giovedì 31 ottobre 2013

L'UOMO DEI DADI - Luke Rhinehart

Follia. 
E' la prima parola che mi viene in mente se mi chiedete di parlarvi di questo libro. Perché la storia narrata in queste pagine è una storia folle, di un uomo, Lucius Rhinehart (che guarda caso è anche il nome dell'autore), affermato psichiatra, che decide di affidare tutte le decisioni della sua vita al lancio di un dado. Ad ogni numero associa un'alternativa, tira e lascia che sia il caso a decidere cosa fare. Se gli dice di stuprare, lui stupra. Se gli dice di comportarsi da idiota, lui si comporta da idiota. Se gli dice di lasciare moglie e figli, lui lascia la moglie e i figli. Un gioco che inizia per caso, appunto, e di cui a poco a poco, per il brivido che gli ha dato, non riesce più a fare a meno.
Follia è il mio numero 1

Psicanalisi.
E' la seconda parola, perché è una componente altrettanto importante del libro, è il vero motore dell'azione, sia perché il protagonista è appunto uno psicanalista sia perché è proprio contro le sue contraddizioni, i suoi luoghi comuni, i suoi sedicenti esperti, che questo romanzo si scaglia. Una critica sottile eppure, se si è masticato anche solo un po' superficialmente l'argomento (io ho studiato e odiato, lo devo ammettere, Freud al liceo), che si coglie in ogni parola, in ogni situazione.
Psicanalisi è il numero 2.

Volgarità.
Di quella volgarità eccessiva, esagerata, che sembra (e forse un pochino a volte lo è) fine a se stessa, ma che in realtà serve ancora una volta a mettere alla berlina e a esagerare buona parte delle teorie della psicanalisi. Sessualità e perversioni sono infatti due punti cardine di molte di queste teorie. E in questo libro il protagonista le sperimenta tutte, in base a cosa il dado gli dice di compiere. Stuprare e farsi stuprare. Fingere di essere una donna, andare a letto con la vicina di casa ma anche con la moglie, abbandonare tutti e conquistare una prostituta da sottomettere al suo potere.
Numero 3.

Comicità.
Nelle situazioni più grottesche come in quelle più banali a volte si ride fino alle lacrime. Di improvviso, senza quasi rendersene conto. Si ride quando il protagonista cerca di convertire i suoi amici e i suoi figli al dio dei Dadi. Si ride quando tutto gli sfugge di mano, quando altri decidono di seguire il suo credo e di affidarsi a quel piccolo cubo che rotola, e anche quando i suoi colleghi cercano di psicanalizzarlo e si scontrano con la sua logica insensata eppure motivata. 
Numero 4.

Difficile.
Altra parola che viene in mente. Un libro difficile da leggere, sicuramente. Ma anche vita difficile da vivere, con continue scelte da compiere che possono condizionare la vita. Difficile ribellarsi, difficile affidarsi al caso e lasciarsi trascinare. 
Numero 5.

Geniale.
E' forse la parola che raccoglie un po' tutte le precedenti. Nonostante una certa ripetitività, nonostante una volgarità a tratti forse un po' esagerata e quasi grottesca, questo romanzo è geniale. E' geniale l'idea di affidarsi a un dado, così come quella di scrivere e analizzare tutte le conseguenze di questa scelta. E' geniale il modo in cui è scritto, con capitoli alla prima persona che si alternano a pagine tratte dal fantomatico "Libro dei dadi", a lettere di adepti e interrogatori, interviste, verbali di cui Lucius è protagonista.
Numero 6.

E ora, tiro il dado e lascio che sia lui a decidere quale delle parole elencate sopra descriva al meglio questo libro e quindi vi possa aiutare a decidere se leggerlo o meno.
E se qualcuno ha qualcosa da ridire sul giudizio che ne verrà fuori, beh, è stato il dado a decidere.


Titolo: L'uomo dei dadi
Autore: Luke Rhinehart
Traduttore: M. Valente
Pagine: 542
Anno di pubblicazione: 2011
Editore: Marcos y Marcos
ISBN: 978-8871685694
Prezzo di copertina: 15 €
Acquista su Amazon:
formato brossura: L'uomo dei dadi

mercoledì 30 ottobre 2013

Due titoli, un solo libro: ma perché? #55

Per la puntata di oggi avevo preparato un post diverso. Lo avevo scritto quasi di getto, la settimana scorsa, dopo una discussione non proprio piacevole avuta con una casa editrice su twitter che si era risentita per l'inserimento di un suo libro tra le "tiffanate". Sono stata indecisa fino all'ultimo se pubblicarlo o meno, perché se da un lato la delusione per quella discussione e per il tono in cui mi è stato risposto è stata tanta e quindi ha generato una piccola voglia di "vendicarsi" in qualche modo, dall'altro non volevo alimentare polemiche alla fin fine abbastanza inutili. Alla fine, ho preferito lasciar stare.

Ci tengo però a specificare una cosa. Questa rubrica non è nata con intento polemico, tant'è che all'inizio prima di pubblicare ogni post contattavo la casa editrice interessata per chiedere spiegazioni sul cambio di titolo. Delle sei o sette volte che ho provato, ho ottenuto risposta (gentilissima tra l'altro!) solo una volta e ho quindi deciso di lasciar perdere: alla fine il mio è un blog pubblico e chiunque può arrivarci abbastanza facilmente e commentare.
L'intento della rubrica è quello di porre in evidenza i cambiamenti di titolo, cercare di provare a fornire una giustificazione plausibile (che non sempre è possibile) sul perché si verificano o esprimere la mia personalissima opinione su un cambio che non trovo adeguato. Certo, in alcuni casi sono stata più ironica e diretta che in altri, ma credo senza mai aver offeso nessuno. Vorrei che questo fosse chiaro, anche perché le mie obiezioni si sono sempre limitate ai titoli e ho parlato anche di case editrici che stimo e di cui vorrei comunque leggere tutto il catalogo.

Per la puntata di oggi mi avvalgo del suggerimento di una fan (che ringrazio tantissimo!), che dimostra ancora una volta come i cambiamenti nel passaggio tra titolo originale (ovvero quello con cui il libro è uscito la prima volta nella lingua in cui è stato scritto, giusto per specificare) e titolo in traduzione possono essere davvero drastici.

Sto parlando del nuovo romanzo di Rachel Joyce, PERFECT:


Uscito a luglio del 2013, il romanzo ha come protagonista Byron Hemmings, un bambino di undici anni dalla vita felice e perfetta, che rimane colpito e sconvolto dalla notizia che quell'anno verranno aggiunti due secondi al tempo, per allineare gli orologi al movimento naturale della Terra. Il bambino si chiede come sia possibile aggiungere due secondi senza sconvolgere la vita di nessuno.

Il romanzo è stato tradotto in italiano sempre quest'anno da A. Arduini per la casa editrice Sperling & Kupfer, con il titolo IL BIZZARRO INCIDENTE DEL TEMPO RUBATO


Un titolo, come si può vedere, completamente diverso, molto più lungo rispetto all'originale (che letteralmente si potrebbe tradurre con "Perfetto"). Leggendo la trama, questo fa verosimilmente riferimento a uno strano incidente che capita a Byron mentre è in auto con la madre: il suo orologio torna indietro di due secondi e davanti a loro appare una bambina in bicicletta, di cui si accorge però solo lui (non sto facendo spoiler eh, è tutto scritto nella quarta di copertina).
Di per sé quindi anche il titolo dell'edizione italiana sembra avere un senso con il contenuto del libro (senso amplificato anche dalla scelta di mantenere la stessa copertina aggiungendoci però una bambina in bicicletta). A questo però si aggiunge secondo me anche un'altra cosa, ovvero la volontà di creare un rimando, un richiamo con il primo libro di Rache Joyce, L'imprevedibile viaggio di Harold Fry (un romanzo che mi è piaciuto molto e che vi consiglio caldamente!). Stesso numero di parole, stessa struttura della frase, stesso utilizzo di un aggettivo che richiama l'attenzione. Unica differenza, in originale si intitola The unlikely pilgrimage of Harold Fry"(tradotto quindi in modo abbastanza fedele).

Che ve ne pare?

lunedì 28 ottobre 2013

Interviste rampanti: STEFANIA BERTOLA

Protagonista dell'intervista rampante di questa settimana è Stefania Bertola. 
Scrittrice, traduttrice, sceneggiatrice e autrice radiofonica torinese, Stefania Bertola è l'unica autrice di romanzi rosa che riesco a leggere, perché sono originali, perché sono buffi, divertenti e un po' surreali, perché sono ambientati a Torino e, soprattutto, perché racconta di donne vere, con cui sono sempre riuscita a identificarmi.
L'ho scoperta per caso, qualche anno fa, con Biscotti e sospetti (che rimane il mio preferito in assoluto), e da allora ho letto tutto quello che ha pubblicato, a parte Luna di luxor, il primo romanzo. Oltre a questi, ha pubblicato Se mi lasci fa male, una specie di manuale di auto-aiuto per donne appena uscite da una storia, Ne parliamo a cena, Aspirapolvere di stelle, A neve ferma, La soavissima discordia dell'amore, la raccolta di racconti Il primo miracolo di George Harrison e Romanzo rosa, una sorta di manuale di scrittura i cui protagonisti frequentano un corso per imparare a scrivere Harmony.
Il 5 novembre arriva in libreria Ragazze mancine, pubblicato dall'Einaudi.
Ovviamente, la ringrazio tantissimo per aver accettato l'intervista.


Da bambina dicevi “da grande farò la scrittrice”?
No, dicevo “Da grande farò il pediatra”. Poi: “Da grande farò l’addetto culturale di un’ambasciata”. Poi: “Farò la moglie di George Harrison”. La scrittrice è venuto un po’ da sé, non l’ho mai progettato.

Tutti i tuoi romanzi sono ambientati a Torino, tanto che sembra essere anch'essa un protagonista. Ed è poi uno dei motivi, oltre ai personaggi femminili, che me li ha fatti apprezzare così tanto, in quanto frequentatrice assidua della città. Riusciresti ad ambientare un tuo romanzo in un’altra città?
Ne dubito. Sono l’esatto contrario dei romanzieri che fanno ricerche anche di anni prima di scrivere un libro. Io scrivo solo di quello che so già, e Torino la so benissimo. Posso spostarmi al massimo a Finale Ligure, e può darsi che lo farò, perché ho voglia di scrivere una storia ambientata al mare.

Come sei stata scoperta (o come sei riuscita a farti scoprire) dalle case editrici che ti hanno pubblicato?
Ho avuto un andamento insolito. Per il mio primo romanzo Luna di Luxor  ho usufruito di una corsia super preferenziale, perché avendo lavorato per sei anni all’Einaudi, conoscevo molte persone nell'ambito editoriale. In particolare, conoscevo il mio ex principale, Ernesto Ferrero. Ho fatto leggere il libro a lui, gli è piaciuto, lo ha dato lui a Mario Spagnol della Longanesi et voilà, fatto. Poi però ho scritto un altro libro che mi è stato rifiutato da tipo 30 case editrici. Si chiamava Ragazze Mancine, proprio come quello che sta per uscire adesso, ma in comune hanno solo un personaggio. Anzi, due personaggi.

Qual è il tuo rapporto con i critici professionisti e con i book blog?
Scarso. Conosco pochissimi critici e non li frequento. I blog mi piacciono in teoria ma non ho tempo di leggerli. 

Qual è la cosa più bella che è stata detta riguardo a un tuo romanzo? E la più brutta?
Quella che mi piace di più, e che per fortuna mi è stata detta più di una volta è questo genere di frase: “Stavo molto male, per questo o quel motivo, e non dormivo la notte, o mi sbattevo come una biscia, ero nera  ecc. ecc. E IL TUO LIBRO mi ha consolata, rallegrata, messa in pace, aiutata a passare le ore..” Queste cose qui. La più brutta non so, non mi hanno mai detto qualcosa di orribile, forse l’avranno fatto alle spalle, meno male, così non ho sentito.

Hai qualche mania come scrittrice?  Che so, riesci a scrivere solo in un posto preciso o a una particolare ora del giorno o della notte?
Ma figurati, scrivo come e quando riesco, a qualsiasi ora, infilandomi fra i vari lavori e incombenze assortite. Quando scrivevo prima a mano e poi passavo sul Mac, usavo solo le stilo,mi fa tristezza scrivere con la biro. Avevo la passione delle Pilot nere. Adesso scrivo direttamente sul Mac. Ecco, non riesco a scrivere sui Pc.

Io ho un’ossessione per le copertine dei libri, che condizionano molto la mia decisione di leggere o meno un’opera. Hai avuto voce in capitolo nella scelta di quella dei tuoi libri?
La copertina che avrebbe voluto Stefania Bertola,
dalla sua pagina Facebook
Voce si, ma non l’ultima parola. Diciamo che ho potere di veto, ma non di scelta. Ad esempio, per questo ultimo libro, Ragazze mancine, avrei voluto la copertina con Bette Davis che ho messo su Facebook, ma all’Einaudi non erano d’accordo, e me ne hanno proposte altre che ho rifiutato. Poi ne ho accettata una che, senza convincermi fino in fondo, mi sembrava comunque abbastanza visibile. Però tra tutti i miei libri, le uniche copertine che veramente rispecchiano il mio essere copertina sono quella di Pierre e Gilles per Biscotti e Sospetti e quella di Botto e Bruno per Il primo miracolo di George Harrison. Forse sono portata alle coppie di artisti. 

Cosa consiglieresti a un aspirante scrittore ?
Un mio grande desiderio è non consigliare niente agli aspiranti scrittori. Ma proprio dovendo, ora come ora mi pare che il sistema migliore per verificare se quello che scrivi interessi a qualcuno siano tutte le varie forme di auto pubblicazione on line. Gli o le direi: “Scrivi, scrivi, non mandare da leggere a me per favore, scrivi, scrivi, pubblica online e vedi che succede. E fai concorsi, tutti i concorsini e concorsetti che trovi, è matematico che se vali qualcosa prima o poi qualcuno se ne accorge.”

Cosa pensi dell’editoria a pagamento? E dell’autopubblicazione?
Editoria a pagamento, niet. Autopubblicazione, ho già risposto.

Ebook o cartacei?
Uso diverso. Carta per i libri a cui teniamo, per un qualunque motivo. Ebook per le cavolate da leggere e dimenticare, per i libri da portare in viaggio, per le opere di consultazione. Io frequento sia gli uni che gli altri, ma non terrei mai un libro a cui voglio bene nel limbo elettronico del mio Kindle. Lo voglio hic et nunc, solido, con un perimetro, uno spessore, un peso in etti o chili.

Qual è il libro, non tuo, a cui sei più legata?
Uno? E come faccio? Tutto Dickens? I racconti di Hoffman? Emma di Jane Austen? Però, se mi chiedo qual è il libro che mi ha spalancato a viva forza il mondo delle vite parallele, ovvero il piacere della lettura, credo sia stato I Tre Moschettieri.

Un autore/autrice italiana che stimi tantissimo? Consigliaci un suo libro.
Valeria Parrella, Mosca + Balena, dei racconti veramente sensazionali. E poi vi consiglio di tenere d’occhio un giovane autore in uscita tra poco per Sperling & Kupfer: Simone Laudiero. Il suo primo libro mi aveva fatto moltissimo ridere. 

Hai letto le Cinquanta Sfumature?
Ma no!

Qual è Il tuo colore preferito?
Cinquanta sfumature di blu

venerdì 25 ottobre 2013

IL BORDO VERTIGINOSO DELLE COSE - Gianrico Carofiglio

Credo che ogni lettore abbia un autore di cui vorrebbe leggere anche la lista della spesa. Un autore di cui si ha letto praticamente tutto e di cui si aspetta con ansia l'uscita di ogni nuovo libro. Lo so, questa cosa l'avevo già detta per Marco Malvaldi (e forse anche per Jonathan Coe), eppure sento di doverla ripetete anche in questo caso. Perché per me  anche Gianrico Carofiglio è uno di questi autori. Mi piace il modo in cui scrive, mi piace come caratterizza i personaggi e come li fa riflettere su se stessi e sul mondo. 
Ovviamente questo mio amore nei suoi confronti genera delle aspettative molto alte e lascia un senso di iniziale smarrimento quando sembra che queste aspettative vengano disattese.

Con Il bordo vertiginoso delle cose la sensazione di smarrimento, non appena ho terminato il libro, è stata molto, molto forte. Non riuscivo a decidere se mi fosse piaciuto o meno, né tanto meno a capire da cosa dipendesse questa mia indecisione.

Il romanzo racconta la storia di Enrico, in un alternarsi tra passato ambientato nei banchi di scuola e narrato in prima persona, e presente, ambientato a Bari una trentina di anni dopo e narrato in seconda. Una scelta molto particolare quella di dare del tu al lettore, che ti trascina immediatamente dentro il libro e dentro il personaggio. Enrico da giovane era un liceale come tanti, un po' solitario, con una grande passione per la scrittura e per la musica. La sua vita cambia quando nella loro classe arriva Salvatore, un ragazzo più grande, già bocciato due volte, e soprattutto politicamente impegnato, che un giorno decide di insegnare a Enrico a difendersi contro gli attacchi dei bulli. 
E' lo stesso Salvatore che trent'anni dopo viene ucciso durante una rapina a mano armata e che riporta Enrico a Bari, in cerca di qualcosa, di un passato rimasto in sospeso che non gli permette di vivere il presente. E' uno scrittore di successo che non riesce più a scrivere, con una vita sentimentale disastrata e un senso di insoddisfazione che non riesce a placare. 

E' un romanzo che parla di adolescenza quindi, un'adolescenza vissuta negli anni '70, che segna inevitabilmente chi la vive, senza che riesca a superare quello che è stato. Enrico da adulto si ritrova un po' in sospeso, a guardare appunto le cose da un bordo vertiginoso su cui si tiene in equilibrio, tormentato dalla paura di cadere ma allo stesso tempo attratto dal vuoto. E' un scrittore di successo che ha scritto un solo libro (una figura che forse sta diventando un po' un cliché), è un uomo che è fuggito dalla sua vita e dal suo passato e che ora deve ritrovare se stesso.
Riflettendoci bene, il difetto maggiore di questo libro è che si arriva alla fine senza accorgersene. Può suonare un po' strano, perché di solito questo vuol dire che è scritto talmente bene ed è talmente coinvolgente che si divora senza difficoltà. Il fatto è che qui arrivi alla fine e pensi che non dovrebbe essere finito, che ci sono troppe cose lasciate in sospeso, concluse quasi di fretta, che ti fanno pensare a qualcosa di incompleto. Manca qualcosa. Manca nel passato di Enrico (possibile che si lasciasse davvero trascinare così tanto dagli eventi?), ma manca soprattutto nel presente. Si chiude il libro e non si può fare a meno di domandarsi: "E quindi che succede adesso?".

In ogni caso, Carofiglio la penna la sa usare eccome (ripeto, trovo la scelta della seconda persona singolare davvero azzeccata, se ne leggono pochi di libri con questa forma perché credo che non sia da tutti riuscire a gestirla in questo modo) e riesce sempre a creare immagini e situazioni all'apparenza normali e banali, che nascondono invece verità più profonde. Ed è forse per questo che mi piace così tanto il suo modo di scrivere e di portarti dentro le storie.
Se non conoscete l'autore e non avete mai letto nulla di suo, direi che è ora di rimediare. Con questo, volendo, ma  anche con tutti gli altri. Qualcosa Carofiglio ti lascia sempre.
E ora ovviamente aspetterò con ansia il prossimo.

Titolo: Il bordo vertiginoso delle cose
Autore: Gianrico Carofiglio
Pagine: 315
Anno di pubblicazione: 2013
Editore: Rizzoli
ISBN: 9788817068581
Prezzo di copertina: 18,50 €
Acquista su Amazon:

giovedì 24 ottobre 2013

4 anni rampanti!

C'era una volta un re...... diranno i miei piccoli lettori.Ma no, vi state sbagliando, c'era una volta... una ragazza con una passione incredibile per la lettura. Leggeva sempre e ovunque, un po' per passare il tempo,ma soprattutto perché non riusciva a farne a meno.E dopo aver letto ogni libro, sentiva il bisogno di esprimere la sua opinione e di condividerla con altri. Per farlo, ha creato questo blog. Un posto dove poter dire liberamente quello che si pensa di un libro (con commenti per niente imparziali), elogiandolo e criticandolo in qualità di lettori.Buona lettura!
Quattro anni fa oggi compariva questo breve testo sul blog. Il primo post. Mi ricordo di aver pensato per quasi due ore a cosa scrivere e che alla fine l'ho pubblicato così, per disperazione. 
Forse come inizio non è stato dei più brillanti, ma tant'è.
Quel 24 ottobre del 2009 non avevo idea di dove mi avrebbe portato questo blog né immaginavo che sarebbe durato così tanto (la costanza non è esattamente la mia qualità migliore). Eppure, a distanza di quattro anni è ancora qui, più vivo e attivo che mai, a riempirmi ogni giorno di soddisfazioni.



Grazie al blog ho dato sfogo alla mia voglia di scrivere che non riusciva a soddisfarsi in altro modo, alla mia voglia di parlare di libri con tutti senza dover assillare i poveri malcapitati che stanno al mio fianco a cui non sempre dei libri importa qualcosa. Grazie al blog ho conosciuto un sacco di persone, altri appassionati lettori come me, e ho iniziato a scambiare quattro chiacchiere anche con gli autori, oltre che a conoscere un po' di più il mondo della letteratura e dell'editoria. Grazie al blog ho iniziato a collaborare come articolista per un giornale, come editor per una piccola casa editrice e sono persino finita su Rai Letteratura.
Ne abbiamo passate tante insieme la Lettrice Rampante ed io.

E in mezzo a tutto questo, ovviamente, ci sono sempre loro, i libri. Miei compagni di viaggio e di avventura in ogni momento della vita. Non riuscirei a immaginarmi senza di loro, non riuscirei a immaginare di non leggere. I gusti sono cambiati con il tempo e con l'età, sono cresciuti forse, così come è cambiato e cresciuto il mio modo di approcciarmi a loro. Ma sono sempre con me.

Non sono tanto brava nei discorsi, quindi concludo semplicemente ringraziando tutti quelli che mi seguono o mi leggono sempre, sia sul blog sia sulla pagina Facebook, quelli che capitano qui per caso una volta e non ci ritornano più, le persone che commentano e quelle troppo timide per farlo, chi crede in me anche senza avermi mai vista in faccia e chi mi è accanto ogni giorno anche al di fuori di questo spazio e mi sprona a non mollare mai.
Insomma, grazie davvero a tutti!

mercoledì 23 ottobre 2013

Due titoli, un solo libro: ma perché?#54 Speciale: DA TIFFANY

La puntata di oggi sarà dedicata a Tiffany. "Traduzioni farlocche di titoli da Tiffany" la possiamo sottotitolare se vi va.


Prima di portarvi dentro al fantastico mondo sbarluccicoso della gioielleria newyorkese però devo ringraziare chi mi ha fatto venire l'idea di questo speciale: c'è un gruppo su facebook che tratta proprio l'argomento dei titoli e di come vengono cambiati e uniformati in traduzione. Si chiama La bambina che ne aveva abbastanza, e ci si trovano delle vere e proprie perle. Grazie!

Ma veniamo a noi!
Se aprite una qualunque libreria online e digitate nel campo di ricerca la parola Tiffany, verrete sommersi da un numero di titoli all'apparenza tutti uguali, che si diversificano solo per una parola. La struttura del titolo è "XXXX da Tiffany".

James Patterson, ad esempio, da Tiffany ci passa le domeniche:

Mellisa Hill ci compra un regalo:

Lauren Weisberg direttamente un anello (spero il Picasso Paloma, che è meraviglioso):

Karen Swan prima ci va a comprare un diamante, poi, dopo aver fatto shopping da Prada, ci ritorna per un appuntamento:

Marjorie Hart invece gli dedica una bella dichiarazione d'amore:

Susan Vreeland ci manda invece una ragazza:

Insomma, che ormai Tiffany fosse un po' inflazionato (nonostante i prezzi proibitivi) ce n'eravamo accorti un po' tutti. Titoli uguali e facilmente confondibili, copertine estremamente simili (care fanciulle in copertina, mi dispiace dirvelo, ma di Audrey Hepburn ce n'è una sola) e un povero Truman Capote costretto a rivoltarsi nella tomba (o a imprecare per quello che il suo Colazione da Tiffany ha creato).
 Quello che mi ha lasciato un po' più perplessa è il fatto che Tiffany compaia anche nelle opere pubblicate da case editrici insospettabili (che lo facesse la Newton Compton ce lo potevamo aspettare un po' tutti, ma la Neri Pozza?). 
Ovviamente sono poi andata a controllare i titoli originali, per capire se fosse l'ennesima moda italiana o se invece anche in originale ci fosse tutta questa affluenza nella celebre gioielleria. E ho trovato entrambe le cose.
James Patterson, ad esempio, trascorre le sue Sundays at Tiffany's anche in lingua originale:

Come così Melissa Hill  compra Something from Tyffany's:

Le prime differenze arrivano con Karen Swan. Se in italiano da Tiffany compra un diamante, in lingua originale preferisce trascorrerci il Natale (Christmas at Tiffany's):

Di fare shopping da Prada e poi incontrarsi da Tiffany, invece, proprio non ne vuol sapere. E infatti il titolo originale di Shopping da Prada e appuntamento da Tiffany è PLAYERS (che letteralmente si potrebbe tradurre con "giocatrici"):


Marjorie Hart che in italiano aveva urlato ai quattro venti il suo amore per la gioielleria, in lingua originale invece ci trascorre l'estate: SUMMER AT TIFFANY è infatti il titolo inglese:

Come vi dicevo all'inizio, il titolo che più mi ha sorpresa è stato quello del libro della Neri Pozza. Ho sperato con tutta me stessa che fosse l'originale, perché un cambiamento del genere colloca il libro in un filone ben preciso, ben lontano dai bei romanzi storici che la casa editrice milanese di solito pubblica (e che anche questo pare essere). E invece, il titolo originale di Una ragazza da Tiffany è CLARA AND MR. TIFFANY (letteralmente "Clara e Mr. Tiffany"):
*EDIT: ero talmente presa dallo sbarluccicoso mondo della gioielleria che non ho controllato: il Tiffany del libro di Susan Vreeland non è la gioielleria ma il creatore delle lampade. Certo è che se uno legge solo il titolo non ci arriva... ed è ancora più fuorviante! Grazie a chi me l'ha segnalato!

Quindi, in alcuni casi Tiffany compare anche nell'originale, in altri viene inserito per sfruttare la moda del momento, con risultati non del tutto piacevoli secondo me ("Shopping da Prada e appuntamento da Tiffany" è uno dei titoli più idioti che abbia mai sentito).

Di sicuro comunque, quelli di Tiffany & Co. risparmiano sul marketing.



Domeniche da Tiffany,James Patterson, Garbielle Charbonett, TEA, 2011, trad. di E. Frontori
Un regalo da Tiffany, Melissa Hill, Newton Compton, 2011, trad. di M. Faccia, R. Lanzi e R. Prencipe
Un anello da Tiffany, Lauren Weisberger, Piemme, 2010, trad. di V. Daniele
Un diamante da Tiffany,Karen Swan, Newton Compton, 2011, trad di R. Visconti
Shopping da Prada e appuntamento da Tiffany, Karen Swan, Newton Compton,2013, trad. di S. Pederzolli
I love Tiffany, MArjorie Hart, Newton Compton, 2012, trad. di A. Volta
Una ragazza da Tiffany, Susan Vreeland, Neri Pozza, 2010, trad. di M. Ortelio

martedì 22 ottobre 2013

IN TERRITORIO NEMICO - Scrittura Industriale Collettiva

Ho sempre creduto che la scrittura fosse un atto solitario. Un autore che si mette lì, davanti a un pc o alla pagina bianca di un quaderno, lontano da ogni rumore e da ogni interferenza esterna, e scrive la storia che vuole raccontare. Magari ogni tanto, dopo qualche capitolo, la fa leggere a qualcuno, giusto per avere conferma di essere sulla strada giusta, di non stare scrivendo qualche stupidaggine. Una volta finito, poi, prende il suo libro e lo dà in pasto a case editrici ed editor, che criticano, cambiano, rivoluzionano. Nella mia mente è sempre funzionato così, tanto che già i libri scritti a quattro mani mi lasciano un po' perplessa e tendo, solitamente, a evitarli. 
In territorio nemico è stato scritto da 115 persone. 115 teste che hanno seguito il metodo della scrittura industriale collettiva (SIC): in breve, tutti gli scrittori scrivono una parte del racconto, guidati da uno o più compositori che alla fine cercano di uniformare il tutto.
Se nei confronti dei libri scritti a quattro mani provo diffidenza, in questo caso il primo sentimento è stato quello di curiosità. Dovevo leggere questo libro, per capire come fosse possibile una cosa del genere e quale potesse essere il risultato.

In territorio nemico è un romanzo che parla di Resistenza e che inizia l'8 Settembre del 1943, giorno dell'armistizio che ha gettato l'Italia nel caos più totale. I protagonisti sono tre: Matteo, un disertore fuggito dall'esercito proprio la notte dell'armistizio, che percorre l'Italia per cercare di raggiungere la sorella Adele, dopo le disperate lettere da lei ricevute; Adele, una giovane borghese sposata con un ingegnere che, lontana dal fratello e abbandonata dal marito, va a lavorare in fabbrica e poi diventa partigiana, e Aldo, il marito della donna, fuggito per paura. Tre storie diverse ma tra loro inevitabilmente collegate, che raccontano tre reazioni diverse di fronte alla guerra e alla paura che ne consegue: chi cerca di raggiungere disperatamente i propri cari, chi sente di non aver più nulla da perdere e decide di combattere almeno per il paese, chi preferisce nascondersi, convincendosi che sia la cosa più giusta da fare. E sullo sfondo ci sono i bombardamenti, le violenze e i soprusi di un esercito allo sbando, la resistenza armata che combatte per un ideale e la gente comune, che non ce la fa più ma che cerca comunque, nel suo piccolo, di aiutare.

Il libro racconta di un periodo della storia italiana che forse, a causa del tempo che passa, sta un po' sbiadendo, che stiamo dimenticando. E lo fa tramite tre persone normali e le loro reazioni, coraggiose, disperate o vigliacche, proprio come potevano esserlo quelle di chiunque in quel periodo. Al lettore non viene risparmiato nulla: c'è violenza, c'è dolore, c'è sofferenza ma anche qualche sprazzo di speranza, di gioia e d'amore.

A livello di trama, quindi, In territorio nemico è un libro davvero molto bello. A livello di stile, invece, ammetto di non essere del tutto convinta. La narrazione è per la maggior parte del tempo molto fluida e scorrevole da leggere, però ogni tanto, almeno per me, si inceppa, si incaglia, il ritmo si spezza e la lettura rallenta e richiede uno sforzo maggiore per poter continuare. In parte forse è dovuto alla scelta di utilizzare i dialetti senza alcuna traduzione o specificazione successiva: un espediente narrativo assolutamente funzionale alla trama ma che mi ha causato qualche difficoltà. Questa poca scorrevolezza però l'ho trovata anche nelle parti non dialettali, soprattutto nelle parti che narrano di Matteo, in cui a volte ci si perde un po' e si fatica a ritrovare il filo.

Nel complesso comunque è un libro che consiglio, sia per ricordare la nostra storia sia per affrontare uno stile narrativo diverso dal solito, che sicuramente incuriosisce e che, al di là delle personali difficoltà che ho incontrato, raggiunge un risultato notevole.
Anche se continuo a preferire i romanzi scritti da una sola persona.

Se volete maggiori informazioni sul metodo SIC, potete visitare il sito web dedicato: http://www.scritturacollettiva.org/

Titolo: In territorio nemico
Autore: Scrittura Industriale Collettiva
Pagine: 308
Anno di pubblicazione: 2013
Editore: minimum fax
ISBN: 978-8875214845
Prezzo di copertina: 15 €
Acquista su Amazon:
formato brossura: In territorio nemico
formato ebook:In territorio nemico

lunedì 21 ottobre 2013

Interviste rampanti: PAOLO COGNETTI

Protagonista dell'intervista rampante di questa settimana è Paolo Cognetti. Nato a Milano nel 1978, Paolo Cognetti esordisce come scrittore nel 2004, nell'antologia La qualità dell'aria curata da Nicola La gioia e Christian Raimo. Nel 2004 esce la sua prima raccolta di racconti per minimum fax, Manuale per ragazze di successo, seguita nel 2007 da Una cosa piccola che sta per esplodere. Nel 2012, per la stessa casa editrice, pubblica Sofia si veste sempre di nero, finalista al Premio Strega. Cognetti è anche autore di due opere di saggistica: New York è una finestra senza tende,  pubblicata con Laterza, e Il ragazzo selvatico, pubblicato con Terre di Mezzo.
Io ho scoperto Cognetti grazie a Sofia si veste sempre di nero, un romanzo fatto di racconti in cui protagonista è la giovane Sofia. Il libro mi è piaciuto molto e dopo averlo letto ho iniziato a seguire il blog dell'autore (Capitano mio Capitano). Dopo averlo incontrato al festival La grande invasione a Ivrea, ho poi letto anche la raccolta Una cosa piccola che sta per esplodere, che mi ha confermato la sua incredibile bravura nello scrivere i racconti, un genere un po' bistrattato dai lettori ma che meriterebbe invece molta più attenzione.
Ringrazio ovviamente Paolo per aver accettato di rispondere alle mie domande.


Da bambino dicevi “da grande farò lo scrittore”?
No, dicevo che avrei fatto il falegname. In montagna conoscevo due fratelli che d'estate facevano le guide alpine e d'inverno i falegnami, e mi sembrava una vita ideale. La penso così ancora adesso a dir la verità.

Io ti ho conosciuto grazie alla mitica Sofia e a questo suo romanzo, i cui capitoli sono dei piccoli racconti che potrebbero vivere di vita propria. Poi ho letto anche Una cosa piccola che sta per esplodere, altra raccolta di racconti, questa volta tra loro indipendenti. Come mai prediligi questa forma letteraria, considerando anche che i racconti solitamente non attirano molto il grande pubblico?
Bè, ma se uno parte pensando a cosa attira il grande pubblico non va molto lontano, non credi? Anche perché il pubblico dei lettori è minuscolo, non è proprio la strada giusta per chi sogna di diventare ricco. Quanto al racconto, a me sembra una forma che per certi versi si avvicina alla poesia. Puoi scriverli e riscriverli fino a impararli a memoria. Puoi sperimentare stili, punti di vista, strutture narrative. E ogni parola è importante, da un racconto andrebbero tolte tutte quelle di cui si può fare a meno. In più mi piace l'idea di non dire tutto, in un racconto più che in un romanzo è importante quello che non c'è.

Come sei stato scoperto (o come sei riuscito a farti scoprire) dalle case editrici che ti hanno pubblicato?
Io sono fortunato: pubblico con quella che, da lettore, era la mia casa editrice preferita. Mi sono formato sugli americani di minimum fax, Carver prima di tutto ma anche Moody, A.M. Homes, Charles D'Ambrosio, Peter Orner e tanti altri. A venticinque anni, quando ho avuto in mano un po' di racconti che mi sembravano buoni, sono partito per Roma e sono andato a portarglieli, approfittando di un evento pubblico. E' andata bene, un anno dopo quei racconti sono diventati il mio primo libro.

Qual è il tuo rapporto con i critici professionisti e con i book blog?
Distinguerei tra critico e recensore. Il critico letterario è uno che sa fare un discorso intorno a un libro, è capace di inquadrarlo e capire da dove viene, di collocarlo nel suo tempo è alla fine dire se è un'opera importante o trascurabile, significativa oppure no. Un critico così aiuta anche lo scrittore a capire il proprio lavoro, e a volte succede che tra scrittore e critico ci sia un dialogo costruttivo (a me è successo con Goffredo Fofi e Giovanni Pacchiano, due che stimo molto). I recensori invece commentano secondo il proprio gusto, danno un giudizio o un voto che spesso, tra l'altro, è condizionato da giudizi precedenti, dalle vendite, dai premi, da quello che si dice in giro. Detesto quando un commento comincia con: avevo tanto sentito parlare di questo libro, ma poi, leggendolo... E' come ammettere subito di non essere obiettivi, di averlo letto con dei pregiudizi. Poi per carità, il parere di ogni lettore è legittimo ma uno scrittore sano dovrebbe esaltarsi poco quando ne trova di entusiastici, e non deprimersi per le stroncature. Quelli che valgono davvero sono i commenti che ti fanno scoprire qualcosa del tuo libro che non sapevi, illuminano zone che erano oscure anche per te.

Qual è la cosa più bella che è stata detta riguardo a un tuo romanzo? E la più brutta?
Il fatto è che a un libro ci lavoro per anni. Per l'ultimo ce ne ho messi quasi cinque. Anche se uno lo critica o lo contesta, sono contento quando riconosce la serietà del mio lavoro; mi arrabbio o mi offendo quando invece lo definisce inconsistente, superficiale, carino, scontato e così via. Io l'ho scritto in cinque anni, tu l'hai letto in due giorni: può essere che ci siano cose che non hai visto, me la concedi un po' più di riflessione?

Hai qualche mania come scrittore?  Che so, riesci a scrivere solo in un posto preciso o a una particolare ora del giorno o della notte?
Scrivo su dei grandi quaderni a righe, solo alla fine copio tutto al computer. Non ho manie che riguardano luoghi o orari ma il mio quaderno viene con me ovunque, così lo posso tirare fuori al bar, in cima a una montagna o in macchina se ne ho bisogno.

Io ho un’ossessione per le copertine dei libri, che condizionano molto la mia decisione di leggere o meno un’opera. Hai avuto voce in capitolo nella scelta di quella dei tuoi libri?
Sì, e anche questa è stata una fortuna. Sia per "Una cosa piccola" che per Sofia ho lavorato insieme all'illustratore, Alessandro Gottardo, che ha la mia età e vive a Milano. Noi due abbiamo tante cose in comune, siamo subito diventati amici. Io gli passo qualche racconto e un'immagine che ho in testa - la prima volta era una roulotte, la seconda una vasca da bagno - poi Alessandro ne fa qualcosa di tutto suo. 

Cosa consiglieresti a un aspirante scrittore?
Di conoscere i piccoli editori. Magari di farsi guidare da quello, nella scelta di un libro, più che dalla copertina... (scusa, è un colpo basso!) Sembra impossibile, ma molti ragazzi che vogliono scrivere non sanno elencare nessun editore oltre ai grandi marchi, nessuno scrittore italiano oltre a quelli di best-seller, nessuna libreria indipendente della propria città (e ce ne sono, ce ne sono). Bisogna leggere tanto ma soprattutto leggere bene, leggere libri che valgano qualcosa. E un libraio, un editore, quei libri ti aiutano a trovarli.

Cosa pensi dell’editoria a pagamento? E dell’autopubblicazione?
Spero che l'autopubblicazione uccida definitivamente l'editoria a pagamento, che è una truffa: ora almeno, se uno proprio ci tiene, il libro se lo pubblica da solo senza dare soldi a nessuno. Dopodiché, penso che il ruolo dell'editore sia fondamentale. Come quello del libraio, di nuovo. E del critico letterario. Sono come setacci che filtrano tutta la sabbia che c'è, e ogni tanto, se va bene, trovano una pepita d'oro.  

Ebook o cartacei?
Ultimamente non ho più abitato in una casa sola, e il vecchio amore per i libri di carta ne ha risentito. Per avere una libreria bisogna essere sedentari, l'ebook è la fortuna del nomade. Sono sicuro che a Chatwin e Kerouac il digitale sarebbe piaciuto molto.

Qual è il libro, non tuo, a cui sei più legato?
I quarantanove racconti di Hemingway. Nove racconti di Salinger. Da dove sto chiamando di Carver. Sono quelli che considero i miei maestri.

Un autore/autrice italiana che stimi tantissimo? Consigliaci un suo libro.
Per restare ai racconti: I ventitré giorni della città di Alba di Fenoglio e Il sistema periodico di Primo Levi. Secondo me sono i loro libri migliori. Tra i viventi ho un debole per Susanna Bissoli (Caterina sulla soglia) ed Elena Varvello (L'economia delle cose), che sono bravissime.

Hai letto le Cinquanta Sfumature?
No, perché? Figurati che mi manca ancora Guerra e pace, ho tanti di quei libri che aspettano di essere letti...

Qual è Il tuo colore preferito?
Il verde.

sabato 19 ottobre 2013

Incontrando... Cristiano Cavina

Sono seduta sul letto. Accanto a me c’è un libro aperto sulla prima pagina, quella del titolo, con il disegno di un pirata che mi guarda sorridente porgendomi un fiore. Vicino al libro ci sono alcuni foglietti sparsi, gli appunti che ho preso ieri sera durante l’incontro con l’autore, del romanzo e del pirata sulla pagina. Li ho riletti un paio di volte, prima di mettermi a scrivere, ho di nuovo riso e mi sono di nuovo anche un po’ commossa, proprio come ieri sera.
L’autore è Cristiano Cavina e ho avuto la fortuna di conoscerlo e di sentirlo durante uno dei primi incontri de I Luoghi delle Parole, il festival letterario in corso a Chivasso di cui vi ho parlato qualche giorno fa.


Ho riletto gli appunti, vi dicevo, e mi rendo conto che qualunque cosa io scriva in questo post non riuscirà mai a rendere il giusto merito all'incontro di ieri e alla bravura, come scrittore ma soprattutto come narratore, di Cristiano Cavina.
Intanto perché è uno scrittore molto particolare, con il piercing sul sopracciglio e un look da adolescente, che mette in difficoltà ogni insegnante delle scuole in cui va a parlare. Poi, sebbene possa tranquillamente vivere di scrittura, fa anche il pizzaiolo nel locale di suo zio, lavoro a cui tiene molto, e per il quale ha rinunciato anche alla serata di gala quando nel 2009 è entrato nella selezione del premio Strega (“scusate, non posso venire, mio zio c’ha due tavoli da venti e devo fare le pizze”).

Quindi arriva tutto tranquillo, forse anche un po' intimidito, si siede in mezzo a Davide Ruffinengo e Davide Ferraris della libreria Therese di Torino, e inizia a parlare con quel suo bell'accento romagnolo.
Esordisce dicendo che le vite di tutte le persone hanno qualcosa di epico, siano esse i protagonisti delle Mille e una notte o i suoi compaesani di Casola Valsenio (un paesino in provincia di Ravenna). Perché non è necessario essere un personaggio per aver diritto a un racconto. Così come per poter scrivere non è necessario avere una laurea o essere un grande intellettuale. Serve il talento, certo, ma il talento è un fiammifero, qualcosa che brucia ma che si spegne immediatamente se non viene alimentato da della legna. E la legna sono le parole ma anche e soprattutto le cose da raccontare.
 Raccontavo per me, per salvare le cose della mia vita, il mondo che mi apparteneva
Cristiano Cavina continua a parlare e tu ti perdi nei suoi buffi aneddoti (tipo quando ha fatto un'intervista per Il Giornale con indosso una maglietta con falce e martello o quando la Dandini, alla premiazione del premio Strega, l'ha scambiato per il tecnico del suono) e nei suoi ricordi. Entri nella sua vita, ridi con lui e con lui ti commuovi.

Che poi è un po' quello che succede nei suoi romanzi, tutti pubblicati dalla casa editrice Marcos y Marcos (io ho letto solo il primo, Alla grande, che ha scritto mentre frequentava la Holden di Torino... per la quale ha sostenuto il colloquio di ammissione dopo due giorni di rave in Svizzera):  i suoi romanzi parlano sempre di lui, della sua vita da figlio di ragazza madre, cresciuto con una nonna che pilotava la vita di tutti da una poltrona ("scrivo per far sapere a mia nonna quanto le volevo bene") e un nonno un po’ sborone. Parlano della sua poca voglia di studiare, sebbene adorasse andare a scuola (un ITIS, quello descritto nel suo ultimo libro). Parlano del suo diventare padre, della paura di non essere all'altezza per non averne mai avuto uno. Parlano, insomma, di tutto il mondo che lo circonda ogni giorno. 

Non vi sto a raccontare tutto quello che ha detto, sarebbe davvero impossibile e per iscritto credo perderebbe anche un po' (insieme al toscano, l'accento romagnolo è uno dei miei preferiti!). Se ne avete l'occasione quindi, anche se magari non lo conoscete o non avete mai letto nulla di suo, andate a sentire un suo incontro. Ne vale davvero la pena!

Ma voi lo sapete quanto pesa un occhio umano?

venerdì 18 ottobre 2013

L'ARTE DI ASCOLTARE I BATTITI DEL CUORE - Jan-Philipp Sendker

Ho girato attorno a questo libro per mesi. Lo vedevo in libreria, mi avvicinavo, lo prendevo in mano, lo sfogliavo e poi,  non so perché, lo rimettevo giù. Non riuscivo a decidermi: da un lato c'era un titolo che trovavo meraviglioso, dall'altro l'ambientazione orientale che, solitamente e per limite mio, di solito mi annoia terribilmente. Avevo paura di trovarmi di fronte a un polpettone amoroso-zen e non a una bella storia d'amore. Poi alla fine mi sono decisa, almeno per potermi togliere questo dubbio.

L'arte di ascoltare i battiti del cuore si è rivelato essere entrambe le cose. Un polpettone zen che è anche una bella storia d'amore. Nel senso che la storia d'amore supera di gran lunga il misticismo del libro, rendendolo sopportabile persino per una scettica come me.

Protagonista è Tin Win, avvocato newyorchese di origini birmane, che un giorno, poco dopo la laurea della figlia Julia, sparisce. Dalle indagini si sa solo che ha preso un aereo ed è tornato in Birmania. Dopo quattro anni dalla sparizione, la moglie consegna alla figlia una scatola, al cui interno si trova una lettera che il padre ha scritto a una certa Mi Mi, senza avere mai il coraggio di spedirla. La donna vuole saperne di più e decide di partire sulle tracce del genitore scomparso. Arriva a Kalaw e, in una sala da the, viene abbordata da un uomo che inizia a raccontarle la storia del padre, dalla sua infanzia all'educazione presso la scuola di monaci fino alla partenza per gli Stati Uniti. Una parte di vita che Tin non aveva mai raccontato alla famiglia. Ed durante quegli anni, gli anni dell'adolescenza, che ha conosciuto Mi mi, suo unico vero grande amore.

Come vi dicevo, la storia d'amore in questo romanzo è bella potente, forse un pochino stucchevole a volte ma mai banale, ma comunque, se siete romantici e credete nell'Amore, quello che cambia i battiti del cuore e che resiste al tempo, è un libro che fa per voi.
Parlo dell'amore che dà la vista ai ciechi. Che è più forte dell'angoscia. Dell'amore che infonde un senso alla vita, che non obbedisce alle leggi del degrado e della rovina, che ci fa crescere e non conosce confini. Parlo del trionfo dell'uomo sull'egoismo e sulla morte.
Al di là della storia d'amore, comunque, c'è anche la descrizione della società birmana, della vita nei paesi e nelle campagne negli anni 50 del '900, fatti di pregiudizi, di superstizioni, di matrimoni combinati e di povertà che non inficia però la felicità, e che si scontra con la società americana moderna, frenetica, in cui i legami famigliari sono meno forti e anche l'amore, forse, sta perdendo un po' della sua importanza.

Bisogna per forza vedere il mondo? Tutti i sentimenti di cui noi uomini siamo capaci, l'amore e l'odio, la paura e la gelosia, l'invidia e la gioia, li può trovare in questo villaggio, in ogni casa, in ogni capanna. Non c'è bisogno di cercarli. Basta solo saper guardare.
Nel complesso, quindi, si tratta di un bel libro, molto poetico, che si legge molto bene e che alla fine fa scendere anche qualche lacrimuccia. Eppure, non sono del tutto convinta. Forse ci sono troppe esagerazioni nell'amore tra Tin Win e Mi mi, esagerazioni che sono sì funzionali a descrivere tutta la forza che l'amore può avere (forza in cui credo anche io, indubbiamente) ma che non sono del tutto realistiche. Aspettarsi per oltre cinquant'anni, nonostante il silenzio. Amarsi nonostante i millemila km di distanza e la vita che si vive nel mentre, senza avere mai un attimo di esitazione. E' davvero possibile? Sarebbe bello, certo. Ma succede solo nei libri.


Titolo: L'arte di ascoltare i battiti del cuore
Autore: Jan-Philipp Sendker
Traduttore: Francesco Porzio
Pagine: 303
Anno di pubblicazione: 2011
Editore: BEAT
ISBN: 978-8865590423
Prezzo di copertina: 9 €
Acquista su Amazon:

mercoledì 16 ottobre 2013

Due titoli, un solo libro: ma perché? #53

Pochi giorni fa ho letto e recensito qui sul blog Amore, ecc di Julian Barnes. Solitamente avrei aspettato un po' prima di dedicare una puntata della rubrica di confronto tra titoli a un romanzo finito da poco, però stavolta devo assolutamente parlarne subito. Perché mentre cercavo qualche notizia sul titolo originale e sui motivi di questo cambiamento ho fatto un paio di scoperte, per me, sconcertanti.

Il titolo originale di Amore,ecc è in realtà TALKING IT OVER


Il romanzo è uscito in lingua originale nel 1991 e tradotto una prima volta in italiano nel 1992 da Riccardo Mainardi per la casa editrice Rizzoli con il titolo PARLIAMONE, traduzione letterale della versione inglese.

Il romanzo è stato poi ripubblicato dall'Einaudi nel 1998, inizialmente sempre con la traduzione di Riccardo Mainardi e poi ritradotto da Susanna Basso, con il titolo con cui lo conosciamo adesso, AMORE, ECC. appunto:

Un titolo a mio avviso molto, molto bello, che ha anche un senso rispetto alla trama perché, a un certo punto, uno dei protagonisti esprime proprio questo concetto, utilizzando la stessa espressione del titolo.

Un cambiamento sicuramente drastico ma che comunque, di primo acchito, non mi ha sconvolta più di tanto. Poi però mi hanno informata dell'esistenza di un seguito di questo libro, che in italiano si intitola AMORE, DIECI ANNI DOPO (uscito per Einaudi nel 2004 con la traduzione di Susanna Basso):


Qual è il problema, vi starete chiedendo voi. Il problema è che questo seguito, uscito in lingua originale nel 2000, si intitola LOVE, ETC


Questo cambiamento mi ha lasciato basita. In italiano il primo romanzo si è preso il titolo che il secondo ha in lingua originale. Quindi se io comprassi il primo in italiano e il secondo in inglese, avrei due libri con lo stesso identico titolo e trame diverse.
Come si sia arrivati a questa scelta è per me un vero mistero. Soprattutto considerando che in Italia Talking it over era già stato tradotto e venduto con un titolo diverso, che era anche la sua traduzione letterale. 

A difesa dell'Einaudi c'è il discorso delle date: Amore,ecc (il primo, per intenderci) ha preso questo titolo nel 1998 e Love, etc è uscito nel 2000. Può darsi che per qualche strana coincidenza abbiano dato al primo libro il titolo che poi Barnes darà al secondo senza saperlo, oppure sapevano già dell'arrivo del secondo romanzo e abbiamo pensato a come rendere il senso di continuità anche in Italiano.
Certo è che il risultato finale, sia o meno voluto, è davvero pessimo. Anche perché, ancora una volta, sarebbe bastato non modificare il titolo con cui già era conosciuto in italiano (Parliamone) e si sarebbe evitato qualunque "disguido". 

Che ne pensate?

martedì 15 ottobre 2013

Festival della letteratura I LUOGHI DELLE PAROLE 17-28 Ottobre 2013

Bene, scopro, dopo dieci anni dalla sua prima apparizione, dell'esistenza del festival della letteratura I luoghi delle parole. Ovvio, non posso conoscere tutti i festival letterari che vengono fatti in giro per l'Italia, però, insomma, questo si svolge a una trentina di km da casa mia, a Chivasso e in quattro comuni limitrofi, zone che da qualche anno a questa parte bazzico spesso. Eppure, non avevo mai saputo della sua esistenza, forse perché non leggo molti quotidiani locali o non è mai stato pubblicizzato nel modo giusto (le rassegne e festival letterari vengono sempre pubblicizzati troppo poco per i miei gusti!).
Comunque, adesso che so della sua esistenza, cercherò di non lasciarmi sfuggire nessun incontro interessante... meglio tardi che mai, no?

Chivasso

Quindi dal 17 al 28 Ottobre 2013,  principalmente Chivasso, ma anche Castagneto Po, San Benigno, San Sebastiano Po e Volpiano saranno sede del festival "I luoghi delle parole" con tutta una serie di eventi e di incontri con autori e giornalisti italiani. L''edizione di quest'anno, ancora una volta organizzata dalla Fondazione Novecento di Chivasso, ha come tema "Le parole che (ci) cambiano".

Giusto per farvi qualche nome (ovvero: chi mi piacerebbe andare a sentire): ci sarà Gene Gnocchi nella serata inaugurale di giovedì 17, poi Cavina (venerdì 18) e Malvaldi (sabato 19), Fabio Geda (domenica 20) e Stefano Benni (giovedì 24), Fabio Stassi e Paolo di Paolo (venerdì 25), Ervas (sabato 26) e De Silva (domenica 27), per concludere con il giornalista Domenico Quirico, lunedì 28.
Tutti gli incontri e le conferenze si svolgeranno principalmente nel tardo pomeriggio e di sera in settimana, mentre tutto il giorno nei due week end coinvolti.


Potete trovare il programma completo (con date, orari, luoghi e informazioni dettagliate sui vari eventi) visitando il sito: www.luoghidelleparole.it


Ovviamente, poi vi racconterò tutto degli eventi a cui prenderò parte e, se per caso qualcuno di voi venisse, fatemelo sapere... che vi porto a fare l'aperitivo in un posto buonissimo!

REVOLVER - Andrea Malabaila

Ho iniziato a considerare il rock come un genere che potesse piacermi poco più di un anno fa, quando sono andata a vedere al cinema Rock of Ages. Sì, il mio primo vero approccio con il rock è stato un musical con Tom Cruise. E' vergognoso, lo so. Anche perché poi quando vado a cercare su youtube le versioni originali che sono state reinterpretate nel film nemmeno mi piacciono.
Non sono molto rock, io, non lo so mai stata. E quindi forse leggere un libro che parla, anche, di rock e di una rockstar non è stata esattamente una grande idea.

Protagonista di Revolver è Andrea, un giovane scrittore ossessionato da ormai dieci anni da un romanzo che non riesce a scrivere. E' il romanzo che racconta di Damon Kidd, leader dei Revolver, un gruppo musicale che ha avuto un sacco di successo nel passato ma che ora sembra incamminato lungo il viale del tramonto. E Andrea questo non riesce ad accettarlo, non riesce a sopportare che il suo personaggio, che da tanti anni lo tormenta, viva questa profonda crisi d'ispirazione ma anche e soprattutto psicologica. Quindi, entra dentro il suo romanzo, accompagnato dalla sua fidanzata Carlotta, per cercare di risolvere la situazione, salvare Damon e salvare anche un po' se stesso. Anche se a un certo punto, pur essendo lui a decidere come deve proseguire la storia, le cose gli sfuggono un po' di mano.

Revolver è un romanzo che contiene un romanzo: racconta la storia vera di Andrea, del suo passato di scrittore di discreto successo che ora non riesce a sbloccarsi, e quella di Damon e di come una influenzi inevitabilmente l'altra. E questa è innegabilmente un'idea geniale. Però mi tocca aggiungere un però, perché qualcosa non mi ha convinto del tutto. Lo stile forse è troppo semplice, quasi adolescenziale, sebbene i personaggi principali abbiano tutti più di vent'anni, e tutta la storia viene raccontata in maniera frettolosa. Molte cose avrebbero dovuto essere meglio approfondite, sia per risultare credibili, sia, se si riesce comunque a raggiungere la sospensione dell'incredulità, per dare maggiore spessore all'opera. Ho chiuso il libro con un "beh, è tutto qua?" che mi lascia un po' di amarezza.
Andrea Malabaila scrive sicuramente bene, sa dosare bene l'ironia e l'autoironia (e il primo capitolo è davvero ben pensato!) e riesce a mischiare reale e inventato in modo molto efficace. Ma per me manca qualcosa. Manca, come dicevo prima, un po' di spessore, quello che lo avrebbe reso un romanzo per tutti e non solo una fonte di liberazione per l'autore.
Credo che l'esperienza personale, la parte autobiografica insomma, abbia inciso molto: probabilmente Andrea non vedeva l'ora di buttarlo fuori questo romanzo e ha sorvolato su certi aspetti. E per lui deve essere stato sicuramente catartico e spero davvero che gli sia servito per liberarsi da qualche demone interiore e per riprendere in mano la sua vita, almeno quella narrativa.
Per il lettore però,soprattutto se si tratta di un lettore che di rock non sa e non ha quasi nulla, è una lettura magari anche piacevole, ma tranquillamente evitabile.


Titolo: Revolver
Autore: Andrea Malabaila
Pagine: 120
Anno di pubblicazione: 2013
Editore: Booksalad
ISBN:978-8898067039
Prezzo di copertina: 13 €
Acquista su Amazon:
formato brossura:Revolver
formato ebook: REVOLVER

lunedì 14 ottobre 2013

Interviste rampanti: Simona Baldelli

Protagonista dell'intervista rampante di questa settimana è Simona Baldelli,  scrittrice pesarese  il cui romanzo d'esordio, Evelina e le fate, pubblicato nel 2013 con la casa editrice Giunti, è stata finalista al Premio Calvino.

Il libro è ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale in una paesino della provincia di Pesaro e racconta il dramma degli sfollati dal punto di vista di una bambina di cinque anni, che nonostante si renda conto di tutto il male e il dolore che la circonda non perde la sua innocenza e la sua semplicità. Un esordio notevole!
Ringrazio ovviamente Simona per aver accettato di rispondere alle mie domande.


immagine tratta dal sito della Giunti

Da bambina dicevi “da grande farò la scrittrice”?
No, no. Dicevo “voglio fare l’attrice”, e poi l’ho fatto davvero per più di dieci anni, occupandomi in seguito anche di regia e drammaturgia.

Il tuo romanzo d’esordio, Evelina e le fate, parla di guerra e di resistenza, argomenti ancora presenti nella letteratura italiana contemporanea, ma che tu hai presentato da un punto di vista differente, quello dello sguardo di una bambina. E’ stato difficile adattare la tua scrittura all’età della protagonista, per far si che risultasse credibile?
Sì, direi che la parte relativa al linguaggio è stata la più difficile. Avendo scelto di raccontare la storia attraverso lo sguardo di una bambina analfabeta di cinque anni, volevo usare solo parole e metafore che fossero credibili nella sua bocca e nei suoi pensieri e, contemporaneamente, creare una scrittura che non fosse “povera” per un lettore adulto.

Come sei stato scoperta (o come sei riuscita a farti scoprire) dalla casa editrice che ti ha pubblicato?
Sono stata finalista al Premio Italo Calvino 2012. Ormai le case editrici, specialmente le maggiori, corteggiano moltissimo gli esordienti del PIC. Io, personalmente, a 72 ore dalla cerimonia di premiazione, avevo già ricevuto proposte editoriali da cinque case editrici.

Qual è il tuo rapporto con i critici e con i book blog?
Buonissimo, leggo con curiosità recensioni e segnalazioni, specialmente sui blog, poiché sono più liberi di esprimere il loro pensiero in quanto non devono sottostare a “linee editoriali”. Sai meglio di me che le maggiori testate sono spesso collegate a case editrici… In più, per quel che riguarda il mio Evelina e le fate ho avuto solo ottime recensioni. Come posso, dunque, non volergli bene?

Qual è la cosa più bella che è stata detta riguardo a un tuo romanzo? E la più brutta?
La più bella, che mi è spesso stata detta è che “il libro è un incanto”. Onestamente, di brutte non ne ho sentite…

Hai qualche mania come scrittrice? Che so, riesci a scrivere solo in un posto preciso o a una particolare ora del giorno o della notte?
Scrivo preferibilmente la mattina, molto presto, quando il cervello è ancora imbrigliato nei sogni. Credo che le prime ore del mattino mi aiutino ad avere una scrittura più immaginifica. 

Io ho un’ossessione per le copertine dei libri, che condizionano molto la mia decisione di leggere o meno un’opera. Hai avuto voce in capitolo nella scelta di quella del tuo libro?
Sì, la copertina l’ho costruita insieme alla direttrice della collana, Benedetta Centovalli, ed i grafici della casa editrice. So che di norma gli scrittori non hanno voce in capitolo sulle copertine, ma a Giunti sono attenti anche alle opinioni degli scrittori.

Cosa consiglieresti a un aspirante scrittore ?
Allora, ammetto che sto per fare una sorta di “copia e incolla” con quanto rilasciato in un’altra intervista, ma sono cose nelle quali credo fermamente e poi, in fin dei conti, copio solo da me stessa… dunque: Leggere, leggere, leggere. Poi, salire sui mezzi pubblici per ascoltare la gente quando è stanca, arrabbiata, sconfortata e quindi parla senza filtri e difese (vengono fuori le verità più assolute), non avere mai idee preconcette e navigare a vista, mangiare cibi sempre diversi (le spezie, oh, le spezie!) e capire perché un vino è sempre diverso dall’altro, ascoltare molto e parlare il giusto; andare al cinema, camminare, possibilmente avere un animale in casa, aiutare gli amici. Provare ad occuparsi delle piccole cose in casa come cambiare un interruttore della luce che non funziona o sturare un lavandino. Ballare e cantare, meglio se contemporaneamente. Essere curiosi, curiosi, curiosi. Fare lavorare meno il cervello e più le mani, gli occhi, la bocca e le orecchie. I pensieri sono brutti da leggere, sanno di pistolotto fatto la domenica mattina da un prete svogliato. I pensieri non si vedono, le cose sì. Meno aggettivi e più sostantivi. Scrivere preferibilmente quando si è un po’ arrabbiati (non tristi, ché si è noiosi, ma arrabbiati!), scrivere quando si è felici, ma poi rileggere quando si è arrabbiati! fare leggere le proprie cose a poche e fidate persone, ascoltare tutti ma non dare retta a nessuno, tener conto delle opinioni ma fare di testa propria. La gente ama sentirsi parlare e non appena può dare un’opinione… infine, sperare nella fortuna. Certo, promuoversi da soli, bussare alle case editrici, alle agenzie, farsi conoscere attraverso blog et similia… ma è dura, dura, dura (a meno di avere tanti Santi in Paradiso…) mandare i propri scritti a festival e concorsi. E sperare di essere finalisti al Premio Calvino, perché allora, qualcosa succede davvero.

Cosa pensi dell’editoria a pagamento? E dell’autopubblicazione?
Non mi sento di demonizzare chi sceglie l’autopubblicazione per cercare di emergere. Vorrei solo un po’ più di onestà da parte delle case editrici. Credo che sarebbe molto più rispettoso, non solo per gli scrittori ma specialmente per i lettori, se sulla copertina ci fosse una segnalazione che indica se il libro è stato acquistato dalla casa editrice oppure se lo scrittore ha pagato per essere pubblicato. 

Ad, esempio, una piccola casa editrice la Zero91, sta facendo una campagna di sensibilizzazione molto importante su questo argomento ed ha creato un logo, che qui ti allego, che potrebbe essere inserito sulle copertine dei libri che non sono stati pubblicati con il finanziamento diretto dello scrittore. Spesso i libri editi con il sistema dell’autopubblicazione, non hanno subito nessuna selezione, sono fatti a volte senza cura, non hanno avuto editing, correzione di bozze, sono pieni di errori, strafalcioni, non tutti, chiaro, ma la maggior parte sono così, poiché è chiaro che vengono pubblicati non perché un editore crede ed investe su un autore, ma perché rappresenta semplicemente un “business”. I lettori dovrebbero sapere tutto ciò. E poi scegliere.


Ebook o cartacei?
Personalmente preferisco i cartacei. Ma la lettura è una cosa talmente personale ed intima, che credo ognuno debba poter scegliere il suo “mezzo di comunicazione” ideale.

Qual è il tuo romanzo preferito, quello a cui sei più legata?
Aspetta primavera. Bandini di John Fante. Quando ho letto quel libro ho provato una specie di folgorazione, davvero e mi sono detta: voglio provarci anch’io! Riesci dunque ad immaginare l’emozione quando, lo scorso 23 agosto, ho ricevuto il Premio Letterario John Fante, e proprio dalle mani dei figli, Dan e Victoria? 

Un autore/autrice italiana che stimi tantissimo? Consigliaci un suo libro.
Sarebbero tantissimi. Ne indico due: uno è Il birraio di Preston di Andrea Camilleri (non ha nulla a che fare con la serie di Montalbano) e l’altro è Il tempo è un dio breve di Mariapia Veladiano.

Hai letto le Cinquanta Sfumature?
No. Ma non per snobismo, è che proprio non me n’è venuta voglia. Io leggo un libro principalmente “per come” è scritto e non per “per quello” che racconta. E quel che avevo potuto leggere nei vari stralci pubblicati sulla stampa, non mi aveva granché incuriosita. E non mi è sembrato neppure particolarmente intrigante dal punto di vista dell’eros. Una roba da bistecche e salsicce, piuttosto. Nulla  a che fare, ad esempio, con la raffinatezza de L’amante di Lady Chatterley.

Qual è Il tuo colore preferito?
Il rosso. Ma proprio rosso, senza sfumature…