giovedì 31 maggio 2018

PERCHÉ NOI BOFFI SIAMO COSÍ? - Jonathan Emmett, Elys Dolan

Su un lontano pianeta che alla Terra somiglia,
i Boffi e le Boffe han messo su famiglia


Un giorno nella mail mi è arrivato un messaggio
Elisa, vuoi leggere la nostra novità di maggio?

ma tranquilli, non come si faceva a scuola a lezione.

Protagonisti sono degli animaletti buffi
sono blu, sono gialli e si chiamano Boffi.

Vivono sul pianeta Ciribob, insieme ad altri animali
occhiuti, mangioni e con le ali.

Jonathan Emmet se li è inventati,
ed Elys Dolan li ha poi disegnati.

Una volta eran blu, tozzi e con il pelo rasato
Poi sono diventati pelosi ma il pancione è restato.

Col passare degli anni sono di nuovo cambiati
E alle insidie del mondo si sono adattati.



È un testo in rima per bambini dai sei anni in su
Ma secondo me lo puoi leggere anche se ne hai un po' di più.

Perché non è mai troppo presto per capir l'evoluzione
Né troppo tardi per far un bel ripassone.

Una volta letta questa storia
Bene impressa l'evoluzione sarà nella memoria.

Ma ci sarà anche il ricordo di questi animaletti buffi
che una volta erano blu, poi gialli e si chiamano Boffi.



Titolo: Perché noi Boffi siamo così?
Autore: Jonathan Emmett
Illustratore: Elys Dolan
Traduttore: Lucia Feoli
Pagine: 32
Anno di pubblicazione: 2018
Editore: editoriale Scienza
Prezzo di copertina: 14,90€
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formato cartaceo: Perché noi Boffi siamo così? L'avventura dell'evoluzione

martedì 29 maggio 2018

ALL'INIZIO DEL SETTIMO GIORNO - Luc Lang

Dovete attraversare insieme questa storia, non avete scelta, devono vederla, magari sei troppo pessimista, magari sentendo i figli lei... in medicina, ci sono miracoli, il risveglio dal coma esiste. Non devi fare in modo che perdano la speranza, consenti ai bambini di battersi per lei, ci sarà sempre il tempo di ammettere più tardi che avete lottato per niente, ma senza essere divorati dal rimorso e dal rimpianto di non avere tentato ogni cosa.


Ho un rapporto molto particolare con la narrativa francese contemporanea. Alcuni libri e autori mi piacciono molto (Eric-Emmanuel Schmitt, per esempio), altri invece, per stile e modo di raccontare, li trovo snervanti e irritanti (il più recente a rientrare in questa categoria è Un amore di Salinger di Frédéric Beigbeder). Per questo mi avvicino ai romanzi d’oltralpe sempre con un misto di curiosità e ansia, incerta su cosa troverò.

All’inizio del settimo giorno di Luc Lang, da poco pubblicato da Fazi editore con la traduzione di Maurizio Ferrara, rientra paradossalmente in entrambe le categorie. 
Il romanzo, che è stato finalista al premio Goncourt nel 2016, ha come protagonista Thomas, un ingegnere informatico francese che vive a Parigi con la moglie e i due figli. Una notte viene svegliato da una telefonata: è un ospedale che lo informa che la moglie Camille è ricoverata in rianimazione dopo un grave incidente d’auto. Thomas lascia i due figli a casa e parte verso la Bretagna per raggiungerla, ma anche per capire cosa sia successo e, soprattutto, cosa ci facesse sua moglie là a quell’ora della notte. Dubbi e perplessità, ansie e paure accompagnano la vita di Thomas nei mesi successi: Camille è in coma, poi si risveglia ma non è più quella di prima e mai più lo sarà. Thomas inizia a indagare, su se stesso e il suo matrimonio, ma anche sulla sua famiglia: il fratello Jean, che vive ritirato in una malga sui Pirenei, e che odia con tutto il suo cuore il padre, ora morto, e la madre, risposatasi; la sorella Pauline, che ha lasciato la Francia per l’Africa, dove lavora come medico in situazioni disperate e da cui proprio non ne vuole sapere di tornare. Presente e passato si mescolano, e Thomas si ritrova a fare i conti con tante, troppe cose che ignorava, sommando dolore al dolore.

Ho iniziato All’inizio del settimo giorno con enorme entusiasmo. Per quanto triste, mi apprezzato tantissimo l’espediente iniziale: un uomo che deve capire come mai la moglie ha avuto un incidente in un luogo tanto sperduto, nel cuore della notte. Da chi stava andando o da chi stava fuggendo. Cosa nascondeva. Così come mi è piaciuta l’idea di raccontare come una persona tiene insieme i pezzi della sua famiglia quando uno dei piloni portanti viene a mancare. Poi però il romanzo si perde un po’. C’è troppa carne al fuoco, a cui l’autore non dedica sempre la giusta attenzione e lascia lì un po’ a bruciare.
Alla storia di Thomas e della moglie Camille, si aggiunge quella della famiglia di Thomas: il suo rapporto con i genitori, nel ricordo del padre morto; il suo legame con Jean e il suo paese d’origine; i pochi contatti con Pauline e i tanti perché che sono rimasti in sospeso fin dalla sua infanzia. Sembrano quasi due, se non tre, romanzi diversi (e in effetti il testo è diviso in tre parti, definite proprio libri) che l’autore tiene insieme con un filo sottile, che sì, c’è, ma non sempre riesce a tenere tutto unito come dovrebbe. È un libro lungo e faticoso, che ha sì tanto da dire e con alcuni momenti davvero belli e intensi, che però un po’ si perdono in uno sbrodolarsi di parole non sempre così necessarie (un centinaio di pagine in meno non avrebbero guastato, ecco).

Si arriva alla fine All’inizio del settimo giorno abbastanza esausti dalla lettura, con qualche dubbio e qualche domanda rimasta senza risposta. Forse è un romanzo che va letto con la mente completamente sgombra da qualsiasi altro pensiero e la possibilità di concentrarsi solo ed esclusivamente su di esso. Così, sicuramente le parti che già ho apprezzato sarebbero risaltate ancora di più e probabilmente non mi sarei persa nelle lunghe descrizioni e nelle divagazioni. 

In ogni caso, oltre all’innegabile fatica, questo romanzo di Luc Lang mi ha lasciato anche altre cose: alcuni pensieri, dovuti forse a ricordi di esperienze personali che hanno fatto capolino ogni volta in cui Thomas andava a trovare la moglie Camille in ospedale; alcune riflessioni su come il passato possa influenzare il nostro presente e soprattutto su come due persone vicine, nello stesso ambiente, possano vivere le cose in modo completamente diverso. E che nulla è mai davvero come sembra.

Titolo: All'inizio del settimo giorno
Autore: Luc Lang
Traduttore: Maurizio Ferrara
Pagine: 561
Anno di pubblicazione: 2018
Editore: Fazi editore
Prezzo di copertina: 18€
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formato cartaceo:All'inizio del settimo giorno
formato ebook: All'inizio del settimo giorno

martedì 22 maggio 2018

D'AMORE E BACCALÀ - Alessio Romano

In questo una *tasca* è davvero una piccola metafora di Lisbona con il suo traffico folle e viuzze in salita: tutto così piccolo e tutto sempre così affollato. Ma il caos assoluto di Lisbona non ha nulla a che fare con quello delle altre metropoli occidentali, non riesce mai a stressarti perché ha sempre un che di gioioso. È un caos che non imbruttisce le persone, perché è il caos del gioco, della gioia di vivere.

Non sono mai stata a Lisbona ma la sogno ormai da un po’.  Dalle foto, dalle immagini, dai racconti di chi ci è stato ho la certezza quasi assoluta che mi piacerebbe da matti. Forse è anche per questo, per questa voglia di andarci e questa certezza, che D’amore e baccalà di Alessio Romano, nuovo volume della collana Allacarta di EDT, mi ha attirato fin dalla prima volta che ne ho sentito parlare. Ok, anche il titolo alquanto buffo e la copertina hanno avuto un loro ruolo. E aggiungiamoci pure che i libri di questa collana dedicata agli scrittori e al cibo del mondo che ho letto finora mi hanno sempre dato grandi soddisfazioni. Insomma, questo libriccino lo dovevo proprio leggere.

Alessio Romano ci parla di quello che ha mangiato nella sua permanenza di un mese a Lisbona, ma anche di molto di più. Tra baccalà, pasteis de nata e sardine, lo scrittore descrive una città letteraria e cinematografica, dove si ritrova a inseguire un amore che forse è solo una botta in testa. E così si ritrova a parlare con Pessoa e Tabucchi; così va a mangiare in una locanda con un pianista d’eccezione; così si ritrova a camminare per la città, a vivere una vita magica e misteriosa, accompagnato dalla musica fado e inseguito dal Tram 28.

"Il fado è il tentativo riuscito di trovare una perfetta alchimia tra poesia e musica. Ma in una *tasca* è anche connesso con il cibo: è l'ultimo senso, il suono, che rende perfetta la percezione di un piatto che ha già sapore, odore, aspetto ed è caldo o freddo, ma non emette alcun rumore. E poi c'è il sentimento. Un bravo fadista canta e suona sempre come se quella fosse l'ultima canzone della sua vita."

Alessio Romano ha fatto forse di più di quello che questa collana richiedeva. Non si è limitato a parlare del cibo, a fare un mero elenco di cosa ha mangiato e dove, ma ha creato una storia che, nella sua semplicità, incanta e descrive al meglio molte delle caratteristiche di Lisbona e del popolo portoghese. E forse si sarebbe meritata un romanzo più lungo, tutto per sé. (La scena dell’incontro con Pessoa, Camões e Tabucchi, per esempio, vale già da sola tutto il libro e richiama un po’ Midnight in Paris di Woody Allen, anche se in un’atmosfera completamente diversa).
Ho letto molti dei libriccini che compongono la collana Allacarta. Alcuni mi sono piaciuti molto (My Little China Girl di Culicchia, per esempio, che mi ha fatto molto ridere), altri un po’ meno (Marco Malvaldi con il suo La famiglia Tortilla forse poteva sforzarsi un po’ di più), ma D’amore e baccalà di Alessio Romano credo sia in assoluto il più bello che ho letto.

"È un'impressione o per un attimo vedo dietro di noi il Tram 28? A bordo ci sono tutti quanti. Mi stanno salutando dai finestrini aperti. Amália, Pessoa, Chiado, Camões, Tabucchi, Pereira, Ingrid Bergman e il vecchio Sam. E alla fine del Tram, abbracciati insieme, Ulisse e Ofiusa, finalmente serena. Al posto di guida c'è un enorme Squalo in divisa da autista.
Sbatto le palpebre.
E il Tram 28 non c'è più."

E ora sogno ancora di più Lisbona. Sogno il baccalà (sì, anche se il pesce non mi piace), i pasteis de nata e, soprattutto, le strade, la gente, i profumi, i colori e gli incontri, reali o meno, con tutti i misteri e le magie di quella città. 


Titolo: D'amore e baccalà
Autore: Alessio Romano
Pagine: 162
Anno di pubblicazione: 2018
Editore: EDT
Prezzo di copertina: 8,90€
Acquista su amazon:
formato brossura: D'amore e baccalà

martedì 15 maggio 2018

Il mio SalTo 2018

La trentunesima edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino si è conclusa ieri sera ed eccomi a tentare di raccontarvi com'è stato. Dico tentare, perché è sempre difficile riuscire a trasmettere all'esterno quello che si vive là dentro.



Pare sia stata, come sempre, un’edizione di successo. L’edizione dei record, la chiamavano già ancor prima che iniziasse, per via di un overbooking che sicuramente fa piacere dal punto di vista della voglia di partecipare ma che ha penalizzato quei poveri editori (paganti) che sono finiti nel Padiglione 4, il tendone surriscaldato creato in extremis per ospitare tutti. 
A parte questo problema, ben evidente a tutti, il Salone è grossomodo sempre uguale. Anche il numero di visitatori, stando al comunicato stampa ufficiale di chiusura, non è poi variato di molto: l’anno scorso erano stati 143.815 i visitatori unici, quest’anno sono stati 144.386. Numeri belli alti, per un paese in cui si dice che i libri non interessano a nessuno... bisogna poi solo capire se agli ingressi corrispondono anche le vendite da parte degli editori, ma dubito che si verrà mai a sapere.

È cambiata un po’ la disposizione degli stand, per fare posto ai grandi editori che, dopo il forfait dell’anno scorso, sono ritornati nei padiglioni del Lingotto. Non sono invece cambiate le code, né quelle per la sicurezza (ingestibili solo i primi giorni, in realtà, perché io il sabato e la domenica sono entrata senza alcun problema e con un’attesa massima di dieci minuti) né quelle per gli eventi (che, almeno nel mio caso, fungono un po’ da selezione naturale e stabiliscono il vero grado di interesse per quell'evento: c’è coda e ho voglia di farla? Quell'evento per me è imperdibile. C’è coda e uff, che palle! Vabbé, faccio altro).

Eppure, pur essendo tutto sommato un’edizione uguale a tutte le altre, devo ammettere che quest’anno ho provato un po’ meno entusiasmo del solito. Forse perché è un periodo che lavoro un po’ troppo e sono un po’ stanca, ma quest’anno l’atmosfera del Salone, anche una volta dentro, passato il primo istante di “finalmente eccoci qui”, l’ho sentita meno. E, in generale, credo che ci fosse un po’ meno vivacità da parte di tutti.

In ogni caso, ho assistito a eventi molto belli (pochi, ma buoni) e soprattutto, e questo sì che mi è piaciuto!, ho chiacchierato, riso, scherzato e abbracciato tante, tantissime persone. Alcune che vedo ogni anno solo al Salone, altre che non vedevo da tanto, altre ancora a cui finalmente sono riuscita a dare un volto dopo tante interazioni virtuali. Mi ripeterò, lo so, ma la cosa più bella del Salone è soprattutto questa: le persone. I saluti e i sorrisi al volo in mezzo ai corridoi, ma anche le chiacchiere in coda o appoggiati devastati a una colonna. Le foto, le battute, le risate, i pettegolezzi, i “come va?”, i “che bello conoscerti!”, i caffè, i barattoli di pesto e i saluti impacciati che però fanno sempre un immenso piacere. 
 E ve lo dico da timida e insicura, da ragazza che prima di trovare il coraggio di avvicinarsi e salutare qualcuno ci deve pensare un po’, a volte troppo al punto che poi quel qualcuno da salutare non c’è più (un esempio tra tutti: sono rimasta dieci minuti buoni allo stand delle edizioni e/o a fissare Eric-Emmanuel Schmitt e cercare il coraggio di avvicinarmi e salutarlo e chiedergli l’autografo. E poi niente, sono scappata).

Ma parliamo un attimo degli eventi a cui ho assistito. Quest’anno l’unico per cui ho deciso che valeva la pena davvero fare la coda è stato Fernando Aramburu. Sarà che ero in buona compagnia (ciao Veronica, è stato un vero piacere!), sarà perché ho amato Patria come era tanto tempo che non amavo un libro… non lo so, però l’ho fatta volentieri e la rifarei ancora adesso. Credo sia stato uno degli incontri più belli a cui abbia mai assistito in tutti questi anni di Salone. Si è parlato di ETA, ovviamente, ma anche del ruolo che la letteratura e gli scrittori in generale dovrebbero avere nel raccontare le storie, soprattutto quando si tratta di fatti reali: secondo Aramburu non devono tanto concentrarsi e interessarsi al “cosa”, perché il cosa si trova in tutti i libri di storia, ma al come, per dare veramente voce a chi un periodo storico l’ha vissuto sulla sua pelle. (Tra l'altro al pomeriggio proprio Aramburu con il suo Patria ha vinto il Premio Strega Europeo)
Paolo di Paolo, Fernando Aramburu e Maria Ida Gaeta. In piedi, l'interprete nella lingua dei segni, una cosa molto bella di questa edizione del Salone. 

Il giorno precedente, il sabato, ho partecipato insieme a un gruppo di adolescenti all'incontro con il fumettista Sio, che da quando scoperto ogni mattina è quasi sempre il fautore della mia prima (e a volte anche unica) risata quotidiana. Lui è esattamente come i suoi fumetti: apparentemente demenziale e assurdo ma in realtà geniale.

Il fumettista Sio che presentava "La Genda sCOMIX"
Sempre il sabato, sono andata a un incontro alla libreria La Luna’s torta durante il quale la casa editrice NN si è presenta e ha raccontato la sua storia. L’evento faceva parte del programma del Salone OFF, gli eventi collaterali al Salone che si tengono ogni anno in giro per Torino proprio negli stessi giorni. E, devo ammettere, non sono ancora così convinta che sia una buona idea. Se sono dentro al Salone devo uscire, spostarmi per la città e poi magari rientrare (e se non si ha il pass, pagare di nuovo il biglietto) se voglio assistere a un altro evento interno al Salone. Mi sembra un metodo un po’ dispersivo, che va a discapito degli eventi OFF, ovviamente.

La domenica, invece, oltre al già citato Aramburu, ho partecipato all’incontro con Tristan Garcia, scrittore francese pubblicato in Italia da NN editore, di cui sta per uscire il nuovo romanzo: 7. Una sala piena, anche in questo caso, pur essendo uno scrittore forse non così conosciuto. Ed è stato bello e interessante.
Poi sono andata alla presentazione di Kaiser di Marco Patrone, edito da Arkadia edizioni, e a quella di Holden & Company. Peripezie di letteratura americana da j.d. Salinger a Kent Haruf di Luca Pantarotto, ovvero mio marito, che è stato presentato in anteprima proprio al Salone ma che ufficialmente uscirà, per aguaplano, il 22 maggio.



Alla fine sono tornata a casa con cinque libri. Sono pochi, mi rendo conto, ma poco è anche al momento il mio tempo per leggere, mentre molto alta è la pila di libri in attesa. Però, insomma, pochi ma direi molto buoni:



E ora non ci resta che aspettare l’edizione dell’anno prossimo che, salvo imprevisti, si terrà dal 9 al 13 maggio.

mercoledì 9 maggio 2018

NOTTE INQUIETA - Albrecht Goes

«Va bene; fare del male per prevenire il Male: è questo che vuol dire? La missione della spada come missione dell'ordine. Ma quale ordine difendiamo con la nostra guerra? L'ordine dei cimiteri. E l'ultimo di quei cimiteri, il più grande di tutti, saremo noi a occuparlo. E anche se dovessimo sopravvivere, allora avranno il diritto di chiederci: che cosa avete fatto? E noi tutti ci metteremo a dire: no, noi non abbiamo nessuna responsabilità, abbiamo fatto soltanto quello che ci è stato comandato. Ma pare già di vederlo, l'esercito di quelli che si laveranno le mani come altrettanti innocenti. Ci vorrà un asciugamano grande come un sudario, per tutte quelle mani.»

Non è facile parlare e dare voce ai cattivi, soprattutto se si racconta di un periodo storico reale e non di argomenti fittizi. Verrebbe quasi da chiedersi perché farlo, perché dedicare un romanzo o anche solo un pensiero a chi ha fatto tanto male al mondo e soprattutto alla sua gente. Però al tempo stesso credo sia normale interrogarsi sulle dinamiche mentali dei cattivi, chiedersi cosa li abbia spinti a fare quello che hanno fatto, a comportarsi come si sono comportati, a uccidere. Ci credevano davvero o stavano solo eseguendo degli ordini? Credevano davvero che il sacrificio di molte, troppo vite umane innocenti fosse il giusto prezzo da pagare per raggiungere un presunto nobile ideale? Insomma, erano o non erano umani?

In Notte inquieta, da poco ripubblicato da marcos y marcos con la traduzione di Ruth Leiser, Albrecht Goes prova a rispondere a queste domande. Lo fa attraverso un pastore, in servizio tra ospedali, caserme e alloggi militari, tutti tedeschi, che un giorno viene chiamato d’urgenza in una città vicina per assistere un condannato a morte nelle ore precedenti e durante l’esecuzione. Lui accetta, perché non può fare altrimenti, perché il suo lavoro è quello. E l’unica cosa che può fare per rendere meno ingrato il suo compito è cercare di capire qualcosa di più dell’uomo che verrà ucciso, cercare, in quelle poche ore che gli sono rimaste, di conoscerlo e di sapere cosa l’abbia spinto a disertare. Una cosa pura e semplice, come l’amore. Mentre è lì che studia tutte le carte, nella sua camera arriva un altro uomo, il capitano Bretano in procinto di partire per Stalingrado e quasi sicuramente di non tornare mai più. E con lui, Melania, la donna che ama e che sa che probabilmente non vedrà mai più. 

Non c’è molto altro da dire sulla trama di Notte inquieta. È un libriccino tutto sommato sottile, ma che racchiude interrogativi ed emozioni molto, molto grandi, che ti rimangono in testa a lungo anche dopo aver chiuso il libro. Racconta il lato umano dei cattivi e in qualche modo cerca di aumentarne la condanna: perché è inevitabile chiedersi come sia possibile che persone capaci di amare possa nocompiere tali atrocità, o anche solo accettarle. 
È questo pensiero che mi ha accompagnato per quasi tutta la lettura, impedendomi forse di cogliere appieno il vero senso di quello che Albrecht Goes stava raccontando. Da un lato ho provato una forte empatia nei confronti del disertore, disposto a tutto per amore, e di Melania, desiderosa di godersi di stare con la persona che ama fino all’ultimo

«Che ore sono?»
Guardo l'orologio e rispondo sottovoce: «L'una.»
Poi, silenzio. Ma la voce, non rivolta a me, dice, ed è impossibile non sentirla: «Ancora sei ore.» E poi, anche più sommessa: «Ancora sei attimi.»
E l'altra voce (ti chiedo scusa d'averti sentita!): «Ancora sei anni.»
Questa è la dolcezza dell'amore: le ore diventano anni. E questa è la saggezza dell'amore: l'attimo si fa lungo come un anno. Hanno una notte sola, quei due. Ma vuol dire: per sempre.

Dall’altro lato, però, ho provato quasi rabbia verso questo pastore, che non riesco a vedere come vittima degli eventi, per quanto sicuramente più grandi di quanto una singola persona potesse  combattere. Certo, lui non nega il conforto a nessuno; lui si arrabbia di fronte ai gesti e ai comportamenti violenti e ingiustificati degli altri ufficiali; e soprattutto porta un po' di compassione e calore in luoghi in cui sembra non si sappia nemmeno cosa sia.
Ma è davvero sufficiente, o una luce fioca in una notte buia e inquieta non fa altro che rendere ancora più oscure le altre, sapendo che, una volta spenta, non cambierà nulla?

Titolo: Notte inquieta
Autore: Albrecht Goes
Traduttore: Ruth Leiser
Pagine: 110
Anno di pubblicazione: 2018
Editore: marcos y marcos
Prezzo di copertina: 15€
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formato brossura:Notte inquieta

sabato 5 maggio 2018

SalTo 2018: chi, cosa, quando, dove e perché

Manca ormai meno di una settimana all'inizio della XXXI edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino, che aprirà ufficialmente sempre negli spazi espositivi del Lingotto giovedì 10 maggio. Se quella dell’anno scorso, la prima guidata da Nicola Lagioia, è stata l’edizione dell’orgoglio dei piccoli e medi editori, dopo la spaccatura con l’AIE, quella di quest’anno è sicuramente l’edizione della verità: riuscirà Torino a confermare (e magari superare) i numeri e, soprattutto, l’entusiasmo dell’anno scorso? 

Intanto quest’anno i grandi editori sono tornati. Una scelta commerciale credo quasi obbligata per i colossi editoriali, che però ha portato a qualche problemino di spazio, con overbooking e ricerche di nuovi luoghi espositivi. Ora comunque tutto pare essere stato risolto al meglio.

Tema di quest’anno è Un giorno, tutto questo, accompagnato dal manifesto di Manuele Fior. (ok, lo confesso, di primo impatto ho pensato al "Re Leone", ma poi la sensazione è passata e trovo sia il tema sia il manifesto davvero molto belli).



Quest’anno sarò presente due giorni, sabato 12 e domenica 13, per questioni logistico-famigliari ma soprattutto di programma che, devo dire, quest’anno trovo davvero notevole.
Ecco qui gli eventi che mi interessano di quei due giorni e a cui farò di tutto per partecipare. Segno anche quelli in contemporanea, sia mai che riesca in qualche modo a essere presente in due posti allo stesso tempo.

SABATO 12
H 12 – Incontro con Alice Sebold  – Sala Azzurra
H 13 – Ciaone Salone! Incontro con Sio - Spazio Stock Bookstock Village
H 16 – Lo scrittore e il suo doppio: Fernando Aramburu dialoga con il suo traduttore Bruno Arpaia  –Sala Professionali
H 16 – Sentimento e segreto: incontro con Javier Marías – Sala Azzurra
H 17.30  – Incontro con Auður Ava Ólafsdóttir  – Sala Blu

DOMENICA 13
H 12  – Incontro con Fernando Aramburu  – Sala Azzurra
H 12.30  – La felicità in montagna - Incontro con Franco Faggiani, autore de La manutenzione dei sensi  – Spazio Autori
H 13.30  – Incontro con Eric-Emmanuel Schmitt  – Sala Azzurra
h 15.30  – Una Black Mirror letteraria - Incontro con Tristan Garcia, autore di 7  – Spazio Internazionale
h 17  – I maledetti: Goffredo Fofi legge James Joyce - I morti  – Sala Filadelfia
h 17.30  – Kaiser - Presentazione del libro di Marco Patrone – Sala Avorio
h 18.30  – Holden & Company -presentazione libro di mio marit... ehm Luca Pantarotto  – stand B38/C37 Regione Umbria


A differenza degli altri anni, non ho ancora stilato una lista di libri che vorrei acquistare. Forse perché la pila di quelli ancora da leggere mi fissa minacciosa da diversi mesi e non accenna a diminuire, ma ho deciso che cercherò di contenermi, comprando solo poche cose ma che davvero voglio e affidandomi all'ispirazione del momento.

Voi ci sarete? Quali giorni? Avete già scelto a quali incontri partecipare e quali libri comprare?  Insomma, ci vediamo lì? (Perché lo so che lo dico ogni anno, ma ogni anno si dimostra essere vero, la parte più bella in assoluto del Salone del Libro, ma delle fiere in generale, sono le persone e le chiacchiere che si scambiano in mezzo ai libri.)

mercoledì 2 maggio 2018

MANHATTAN BEACH - Jennifer Egan

Dopo anni di lontananza il padre le fu di nuovo vicino. Non riuscì a vederlo, ma sentì il dolore nodoso delle sue mani sotto le ascelle quando la sollevava da terra per portarla in braccio. Udì il tintinnio attutito degli spiccioli nelle tasche dei pantaloni. La sua mano era una presa elettrica dove lei infilava sempre la propria, ovunque andassero, anche quando non le importava. Anna si fermò, stordita dalla forza di quelle impressioni. Senza pensarci, si portò le dita al viso, aspettandosi quasi l'odore caldo, amaro del tabacco di suo padre.


Manhattan Beach, uscito da poco per Mondadori con la traduzione di Giovanna Granato, è il primo romanzo che leggo di Jennifer Egan. Non so se sia una premessa necessaria oppure no, perché se da un lato le più frequenti critiche che ho letto nei confronti di questo libro riguardavano proprio il suo essere completamente diverso rispetto alle opere precedenti (Guardami, La fortezza, Il tempo è un bastardo e Scatola nera usciti tutti per minimum fax con le traduzioni di Matteo Colombo e Martina Testa), dall’altro sono convinta che uno scrittore che riesca a cambiare drasticamente il suo stile ed essere comunque convincente sia per forza di cose un bravo, bravissimo scrittore. Già solo per il fatto di aver osato cambiare, sapendo benissimo di andare contro alle aspettative di tutti i suoi precedenti lettori. 
Comunque, io di Jennifer Egan non avevo mai letto niente e Manhattan Beach mi è piaciuto molto. Sarà che ho una passione per i romanzi che, attraverso personaggi inventati seppur ispirati a qualcuno di reale, raccontano un periodo storico ben preciso. E più pagine hanno, più fitti sono gli intrighi, più a fondo scavano nella società di un’epoca, più mi piacciono.

Con Manhattan Beach andiamo nella New York degli anni ’30 e poi ’40, insieme ad Anna, bambina che segue suo padre Eddie quando va in giro a svolgere gli affari per il sindacato che sta tenendo in vita lui e la sua famiglia, e poi donna adulta che si occupa della famiglia lavorando nel cantiere navale in preparazione alla guerra e intanto sogna di diventare palombara. 
Da piccola ad Anna piaceva andare in giro con suo padre. Tra loro c’era un legame speciale: lui la adorava, quasi in contrasto con quello che provava verso l’altra figlia, Lydia, nata con un grave problema di salute; lei amava stare in auto con lui, tenerlo per mano e mantenere ogni segreto che lui le chiedeva di mantenere. I loro cammini iniziano però a dividersi quando Eddie decide di accettare di lavorare per Dexter Styles, un uomo molto potente nella New York di quegli anni grazie ai suoi traffici non proprio puliti, che però garantirebbero una vita migliore a tutta la famiglia. 
Anni dopo, di Eddie non c’è più traccia. Sparito nel nulla un giorno, lasciando la moglie e le due figlie e senza mai più dare notizie. Anna è delusa dal padre, ma a poco a poco pare essersi abituata alla sua assenza. Lavora come molte altre donne, che quando gli uomini sono stati chiamati alle armi, hanno occupato il loro posto, ma a differenza delle altre lei non ci sta a essere solo una sostituta e a vedersi preclusi posti che agli uomini non sono. Così, il giorno in cui vede degli uomini immergersi con un enorme scafandro, decide che quello sarà il suo destino: diventare palombara. 
Finché una sera, proprio grazie a una sua collega, dopo tanti anni incontra Dexter Styles. Subito non si ricorda di lui, di quel giorno di tanti anni fa in cui ha accompagnato suo padre a casa sua, dando inizio a tutto quanto. Poi a poco a poco i ricordi tornano a galla e la voglia di scoprire cosa è successo si fa di nuovo viva. Anna è disposta a tutto pur di capire, di sapere, di ritrovare suo padre, vivo o morto.

Jennifer Egan ha scritto un romanzone, è l’unico modo in cui riesco a definire Manhattan Beach. Un romanzo storico in qualche modo, che descrive diversi aspetti di quell’epoca: da un lato le difficoltà economiche di chi è stato schiacciato dalla crisi, dall’altro chi invece riesce ad arricchirsi e a sfruttare questa crisi; l’epoca della seconda guerra mondiale, dal punto di vista di chi parte ma anche da quello di chi resta e aiuta come può. Ma ha scritto soprattutto un grande storia famigliare, con una protagonista incredibile.

Rose si era sbagliata dicendo che il mondo sarebbe tornato di nuovo piccolo. O almeno non sarebbe mai più stato il piccolo mondo di prima. Erano cambiate troppe cose. E, fra una trasformazione e un riallineamento, Anna si era infilata in una crepa ed era scappata.

Leggendo questo libro si percepisce poi quanto l’autrice si sia divertita a scriverlo, a fare ricerche, scavare nelle storie e nei racconti di chi quell'epoca l’ha vissuta per fornirne un ritratto il più reale e fedele possibile, nonostante l’uso di personaggi inventati. 
Non tutti sono in grado di farlo. Non tutti sono in grado di scrivere un romanzo così articolato, con così tanti legami, intrecci, colpi di scena, momenti di tenerezza e di fragilità, ma anche di forza, coraggio e tenacia, e riuscire a tenere il lettore sempre lì, immerso nelle pagine come Anna lo è nel mare del porto nel suo scafandro. 

E forse sì, forse Manhattan Beach è un romanzo più “classico”, diverso dalle opere precedenti dell’autrice e dallo sperimentalismo che da sempre si associa allo stile e alla scrittura della Egan. Ma questo non vuol dire che non possa essere altrettanto bello. 


Titolo: Manhattan Beach
Autore: Jennifer Egan
Traduttore: Giovanna Granato
Pagine: 510
Anno di pubblicazione: 2018
Editore: Mondadori
Prezzo di copertina: 22€
Acquista su amazon:
formato brossura:Manhattan beach
formato ebook: Manhattan Beach (versione italiana)