paura di sconvolgere totalmente la propria vita (e lo sono a venticinque anni, come lo sono a quaranta), per cui meglio solo una storia di sesso, divertirsi e basta. E poi si arriva alla fine del libro, quasi contenti perché la donna è riuscita a riprendere possesso di sé, dopo un po' di batoste, a vivere le cose con più leggerezza e a capire che se il principe azzurro non arriva, nel mentre ci si può accontentare di quelli di un altro colore, senza troppe pretese e troppe aspettative. Perché c'è sempre tempo e quello vero, di principe, prima o poi, arriverà.

Mi è piaciuto molto il modo in cui l'autrice ha esposto tutto questo turbinio di emozioni e passioni,  il suo inserire strofe di canzoni che rappresentano i vari momenti, il suo rendere la protagonista una donna credibilissima, con le sue manie, le sue fragilità ma anche la sua voglia di riscatto, e condendo la storia con altri piccoli racconti, di scene di coppia e di vita, a volte forse un po' esasperati, che però sono davvero così.
E poi c'è un capitolo, due paginette o poco più,  che merita una citazione a parte e che mi è piaciuto in maniera particolare, per il suo potere descrittivo ed evocativo: quello su che cos'è Genova (una città che a me piace tantissimo) per la protagonista. Credo che una città che riesce a far nascere delle pagine così debba essere per forza una città bellissima.

Insomma, "Viaggi a perdere" è stata proprio una piacevole scoperta, che mi ha sì fatto tornare in mente un po' di episodi del passato, ma è riuscito anche a farmi sentire meno sola, meno scema e a farmi sorridere, ancora una volta, di tutto quello che è stato.

L'unico interrogativo che mi rimane è se i cellulari, le e-mail, internet,  le chat e la tecnologia in generale abbiano giovato o meno all'amore e ai rapporti tra le persone. A volte sembrerebbe di sì, altre proprio no.

Titolo: Viaggi a perdere
Autore: Rossana Vesnaver
Pagine: 140
Anno di pubblicazione: 2012
Editore: L'Erudita
ISBN: 78-88-6770-006-6
Prezzo di copertina: 13,00 €

domenica 14 aprile 2013

MIRTILLI A COLAZIONE - Meg Mitchell Moore

Burlington, Vermont. Il tavolo della colazione sembra un campo di battaglia. Uova strapazzate sbocconcellate, macchie di marmellata mista a yogurt, briciole di pane sulla tovaglia. In salotto giocattoli sparsi a terra e il pianto di un neonato. Ginny e William pensavano di non doversi più occupare di queste cose. Tutti i figli sono ormai grandi e se ne sono andati finalmente a vivere per conto proprio. Il loro programma era quello di godersi in pace gli anni della vecchiaia, curare il giardino, scaldarsi alle chiacchiere serene dell'ultimo sole. Ma è bastato un solo, breve weekend perché la casa fosse improvvisamente invasa da tutta la loro progenie. La prima a presentarsi è Lillian, in fuga da un marito fedifrago, con al seguito la sua bambina di tre anni e il neonato Philip. Poi Stephen, accompagnato dalla moglie che scopre proprio in quel momento che la sua gravidanza è a rischio ed è costretta all'immobilità immediata. E infine Rachel, la figlia minore, che ha perso il lavoro e non può più permettersi le scarpe costose e l'affitto nel pieno centro di Manhattan. Dovevano fermarsi solo pochi giorni, ma sono diventati ospiti a tempo indeterminato. William e Ginny hanno di fronte a loro una lunga, lunghissima estate in cui, fra piatti rotti, urla selvagge, ma anche le carezze tenere delle dita paffute di un nipotino, devono imparare a conoscere di nuovo i figli e i loro problemi, ormai molto più complessi di una caduta dalla bicicletta e un ginocchio sbucciato.

Eppure lo so che dovrei stare ben lontana dai libri con i faccioni in copertina. Dai libri con titoli che non c'entrano assolutamente nulla con l'originale e che hanno qualche cibo al loro interno. Dai libri che ultimamente la Garzanti sforna alla media di uno a settimana, con una bella fascetta che li dichiara "casi editoriali" o "libri dell'anno". Lo so, ma ci sono cascata ugualmente. Vuoi per curiosità, perché comunque la trama di questo mi ispirava parecchio, vuoi per vedere se magari i miei sono solo pregiudizi.
Pregiudizi che però non sarà questo libro a farmi passare. Anzi. E' riuscito a farmi crescere ancora di più l'irritazione, verso le copertine, verso i titoli e verso la casa editrice che li pubblica. E quindi questa recensione non sarà per niente ragionata. Non cercherò scusanti né giustificazioni. Perché non ce ne sono.

E' un libro insulso. Insulsi sono i protagonisti. Insulsa è la classica famiglia americana stereotipata che viene descritta e altrettanto insulse sono le vicende che a tutti i personaggi capitano. Una serie di luoghi comuni, di banalità, messi tutti insieme sotto lo stesso tetto, quello dei perfettissimi William e Ginny, che di colpo si ritrovano in casa tutti e tre i figli ormai adulti: c'è chi è in fuga da una vita deludente o da un marito fedifrago, e chi  era semplicemente in visita ma poi costretto a restare. Un'analisi dei legami tra i vari famigliari non viene mai fatta. Sono tutti semplicemente antipatici, non solo al lettore ma anche tra di loro, e tutti troppo presi dai loro problemi e dal "andiamo da mamma e papà che ci pensano loro". Certo, come no. (Anche perché, pure 'sti genitori, non è che siano così contenti di vedere i figli eh...).

Il problema principale di questo libro è che mette troppa carne al fuoco, lanciandola sulla griglia quasi a caso,  mischiando tanti elementi (il tradimento, le difficoltà delle neomamme, le mogli che guadagnano più dei mariti, il senso di smarrimento che si prova quando la vita non sta andando dove vogliamo, la religione, le gravidanze difficili), senza poi essere però in grado di seguirli. Risultato: una storia con tanto potenziale andata in fumo, che più che di mirtillo (che, per la cronaca,  l'unico modo in cui compare nel libro è sotto forma di Blackberry, inteso come cellulare) sa di bruciato.

Insomma, uno di quei libri che non appena lo chiudi (per fortuna scorre abbastanza in fretta, questo bisogna ammetterlo) non puoi fare a meno di domandarti: perché? Perché è stato scritto, perché è stato pubblicato, perché è stato tradotto e, soprattutto, perché diavolo l'ho letto.

Nota alla traduzione: c'è una nota per spiegare che il "blackberry", inteso come il cellulare tuttofare, vuol dire anche "mirtillo". E mi viene il sospetto che sia stata aggiunta dopo la scelta del titolo italiano (quello originale è "The arrivals")

Titolo: Mirtilli a colazione
Autore: Meg Mitchell Moore
Traduttore: Enrica Budetta
Pagine: 312
Anno di pubblicazione: 2012
Editore: Garzanti
ISBN: 978-8811681779
Prezzo di copertina: 16,40 €
Acquista su Amazon:
formato brossura: Mirtilli a colazione

giovedì 11 aprile 2013

CHE NE E' STATO DI TE, BUZZ ALDRIN? - Johan Harstad

In un mondo in cui tutti vorrebbero stare sotto ai riflettori per almeno un quarto d'ora di celebrità, Mattias ha scelto di vivere nell'ombra e apparire il meno possibile: non tutti vogliono essere il numero uno, come Buzz Aldrin, il secondo uomo sulla Luna, che ha svolto la sua missione, ha messo piede sul satellite dopo Neil Armstrong ed è scomparso nella folla: chi si ricorda di lui? Nessuno tranne Mattias: per lui l'astronauta è un idolo, simbolo di tutti coloro che fanno la loro parte senza reclamare attenzione, piccole, indispensabili ruote del grande ingranaggio. E Mattias non chiede altro che coltivare il proprio giardino - letteralmente, dato che lavora in un vivaio avere una vita normale insieme a Helle, la ragazza che ama dal liceo: allora, e solo per farsi vedere da lei, Mattias è salito una volta sul palco e ha cantato con la voce straordinaria che aveva sempre nascosto a tutti. Ha sempre rifiutato gli inviti dell'amico Jørn, che lo voleva a tutti i costi come cantante nella sua band: il ruolo di frontman non fa certo per lui. È l'estate del 1999, l'anno prima che inizi il futuro, il tempo è passato e l'esistenza felicemente anonima di Mattias sembra sempre più un riparo dagli altri e dalla vita. Fino a quando Helle lo lascia, il vivaio chiude, e Mattias si ritrova solo, a fluttuare fuori dalla propria orbita. Jørn sta partendo con la band per un concerto alle isole Faroe, lo vuole con sé almeno come fonico: forse perché non gli resta altro, Mattias accetta, s'imbarca, pronti al decollo...

Prima di iniziare a leggere questa recensione, andate su youtube e fate partire "My Favourite Game" di The Cardigans.  Io la sto ascoltando in loop, mentre sto scrivendo. Vi serve per iniziare ad assaporare tutto quello che questo libro vi susciterà quando (non è un "se", è proprio un quando) lo leggerete.
Magari vi ci vorrà un po' di tempo, come ce ne è voluto a me. Vi avvicinerete al libro e poi vi allontanerete di nuovo, tre o quattro volte magari,  perché non sarà ancora il momento giusto. Ma poi arriverà. 

E sono sicura che, come me, ne sarete travolti. 

Perché questo libro ti entra dentro. Inizia a scavare fin dalla prima pagina, da quell'incipit meraviglioso che dà il via a tutta la storia. E poi continua a scavare, quando conosciamo Mattias, il protagonista, nato proprio nello stesso momento in cui Neil Armstrong ha appoggiato il primo piede sulla Luna, ma che si sente più come Buzz Aldrin, il secondo, quello di cui nessuno si ricorda. Quello che è parte dell'ingranaggio, senza essere direttamente esposto. Perché vuole essere anonimo, non sogna di diventare per forza qualcuno, non vuole cantare in pubblico solo perché ha una bella voce, non vuole che tutti lo conoscano e lo salutino.Vuole essere anonimo. Deve essere anonimo, per non crollare. 
Il libro continua a scavare quando a poco a poco Mattias va in pezzi, viene lasciato dalla fidanzata storica, troppo stanca di questo suo non voler essere sempre in secondo piano, e si ritrova non si sa come su una panchina delle isole Faroe, con un sacco di soldi in tasca e le mani insanguinate. Scava quando viene raccolto da Havstein, uno psichiatra, che lo porta in una sorta di casa famiglia per persone che hanno avuto problemi psichiatrici, dove finalmente, a poco a poco, isolato dal mondo, inizierà a sentirsi a casa.
E scava, scava, scava mano a mano che si va avanti con la lettura, con Mattias che prende consapevolezza di sé e del suo passato, ma anche di quello di chi gli sta attorno, personaggi altrettanto turbati, tristi, depressi, oscuri, che solo così, in mezzo al nulla, riescono a stare bene.

E poi si arriva alla fine e si capisce che questo buco dentro non viene fatto solo per fare male ma ha un fine ben preciso. Quello di inserire qualcosa dentro di noi. Un po' di speranza. Un po' di amore. Perché per quanto si voglia essere insignificanti, nascosti, isolati e lontani da tutto e da tutti, ci sarà sempre qualcuno per cui saremo importanti. Per cui varremo più di altri. Perché l'ingranaggio vicino a noi, senza di noi non può funzionare, girerebbe a vuoto.

Sono stravolta da questa lettura. Sono stravolta da Mattias, un personaggio che credo mi mancherà tantissimo, perché sotto sotto (ma poi nemmeno così tanto) un po' mi sento come lui. O comunque sono riuscita molto spesso a identificarmi con i suoi pensieri, con le sue paure e le sue angosce.
Non è un inno alla mediocrità. Non è un inno all'accontentarsi. Ma è un inno ad essere sé stessi, senza paura.  Un inno a non vergognarsi. Un inno a vivere sempre la propria vita. Scappando, quando serve. Ma anche avendo il coraggio di rimanere. E soprattutto ricordando sempre che c'è e ci sarà sempre qualcuno che ha bisogno di noi e che ci ama così, per quello che siamo.

Mi ha colpito molto lo stile di Johan Harstad, il modo in cui utilizza le parole e riesce a rendere poetico anche un banale viaggio in autobus o dei dischi ascoltati in continuazione. Così come mi è piaciuto il suo non fare sconti, mai, ma nemmeno mai giudicare nessuno.

Non lo so, ho paura che le mie parole non siano riuscite a descrivere al meglio tutto quello che questo romanzo mi ha provocato e lasciato. E potrei continuare a parlarne, per ore e ore, senza mai essere soddisfatta del risultato.
Quindi mi fermo qui, e lascio che siate voi adesso a fare la vostra parte. Leggetelo e fatevi travolgere.

Non tutti vogliono dirigere un'azienda. Non tutti vogliono essere i più grandi campioni del paese o far parte di svariati consigli d'amministrazione, non tutti vogliono essere i migliori avvocati, non tutti vogliono aprire gli occhi ogni mattina sul trionfo o la rovina dei titoli di giornale.
Qualcuno vuole essere la segretaria che resta fuori quando si chiudono le porte della riunione, qualcuno vuole guidare la macchina del capo anche il giorno di Pasqua, qualcuno vuole eseguire l'autopsia del quindicenne che si è suicidato una mattina di gennaio e l'hanno trovato in acqua una settimana dopo. Qualcuno non vuole andare in TV, alla radio, sui giornali. Qualcuno vuole vedere il film, non esserlo.
Qualcuno vuole fare il pubblico.
Qualcuno vuol essere una ruota dell'ingranaggio.
Non perché è costretto, ma perché lo vuole.
Una pura questione matematica.
Così io me ne stavo seduto. Qui. Qui in giardino, e non avrei voluto essere in nessun altro posto al mondo.
Nota alla traduzione: ci sono parecchie note, ma sono indispensabili visto l'uso di termini ed espressioni tipici norvegesi o delle isole Faroer. Qua e là ci sono poi frasi in inglese, così anche nell'originale, e però potrebbero forse creare qualche difficoltà a chi non conosce la lingua. Nel complesso direi ben fatta comunque.

Titolo: Che ne è stato di te, Buzz Aldrin?
Autore: Johan Harstad
Traduttore: Maria Valeria D'Avino
Pagine: 520
Anno di pubblicazione: 2008
Editore: Iperborea
ISBN: 978-8870911640
Prezzo di copertina: 16,50 €
Acquista su Amazon:

Parlando un po' a caso di Roberto Saviano

L'altra notte ho sognato Roberto Saviano. Ogni tanto mi succede di fare sogni un po' strani, anche senza aver mangiato nulla di pesante la sera prima (un po' come quando ho sognato che grazie a una domanda posta qui sul blog finivo a Che tempo che fa). Ho sognato che stavamo insieme e che passavamo il tempo lui a raccontare e io, semplicemente, ad ascoltare le sue parole (e già questo, se mai avessi avuto dei dubbi, mi avrebbe confermato ancora di più che si trattava di un sogno... perché io non sto mai zitta). Pendevo dalle sue labbra, come mi capita veramente ogni volta che lo sento parlare in tv. 
Poi mi sono svegliata e mi sono resa conto che probabilmente il mio sogno era in qualche modo legato all'uscita del suo nuovo libro (romanzo, saggio, boh?), Zerozerozero, edito questa volta da Feltrinelli, che aspettavo con ansia già da un po' e di cui sapevo sarebbero ben presto arrivati i primi commenti, più o meno positivi, più o meno critici, più o meno onesti.
Un libro accompagnato da una fortissima operazione di marketing che già per principio mi irrita un po'. Ho trovato addirittura un articolo, su Affari Italiani, che diceva che Feltrinelli puntava tutto su questo libro per uscire dalla crisi. Bella responsabilità che viene messa ogni volta sulle spalle di quest'uomo.
Ieri sera, poi, prima di andare a dormire, ho letto una critica abbastanza negativa su minimaetmoralia. Un articolo magistralmente scritto da Christian Raimo, che però mi ha lasciato un po' di amaro in bocca. Non taccio assolutamente l'autore di invidia (come puoi invidiare una vita così? Sotto scorta da anni e anni? Con magari tanti soldi ma poca possibilità di spenderli?), anche perché ogni critica è ben argomentata e, condivisibile o meno, ineccepibile, ma comunque mi ha dato di che pensare.

E quindi eccomi qua, a scrivere questo post che in realtà avevo in testa già da un po', in modo un po' più generico forse, per cercare di capire quali siano i motivi per cui certi autori sono amati tantissimo da qualcuno e odiati senza ritegno da altri ("odiati" è ovviamente una parola forte, ma ci sta bene).

Roberto Saviano credo sia forse uno degli esempi più lampanti di questa strana dicotomia. Ha un sacco di estimatori, dal mondo della cultura, della politica, dell'informazione e del pubblico, ma anche un sacco di detrattori che provengono esattamente dagli stessi ambienti.
Io mi colloco nel primo gruppo. Ho letto Gomorra qualche anno fa, dopo aver aspettato che passasse la "moda" (faccio quasi sempre così, per non lasciarmi influenzare, nel bene o nel male dal fatto che lo stiano leggendo tutti) e mi sono trovata catapultata in un mondo che non conoscevo e che mi ha sconvolta. Ancor più se penso che quando Saviano lo ha scritto aveva solo ventisette anni. Dopo, mi sono procurata la raccolta "La bellezza e l'inferno" e da lì ho iniziato davvero ad amarlo. Amo il suo modo di scrivere e il suo modo di raccontare. E da lettrice e non da critica di professione, il fatto che non rientri in nessun genere questo suo stile non mi turba più di tanto. Leggo, rifletto, mi commuovo o mi arrabbio, un testo mi rimane dentro, un altro se ne va. Che sia un saggio, un romanzo, una poesia, un articolo, un'etichetta del detersivo, mi cambia poco.
Poi è arrivato "Vieni via con me", quel fantastico programma su RaiTre con Fabio Fazio che mi ha tenuta incollata davanti alla tv come non succedeva da parecchio tempo. Ho amato il modo di parlare e di esporre i fatti di Roberto Saviano, quella timidezza che non penso fosse assolutamente costruita, che poi spariva miracolosamente mentre iniziava a parlare. Uno stile di esporre un po' lento il suo, fatto di pause, di silenzi che a volte valgono più delle parole, di gesti. Accuse chiare, dirette. Pugni nello stomaco su argomenti che troppo spesso vengono taciuti o dimenticati. E poi beh, c'era il duetto finale con Fazio, quel "vado via... resto" che mi ha perseguitato per mesi.
Ho amato un po' meno il secondo programma "Quello che non ho", ma forse perché gli autori stessi si sono tenuti un po' di più, a seguito delle innumerevoli polemiche a strascico del primo programma, ma anche perché fin troppo consapevoli dell'impossibilità di replicare quello che erano riusciti a fare.

Nel mezzo, poi, sono andata a vedere lo spettacolo di Checco Zalone (altro personaggio che amo da impazzire), durante il quale ha fatto un'imitazione di Roberto Saviano fenomenale, da lacrime agli occhi dal ridere. Seguo poi Saviano su Facebook e su Twitter, mi sono mangiata le mani per averlo perso per un soffio al Salone del Libro di Torino l'anno scorso, mi sono emozionata quando il suo staff ha risposto a una mia mail in cui gli inviavo la mia recensione di SuperSantos e avrei voluto abbracciare Diego De Silva quando lo ha nominato durante la presentazione di "Mancarsi" a Torino.

E ora c'è questo Zerozerozero, che non vedo l'ora di leggere ma che ancora una volta aspetterò, vuoi per il prezzo troppo alto, vuoi perché ora lo leggeranno davvero tutti.

Rileggendo quello che ho scritto finora emerge forse chiaramente qual è il "problema", se così si può chiamare, di questo autore, ciò che lo ha reso antipatico a molti (molti che magari nemmeno hanno letto i suoi libri). E' diventato un personaggio, troppo sovraesposto a volte. E si è esposto, più o meno ingenuamente, più o meno consapevolmente, alla stessa macchina del fango da lui stessa portata alla luce e condannata. Perché se da un lato c'è chi parla male o prova antipatia per Saviano con cognizione di causa (a me il suo modo di scrivere e di parlare piace, ma posso capire che ad altri non piaccia, e ci mancherebbe altro), c'è chi invece critica senza mai aver aperto un suo libro, perché giudicare e insultare è sempre stato più facile che fermarsi a riflettere.
"Sfrutta la sua situazione". "Fa la vittima". "Era meglio se non avesse detto niente della Camorra, che figura ci fa fare nel mondo". "Dice cose che già si sapevano". "Usano i nostri soldi per pagargli la scorta" (io personalmente ma se sulla mia busta paga ci fosse scritto "detrazione per pagamento scorta a Roberto Saviano" anzichè "addizionale Irpef" sarei più contenta). "Se non ci fosse Repubblica a sostenerlo non sarebbe nessuno". "Pubblica con Mondadori e poi li critica" (e questa ha fatto vacillare anche me, lo ammetto)... e potrei andare avanti e avanti e avanti.

Io capisco che ci siano delle persone che a pelle possono stare antipatiche, persone che conosciamo e persone che non conosciamo. Io stessa ad esempio mi avvicino a certi autori con estrema cautela e con estremo sforzo perché non li amo molto come persone (precludendomi magari grandi libri e grandi opere). Però con Saviano ho l'impressione, del tutto personale, che si sia fatto un passo oltre al semplice "non lo leggo perché mi sta antipatico" (motivazione, ripeto, più che legittima) o "trovo il suo stile noioso" (altrettanto legittima).Un passo oltre che va a offendere la sua persona, il suo percorso e il suo cammino.
Che lo abbia fatto nel modo giusto o nel modo sbagliato, secondo me è impossibile negare che con il suo Gomorra abbia smosso qualcosa. E, pur non potendo entrare troppo nel merito essendo totalmente ignorante in materia, non si può dire che quello che ha scritto non sia vero. Una critica, questa, non gli ha mai effettivamente mosso nessuno.E forse è anche per questo che fa così paura , perché quello che dice è vero,  e si preferisce criticare, giudicare, condannare, fare finta di niente per non dover fare troppo i conti con se stessi.

O forse sono semplicemente una  di quelle fan un po' invasate, che si arrabbiano quando viene criticata una persona che stimano e amano e che si sente in dovere di difenderla, senza che ne abbia assolutamente alcun bisogno.

mercoledì 10 aprile 2013

Due titoli, un solo libro: ma perché? #29

Per la rubrica di questa settimana sul confronto tra titolo originale e titolo tradotto ho scelto, a differenza della settimana scorsa, un romanzo che mi è piaciuto molto. Un libro che mi ha prestato una mia amica, senza la quale probabilmente non lo avrei mai nemmeno scoperto... e sarebbe stato proprio un peccato.

Devo ammettere che, quando me ne ha parlato, la prima cosa ad avermi colpita era stata proprio il titolo (oltre alla casa editrice, la 66thand2nd  che, con somma vergogna, fino ad allora non avevo mai sentito nominare e che pubblica opere sicuramente ben tradotte e ben curate). Titolo che, però, non ha assolutamente nulla a che vedere con l'originale.

Sto parlando del romanzo di Sherwood Kiraly dal titolo DIMINISHED CAPACITY ovvero PESCI POETI E CARI RICORDI:


Il romanzo, uscito in lingua originale nel 2008 e in Italia con la traduzione di Ilaria Tarasconi nel 2011, è ambientato nel Missouri e ha come protagonista il vecchio Rollie Zerbs, famoso in paese per la sua stravaganza, che rischia di finire in un istituto perché considerato incapace di badare a se stesso. L'uomo chiama in soccorso il nipote Cooper che lavora in un’agenzia editoriale di Chicago dove però non se la passa bene da quando, in seguito a un trauma cranico, è affetto da vuoti di memoria. I due partiranno insieme, in un viaggio picaresco, per cercare di vendere una vecchia figurina di baseball di Zerb che può valere una fortuna e risolvere quindi tutti i loro problemi (potete leggere la mia recensione qui).

La differenza tra titolo originale e titolo tradotto è palese e parecchio drastica. La traduzione letterale sarebbe "Capacità ridotta", "Capacità diminuita", abbastanza efficace per indicare la caratteristica principale dei due protagonisti, smemorati e parecchio distratti. Eppure anche il titolo italiano ha un suo perché. "Pesci poeti" fa riferimento a una delle stravaganze dell'anziano protagonista: l'uomo infatti ha posizionato una vecchia macchina da scrivere sul pontile davanti a casa, collegando poi i tasti a delle lenze immerse nell'acqua, sperando che i pesci, passando, scrivano per lui delle poesie. Un'idea che ho trovato molto poetica ma che, effettivamente, non svolge un ruolo così fondamentale nel romanzo al punto da diventarne il titolo. I "cari ricordi" fa di nuovo riferimento invece alla smemoratezza dei due protagonisti ma anche forse ai ricordi del passato, compresa la figurina stessa, che i due non sempre riescono a ricordare.

Non saprei davvero dire se la scelta della casa editrice sia così sbagliata. Certo, il titolo originale tradotto letteralmente forse non avrebbe funzionato molto, così come forse però non era nemmeno necessario discostarsi così tanto da esso per trovare un titolo altrettanto evocativo.

Che dite?

lunedì 8 aprile 2013

MOMENTI DI TRASCURABILE FELICITA'- Francesco Piccolo

Possono esistere felicità trascurabili? Come chiamare quei piaceri intensi e volatili che punteggiano le nostre giornate, accendendone i minuti come fiammiferi nel buio? Sei in coda al supermercato in attesa del tuo turno, magari sei bloccato nel traffico, oppure aspetti che la tua ragazza esca dal camerino di un negozio d'abbigliamento. Quando all'improvviso la realtà intorno a te sembra convergere in un solo punto, e lo fa brillare. E allora capisci di averne appena incontrato uno. I momenti di trascurabile felicità funzionano così: possono annidarsi ovunque, pronti a pioverti in testa e farti aprire gli occhi su qualcosa che fino a un attimo prima non avevi considerato. Per farti scoprire, ad esempio, quant'è preziosa quella manciata di giorni d'agosto in cui tutti vanno in vacanza e tu rimani da solo in città. Quale interesse morboso ti spinge a chiuderti a chiave nei bagni delle case in cui non sei mai stato e curiosare su tutti i prodotti che usano. Pagina dopo pagina, momento dopo momento, si finisce col venire travolti da un'ondata di divertimento, intelligenza e stupore. L'autore raccoglie, cataloga e fa sue le mille epifanie che sbocciano a ogni angolo di strada. Perché solo riducendo a spicchi la realtà si riesce ad afferrare per la coda il senso profondo della vita.

Avete presente Charles M. Schulz quando, attraverso i vari personaggi dei Peanuts, da' le sue definizioni di felicità? "Felicità è un cucciolo caldo", "felicità è stare a letto mentre fuori piove", "felicità è passeggiare sull'erba a piedi nudi", "felicità è il singhiozzo dopo che è passato"... attimi, momenti, rapidi, veloci, banali, che racchiudono molto di più di quello che a prima vista potrebbe sembrare. E' una cosa in cui credo molto, quella della felicità che si trova soprattutto nelle piccole cose.
E credo che sia più o meno la stessa cosa che vuole trasmettere Francesco Piccolo in questo libricino. Prende dei momenti di felicità, di cui a volte magari nemmeno ci accorgiamo ma che dovremmo invece ricordarci più spesso, e li trasforma in parole. Sono istanti, sono gesti, sono pensieri, sono situazioni spesso insignificanti ma capaci di cambiare per un momento la giornata e renderla felice.

Un libro piccolo piccolo, che racchiude qualcosa di davvero grande. A frasi concise e dirette (ma proprio per questo molto efficaci perché facilmente riconoscibili) si alternano racconti di qualche pagina che mostrano cosa ha reso o può rendere felice l'autore: alcune sono sicuramente banalità, alcune potrebbero quasi sembrare cattiverie, altre sono molto profonde anche nella loro semplicità. Alcune mi hanno fatta sorridere, altre un po' commuovere. E in molte mi sono riconosciuta, per quanto siano sicuramente riflessioni molto personali.
Non conoscevo questo autore prima di questo libro e si tratta sicuramente di una piacevolissima scoperta. La lettura stessa è coincisa con uno di quei momenti di trascurabile felicità che lui descrive: leggevo e sorridevo, leggevo e mi scrivevo le parti per me più significative, leggevo e mostravo a chi era seduto accanto me i pezzi che mi piacevano di più. E una volta arrivata alla fine, mi sono sentita più felice.

Più che un libro che tutti dovrebbero leggere (cosa che comunque secondo me è), si tratta di un libro che tutti dovrebbero scrivere, o anche solo pensare di farlo. Perché a volte basta davvero poco per essere felici, basta anche solo pensare a quei nostri momenti di trascurabile felicità per diventarlo, di colpo, davvero.
E quindi ci ho pensato, e in poco meno di dieci minuti mi sono venuti in mente quelli che sono per me i momenti di trascurabile felicità (anche se sono sicura che ce ne siano moltissimi altri):

il primo bagno in mare dopo l'inverno ma anche la prima giornata che profuma di neve dopo l'estate. Un pacchetto di caramelle gommose. Uscire dal cinema dopo aver visto un bel film. La pioggia con il sole e le persone che, insieme a te, si fermano a guardare un arcobaleno. Qualcuno che ti abbraccia nel sonno. Gli gnocchi per cena. L'uscita di un libro che aspettavi da tempo e le promozioni del 25% su tutto il catalogo. Le scale, una volta che sei arrivato in cima. Capirsi senza dover parlare, ma anche aver sempre qualcosa da dirsi, anche se si è sempre insieme. Il primo bacio alla persona che ti piace... ma anche il secondo, il terzo e il quarto. Non trovare coda nel bagno delle donne. Togliersi le scarpe la sera, dopo aver camminato tutto il giorno. Una doccia calda dopo una giornata fredda. Il profumo del soffritto con l'aglio che si espande per tutta la cucina. La brioche alla crema al mattino. Scambiare un sorriso con uno sconosciuto. Camminare mano nella mano. La sera prima della partenza per un viaggio e l'aereo quando atterra. Un giro in Vespa. Cantare a squarciagola in auto. Un cane che ti accoglie scodinzolando e saltandoti in braccio. La prima margherita nel prato di casa. Una mail inaspettata. Un amico vicino anche quando è lontano. Le lucciole nelle sere d'estate. I fuochi d'artificio...

E i vostri quali sono?

Titolo: Momenti di trascurabile felicità
Autore: Francesco Piccolo
Pagine: 126
Anno di pubblicazione: 2012
Editore: Einaudi
ISBN: 978-8806211394
Prezzo di copertina: 8,00 €
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