venerdì 28 settembre 2018

DONNE CHE PARLANO - Miriam Toews

Siamo donne senza voce, afferma Ona, pacata. Siamo donne fuori dal tempo e dallo spazio, non parliamo nemmeno la lingua del paese in cui viviamo. Siamo mennonite senza una patria. Non abbiamo niente a cui tornare, a Molotschna perfino le bestie sono più tutelate di noi. Tutto quello che abbiamo sono i nostri sogni - per forza che siamo sognatrici.


Tra il 2005 e il 2008 in una colonia mennonita in Bolivia, a molte ragazze e donne della comunità capitava di svegliarsi coperte di lividi e contuse per via di misteriose violenze subite nella notte. Gli uomini della comunità per lungo tempo hanno attribuito queste violenze a demoni e fantasmi, oppure, a Dio o Satana che infliggevano le giuste punizioni per i loro peccati. In realtà poi si è scoperto che erano gli uomini stessi della comunità a violentare le donne: le narcotizzavano con un anestetico per animali e poi le stupravano. 

Donne che parlano, nuovo splendido romanzo di Miriam Toews, uscito il 27 settembre per marcos y marcos con la traduzione di Maurizia Balmelli, prende spunto proprio da questo reale fatto di cronaca. 
Donne, ragazze e, a volte, anche bambine violentate dai propri padri, mariti, cugini, fratelli e che ora si trovano a dover decidere cosa fare della loro vita. Non hanno molto tempo per decidere cosa fare, le donne di Molotschana: gli uomini della comunità che non sono stati arrestati per le violenze inflitte stanno infatti pagando le cauzioni di quelli in prigione e, quando saranno di ritorno, le donne dovranno decidere se perdonarli e quindi rimanere nella comunità, oppure andarsene definitivamente. È questo che ha imposto loro il pastore Peters, ribadendo così ancora una volta la loro sottomissione. O perdoni o te ne vai, mentre i colpevoli saranno comunque liberi.
Le donne di Molotschana si riuniscono di nascosto per decidere cosa fare. A seguire i loro incontri, l’unico uomo rimasto: August Pepp, ritornano nella comunità dopo anni di esilio, ma che con gli uomini mennoniti sembra davvero avere poco a che fare. A lui spetta il compito di scrivere i verbali delle loro riunioni, perché nessuna delle donne sa scrivere... e in realtà nemmeno leggere, ma è importante che rimanga una traccia scritta di quello che si dicono.

Sul piatto ci sono tante cose. Da un lato, il desiderio delle donne di andarsene per lanciare un segnale ma anche per difendersi, per non accettare passivamente le violenze e le umiliazioni subite perché, nonostante siano cresciute in una società patriarcale in cui loro valgono meno delle bestie, sentono che non è giusto. Non è giusto per loro, che sono adulte, e lo è ancor meno per le bambine che hanno subito le stesse violenze. Dall'altro lato c’è la voglia di restare, per rispondere alla violenza con la violenza, o perché la sottomissione alle regole della comunità e agli uomini è troppo radicata in loro, o più semplicemente per paura, perché non hanno idea di come sia il mondo là fuori perché nessuno glielo ha mai insegnato. C’è la voglia di rivendicare il proprio diritto a essere trattate come persone e non come, o peggio, delle bestie, ma anche il desiderio di proteggere i propri figli.

Se il pastore e gli anziani di Molotschna hanno deciso che dopo queste violenze noi donne non necessitiamo di assistenza psicologica perché quando si sono verificate non eravamo coscienti, allora che cosa dovremmo, o addirittura potremmo, perdonare? Qualcosa che non è accaduto? Qualcosa che non siamo in grado di capire? E più in generale, ciò cosa significa? Che se non conosciamo "il mondo" non ne saremo corrotte? Che se non sappiamo di essere prigioniere allora siamo libere?

Agata, Ona, Salomé, Neitje, Greta, Mariche, Mejal e Autje, sono loro le Donne che parlano. Che cercano di decidere che cosa fare, che cosa sia meglio fare per i loro figli, per la loro comunità e soprattutto per loro stesse. Sono donne forti che non sanno di esserlo, e Miriam Toews è incredibilmente brava nel tratteggiarle, nel non tralasciare nulla dei loro stati d’animo, dei loro dubbi, delle loro contraddizioni, senza mai giudicarle.

Noi amiamo i nostri figli, e con qualche legittima riserva amiamo anche i nostri mariti, non fosse perché così ci hanno insegnato
Tu confondi l’amore con l’obbedienza, dice Mariche.
Questo può valere per te, Mariche, ma non necessariamente per le altre donne della colonia, dice Agata. Comunque sia, dobbiamo amare o dimostrare amore per le tutte le persone. È l’insegnamento più importante di Dio (secondo l’interpretazione degli uomini presumibilmente), amarci l’un l’altro come Dio ci ama, e amare il nostro prossimo come vorremmo che lui amasse noi.

Donne che parlano è un libro di una bellezza e un’intensità a tratti molto dolorose, che ti costringe ad aprire gli occhi sulla condizione delle donne in certe comunità religiose (stando a wikipedia, nel mondo ci sono più di un milione e mezzo di mennoniti, cinquecento anche in Italia. E la Toews stessa, fino ai diciott'anni ha vissuto in una rigida comunità canadese). Ma al tempo stesso è un libro pieno di forza, di coraggio, d’amore che dimostra come anche le persone all'apparenza più deboli, più fragili, meno considerate e stimate, possono ribellarsi e fare una loro piccola rivoluzione.

Una volta finita la lettura, pur sapendo che si tratta di personaggi inventati, non ho potuto fare a meno di chiedermi dove siano adesso Agata, Ona, Salomé, Neitje, Greta, Mariche, Mejal e Autje e tutte le altre donne, che parlano o che agiscono in silenzio. Se hanno incontrato nel loro cammino verso il mondo reale uomini come August Pepp, pronti a tutto per aiutarle. Se hanno ritrovato la pace e loro stesse. Per loro e per tutte le altre donne che invece ancora non hanno potuto parlare, ma a cui Miriam Toews con questo libro ha prestato un po’ di voce, mi auguro davvero di sì.


Titolo: Donne che parlano
Autore: Miriam Toews
Traduttore: Maurizia Balmelli
Pagine: 253
Editore: marcos y marcos
Prezzo di copertina: 18,00€
Acquista su Amazon:
formato cartaceo: Donne che parlano

lunedì 24 settembre 2018

CAMBIO DI ROTTA - Elizabeth Jane Howard

Poi Lilian è rimasta in silenzio, mentre il sole sprofondava nel mare. Era uno spettacolo magnifico, e ho pensato che tutte queste cose d'ora in poi mi ricorderanno lei - il mare, il tramonto, le navi e la brezza - e che lei mi farà pensare a queste cose, tutte insieme. Il mondo intero per me ha preso vita grazie a lei.


Continua la riscoperta dei romanzi di Elizabeth Jane Howard da parte di Fazi editore, dopo lo straordinario (e, se ancora non fosse chiaro, per me meritatissimo) successo della saga dei Cazalet. Dopo Il lungo sguardo, pubblicato in Italia in realtà prima dei Cazalet, e All’ombra di Julius, uscito nell’aprile di quest’anno, il 6 settembre è arrivato in libreria Cambio di rotta, romanzo del 1959, tradotto sempre da Manuela Francescon.

Accolgo sempre l’uscita di un nuovo romanzo di questa scrittrice britannica con un misto di entusiasmo e ansia. Ho amato talmente tanto le sue opere precedenti che ho sempre paura che la delusione sia dietro l’angolo; però poi penso all’autrice di cui stiamo parlando, penso a quanto abbia adorato seguire le avventure e disavventure della famiglia Cazalet, ma anche quanto mi sia piaciuto immergermi nel silenzio della coppia protagonista di Il lungo sguardo, o a quanto ancora la sparizione di Julius influisca sulla sua famiglia. .. penso a tutto questo, e so che è praticamente impossibile che Elizabeth Jane Howard mi deluda. E infatti non è successo nemmeno questa volta.

La storia raccontata in Cambio di rotta ruota attorno a quattro (sì, solo quattro!) personaggi principali.  Emmanuel e Lilian Joyce sono una coppia di mezz’età dell’alta borghesia londinese: lui è un drammaturgo di successo, molto sensibile al fascino femminile; lei una donna raffinata, mondana e cagionevole di salute, che ancora non è riuscita a riprendersi dal terribile lutto che l’ha colpita; accanto a loro c’è sempre il fidato Jimmy, ufficialmente manager di Emmanuel, ma in realtà tuttofare che si prende cura della famiglia. Dopo il licenziamento dell’ultima segretaria del marito e i tragici eventi che ne sono susseguiti, Lilian decide di occuparsi lei della scelta di quella nuova. Una sera a una festa incappa in Alberta, una ragazza appena giunta a Londra dalla campagna in compagnia dello zio, senza alcuna esperienza. Lilian crede che sia la persona giusta: troppo scialba e, soprattutto, davvero troppo giovane perché Emmanuel possa invaghirsi di lei. I quattro partono quindi per New York, in cerca dell’attrice adatta a interpretare la protagonista della nuova commedia scritta dal signor Joyce e, soprattutto, un posto in cui lui riesca finalmente a scrivere. Emmanuel e Alberta partono in aereo, e hanno così il tempo per conoscersi meglio prima dell’arrivo di Jimmy e Lilian via nave. Ben presto tutti si rendono conto che Alberta, nella sua innocenza e nella sua semplicità tutta provinciale, è molto più interessante e meno ingenua di quanto inizialmente sembrasse, al punto che potrebbe quasi essere lei l’attrice che stavano cercando. Da New York i quattro si spostano poi in Grecia, dove Jimmy ed Emmanuel si scoprono sempre più affascinati dalla giovane segreteria e Lilian capisce che è ora di fare qualcosa.

Cambio di rotta mi è piaciuto parecchio e per diversi motivi. Il primo è che è un romanzo del 1959 ma non lo sembra, talmente brava è l’autrice a descrivere sentimenti e stati d’animo umani senza tempo, universali: il dolore per la perdita di una persona cara, la gelosia, l’amore, la curiosità e la scoperta di se stessi, la necessità di fermarsi e, magari, ricominciare tutto da capo. È difficile che un romanzo scritto quasi sessant’anni fa riesca a essere così attuale. Poi mi sono piaciuti molto i personaggi e le dinamiche che la Howard ha costruito tra loro: una coppia infelice ma incapace di ammetterlo; un uomo fedele e leale per tanto tempo, finché non arriva qualcosa a scalfire tutte le sue certezze; una ragazza un po’ ingenua, che starnutisce quando prova un’emozione, e che in qualche modo, con la sua visione del mondo, distrugge tutti gli equilibri creati fino a quel momento. Tutti insieme danno vita a un romanzo corale, ma dalle identità ben definite e, in qualche modo, complementari.
Quante persone ci vorrebbero per farne una completa? Noi quattro non bastiamo.
Sicuramente è un romanzo diverso dai cinque che compongono la saga dei Cazalet: è stato scritto molto prima e forse a livello di stile un po’ si sente; ci sono molti meno personaggi (quindi chi non ha apprezzato i Cazalet perché si è un po’ perso in mezzo alle piccole e grandi tragedie che colpiscono la famiglia, qui dovrebbe trovarsi più a suo agio) e, nel complesso, ha una struttura più semplice, a volte ripetitiva, eppure efficace per caratterizzare i personaggi.

Cambio di rotta non è diventato il mio preferito, questo no (continua a essere Il lungo sguardo, senza alcun dubbio), ma mi è piaciuto di più, per esempio, di All’ombra di Julius, forse proprio perché qui i Cazalet non ce li ho ritrovati più tanto, mentre con All’ombra di Julius il paragone è quasi inevitabile (pur sbagliato, perché, di nuovo, sono stati scritti a parecchi anni di distanza).
Ma al di là delle preferenze del tutto persona, ormai posso dire con certezza che Elizabeth Jane Howard sia una delle mie scrittrici preferite in assoluto.


Titolo: Cambio di rotta
Autore: Elizabeth Jane Howard
Traduttore: Manuela Francescon
Pagine: 430
Anno di pubblicazione: 2018
Editore: Fazi editore
Prezzo di copertina: 18,50 €
Acquista su amazon:
formato cartaceo: Cambio di rotta
formato ebook:Cambio di rotta

mercoledì 19 settembre 2018

L'AMORE - Maurizio Maggiani

Il fatto è che ci ho messo un bel po' a imparare a dire ti amo. Ci sono stati degli allenamenti, lunghi e penosi allenamenti in verità. Ti amo, provare un po' a dirlo ad alta voce se ti viene subito, così. Ti amo ti amo ti amo.


L’amore, da poco uscito per Feltrinelli editore, è il primo romanzo che leggo di Maurizio Maggiani e credo che sarà anche l’ultimo. E dire che l’avevo iniziato con le migliori intenzioni, incuriosita e in qualche modo anche affascinata dall'idea di raccontare attraverso gli amori passati come si è arrivati a quello “definitivo”. 

Ed è questo che succede nel libro. Ci sono uno sposo e una sposa, non più giovanissimi, che si amano. Lui, tutte le sere prima che lei si addormenti, le racconta una storia, un “fattarello”, che di solito riguarda i suoi amori passati. Le piace ascoltarli, le piace scoprire cosa ha portato suo marito a essere quello che è adesso. E lui glieli racconta volentieri, rimboccandole le coperte. Poi, al mattino, la sposa esce per andare al lavoro e lo sposo, che lavora invece da casa, continua a rimuginare su sui suoi racconti e sui suoi ricordi, sulle donne e gli amori che ha avuto, sulla loro intensità, più o meno forte e più o meno corrisposta, e soprattutto non smette mai di domandarsi quando e come ha imparato a dire “ti amo”.

Un’idea che trovo davvero molto bella e il mio entusiasmo, infatti, è rimasto alto per una buona metà del libro. Poi, a poco a poco, ha iniziato a scemare. Forse per via dello stile di Maggiani, che ho trovato sì poetico ma in modo estremamente forzato, poco convincente per me e la mia sensibilità. Forse perché mi sono persa nei pensieri e nei ricordi dello Sposo, come ci si perde quando si ascolta parlare a lungo qualcuno che, a parte qualche aneddoto o qualche battuta, proprio non riesce a tenere desta la tua attenzione. Ogni tanto si sorride (come quando racconta della loro abitudine di leggere insieme; oppure, quando all'inizio descrive la Sposa addormentata e spiega che ogni sera, se lei si dimentica, lo Sposo va e le mette il bite contro il digrignamento notturno dei denti... forse perché soffro dello stesso problema da anni ed è la prima volta che lo ritrovo in un libro), ogni tanto si annuisce e, per lo più, si pensa ai fatti propri (alla prima volta che io e mio marito ci siamo detti “ti amo”, per esempio, e al modo buffo in cui ci siamo arrivati, prima al plurale, perché anche quella era una cosa che dovevamo fare insieme; oppure a qualche tragico amore adolescenziale talmente intenso da non ricordami nemmeno più il nome dell’amato).
Non si è creata empatia, insomma, con il racconto dello Sposo. Non mi ha suscitato particolari emozioni, e anzi, a un certo punto, ho iniziato ad annoiarmi. E quando si tratta d’amore se l’emozione predominante è la noia, sappiamo tutti che si ha un grosso, grosso problema.

Eppure non mi sento di dire che L’amore sia un brutto libro. Alcune volte, soprattutto nelle descrizioni del sentimento attuale, quello tra lo Sposo e la Sposa, mi ha fatto sorridere e intenerire, come sempre mi fanno intenerire l'amore e le sue dimostrazioni quotidiane. Credo che semplicemente non sia un libro per me; che, nonostante le premesse iniziali, non sia scoccata la scintilla (portate pazienza, se un libro si intitola l’amore e parla di quello, è davvero facile usare questo linguaggio simbolico). E se Maurizio Maggiani scrive e racconta sempre così, direi che no, non siamo proprio fatti l'uno per l'altra.

Titolo: L'amore
Autore: Maurizio Maggiani
Pagine: 197
Anno di pubblicazione: 2018
Editore: Feltrinelli editore
Prezzo di copertina: 16,00 €
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formato cartaceo: L'amore
formato ebook: L'amore

giovedì 13 settembre 2018

IL DINER NEL DESERTO - James Anderson

Non era il paradiso e non era l'inferno, solo un rettilineo che gli passava in mezzo.

Arrivata alla fine di Il diner nel deserto (che ho letto in lingua originale l’anno scorso e che esce proprio oggi in italiano per NN editore con la traduzione di Chiara Baffa), sono andata su google images e ho cercato “diner Utah”. 
Tra i vari risultati di paesaggi brulli e desertici, tra montagne e bacini d’acqua coraggiosi che tentano di trovare il loro spazio in questi luoghi impervi e quando ci riescono fanno danni enormi, c’era un’immagine che raffigurava esattamente l’idea che mi ero fatta della tavola calda di Walt, proprietario del diner che dà il titolo al romanzo e attorno a cui ruota gran parte dell’azione: un locale polveroso e solitario, affacciato su una strada statale poco battuta e circondato dal deserto quasi abbagliante, su cui spunta, qua e là, qualche casa isolata e qualche canyon. Un luogo in grado di trasmettere sicurezza e inquietudine al tempo stesso: un rifugio dopo chilometri di nulla, ma anche un posto in cui potrebbe succedere qualcosa di brutto senza che nessuno se ne accorga.

This photo of JC's Country Diner is courtesy of TripAdvisor

Il romanzo trasmette proprio questa sensazione. Un deserto sconfinato, un luogo in cui nascondersi, essere al sicuro, addormentato in una sua routine che nessuno osa o vuole mettere in discussione, ma che al tempo stesso può celare tante cose brutte, nascoste sotto una sabbia immobile da tempo ma che un soffio di vento un po' più forte può riportare in superficie.

La maggior parte dei personaggi di Il diner nel deserto ha un passato misterioso da cui fugge e in cui al tempo stesso si rifugia: Ben Jones, il camionista protagonista principale, che percorre su e giù la statale 117 per portare viveri e beni di prima necessità ai vari abitanti della zona, è stato abbandonato dalla madre quando era ancora in fasce eppure, pur non avendola mai conosciuta, alla madre pensa sempre; Walt, l’anziano proprietario del diner, in passato non è riuscito a salvare la moglie e da allora si è chiuso in se stesso e nella sua rabbia, per non dover affrontare gli altri, ma anche per non concedersi mai una tregua dai suoi sensi di colpa; Claire, questa ragazza misteriosa che è comparsa all'improvviso in una casa abbandonata vicino alla tavola calda e suona le corde di un violoncello invisibile, è fuggita dalla città e da un ex marito e ora lì, nel deserto, sembra quasi pronta a ricominciare una nuova vita; Ginny, una ragazzina adolescente che non sembra troppo preoccupata né per essere stata cacciata di casa dalla madre né per il figlio che porta in grembo e che dovrà crescere da sola; per arrivare ai fratelli Lacey e al loro solido legame.

Il diner nel deserto è il romanzo d’esordio di James Anderson, nonché primo di una, spero lunga, serie (il secondo volume, Lullaby Road, verrà pubblicato sempre da NN l’anno prossimo). L'autore ha scritto un crime che però si distacca molto dalle caratteristiche del genere: certo, c’è un mistero principale (il furto di un prezioso violoncello) dall'epilogo drammatico che avvince il lettore, prima lentamente per poi lasciarlo alla fine in balia delle piogge torrenziali e della corrente che all'improvviso arrivano e spazzano via tutto. Ma ci sono anche tante, tantissime altre cose. C'è la storia d’amore tra Ben e Claire, prima di tutto: la routine del deserto che si spezza, una deviazione che Ben fa con il suo camion e che sfocia in un rapporto improvviso, e forse per questo ancor più appassionato e potente. Ci sono i legami famigliari, in ogni loro forma possibile: quello fatto di se e di ricordi inestinti, tra Ben e sua madre; quello spezzato e così forse ancor più forte tra Walt e sua moglie; quello appena scoperto tra l'anziano e Claire; quello forse più singolare e al tempo stesso più tenero tra Ben e Ginny; l'amore fraterno che unisce i fratelli Lacey, Fergus e Duncan, e in qualche modo tutta questa comunità che vive nel deserto.
E c’è l’amicizia, quel vincolo forte che forse è il deserto stesso ad aver consolidato e che fa in modo che, anche di fronte alla situazione più critica, a quello che all'apparenza sembra il male in assoluto, nessuno giudichi nessuno.

«Mi sa che non credo più nel lieto fine.»

«Io non penso di averci mai creduto» risposi. «Ma avrei sempre voluto farlo.»
«Secondo te va bene se forse, solo per il momento, credo in un presente felice?»
«Può andare» dissi «a patto di viverlo insieme.»

Il diner nel deserto è un libro intenso, in cui il deserto funge da contenitore delle storie dei personaggi che lo popolano ma anche da protagonista, determinandone in qualche modo il destino.
Bello, davvero, davvero bello.

Titolo: Il diner nel deserto
Autore: James Anderson
Traduttore: Chiara Baffa
Pagine: 320
Anno di pubblicazione: 2018
Editore: NN editore
Prezzo di copertina: 18,00 €
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martedì 11 settembre 2018

Il mio Festivaletteratura di Mantova 2018

Si è conclusa domenica sera la XXII edizione del Festivaletteratura di Mantova. Il comunicato stampa ufficiale degli organizzatori parla di 62 mila biglietti staccati e circa 60 mila presenze agli incontri gratuiti, confermando così i numeri della passata edizione.
Un successo quindi, mi sento di dire, soprattutto tenendo conto della differenza ben evidente tra il programma di quest’anno e quel del 2017, che si componeva di grandi, grandissimi nomi (soprattutto della letteratura nordamericana) che quest’anno, invece, scarseggiavano un po’. Ma credo che il Festivaletteratura di Mantova, per come è strutturato, per la bellezza della città e la sua incredibile capacità di fondersi con il festival e di accogliere chi va a visitarlo, riuscirebbe ad attirare gente anche invitando dei completi sconosciuti.



Noi siamo stati solo due giorni quest’anno, rispetto ai tre che avevamo previsto, ma sono stati sufficienti per confermare il Festivaletteratura come il mio evento letterario nazionale preferito in assoluto (almeno di quelli che ho visto finora, mi manca ancora Pordenonelegge e Una marina di libri).
Come ho già detto diverse volte, adoro l’atmosfera, adoro sedermi al bar e vedere gli scrittori passeggiare o fermarsi a un tavolo vicino, adoro i saluti per strada più o meno frettolosi con persone che magari vedi solo una volta l’anno o che non hai mai avuto occasione di incontrare prima (Cristina, Altea, Mascia, Sara, Elena e tutti gli altri... è stato un vero piacere!), adoro spostarmi da un posto a un altro per gli eventi (anche se Palazzo San Sebastiano se sta diluviando e tu hai l’auto lungo il Mincio è lontanissimo), adoro l’essere all’aperto e non in padiglioni claustrofobici, adoro fermarmi a riposare su uno degli sgabelli sotto la tenda Sordello, adoro il cibo... insomma doto il Festivaletteratura.

Nonostante il primo impatto con il programma per me sia stato un po’ meno entusiasmante rispetto all’anno scorso, alla fine abbiamo partecipato a diversi eventi, tutti molto interessanti.
Il primo è stato giovedì sera, subito dopo aver mangiato il risotto alla Pilota (risotto con la salsiccia mantovana... tanta roba), con John Niven e Peter Florence a Palazzo San Sebastiano.


Niven mi piace da matti, perché è esattamente la persona che ti aspetti che sia leggendo i suoi romanzi. Un po’ stronzo e senza problemi ad ammetterlo, ma anche simpatico, con la battuta pronta e ricco di aneddoti da condividere. Anche se il libro di cui si è parlato, Invidia il prossimo tuo, non è il mio preferito, è stato comunque un incontro divertente e a tratti anche illuminante.

Il venerdì è cominciato con un bel giretto alle bancarelle dei libri usati sotto i portici di Palazzo Ducale, un appuntamento fisso del Festival nonché una tappa imprescindibile per ogni appassionato.



Poi ci siamo spostati nel cortile di Palazzo Castiglioni (che è forse la location più bella in assoluto di tutto il festival) con Bianca Pitzorno che, insieme a Federico Taddia, ha parlato del libro più divertente che ha letto: Il piccolo scapolo di Pelham G. Wodehouse.
La Pitzorno, che io conosco per lo più come scrittrice per bambini (Sulle tracce del tesoro scomparso è uno dei miei libri preferiti di quando ero ragazzina) ma che ha scritto anche molti romanzi per adulti, si è interrogata sulle sorti della scrittura umoristica, ormai sempre meno diffusa, e sull’importanza di leggere sempre ma con il dovuto distacco (per non fare la fine di Emma Bovary o Don Chisciotte), raccontando anche nel mentre buffi aneddoti sulla sua infanzia.



Subito dopo pranzo (e che pranzo, mamma mia: affettati con mostarda mantovana, tortelli di zucca e torta sbrisolona con zabaione) ho rotolato di nuovo verso palazzo San Sebastiano, per l’incontro con Tom Drury e Luca Briasco.
Da Mantova per un momento ci siamo ritrovati nella Grouse County, dov’è ambientata la trilogia di questo scrittore americano, che secondo me purtroppo qui in Italia non sta ancora avendo tutto il successo che si meriterebbe. L’incontro si è concentrato per lo più su Pacifico, l’ultimo volume della trilogia, ma Drury ha parlato anche dell’evoluzione dei personaggi e della sua scrittura nel corso del tempo.




Alle 21.30 è toccato poi a Andrew O'Hagan che, con Carlo Annese, ha parlato del suo La vita segreta – Tre storie vere dell’era digitale, edito da Adelphi.
Un incontro interessante (penalizzato un po’ dal luogo infausto... se palazzo Castiglioni è la location più bella del Festival, l’aula magna dell’università è senza alcun dubbio la più brutta) sull’uso e sui pericoli della rete, partendo dai suoi incontri con Julian Assange e Satoshi Nakamoto, e da un suo inquietante esperimento sui social.



Sabato mattina abbiamo fatto in tempo ad andare a vedere Gianrico Carofiglio in tenda Sordello, che in mezz’ora ha parlato di una sua mania: le arti marziali.
Ho perso di vista Carofiglio come scrittore da quando è passato a Einaudi, devo dir la verità. Per quanto amassi Guido Guerrieri (un’altra mia grande cotta letteraria insieme a Rocco Schiavone), leggere i suoi romanzi senza il blu Sellerio non mi piaceva più tanto. Seguo però Carofiglio su twitter e apprezzo tantissimo tutta l’opposizione che sta facendo a questo governo (uno dei pochi scrittori che ci sta mettendo la faccia) e quindi volevo andarlo a sentire. L’incontro è stato davvero divertente, lui sa come parlare in pubblico e come intrattenerlo, anche quando non si parla specificatamente di libri.



Poi, a causa di un falso allarme felino (Luna, la gatta di casa, deve aver fatto festa quella notte e al mattino, quando sono venuti a darle da mangiare, anziché fare le caprioline come fa sempre è rimasta addormentata nella cuccia... da lì al “oddio, Luna sta malissimo” il passo è breve, soprattutto se sei un po’ ansioso. Per fortuna stava benissimo, aveva solo sonno), siamo tornati di corsa a casa.

Nonostante la partenza un po’ affrettata, è stato comunque un bel Festival. La prossima edizione si terrà dal 4 all’8 settembre 2019. Io spero di riuscire ad andarci anche il prossimo anno. E se mi permettete un consiglio, se siete amanti dei libri e degli incontri (ma anche delle belle cittadine e del cibo) almeno una volta ci dovreste proprio andare anche voi.

lunedì 3 settembre 2018

INVIDIA IL PROSSIMO TUO - John Niven

Era così perso in quei calcoli che gli ci volle un po' per rendersi conto di cosa aveva sotto gli occhi, proprio accanto a un piede.
La pallina di Craig.
Sapeva che era sua perché gli aveva dato alcune vecchie palline dalla sua sacca: tutte quante con sopra scritto «Titleist», la marca, in giallo. Si girò. Craig era a una ventina di metri, a capo chino, di spalle, indaffarato a cercare.
Di colpo un angelo con la faccia di Barack Obama apparve sulla spalla sinistra di Alan e un diavolo con la faccia di Donald Trump apparve su quella destra.
«Chiamalo, dài, - disse Obama. Digli che hai trovato la sua pallina.»
«Affanculo quel tipo, - sbraitò Trump. - Vuoi VINCERE sì o no? Eddài, cazzo. È il tuo circolo. Paghi tu. "Scalogna"? Ti rendi conto di cosa ha detto? Quello stronzetto...»
Prima ancora di capire cosa stava facendo, Alan aveva già calciato la palla di Craig sotto un folto ciuffo d'erba e schiacciato violentemente il ciuffo con la scarpa, nascondendola del tutto alla vista.
Barack Obama si coprì il viso per la vergogna.
«Sei un figo, - bisbigliò Trump. - Make Alan Great Again!»



Se dovessi spiegare in poche parole perché mi piace John Niven, credo che la primissima cosa che direi è perché è uno stronzo. O meglio, lo è nei suoi libri, lo sono gran parte dei suoi personaggi e delle situazioni spiacevoli che racconta. E lo fa senza vergogna, senza remore e senza troppi scrupoli.
E tutto questo mi piace non solo perché mi diverte, ma perché credo che, alla fine, la stronzaggine con cui caratterizza i suoi personaggi rispecchi molto del mondo reale, di quelle persone e di quelle situazioni in cui spesso ci si ritrova a vivere.

Invidia il prossimo tuo, ultimo romanzo uscito a marzo di quest’anno per Einaudi con la traduzione di Marco Rossari, è forse l’esempio più lampante. Come il titolo lascia facilmente intendere, protagonista è l’invidia, quel sentimento a volte molto labile, altre talmente forte da farci uscir di testa, che tutti almeno una volta nella nostra vita, in modo più o meno conscio, proviamo. Invidia per un’altra persona e per quello che ha ottenuto, magari a discapito nostro. Invidia per ciò che uno possiede, mentre noi non possiamo permettercelo, o per ciò che uno è e che noi non saremo mai.

Protagonista è Alan, un celebre critico gastronomico, che vive con la moglie e i tre figli in un’enorme casa poco fuori Londra. Un giorno, all’uscita della metropolitana, s’imbatte in Craig, quello che da giovane è stato il suo migliore amico e che poi è diventata una rockstar. Alan è senza parole, perché Craig adesso è un barbone, sporco, puzzolente e costretto a chiedere l’elemosina per sopravvivere. Alan decide di portarlo a bere una birra, in onore dei vecchi tempi e anche per quella sensazione di pietà che a poco a poco, un bicchiere dopo l’altro, si fa strada dentro di lui. Come può non aiutarlo? Come può lasciarlo in mezzo a una strada, visto che ha tutto lo spazio e i mezzi per accoglierlo? Certo, la sua non è proprio solo generosità... è anche un senso di rivalsa, nei confronti di quell’uomo che da giovane, pur dichiarandosi suo amico, lo ha fatto sempre sentire inferiore, non all’altezza. E adesso chi è ad avere bisogno di aiuto? Chi è che ce l’ha fatta? Quindi Alan ospita Craig a casa sua, almeno fin quando non si sarà rimesso in carreggiata. La moglie non è troppo contenta, ma alla fine Craig non dà troppo fastidio, è una presenza quasi invisibile. Finché, a un certo punto, tutto il mondo che si è creato Alan sembra iniziare a cedere, tutto insieme, in un inquietante effetto a catena. Che stia ripagando la sua falsa generosità? O che sia di nuovo l’invidia che ci mette lo zampino?

Invidia il prossimo tuo è un romanzo divertente e molto piacevole da leggere, che però, nonostante la tematica così universale, è forse un po’ meno brillante rispetto ai romanzi precedenti di Niven (non solo di A volte ritorno, che rimane irraggiungibile, ma anche di Maschio bianco etero e di Le solite sospette), soprattutto nella seconda parte.
Per quanto ben caratterizzati i personaggi, e ben descritto quello stato d’animo di generosità che in realtà nasconde tutt’altro, tutto il romanzo è caratterizzato da un senso di prevedibilità che penalizza molto la lettura. Se si esclude la riflessione finale (che forse da sola vale tutto il libro), manca un po’ di spessore, un po’ di introspezione e il testo spesso sembra ridursi a un mero accumulo di episodi (a volte esilaranti, come la partita di golf; altri forse un po’ eccessivi, anche se da uno come Niven si possono aspettare) che sfociano in una catastrofe piuttosto "telefonata".

Negli uomini, le dinamiche si fissano presto. Poco importava quanti soldi aveva fatto, quanto successo aveva ottenuto. Poco importava se lui indossava un vestito di oro zecchino e Craig era sdraiato nudo in una fogna. Alan avrebbe sempre cercato di impressionare Craig. E Craig avrebbe sempre disprezzato Alan.

Invidia il prossimo tuo non è un brutto un libro, intendiamoci. Si legge davvero bene e lo stile di Niven a me fa sempre impazzire. Però questa volta l’ho trovato un po’ sottotono, come se avesse fretta di concludere (e il fatto che questo romanzo sia il più corto scritto finora non fa che avvalorare questa mia tesi), come se non sapesse del tutto come gestire la tematica. D’altronde l’invidia è una brutta bestia e raccontarla in modo così universale, in cui tutti, volenti o nolenti, ci possiamo rispecchiare, non dev’essere per niente semplice. Nemmeno se sei uno stronzo.

(Giovedì 6 settembre andrò a vederlo al Festivaletteratura di Mantova. Magari dal vivo che credo sia uno scrittore stronzo non glielo dico, perché in realtà di persona non lo è e non vorrei si offendesse.)



Titolo: Invidia il prossimo tuo
Autore: John Niven
Traduttore: Marco Rossari
Pagine: 290
Anno di pubblicazione: 2018
Editore: Einaudi
Prezzo di copertina: 18,00 €
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formato cartaceo: Invidia il prossimo tuo
formato ebook: Invidia il prossimo tuo (Einaudi. Stile libero big)