giovedì 31 maggio 2012

IL RUMORE DEI BACI A VUOTO -Luciano Ligabue

Un cane regalato mette a nudo un matrimonio che fa fatica a stare su, e chissà se a Tano fare il vigile basterà. E il Matto Bedini? Esisterà davvero o saranno le solite chiacchiere di paese? Di sicuro esistono i due ragazzini che decidono di scoprire finalmente la verità. Una lettera che un chirurgo forse aprirà, forse no. Che forse gli farà aprire gli occhi su una storia di quotidiana disumanità, forse no, ma è certo che li farà aprire a noi. Un'azienda che sta morendo, anche se ha ancora qualcosa da dire, e un fiume che sta morendo, anche se ha ancora qualcosa da dire. Una vacanza nell'estate più strana fin qui e una in pieno inverno, e la scoperta che il passato riesce a ferire nonostante i patti e le promesse, ma forse non mortalmente. Un comico all'apice del successo che compie una scelta difficile da capire. Un rapimento per errore che forse non è tanto per errore. Una moglie già anziana che si è portata dentro tutta la vita un incredibile segreto e adesso lo svela. O forse no. E quale verde aspetterà il giovane medico per oltrepassare il semaforo davanti al quale la sua vita sembra essersi tranquillamente assestata? Ci sono molti tipi di amore, in queste storie. Nessuno facile. Verso i figli, verso i genitori, verso gli amici, dentro le più diverse coppie e famiglie. Ma c'è soprattutto tenerezza, nei racconti teneri come in quelli che colpiscono dritti allo stomaco. E c'è speranza e futuro, nei finali aperti che lasciano immaginare tante soluzioni possibili. 

Dai pensavo peggio. No sul serio, credevo di trovarmi davanti al classico libro scritto da qualcuno che nella vita dovrebbe fare altro (soprattutto se quell'altro gli riesce tanto bene, come Ligabue) e invece alcuni dei racconti che compongono questa raccolta sono leggibili e godibili. D'altronde Ligabue aveva già dato prova di avere anche una certa predisposizione letteraria con le sue due opere precedenti: "Fuori e dentro il borgo" , un'altra raccolta di racconti  che ho letto quando ero adolescente e da cui era stato poi tratto il per me bellissimo film "Radiofreccia", e "La neve se ne frega" di cui in molti mi hanno parlato bene ma che ancora non ho avuto l'ispirazione di leggere.
Quindi diciamo che Ligabue non dovrebbe rientrare in quella categoria di autori  che scrivono sfruttando il successo di un altro ambito della loro vita e che io, ammetto con un po' di pregiudizio che ancora non sono riuscita a farmi passare, non stimo molto (un po' sarà anche invidia forse... ma come già sei un attore/calciatore/presentatore tv/dj/sportivo... se non tutte queste cose messe insieme... e devi anche avere successo come scrittore?Non è mica giusto!).

Comunque, tornando a noi, "Il rumore dei baci a vuoto" si compone di tredici racconti molto diversi tra loro. Nessuno di questi, diciamolo subito, è un capolavoro. Però ce ne sono un paio che appunto, come dicevo prima, si fanno leggere.
Tra questi c'è sicuramente "Lo vuole vedere?", la lettera che un uomo scrive al chirurgo che ha operato suo padre di un tumore allo stomaco. Una lettera incredibile, toccante e che riesce a stupirti per quello che racconta. Ti lascia proprio a bocca aperta, forse perché non te lo aspetti (ma non posso dirvi molto, perché svelare il finale nei racconti è veramente cosa facile visto quanto sono brevi).
Un altro che a mio avviso non è poi così male è "L'estate più calda fin qui" che racconta di due coppie in vacanza sul fiume: hanno noleggiato una barca e vogliono risalirlo. Ben presto nasceranno seri problemi di convinvenza, soprattutto perché una delle due donne è un po' una pazza isterica con nessuna voglia di lavorare e aiutare. Mi ha fatto un po' sorridere, forse perché, molto ma molto in piccolo, in situazioni di convivenza difficile in vacanza mi ci sono ritrovata molto spesso. E anche in questo caso il finale, seppur prevedibile, lascia abbastanza sorpresi.
A questi si aggiunge anche "Ristretto vuol dire ristretto", che mi ha fatto venire voglia di prendere a pugni il suo protagonista e che comunque riflette bene certe manie di cui spesso nemmeno ci rendiamo conto.
E anche tutti gli altri comunque si leggono bene e riescono, almeno per un attimo, a lasciare qualcosa e far un po' pensare.

Per cui, tutto sommato, direi che almeno in questo caso i miei pregiudizi erano privi di fondamento. Certo, sono abbastanza sicura che se Ligabue non fosse Ligabue non avrebbe venduto tutte le copie che ha venduto.
Libri come questo hanno il pregio/difetto di avvicinare alla lettura anche persone che di solito non leggono, ma che vedendo il nome del cantante/attore/presentatore loro beniamino sulla copertina si lasciano cattuare. E in questo non ci vedo nulla di male. Il problema, almeno per come la penso io, sorge quando uno legge solo ed esclusivamente libri di autori "famosi" in altri campi perché così facendo si perde i libri degli scrittori veri, di quelli nati per scrivere e che fanno solo quello di mestiere (con risultati qualitativamente migliori).

Però direi che, una volta ogni tanto, si possono e si devono mettere da parte i pregiudizi e dare una chance anche a questi autori "prestati alla letteratura", perché i risultati possono, come nel caso di Ligabue, anche essere piacevoli.



Titolo: Il rumore dei baci a vuoto
Autore: Luciano Ligabue
Pagine: 162
Prezzo di copertina: 15 euro
Editore: Einaudi I coralli

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lunedì 28 maggio 2012

GALEOTTO FU IL COLLIER- Andrea Vitali

Lidio Cerevelli è figlio unico di madre vedova. Un bravo ragazzo, finché alla festa organizzata al Circolo della Vela non arriva Helga: bella, disinibita e abbastanza ubriaca. Lirica, la severa madre di Lidio, abile e ricca imprenditrice dell'edilizia, ha vedute molto diverse. Suo figlio deve trovare una moglie "made in Italy", una ragazza come si deve. Magari la nipote del professor Eugeo Cerretti, Eufemia, un ottimo partito con un piccolo difetto: è brutta da far venire il mal di pancia solo a guardarla. Ma forse Lidio ha trovato il modo per uscire dalla trappola e realizzare tutti i suoi sogni: durante un sopralluogo per un lavoro di ristrutturazione, in un muro maestro scova un gruzzolo di monete d'oro, nascosto chissà da chi e chissà quando. Intorno a questo quintetto e al tesoro di Lidio, un travolgente coro di comprimari. A cominciare dalle due donne più belle del paese: Olghina, giovane sposa del potente professor Cerretti, che fa innamorare Avano Degiurati, direttore della Banca del Mandamento; e Anita, la moglie del muratore Campesi, di cui si incapriccia Beppe Canizza, il focoso segretario della locale sezione del Partito. E poi l'Os de Mort, di professione "assistente contrario", cuochi e contrabbandieri, l'astuto prevosto e l'azzimato avvocato... Immancabili, a vigilare e indagare, i carabinieri guidati dal maresciallo Maccadò. 

Primo passo falso di Andrea Vitali nei miei confronti. Porca miseria! Io ho aperto "Galeotto fu il collier"  convintissima di ritrovarmi di fronte ad un altro dei suoi piccoli gioielli, quei suoi bellissimi romanzi sempliciotti e un po' banali che sono sempre riusciti a catturarmi.
Avrei già dovuto avere un primo sentore che questa volta sarebbe stato diverso guardando lo spessore del libro. Sì, lo so, non si deve mai giudicare un libro dal numero di pagine: ma se i romanzi precedenti che ho letto erano spessi un terzo di questo qualcosa avrebbe già dovuto dirmi.
Ed effettivamente, leggendo ho avuto la conferma che Andrea Vitali da' il meglio di sé con le storie brevi, che trovo essere molto più adatte al suo stile e ai suoi personaggi, che forse non sono in grado di reggere la scena oltre le 150 pagine. Nei romanzi lunghi, infatti, perdersi è un attimo. Troppe trame parallele, troppi nomi da ricordare troppo a lungo, al punto che troppe volte ci si perde durante la lettura. Io ho iniziato ad avere i primi segni di cedimento intorno all'ottantanovesimo capitolo (poco oltre la metà, insomma), quando lo spunto originario si era ormai perso e continuavano a entrare e uscire dalla scena personaggi di cui non sempre mi ricordavo di aver sentito parlare.

Che poi, l'espediente originario, come tutte le altre volte, era pure bello ricco di potenziale: Lidio Cerevelli, geometra fasullo che vive ancora con la madre conosce una svizzera con un gran bel davanzale che gli fa conoscere i piaceri della carne e di cui si innamora perdutamente, al punto da chiederla in sposa. La donna però è promessa a un vecchio ricco ma brutto e non ha nessuna intenzione di rinunciare ad una vita di lussi e agi. Lidio le chiede di aspettarlo, tempo un anno e sarebbe stato ricco anche lui, in un modo o nell'altro (prima o poi la madre dovrà cedergli la ditta di famiglia, no?).
E da qui entrano poi in gioco: medici e mecenati, operai e geometri, baristi, ristoratori, membri del partito e spie, marescialli e ispettori, mogli prorompenti e ragazze talmente brutte da far venir le coliche. E soprattutto un tesoro di monete d'oro di cui tutti fingono di non sapere nulla ma che in realtà tutti conoscono.
Viste le premesse, a far confusione ci va davvero poco. Ancor più che, come già dicevo prima, lo stile di Vitali, rapido e già di suo a tratti volutamente confuso (come confusa è la banale vita di paese, dove fatti insignificanti diventano questioni di vita e di morte), a parer mio poco si adatta a storie troppo lunghe.

Per carità, i personaggi che l'autore riesce a creare sono sempre buffi e originari. E Bellano è sempre Bellano: uno sfondo perfetto per le vicende di chi lo popola e soprattutto per l'epoca in cui sono ambientate le storie (in questo caso siamo in pieno fascismo). 
Però questa volta, e lo dico con rammarico, qualcosa non ha funzionato e non mi è rimasto addosso lo stesso entusiasmo e la stessa voglia di leggerne altri che avevo invece provato con le altre sue opere. Forse anche l'averne lette così tante in così poco tempo mi ha in qualche modo assuefatto.

Sicuramente mi prenderò un po' di pausa da Vitali ora (avevo già deciso al momento di comprarlo che "Una finestra vistalago" me lo sarei tenuto per le vacanze estive), pur continuando comunque a consigliarlo a chiunque me lo chiederà.
Semplicemente dirò di leggere i romanzi che non superano le 250 pagine.

Titolo: Galeotto fu il collier
Autore: Andrea Vitali
Pagine: 394
Prezzo di copertina: 17,60 €

Editore: Garzanti
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venerdì 25 maggio 2012

IL FILM DELLA SUA VITA - Angelo Morino

Ispanista, critico e traduttore nel senso totale del termine, capace cioè di importare in Italia e offrire alle nostre vite, oltre e prima che alla nostra cultura, i migliori frutti della attività letteraria in lingua spagnola, Angelo Morino è stato anche uno scrittore. Scrittore dello sguardo, dotato di uno stile elegante e netto, caratterizzato dalla musica della precisione, dalla cadenza rasserenante e piena della descrizione, desideroso prima di tutto di celare se stesso narratore al lettore, pur narrando se stesso personaggio. Una parte cospicua di questa attività narrativa è stata (dopo la morte precoce) ritrovata nel suo computer. "Il film della sua vita" è la storia di una donna, o meglio di un rapporto madre figlio, in cui "sentivo sempre il suo occhio posato su di me". Inizia con la scoperta della malattia che condanna la madre a una morte rapida; condanna difficile da credere e da ammettere per un corpo sempre visto dal figlio come indistruttibile. Angelo Morino non è arrivato a rileggere "Il film della sua vita" nella realizzazione finale, ma l'impostazione narrativa fondamentale è del tutto compiuta nella struttura drammaticamente tesa tra due presenti: quello della malattia, e quello della vita e delle vite rapidamente trascorse, guidate da un copione inquieto presto diventato silenzio. 

Angelo Morino era un grande traduttore, un grande ispanista, un grande scrittore, un grande professore e un grande uomo.
Ho avuto la fortuna di seguire un corso con lui all'Università, una sorta di "laboratorio di traduzione" in cui si confrontavano diverse versioni tradotte di uno stesso romanzo (dallo spagnolo all'italiano), arrivando poi a proporre un'ulteriore alternativa. Angelo Morino era in grado di trasmettere tanto durante queste sue lezioni: niente nozioni, niente regole (se non quelle del buonsenso), solo una grande passione per la voglia di conoscere, per la cultura e per le lingue. E sebbene in lui la passione e la voglia di tradurre stesse ormai scemando ( e considerando quante opere ha tradotto è abbastanza comprensibile), quello che riusciva a dare a noi studenti, che invece stavamo affacciandoci per la prima volta su questo mondo, era una grande amore per il suo lavoro, che si basava soprattutto sulla curiosità e la voglia di scoprire e rendere accessibili a tutti testi che altrimenti non lo sarebbero. E poco importa se per farlo bisogna "sporcarsi le mani", combattere con il testo e con le differenze linguistiche.

Angelo Morino se n'è andato all'improvviso, lasciando un ricordo molto forte e affettuoso di sé anche per chi, come me, lo ha conosciuto pochissimo di persona (ma tantissimo attraverso le sue traduzioni).
Oltre al ricordo, ha lasciato un computer pieno di appunti, di idee e di opere incompiute. Tra queste, due romanzi. Il primo, "Quando internet non c'era", racconta dei suoi inizi come traduttore e uomo di cultura, delle difficoltà che si riscontravano in passato, quando google e wikipedia ancora non esistevano, per tradurre e per scrivere, a cui si univa episodi della sua vita.
Il secondo è proprio "Il film della sua vita", in cui l'autore parla del suo rapporto con la madre, una figura importante e spesso ingombrante che tanto ha influenzato la sua vita.
Diversi piani di narrazione si alternano nella storia: il presente, quando si scopre la malattia terminale della madre, da sempre considerata in qualche modo "immortale", partendo dai primi mesi di dolore che vengono scambiati per demenza senile, visto il carattere irruento della donna, fino alla diagnosi e agli ultimi giorni prima della fine. E poi il passato della madre, la sua vita da bambina, cresciuta prima dalla nonna e poi dagli zii dopo la morte precoce della madre e l'abbandono del padre. Della sua fuga dalla casa in cui veniva trattata come serva una volta divenuta maggiorenne, per andare in cerca di indipendenza, e del suo successivo spostamento in Piemonte per seguire l'amore. Si racconta degli anni della guerra e di quelli successivi, della nascita del figlio e del loro rapporto quando lui era piccolo e poi cresciuto.
I racconti di questo passato si mescolano ai ricordi del figlio, che riaffiorano ora che la madre è vicina alla fine: ricordi belli, del loro rapporto quando lui era un bambino, ricordi un po' più brutti, delle discussioni tra madre e padre o delle sberle prese durante scatti d'ira. Ricordi  legati alla sua vita affettiva e amorosa, consapevolmente negata dalla donna.
Un romanzo autobiografico che nasce, come molto spesso succede, quando si sa che la fine di un rapporto per forza di cose è vicina e che non si può fare niente per fermarla. E questo porta a riflettere su quello che è stato e su quello che è: sulle difficoltà che si vivono e sulla tristezza che necessariamente accompagna gli ultimi giorni.

Si tratta però di un'opera incompiuta, che ha preso luce grazie alla dedizione di chi ha cercato di mettere insieme tutti i pezzi: solo la prima parte è stata dichiarata "definitiva" da Morino stesso. Il resto sono suoi appunti, sue bozze che molto probabilmente sarebbero state modificate e corrette, se ne avesse avuto il tempo. La Sellerio, casa editrice con cui ha collaborato parecchi anni, e Vittoria Martinetto (anche lei mia docente all'università, nonché traduttrice e donna dalla cultura smisurata), che ha curato il libro, hanno voluto mettere insieme tutte le parti e pubblicare il libro, posizionando quelle non definitive in fondo al romanzo, sottoforma di note. 
Lo stile di Angelo Morino è incredibile: a tratti leggero, a tratti profondo, con un modo di narrare che quasi ipnotizza, che cattura, impedendoti di posare il libro. Ancora una volta, proprio come succedeva a lezione, ci si ritrova a pendere dalle sue labbra.

Il fatto che sia incompiuto, molto probabilmente rende il romanzo poco appetibile per chi non ha mai conosciuto il suo autore (nonostante la narrazione e lo stile siano comunque di altissimo livello).
Per chi invece ha incontrato Morino, anche se per poco, è un modo per sentirlo parlare, attraverso le sue pagine, ancora una volta.
E ne vale davvero la pena.

Titolo: Il film della sua vita
Autore: Angelo Morino
Pagine: 230
Prezzo di copertina: 13 €

Editore: Sellerio
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mercoledì 23 maggio 2012

NON ESISTE SAGGEZZA - Gianrico Carofiglio

I racconti di "Non esiste saggezza" provengono dai luoghi della realtà quotidiana: sono volti che emergono dalla folla dei viaggiatori, in zone neutrali di transito. Soprattutto, figure di donne: con esse, la voce del narratore è partecipe, solidale, protettiva, come a voler condividere il peso di un segreto in varie forme doloroso, a volerle affrancare da un destino ostile. Appaiono improvvisamente: a un casello autostradale, la bambina solitaria chiede a un automobilista ignaro di accompagnarla verso il mistero. L'attesa notturna in un aeroporto è colmata dai versi di una poetessa russa, dalla sosta sfuggente di una sconosciuta. E, improvvisamente, queste donne scompaiono: dall'ambulatorio di una missione umanitaria, ultimo posto in cui sono state viste una dottoressa volontaria e la ragazza colombiana sua compagna, nella rischiosa sfida a ingiustizie e prevaricazioni. I personaggi maschili si trovano a cercare, a inseguire: un'impressione, un sospetto, una curiosità che li spinge oltre i limiti del prevedibile, talvolta del lecito. E la raccolta si completa con un vero e proprio romanzo di formazione in miniatura, ambientato negli spazi metafisici della Murgia. "Le cose non esistono se non abbiamo le parole per chiamarle." 

E poi d'improvviso mi ritrovo a leggere praticamente solo più autori italiani. Sarà il periodo, in cui un po' di sano pratriottismo non può fare che bene. Sarà, molto più probabilmente, che mi sono accorta di essermi persa parecchi autori meritevoli a causa di quella mia inspiegabile e totalmente ingiustificata titubanza verso scrittori nostrani. Poi però, inizi con un Calabresi e te ne innamori perdutamente (al punto da fargli stalking al Salone del Libro), leggi un Vitali e ti perdi in Bellano senza riuscire a smettere di volerlo conoscere, scopri casualmente Marco Malvaldi e ridi leggendo come non ti capitava già da un po'. E poi conosci Gianrico Carofiglio e hai la conferma che in Italia ci sono scrittori bravi e meritevoli (senza ovviamente fare nessun torto a quelli che già conoscevi, altrettanto bravi).

Io con Carofiglio ci vado proprio tanto d'accordo. Avevo iniziato con "Il silenzio dell'onda", che ho divorato e amato e che mi ha lasciato parecchio su cui riflettere. Sono poi passata a "Le perfezioni provvisiore" e ho conosicuto l'avvocato Guerrieri, un altro "investigatore della domenica" (come il Massimo di Marco Malvaldi) che ho amato da impazzire, per i suoi ragionamenti, per la sua vita un po' sgangherata e per la passione che mette nelle cose che fa. 
"Non esiste saggezza" era la prova del nove. Come già ho detto diverse volte, i racconti non sono esattamente la mia più grande passione. Odio non avere tempo di affezionarmi al personaggio, odio le trame che per forza di cose devono essere un po' approssimative, odio immergermi in quello che sto leggendo e poi dover ritornare a galla dopo poche pagine. Quindi, se anche questa raccolta di racconti mi piace, vuol dire che, almeno per quello che mi riguarda,  Carofiglio è veramente ma veramente bravo, al punto da poter entrare di diritto tra i miei dieci autori preferiti.

E ovviamente ci è riuscito. E' riuscito ad appassionarmi, è riuscito a stupirmi e a farmi pensare. E' riuscito a farmi sorridere e a farmi stupire con questi dieci racconti. Certo, alcuni mi sono piaciuti meno di altri, ma questo è normale. Però nel suo complesso, questa raccolta di racconti è stupenda.
Già solo il racconto iniziale, che da' il titolo alla raccolta, ti lascia a bocca aperta per l'intensità della narrazione e della situazione narrata. Un incontro fortuito in aeroporto, la scoperta di un legame con una persona mai incontrata prima e quel senso di perdita, incontrollato, ingiustificabile eppure tanto forte, quando l'incontro finisce. Credo sia capitato a tutti almeno una volta nella vita.
Molto buffo ma anche molto commuovente è "Intervista a Tex Willer", in cui un uomo adulto (l'autore stesso immagino) intervista il suo eroe di quando era bambino, pondendogli domande buffe (tipo "ma perché usate quello strano linguaggio nel fumetto?" oppure "come mai lei non invecchia mai anche se tra le avventure che vive c'è uno stacco temporale di 100 anni?) ma anche alcune profonde che lasciano trasparire quanto siano importanti per noi quando siamo bambini i nostri eroi.
Altrettanto bello è "Il paradosso del poliziotto", in cui uno scrittore che vuole scrivere un libro intervista un ispettore anziano sui metodi della polizia durante gli interrogatori di sospettati e testimoni, e di come le botte e le percosse non siano sempre (leggi "mai") il modo migliore per far parlare chi ci sta davanti.
E poi c'è il lungo racconto conclusivo, "La doppia vita di Natalia Blum", veramente ma veramente incredibile e geniale.

Questi sono ovviamente solo alcuni dei racconti della raccolta, dieci in tutto, tutti con le stesse potenzialità di piacere e stupire, grazie allo stile di Carofiglio, profondo, leggero, toccante, commuovente, angosciante a seconda di quello che ci sta raccontando.
Non posso che consigliarlo!

Titolo: Non esiste saggezza
Autore: Gianrico Carofiglio
Pagine: 244
Prezzo di copertina: 14€

Editore: Rizzoli
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lunedì 21 maggio 2012

LA CARTA PIU' ALTA - Marco Malvaldi

"Non è che tutti gli anni possono ammazzare qualcuno per farvi passare il tempo", sbotta disperato Massimo il barrista. Ma è impossibile sottrarsi al nuovo intrigo in cui stanno per trascinarlo i quattro vecchietti del BarLume: nonno Ampelio, il Rimediotti, il Del Tacca del Comune, Aldo il ristoratore. Dalla vendita sottoprezzo di una villa lussuosa, i pensionati, investigatori per amor di maldicenza, sono arrivati a dedurre l'omicidio del vecchio proprietario, morto, ufficialmente, di un male rapido e inesorabile. Massimo il barrista, ormai in balìa dei vecchietti che stanno abbarbicati tutto il giorno al tavolino sotto l'olmo del suo bar nel paese immaginario e tipico di Pineta, al solito controvoglia trasforma quel fiume di malignità e di battute in una indagine. Il suo lavoro d'intelletto investigativo si risolve grazie a un'intuizione che permette di ristrutturare le informazioni, durante un noioso ricovero ospedaliero: proprio come avviene nei classici del giallo deduttivo. E a questo genere apparterrebbero, data la meccanica dell'intreccio, i romanzi del BarLume, se non fosse per le convincenti innovazioni che vi aggiunge Marco Malvaldi. La situazione comica dei quattro temibili vecchietti che sprecano allegramente le giornate tra battute diatribe e calunnie, le quali fanno da base informativa e controcanto farsesco al mistero. La feroce satira che scioglie nell'acido ogni perbenismo ideologico. La rappresentazione, umoristica e aderente insieme, della realtà della provincia italiana... 

Se c'è una regione che adoro tantissimo è la Toscana. Amo il cibo, amo i paesini arroccati e i casolari circondati da campi, rotoballe e girasoli. Amo il mare e amo le persone, con quel loro accento fantastico da cui ha avuto origine la nostra lingua.
Se c'è invece un genere letterario che adoro tantissimo sono i gialli che hanno come protagonisti improbabili investigatori, persone comuni che non si prendono sempre troppo sul serio e che arrivano a conclusioni geniali senza quasi accorgersene. Mi piacciono ancora di più, se ad affiancare questi "investigatori della domenica" ci sono degli altrettanto improbabili aiutanti che più che aiutare creano confusione e rendono il tutto ancor più incasinato (passatemi il termine).

E i gialli di Marco Malvaldi (questo in ordine cronologico è l'ultimo, ma ce ne sono tre precedenti) sono tutti ambientati a Pineta, un paese di mare della Toscana, e hanno come investigatore Massimo, proprietario di un bar, aiutato da quattro vecchini, che sono soliti occupare un tavolo e impicciarsi nella vita di tutti.
In questa nuova vicenda, Massimo si ritroverà per puro caso ad indagare su due morti tra loro collegate avvenute parecchi anni prima: quella di Ranieri Carratori, ucciso da un tumore alla prostata e da una dose troppo massiccia di chemioterapia, e quella di Davide Calonaci, suo oncologo curante, nonché fidanzato della figlia dell'uomo, suicidatosi dopo la prima tragedia.
Sembra quella di Carratori una morte abbastanza chiara, l'oncologo ha sbagliato la dose di chemio e poi, sentendosi in colpa per quanto successo, si è suicidato. Ma troppe cose non sono chiare in quel che è successo. Ad esempio il fatto che Carratori avesse appena venduto la sua casa con la formula della nuda proprietà (ovvero a una cifra molto più bassa ma con l'usufrutto fino al suo decesso), il fatto che la moglie del compratore, Foresti, lavorasse proprio nello stesso ospedale in cui l'uomo era ricoverato, o il fatto che Carratori, sebbene sottoposto a una terapia radioattiva abbia baciato ugualmente il pancione della nuora incinta.  Per non parlare del fatto che per il tipo di tumore una terapia radioattiva non sarebbe necessaria. Insomma, tante piccole incongruenze, tanti piccoli tasselli che andrebbero rimontati e che il nostro Massimo si ritroverà a maneggiare da un letto di ospedale, dove è finito dopo essere inciampato in una radice (un'altra cosa che adoro della Toscana sono le pinete). E ad aiutarlo ci sono i vecchini del BarLume, quelli che si riuniscono lì tutti i giorni per giocare a briscola e che non sopportano che nel loro paese non succeda mai niente. Oltre a loro, c'è anche il dottor Berton, ortopedico che ha in cura Massimo e che si scopre essere il miglior amico di Davide Calonaci, e l'ispettore Fusco, che si vede costretto, non senza un certo interesse, a riaprire il caso.
Il finale è incredibile, uno di quei gialli ben studiati e quasi impossibili da risolvere, almeno per quel che riguarda l'arma del delitto e il movente.

Non avevo mai letto nulla di Marco Malvaldi e devo ammettere di esserne un po' pentita. E' un romanzo giallo piacevole, divertente, con scene comiche che a volte ti fanno proprio scoppiare a ridere (ecco, leggerlo in un luogo pubblico o in ufficio non è esattamente un'idea geniale), e con personaggi davvero ben caratterizzati. E sono convinta che anche gli altri siano così (tra l'altro, non preoccupatevi se come me non partite dal primo, perché sebbene i protagonisti principali siano sempre gli stessi, le trame non sono collegate tra loro).
All'inizio ho avuto un po' di difficoltà ad abituarmi a leggere le parti in dialetto toscano, linguaggio dei vecchietti, al punto da temere di ritrovarmi davanti a un nuovo Camilleri (che, mi dispiace, io non riesco proprio a leggere). Per fortuna però le parti dialettali sono riservate a qualche scambio di battute tra alcuni personaggi e leggendo con attenzione si riescono a capire.
Consigliatissimo!

Titolo: La carta più alta
Autore: Marco Malvaldi
Pagine: 198
Prezzo di copertina: 13 €
Editore: Sellerio
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venerdì 18 maggio 2012

IL DIAVOLO CUSTODE - Philippe Pozzo di Borgo

Rampollo di nobile famiglia, ricco, colto, affascinante e amante delle cose belle e raffinate, Philippe è paralizzato dal collo in giù a seguito di un incidente di parapendio. Non è la prima tremenda prova a cui la vita lo ha sottoposto: ha perso da poco la sua splendida e amatissima moglie, affetta da una rara forma tumorale. Philippe combatte coraggiosamente e ostinatamente con il proprio corpo, con il ricordo straziante di lei e con l'idea di essere un uomo inutile, finito, e per farlo usa tutti gli strumenti possibili, dall'impegno sociale all'attaccamento ai piaceri della vita. In questa sua battaglia ha un'arma speciale: il suo badante, un immigrato algerino appena uscito di galera, che entra un giorno nella sua vita "ingessata" con l'energia di un tornado e diventa immediatamente il suo "diavolo custode". Il loro rapporto di dipendenza reciproca e lo scontro ravvicinatissimo e spesso spericolato tra le loro culture si trasforma presto in un legame solido e nello stesso tempo turbolento, punteggiato da episodi irresistibilmente comici e autenticamente commoventi. Regalando a entrambi, e a chi legge questo libro, una dimensione nuova della gioia, della speranza e dell'amicizia. Questa storia vera è diventata un film, "Quasi amici". 

Ultimamente ho preso il brutto vizio di vedere i film prima di leggere i libri da cui sono tratti. Mi era già capitato con "The Help" e ora anche con "Il Diavolo Custode", storia vera da cui è tratto il bellissimo film "Quasi Amici".
Anche questa volta, come era già successo con il romanzo di Kathryn Stockett, ci sono delle differenza sostanziali tra il libro e la sua trasposizione cinematografica.

"Il diavolo custode" offre una panoramica più completa della vita di Philippe Pozzo di Borgo e di quel che ha passato fino ad oggi, senza limitarsi esclusivamente al suo rapporto con Abdel, il badante che gli è stato vicino e lo ha sorretto (fisicamente e moralmente) nei momenti più brutti.
Philippe Pozzo di Borgo ci racconta delle sue origini nobili, della sua infanzia e dei suoi studi, dell'incontro con la moglie e della loro incredibile passione. Ci racconta delle prime manifestazioni della malattia della donna, dei tanti tentativi falliti di avere un figlio fino alla scelta di adottarli, della sua sofferenza e della lotta estenuante che la moglie ha combattuto fino alla fine. E poi ci racconta anche del suo incidente con il parapendio (avvenuto, a differenza di quanto detto nel film, prima che rimanesse vedovo), che lo ha reso tetraplegico e delle sue difficoltà ad accettarsi e a farsi accettare.
Ci racconta di quanto sia diventata ancora più dura la sua vita di disabile dopo la morte della moglie. Della solitudine che prova, dell'alternarsi di momenti di gioia e momenti di buio, incubi, sogni e viaggi mentali nei momenti in cui la sua testa si avvicina all'assenza del suo corpo.
E poi sì, ci racconta anche di Abdel, dell'incredibile rapporto che si è creato tra loro. Lui è appena uscito di galera, anche se non si sa bene per cosa, non ha peli sulla lingua, beve, fuma, prende un centinaio di multe al mese ed è contrario ai rapporti seri.
Seguirà Philippe per molti anni, in tutte le sue necessità: da quelle richieste e conosciute (lo spostarlo in auto, il posizionarlo sulla sedia, l'assisterlo quando sta male, accompagnandolo in ospedale o nelle case di cura) a quelle che l'uomo non sapeva di avere ma che gli fanno bene (la prima canna, le sigarette, il primo lancio dopo l'incidente, il tentativo di aprire insieme una società). Un rapporto unico e speciale, che supera i confini razziali e sociali.

Il libro mi ha commosso proprio come il film. Certo, narrano aspetti diversi. Il libro è più completo, il film più "romanzato", ma entrambi riescono a trasmettere bene i sentimenti e i turbamenti di Philippe nella sua condizione di tetraplegico, così come la capacità di Abdel di affrontare tutto questo come se fosse normale.
Libro e film fanno riflettere sulla vita di chi è in sedia a rotelle, di chi è bloccato su un letto, totalmente dipendente dagli altri, ma che per questo non ha perso la voglia di vivere. O magari l'ha persa, ma solo perché nessuno è ancora riuscito a fargliela tornare.

Un'altra differenza sostanziale tra libro e film, oltre a quella della scelta di narrare solo il rapporto tra i due uomini e non il passato, è quella dei personaggi e dell'ambientazione:  Abdel nel film si chiama Driss ed è un ragazzo di colore, che vive di sussidi di disoccupazione e ha parecchi trascorsi di piccola criminalità. Di lui ci viene raccontato molto, proprio per marcare ancora di più la differenza tra i due uomini e per ancorare di più la storia nella società francese attuale.
 Inoltre, mentre nel libro Philippe viaggia spesso, tra la casa che ha in Corsica e un centro di meditazione in Canada, nel film il tutto è ambientato a Parigi. 
Ma sono scelte comprensibili e condivisibili (oltre che approvate dall'autore), alla luce di quanto il film sceglie di raccontare.
Certo, chi ha visto il film e si aspetta un libro altrettanto ironico e divertente, rimarrà sicuramente deluso. Ma basta informarsi prima (e non lasciarsi troppo fregare da copertine e fascette).

Non è stato facile nè vedere il film, nè leggere il libro, per dei trascorsi personali che non potrò mai dimenticare. Ma proprio per questi trascorsi, credo ne sia valsa la pena. E credo che tutti dovrebbero leggere il libro o vedere il film, perché sensibilizzano, in un modo diverso dal solito, ai problemi che le persone disabili devono affrontare tutti i giorni.
Consigliatissimo!

Nota alla traduzione: le note presenti sono tutte dell'autore e non dei traduttori (sono tre). E la scelta di cambiare il titolo francese (Le second souffle) nemmeno dipende da loro.
Direi fatta bene!
Titolo: Il diavolo custode
Autore: Philippe Pozzo di Borgo
Pagine: 204
Prezzo di copertina: 13,90 €

Editore: Ponte alle Grazie
Acquista su Amazon: Il diavolo custode (Quasi amici)

lunedì 14 maggio 2012

ROMANZO ROSA - Stefania Bertola

Olimpia fa la bibliotecaria, è un'amante del cappuccino al bar, e la vera passione - la passione che tutto travolge - l'ha provata solo per tre giorni, nel 1977. Paola è avvocato, si è lasciata un matrimonio alle spalle e indossa vistosi giubbotti da aviatore. Nicola, invece, è un tipo che non si fa notare: brunetto, sui trenta, è anche carino, ma bisogna guardarlo sette o otto volte per accorgersi di lui. Manuela, poi, ha quarant'anni ed è disoccupata, ma investe i cento euro di un Gratta e Vinci per partecipare al corso in cui tutti questi personaggi s'incrociano: Come scrivere un romanzo rosa in una settimana, che Leonora Forneris, insegnante spinosa e scrittrice di fama, tiene al Circolo dei Lettori. Con la ricetta giusta e i trucchi del mestiere per confezionare, lezione dopo lezione, pagina dopo pagina, giorno per giorno, un Melody di sicuro successo. Tra passioni di carta e flirt reali, marmellate alle arance amare e misteriose limousine, uomini che amano i cani e donne che amano i gatti, Stefania Bertola ci trasporta con ironia e intelligenza in un universo dalle tinte pastello, creando un romanzo che sa di rosa. In ogni senso. 

Aspettavo con ansia un nuovo romanzo di Stefania Bertola. Lo aspettavo dai tempi de "La soavissima discordia dell'amore", dopo la piccola delusione della raccolta di racconti "Il primo miracolo di George Harrison".
E' una scrittrice che amo molto, la Bertola. Amo le sue trame semplici e un po' banali, amo l'ambientazione torinese di tutti i suoi romanzi, amo la facilità di lettura e il buonumore che riesce a trasmettere. E soprattutto amo le sue protagoniste, vera forza di ogni sua opera: donne buffe che non si avvicinano mai nemmeno lontanamente al prototipo delle protagoniste dei romanzi femminili più famose, motivo per cui sono sempre riuscita facilmente a immedesimarmi. Sono donne comuni, un po' bislacche a volte, che si ritrovano ad affrontare problemi e situazioni altrettanto bislacche e per le quali è impossibile non provare simpatia. Donne che si ritrovano ad affrontare la vita e l'amore, i patemi che la loro normale quotidianità mette loro davanti.
Quindi, non appena ho scoperto che era finalmente uscito un nuovo romanzo, ho cercato di procurarmelo il prima possibile (e grazie al cielo avevamo una ricorrenza da festeggiare e il mio ragazzo sa che per andare sul sicuro può sempre regalarmi un libro). E ovviamente l'ho divorato in poche ore, tra ieri sera prima di andare a dormire e la pausa pranzo di oggi.

Questa volta l'autrice si distacca un po' dal suo filone classico e ci propone un romanzo diverso dal solito. Prendendo spunto da un corso di scrittura che ha effettivamente tenuto qualche anno fa per la scuola Holden, l'autrice ci narra di un gruppo di persone molto diverse tra loro che si ritrovano a frequentare il laboratorio "Come scrivere un romanzo rosa in una settimana", presso il Circolo dei Lettori di Torino. A tenere il corso è niente popo' di meno che Leonora Forneris, famosa scrittrice, ovviamente dietro accattivante pseudonimo, di romanzi d'amore per la serie Melody.
E ciascuno dei partecipanti dovrà proprio cimentarsi nella scrittura di uno di questi romanzi d'amore, seguendo le rigide regole che la Forneris fornirà loro ogni volta e che garantiscono la perfetta riuscita di questo genere di romanzi.
Il tutto viene narrato dalla voce di Olimpia, bibliotecaria zitella quasi sessantenne, che si dimostra essere una delle allieve più promettenti del corso nonostante abbia vissuto la passione nella sua vita per soli tre giorni più di trenta anni prima. Il suo romanzo rispecchia a pieno tutte le regole del perfetto romanzo rosa: eroina orfana che eredita, innamorata di un uomo socialmente più elevato per il quale prova attrazione e odio, ovviamente ricambiata con gli stessi sentimenti, e che è già promesso sposo a una donna ovviamente antipatica. Una serie di ostacoli e di equivoci li terrà lontani per molto tempo e non permetterà loro di soddisfare la loro passione e il loro desiderio, fino al lieto fine sotto le stelle (sarebbe andato bene anche su una spiaggia).
Ovviamente situazioni simili a quelle previste per questi romanzi nasceranno a poco a poco anche tra i partecipanti al laboratorio: amori che sembrano impossibili, ostacoli che sembrano insormontabili, infelicità, passione e gelosie reali si mescoleranno a quelle dei romanzi rosa. Facendoci vedere come i romanzi rosa in realtà altro non sono che un'esasperazione (MOLTO MOLTO MARCATA) dei tormenti sentimentali della vita reale.

La Bertola regala un'altro romanzo divertente e davvero piacevole da leggere. Le dispense per il perfetto romanzo rosa fanno sorridere nella loro assurdità, ancor di più se si pensa che tutti questi romanzi di questo genere sono davvero così: libri d'evasione, dove l'assurdità della trama non ha importanza purché si rispettino certi canoni e purché il lieto fine, dopo ostacoli stupidi e banali, si verifichi sempre.
E bello è anche il rapporto che si crea tra i vari partecipanti al laboratorio, tante persone con storie ed età diverse tra cui nasceranno legami e passioni che solo il destino deciderà se far durare.
Certo, a parte Olimpia, i personaggi questa volta sono molto meno caratterizzati rispetto a quanto l'autrice ci aveva abituato con i romanzi precedenti, ma credo sia voluto: tutti sono presentati tramite le impressioni di Olimpia e tramite le poche informazioni che traspaiono dal tipo di romanzo Melody che ogni partecipante sceglie di scrivere.

A me è piaciuto molto. Mi ha appassionato e divertito, fatto sorridere nella sua assurdità e fatto riflettere su alcuni luoghi comuni amorosi di cui sempre ci circondiamo.
Se amate Stefania Bertola non dovete assolutamente perdervi questo suo ultimo lavoro, perché merita davvero!
Se invece non avete ancora mai letto nulla di questa autrice piemontese vi consiglierei di non iniziare da questo ma di partire dai suoi romanzi più vecchi: il mio preferito è "Biscotti e Sospetti", il primo che ho letto e che mi ha fatto innamorare di questa scrittrice. Ma anche "A Neve Ferma" e "Aspirapolvere di Stelle" sono molto molto carini.

Mi spiace solo che l'autrice sia passata dalla Salani/TEA alla Einaudi: le copertine prima erano molto più belle.

Titolo: Romanzo Rosa
Autrice: Stefania Bertola
Pagine: 201
Prezzo di copertina: 13€
Editore: Einaudi
Acquista su Amazon: Romanzo rosa (Super ET) 

domenica 13 maggio 2012

Salone del Libro di Torino 2012

E' raro che io scriva un post su questo blog che non sia una recensione di un libro che ho letto. Questa volta però concedetemi di fare un'eccezione, ancor più che, come si desume dal titolo, rimango in ambito letterario.
E' che ieri mi è successa una cosa bellissima. Cioè, già l'andare al Salone del Libro per me è una cosa bellissima. Starei lì dentro per ore, a girare tra quell'infinità di libri, a curiosare nelle sale alla ricerca di convegni e di presentazioni di autori che mi interessano.
Ieri però avevo un obiettivo preciso. Volevo assolutamente riuscire a farmi fare un autografo con dedica da Mario Calabresi. 
Se avete seguito questo blog vi sarete già sicuramente accorte e accorti di quanto io ami il direttore della Stampa. Un amore ovviamente legato al suo modo di scrivere e di raccontare e alla voglia di vivere e reagire che trasmette con le sue parole
E con fierezza ed emozione vi dico che ci sono riuscita!

Ma la scena merita di essere raccontata. 
Sapevo che nell'arco del pomeriggio Mario Calabresi avrebbe presenziato a tre conferenze/ presentazioni diverse e quindi ho portato con me il libro (evabbè, io vado al Salone del Libro e mi porto il libro da casa, problemi?). Il mio ragazzo e io siamo entrati al salone verso le 15.15 e la prima di queste conferenze sarebbe iniziata alle 15.30... ovviamente nel padiglione opposto a quello in cui siamo entrati (non so se avete presente com'è disposto il salone... tre padiglioni, più piccoli i due laterali, immenso quello in mezzo).
 Ma abbiamo deciso di provare ad arrivare lo stesso.
Attraversiamo quasi di corsa tutto il salone e la fiumana di gente che ovviamente girava tranquilla (e ne approfitto per chiedere scusa a Demetrio, autore di "Fallo" per il saluto decisamente frettosolo che gli ho riservato) e arriviamo verso le 15.25 nella sala in cui si sarebbe tenuta la prima presentazione. La porta d'ingresso laterale era piena di persone, che stavano aspettando di sedersi per seguire la presentazione. Con il mio ragazzo decidiamo di andare davanti all'altro ingresso, che in quanto leggermente più nascosto era occupato da molta meno gente. 
O la va o la spacca. Se Mario Calabresi entra di lì vuol dire che è destino che io riesca a vederlo. Se entra dall'altra parte è destino il contrario.
Un pochino agitata, chiacchiero con il mio ragazzo per ingannare l'attesa, mi giro per fargli una linguaccia e dopo nemmeno 15 secondi mi ritrovo a fianco quest'uomo altissimo. "Oddio, è lui!"
Io lo guardo, lui mi guarda e sorride. Tiro fuori il libro e la penna.

"Scusi, mi farebbe un autografo per favore?"
"Certo! Aspetta che cerco la penna"
"Tenga, se vuole io ce l'ho già pronta"
"No, no grazie, ho la mia... a chi devo dedicarlo?"
"A Elisa... Grazie mille!"
"Ma figurati! Ecco qua... Senti ma sai per caso che conferenza c'è qui ora?"
"Ehm, sì... c'è lei che presenta il libro su Grom"
"Ah ok, bene, allora sono nel posto giusto"

Lui entra dentro la sala, io corro fuori emozionatissima. Mi ci è voluta una mezz'ora buona prima di smettere di tremare.
Ma guardate qua che bella:

 Grazie Mario Calabresi!

Oltre a lui abbiamo visto Serena Dandini, il cantante dei La Crus, Almudena Grandes e probabilmente molti altri che non sempre si riescono ad identificare (no, a sentire Fabio Volo non ci sono andata, tranquilli). Unico grande rimpianto, non essere riuscita a vedere Roberto Saviano...

Ah per la cronaca, siamo usciti dal salone con questi libri qui:


Concludo ringraziando ancora una volta Marco, il "lettore rampante", per avermi accompagnato al Salone e per avermi aiutato in questa operazione di stalking. Non so se ci sarei riuscita senza di lui.

Se avete l'occasione, andate al Salone del Libro, perché merita davvero!

sabato 12 maggio 2012

THE TWENTIETH WIFE- Indu Sundaresan

Based on the life of an actual empress of the Mughal empire, the woman for whom the Taj Mahal was built, "The Twentieth Wife" blends historical reality with the rich imaginings of a fairy tale, providing a fascinating portrait of one woman's defiant life behind the veil.


Per qualche strano motivo che non so bene spiegarmi(vi), non sono mai stata particolarmente affascinata dalla cultura orientale e medio-orientale. Forse perché la loro cultura è tanto lontana e diversa dalla nostra e faccio fatica a trovare punti d'incontro. Forse semplicemente nelle scuole se ne parla poco, a differenza di quanto succede con l'America (e io ho una passione smodata per il sud America). Comunque, qualunque sia la ragione, ammetto che da sola non mi sarei mai comprata questo libro.
Ma per fortuna, qualcuno lo ha fatto per me. Un mio carissimo amico ha pensato a me durante un suo viaggio di lavoro/di vacanza in India e, ovviamente, ha pensato che l'unica cosa che potesse regalarmi fosse un libro.
La cosa mi ha ovviamente fatto un piacere immenso, mi ha anche un po' commosso sapere che anche in giro per il mondo c'è chi si ricorda di me. E quindi ho accettato molto volentieri questo libro e ho deciso di leggerlo subito, via il dente via il dolore. (C'è anche da dire che questo mio amico è lo stesso che mi ha regalato, per la laurea triennale, "La Sombra del Viento" di Zafón e che mi ha iniziata a Calvin&Hobbes... insomma, glielo dovevo).

Il libro mi è piaciuto un sacco! Sarà che ho una grande passione per i romanzi in cui storia e finzione si mescolano creando una trama perfetta. E il libro di Sundaresan riesce perfettamente in questo intento. Mescola la storia dell'India tra il '500 e il  '600, con il susseguirsi di Imperatori e di eredi al trono, le battaglie e i contrasti di corte per la successione, all'aspetto più romanzato e fittizio, quello che riguarda i rapporti tra Salim, futuro imperatore, e le sue mogli e concubine. Le rivalità e le passioni dell'harem. E soprattutto la lunga e travagliata storia d'amore tra lui e Mehrunnisa, il Sole delle Donne, che diventerà poi alla fine la sua ventesima e ultima moglie (in onore della quale poi verrà costruito il Taj Mahal). Una storia d'amore bellissima, che resiste nel tempo fino al trionfo finale.
Passano molti anni prima che i due possano sposarsi. E' amore a prima vista quello tra i due, ma Mehrunnisa è ormai promessa a un altro uomo e il padre di Salim, allora imperatore, decide di non interferire. A questo seguiranno altri fugaci incontri, altri contrasti e gelosie (quella della seconda moglie di Salim, quella del marito di Mehrunnisa), ma con sempre la storia reale sullo sfondo, con intrighi di corte e attentati alla vita dell'imperatore da parte del figlio e di fazioni ribelli.

Certo, la storia reale fa solo da sfondo, ma Indu Sundaresan crea una storia fittizia che si incastona bene con gli avvenimenti veri, al punto che si potrebbe davvero credere che sia andata così, che l'amore tra Salim e Mehrunissa sia durato così a lungo, che si siano aspettati. 
Forse il ritratto che viene fatto della protagonista femminile non è troppo credibile, visto il periodo storico e la cultura dell'epoca  (donna istruita, molto forte e a un certo punto anche autosufficiente), dove scopo delle donne era solo quello di obbedire ai mariti. Però è assolutamente perfetto per la credibilità della trama.

Era un po' che non leggevo un romanzo così lungo e corposo in lingua originale (in inglese più che altro) e ammetto che fossi un po' fuori allenamento. Ci ho messo una trentina di pagine buone prima di riuscire a riprendermi e a capire tutto. 
Unica pecca, l'edizione. Bellissima la copertina (esclusiva per la vendita in India), ma troppi errori di editing nel testo (virgole al posto di punti, virgolette che si chiudono senza che mai si siano aperte).

Se vi piace il genere, questo romanzo è assolutamente da leggere! (anche se in italiano purtroppo risulta non essere disponibile, nè sul sito della casa editrice che lo ha edito nè su amazon... ma leggete un po' in lingua originale che vi fa bene!)

Ovviamente, grazie Andrea!

Per acquistare: The Twentieth Wife

lunedì 7 maggio 2012

UN GIORNO QUESTO DOLORE TI SARA' UTILE- Peter Cameron

James ha 18 anni e vive a New York. Finita la scuola, lavoricchia nella galleria d'arte della madre, dove non entra mai nessuno: sarebbe arduo, d'altra parte, suscitare clamore intorno a opere di tendenza come le pattumiere dell'artista giapponese che vuole restare Senza Nome. Per ingannare il tempo, e nella speranza di trovare un'alternativa all'università ("Ho passato tutta la vita con i miei coetanei e non mi piacciono granché"), James cerca in rete una casa nel Midwest dove coltivare in pace le sue attività preferite - la lettura e la solitudine -, ma per sua fortuna gli incauti agenti immobiliari gli riveleranno alcuni allarmanti inconvenienti della vita di provincia. Finché un giorno James entra in una chat di cuori solitari e, sotto falso nome, propone a John, il gestore della galleria che ne è un utente compulsivo, un appuntamento al buio... 

Ho chiuso questo libro poco fa, dopo averlo divorato nella giornata di oggi, e non posso fare a meno di rievocare i tempi in cui io avevo 18 anni. Un'età che è un traguardo (almeno in Italia, si diventa maggiorenni, si prende la patente, si può votare per la prima volta) ma che è anche un inizio, il momento di decidere cosa fare della propria vita e di prendere decisioni che in qualche modo potrebbero influenzare il futuro: la scelta tra continuare o meno a studiare, la scelta dell'università (io avevo scelto ad esclusione, e sono finita a fare lingue perché volevo leggere i libri di Marquez in lingua originale), rimanere vicini a casa o andare lontano. Tutte scelte che sicuramente non condizionano definitivamente la propria vita ma che comunque rappresentano una tappa importante. A 18 si inizia davvero a diventare adulti.

E James, il fantastico protagonista di questo romanzo, ha  proprio18 anni e vive a New York (ok, nulla a che vedere con il mio paesino). A settembre inizierà ad andare all'università e per il momento si tiene impegnato lavorando nella Galleria d'Arte gestita dalla volubile madre. I suoi genitori sono divorziati e stanno attraversando a loro modo crisi di mezza età: una si sposa quasi in continuazione, l'altro ricorre a un "intervento cosmetico mirato". Di questa famiglia, ricca e bislacca,  fanno parte anche la sorella, Gillian, che ha una relazione clandestina con il suo docente di linguistica, e Nanette, la supernonna, l'unica a capire veramente James. Perché James non è un diciottenne proprio normale. E' un tantino "disturbato", secondo la definizione dei suoi insegnanti, ma è soprattutto sociopatico e incapace di affrontare i legami che questo mondo ci mette davanti. Lui sta bene da solo, non vede perché debba mischiarsi a quei caproni dei suoi coetanei, con cui non ha niente da condividere e che non sopporta molto: troppo conformisti, troppo ingenui, troppo poco colti. I genitori di James però sono preoccupati per questo suo comportamento e lo mandano da una psicoterapeuta che intraprende con il ragazzo una dura lotta di botta e risposta per vedere chi si innervosisce prima, ma che piano piano servirà al ragazzo per prendere coscienza di sé.
Le uniche persone con cui James interagisce volentieri sono John, che lo schiavizza alla galleria d'arte ma che lui considera un amico anche se non ben è chiaro se corrisposto, e soprattutto Nanette, la nonna che tutti vorrebbero avere. La nonna che non giudica e che non da' nemmeno troppi consigli, la nonna che ascolta e che prepara il cibo, riuscendo così ad aiutare James ad affrontare la sua paura per il futuro. Un futuro da cui non si può fuggire, nemmeno andando in Kansas o scappando da un albergo durante una gita scolastica.

Ho trovato questo romanzo semplicemente geniale. Sarà che adoro questi adolescenti complicati e un po' "disturbati", questi adolescenti cinici che hanno o troppo o poco filtro tra mente e cervello. Li trovo più realistici (anche se chiaramente James è molto molto esasperato come personaggio) e molto più interessanti, perché rispecchiano una paura che, in modo più o meno marcato, riguarda tutti. La paura di crescere, la paura di non essere in grado di trovare il proprio posto nel mondo, al punto che l'unico modo per esorcizzarla e continuare a vivere è nascondersi, vivere nella propria solitudine perché è un guscio che tiene protetti e che non ci può fare male. Ma bisogna rendersi conto che tutte le difficoltà che si devono affrontare servono per affrontare meglio il futuro, che "un giorno questo dolore ti sarà utile".

Lo stile di Cameron è incredibile, ha creato tanti personaggi fantastici, tutti ben caratterizzati  e perfetti per interagire con James, un protagonista molto intelligente, dissacrante e ironico per certi aspetti, ma anche tanto  triste per altri, che non riesce ad affrontare il mondo. Un gran bel personaggio!
Un libro che si legge bene e in fretta, che ti cattura, ti fa sorridere e anche un po' riflettere.
Assolutamente da leggere!

Nota alla traduzione: il mio odio per Adelphi segue immutato dopo ogni romanzo edito da loro che leggo. Continuano ad esserci scelte linguistiche che non riesco a concepire e ad approvare, che scaturiscono anche in veri e proprio errori o comunque cacofonie terribili (mai sentito parlare di "d" eufoniche?). Ma tanto li traducono tutti così, c'è poco da fare.

Titolo: Un giorno questo dolore ti sarà utile
Autore: Peter Cameron
Pagine: 206
Prezzo di copertina: 10€

Editore: Adelphi
Acquista su Amazon: Un giorno questo dolore ti sarà utile (Gli Adelphi)

venerdì 4 maggio 2012

I FUNERACCONTI - Benedetta Palmieri

Un presenzialista dei funerali che partecipa alle esequie di sconosciuti ricavandone impressioni e suggestioni che poi annota metodicamente nel suo "curriculum mortis". Una donna - Maria Addolorata - a capo di una blasonata agenzia di pompe funebri, il cui motto è: "A ogni cerimonia il proprio stile". Un parco dei divertimenti molto particolare - FuneraLand - che promette di far morire dal divertimento. La redazione di una rivista "Glamourt" - alle prese con il numero speciale, il tredici. Una "dama di condoglianze", perché quando una persona muore chi rimane è più solo. Collezionisti di rarissimi carri funebri. Tumulatori di piccoli animali domestici e necrofori di fiori d'appartamento. Otto racconti che iniziano quando tutto finisce. Otto racconti che giocano con la morte e con le sue innumerevoli declinazioni - qualche volta drammatiche, spesso assurde, sempre umanissime. Benedetta Palmieri affronta uno degli ultimi tabù con ironia partenopea e scaramantico disincanto, perché dietro la paura della morte c'è un mondo da raccontare. 

Mi viene un po' da ridere a scrivere questa recensione. Perché il libro me l'ha prestato una mia carissima amica, con la quale ho l'abitudine di scambiare romanzi che non ci piacciono. Solitamente funziona così: le dico che mi è piaciuto un sacco un libro, glielo presto e lei me lo smonta. E ovviamente vale anche il contrario: "leggi questo che è bello!"... lo leggo e, ovviamente, non lo apprezzo. Certo, non succede sempre sempre, su alcuni capolavori indiscussi, così come su alcune cose assolutamente illeggibili, ci troviamo d'accordo. Ma buona parte delle volte, se un libro a me è piaciuto a lei non piace e viceversa.
Eppure continuiamo a volerci bene lo stesso e, soprattutto, a scambiarceli lo stesso sperando che questa sia finalmente la volta buona. Solo che "I Funeracconti" non è la volta buona. Me lo ha passato dicendomi "leggilo, è carino!" e ovviamente  a me non è piaciuto. 

La Palmieri raccoglie in questo libro alcuni racconti di carattere "funerario", intervallati dai pensieri di un uomo che ha appena perso la moglie. Lo scopo credo sia quello di parlare di un argomento di cui non si parla volentieri, di esorcizzare tramite racconti la paura della morte e di quello che rappresenta. E per carità, io sono la prima a pensare che anche in momenti come quello della perdita di una persona cara, sia fondamentale riuscire a sdrammatizzare in qualche modo e cercare di ricominciare.
 Però nessuno di questi racconti è riuscito a colpirmi, nè a farmi sorridere più di tanto (forse un pochino "Glamourt", forse), anzi. Alcuni li ho trovati angoscianti ("FuneraLand", che forse vuole essere una critica al teatrino della morte che troppo spesso si fa per morti famose), altri insensati ("Guadagno Percetti" necroforo di fiori), altri ancora solo tristi ("Dama di Condoglianza" o "Testamento")

Ma può anche darsi che il problema sia mio, che non sia riuscita a capire tanto bene quale fosse il vero intento dell'autrice: farci sorridere? farci riflettere? Cercare semplicemente di fare scalpore parlando di funerali e morte (cosa effettivamente insolita per una napoletana, regione famosa per la sua scaramanzia)? Non lo so, non sono riuscita a leggerlo in nessuna di queste chiavi. L'unica parte che ho davvero apprezzato sono stati gli intermezzi dell'uomo che affronta la perdita della moglie, del tempo che gli ci è voluto per accettare la cosa e per ricominciare, per quanto possibile a vivere.

La Palmieri comunque scrive bene, è scorrevole e i racconti si leggono veloci. Però buh, non mi ha colpito e non mi ha lasciato nulla.

Ma ci riproveremo!


Per acquistare (lo stesso, anche se a me non è piaciuto) : I funeracconti (I narratori)

mercoledì 2 maggio 2012

ACCIAIO - Silvia Avallone

Nei casermoni di via Stalingrado a Piombino avere quattordici anni è difficile. E se tuo padre è un buono a nulla o si spezza la schiena nelle acciaierie che danno pane e disperazione a mezza città, il massimo che puoi desiderare è una serata al pattinodromo, o avere un fratello che comandi il branco, o trovare il tuo nome scritto su una panchina. Lo sanno bene Anna e Francesca, amiche inseparabili che tra quelle case popolari si sono trovate e scelte. Quando il corpo adolescente inizia a cambiare, a esplodere sotto i vestiti, in un posto così non hai alternative: o ti nascondi e resti tagliata fuori, oppure sbatti in faccia agli altri la tua bellezza, la usi con violenza e speri che ti aiuti a essere qualcuno. Loro ci provano, convinte che per sopravvivere basti lottare, ma la vita è feroce e non si piega, scorre immobile senza vie d'uscita. Poi un giorno arriva l'amore, però arriva male, le poche certezze vanno in frantumi e anche l'amicizia invincibile tra Anna e Francesca si incrina, sanguina, comincia a far male. Silvia Avallone racconta un'Italia in cerca d'identità e di voce, apre uno squarcio su un'inedita periferia operaia nel tempo in cui, si dice, la classe operaia non esiste più.

Mi incuriosiscono sempre molto quei romanzi di cui si trovano un sacco di commenti contrastanti. E ho notato che questo succede abbastanza spesso con i romanzi italiani candidati a qualche premio. Basti pensare a "La solitudine dei numeri primi" di Paolo Giordano (che mi è piaciuto abbastanza) o a "Storia della mia gente" di Nesi (che non mi è piaciuto per nulla).
"Acciaio" rientra in questa categoria. Finalista al premio Strega e vincitore del Premio Campiello Opera Prima nel 2010, il romanzo della Avallone ha avuto un successo strepitoso di vendite e lettori.
Io lo leggo con un po' di ritardo, perché non amo leggere i romanzi mentre sono sull'onda del successo. Preferisco aspettare un po', così da poter leggere i commenti di chi già lo ha letto e farmi una prima idea.

"Acciaio" è un libro che parla di adolescenti e di operai. Parla di degrado e parla di voglia di futuro. E lo fa attraverso il rapporto tra due amiche, Anna e Francesca, di tredici anni quasi quattordici, che da un giorno all'altro si riscoprono quasi adulte. Il loro corpo sta cambiando, i loro interessi anche e la scuola superiore e il futuro stanno per tendere loro un agguato e separarle. Hanno entrambe alle spalle una situazione difficile: un padre truffatore e imbroglione e una madre che si spezza la schiena ogni giorno per garantire una vita ai figli Anna. Un padre violento e una madre arresa Francesca. Di contorno c'è Alessio, il fratello più grande di Anna, operaio all'acciaieria che da' da vivere a tutta la zona e che vota Berlusconi perché "lui non è uno sfigato". Ci sono gli amici di Alessio, a cui Anna a poco a poco si avvicina. Ci sono le loro coetanee, non belle quanto loro e quindi ignorate. Ci sono i casermoni di via Stalingrado. C'è l'Elba in lontananza, così vicina eppure così irraggiungibile per chi non ha futuro. E c'è l'acciaieria Lucchetti, sfondo del degrado ma anche fulcro della vicenda.

I presupposti per scrivere un bel romanzo e per offrire un ritratto della società italiana all'alba del nuovo millenio ci sono tutti. Eppure sono un po' perplessa. Non riesco a dire se il romanzo mi sia piaciuto o meno.
Sarà che ho trovato Anna e Francesca veramente insopportabili. Tutte sappiamo che fare i conti con il proprio corpo a tredici anni è difficile, perché cambia, si trasforma e a volte non sempre è facile la fase di transizione. C'è chi è più bella e chi meno bella. C'è chi è più sicura di sè e chi meno. Anna e Francesca sono consapevoli di questa bellezza, dell'effetto che fanno sugli altri e considerano chiunque sia meno bella o meno sicura di loro pari a niente. E la Avallone sembra quasi dare loro ragione: "siete fighe, è giusto che ignoriate chi è più brutta di voi, chi va in giro portandosi dietro la sorella disabile". Forse era così anche lei. Forse pensava di esserlo. Fatto sta che delinea due personaggi che io ho trovato odiosi. (Va bene, ve lo dico, a tredici anni ero tutta ciccia e brufoli). Anche il loro rapporto con i ragazzi, il loro giocare a fare le adulte, il loro spingersi al limite, il loro incarnare le "lolite" di Piombino è esasperato ed esagerato, e tende a renderle dei personaggi non del tutto credibili. O forse lo sono in quel luogo e in quel contesto, oppure ero io troppo poco sveglia a quell'età. Ho trovato tutto un po' esasperato.
Anche gli altri personaggi inseriti dalla Avallone sono degli stereotipi più o meno marcati: il padre violento, il padre truffatore, l'operaio tamarro che vota Berlusconi affascinato da quell'aurea che emana e che frega, la madre remissiva e arresa, la donna casalinga politicamente impegnata. La ricca laureata e socialmente più elevata che si innamora di uno delle classi inferiori. Tutti personaggi già visti, prevedibili e un po' scontati.
Ma forse è questa la realtà, forse veramente in certi contesti e in certe situazioni si ritrovano per forza certi personaggi e l'unica colpa della Avallone è quella di metterli nero su bianco, di mostrarceli come sono realmente.

Non lo so, sono parecchio perplessa. Anche lo stile dell'autrice è particolare, a tratti quasi poetico, troppo poetico per raccontare la cruda realtà che ci sta mostrando.
Certo, il romanzo si legge bene e in fretta, ti tiene ancorato alle sue pagine per scoprire cosa succederà dopo, fino al finale abbastanza prevedibile seppur ad effetto.
Dalla sua ha che è un romanzo che parla di adolescenti più credibile di molti altri romanzi per adolescenti in circolazione (insomma, non è Moccia!!) e che offre uno spaccato di una realtà spesso dimenticata.

Comunque posso capire le opinioni contrastanti. E mi schiero nel mezzo. Senza infamia e senza lode.

Per acquistare: Acciaio (Vintage)