Ieri pomeriggio sono andata alla presentazione di
Morte di un uomo felice di Giorgio Fontana al Centro Congressi Unione Industriale di Torino. In mia compagnia Thais, amica, ex compagna di università, nonché blogger di
Solo libri belli. Memore dell’incontro passato con Diego De Silva sempre organizzato dal Centro Congressi Unione Industriale, l’avevo già avvisata che l’età media sarebbe stata di circa sessantacinque anni. Che non c’è nulla di male, anzi! Questi incontri letterari sono solitamente al pomeriggio di proposito, proprio perché ci vada solo un pubblico di pensionati (più qualche imbucato… anche se ieri eravamo davvero solo noi due, tant'è che non abbiamo influenzato in alcun modo la media dell’età). Ed è una cosa molto bella che spero vivamente esisterà ancora quando (se) andrò in pensione io.
A presentare Giorgio Fontana c’era Bruno Quaranta, penna de La Stampa e in particolare di Tuttolibri, che già mi aveva creato qualche difficoltà alla presentazione di De Silva. Bruno Quaranta ha iniziato a presentare l’autore e il suo libro con un lungo monologo, letto da un foglio e quindi per nulla naturale (che va bene segnarsi qualcosa, ci mancherebbe, ma non tutto!) ricco di citazioni, paroloni che, onestamente, più che destare il mio interesse e la mia attenzione mi hanno lungamente distratto. Più lui parlava, più io pensavo “Sì, ma quando fai parlare l’autore?”.
Dopo una decina di minuti buoni, finalmente, ecco che interviene Giorgio Fontana. La prima domanda che gli viene rivolta è relativa al suo concetto di felicità e come si possa intendere Giacomo Colnaghi, il magistrato protagonista del romanzo, un uomo felice. Lui ha risposto dicendo che non intende la felicità come uno stato di perenne godimento, ma che sta più nelle piccole cose: nell'essere innamorati della vita, nel farsi continuamente domande e interrogarsi, senza prendere per buone le cose, nei piccoli gesti quotidiani, come comprarsi il Topolino o fare le corse in bici con gli amici, anche a cinquantanni.
Da questa risposta si è poi entrati nel vivo del personaggio di Colnaghi: un magistrato cattolico di sinistra (sebbene sia un’espressione un po’ abusata), che vive la fede però a modo suo. Una fede intima, non sporcata da rituali e che spesso gli causa dubbi e incertezze, che derivano dalla difficoltà e dal tormento di trovare un punto di incontro tra giustizia divina e giustizia umana. Un ritratto che a Fontana è uscito effettivamente molto bene, anche considerando che lui è ateo.
Parlando sempre di Colnaghi, dal pubblico (che in questa sede non fa le domande a voce, ma tramite dei bigliettini… un sistema forse per abbattere quella timidezza che solitamente in queste occasioni si risolve in un “nessuno ha domande”) è stato chiesto se il padre di Fontana, che è un magistrato, abbia in qualche modo influenzato il personaggio. L’autore ha risposto di no, che è stato utile sicuramente dal punto di vista tecnico, per acquisire informazioni su quel mondo, ma che non ci sono elementi di comunanza tra il magistrato Colnaghi e il magistrato Fontana. Se c’è qualche vicinanza, che però non si tratta di elementi autobiografici, è tra Colnaghi e Giorgio stesso: entrambi sono uomini di provincia, nati a Saronno, sebbene Colnaghi la ami e Fontana la odi; entrambi amano Milano e passeggiare per le sue vie e, “soprattutto”, entrambi sono interisti.
Un aspetto che è stato sottolineato molto, sia ieri durante la presentazione sia in tutte le interviste fatte all'autore che mi è capitato di leggere, è il fatto che Giorgio Fontana sia giovane. È nato nel 1981 (quindi ha 33 anni, che è giovane, certo, ma dal punto di vista letterario mi viene spontaneo domandarmi fino a che età si è considerati giovani), proprio l’anno in cui Morte di un uomo felice finisce. Ha raccontato quindi di un’epoca che non ha vissuto direttamente ma di cui è in qualche modo figlio, ammettendo che secondo lui è più facile scrivere un libro di un periodo se si è nati dopo: certo, si ha una grande responsabilità storica (e non per niente ha dovuto studiare tantissimo per poter raccontare senza errori la storia) e si è ispirato a personaggi realmente esistiti, lasciando poi però che il personaggio acquisisse una sua storia personale, che fosse inserito nel contesto storico in modo fedele, ma che poi vi si potesse muovere tranquillamente all'interno.
Fontana ha poi parlato della stesura dell’altra parte del romanzo, quella ambientata all'epoca della resistenza, in cui il protagonista è il padre di Colnaghi, Ernesto, dicendo che è quella che gli è piaciuto di più scrivere, (insieme alle descrizioni di Milano, che sono anni che nessuno scrittore descrive più bene), avendo per quel periodo un interesse personale, alimentato poi dai racconti del nonno e da memorie orali della sua zona.
Una delle domande più belle è stata “Come si fa a scrivere un libro così?”. Lui ha risposto “Leggendo tanto, buttando tanto, riscrivendo tanto” e poi ha citato Paolo Cognetti, che dice che scrivere è come mangiare un crostaceo: ci si sporca tanto le mani e si butta via tanto per arrivare allo scheletro, alla parte buona.
Sul finale Fontana, dopo aver ammesso che il libro gli ha lasciato un’enorme stanchezza fisica ma anche esistenziale, ha parlato dei suoi autori di riferimento: scrittori della narrativa americana, tra cui Bernard Malaud, Don De Lillo, Powers e, “ovviamente”, Hemingway; scrittori della narrativa europea, tra cui Joseph Roth e Stig Dagerman; e poi, su tutti, Frank Kafka che per lui è “tutto quello che uno scrittore dovrebbe essere”.
E tra gli italiani? Dino Buzzati con Un amore, Giovanni Arpino con Randagio è l’eroe, Luciano Bianciardi con La vita agra e Giovanni Testori con Il ponte della Ghisolfa.
A fine presentazione è stato poi il momento degli autografi e, come al solito, mi sono fatta riconoscere. Quando gli ho dato il libro, infatti, è avvenuto più o meno questo dialogo:
“Ciao!”
“Ciao!”
“Sono Elisa… il libro è molto bello, davvero, ma quanto mi hai fatto penare con sti due punti”
“Ah, eh lo so, me lo hanno fatto notare in molti, ma io li uso così, il mio stile è quello. E comunque li usava anche Manzoni”
“Beh, anche Manzoni mi avevo fatto penare eh. Ci va un po’ per abituarcisi… però il libro è davvero molto bello, bravo!”
“Grazie”
(ammetto che dopo mi è venuto il dubbio che si sia offeso. Spero vivamente di no, ma del suo bislacco uso dei due punti dovevo proprio dirglielo!)
L’impressione generale che ho avuto di Giorgio Fontana è di uno scrittore molto colto, molto preparato e sicuro della sua penna, ma anche molto modesto e umile (dal fatto, ad esempio, che nonostante il successo del romanzo, la vincita del premio Campiello e tutte le proposte che sono seguite, ancora non se la senta di lasciare definitivamente il suo lavoro principale in un’azienda informatica). Ha messo in luce poi un aspetto su cui spesso ho riflettuto riguardo alle presentazioni dei libri, ovvero che gli scrittori sono persone che si chiudono in una stanza a scrivere e che quindi per alcuni di loro è molto difficile trovarsi di fronte a tutte queste persone, questi lettori arrivati lì per sentire quello che hanno da dire. È bello, emozionante, ma anche faticoso. Lui, ieri, è stato davvero molto bravo.
Diverso, almeno per me, è il discorso del relatore, che ha davvero il potere di influenzare, in meglio ma anche in peggio, la presentazione di un libro e la voglia o meno di leggerlo.
Ma questo argomento, prima o poi, avrà un post tutto per sé.