giovedì 26 febbraio 2015

HANNAH COULTER - Wendell Berry

Cara Hannah,
so che probabilmente quello che sto facendo sembrerà folle, scrivere una lettera al protagonista di un libro, ma da quando poche ore fa ho finito di leggere la tua storia, che tu e Wendell Berry avete raccontato così bene, ho sentito la strana esigenza di farlo. E, da quel poco che ti ho conosciuto attraverso le pagine, sono molto sicura che la cosa non ti dispiacerà.

Mi hai fatto emozionare cara Hannah. Mi ha emozionato la storia della tua vita, il tuo amore intenso e purtroppo troppo breve per Virgili, il tuo amore immenso e, per fortuna questa volta, duraturo per Nathan Coulter. Mi ha emozionato il tuo rapporto con i tuoi primi suoceri e la tua gioia, ma anche le tue ansie, le tue paure e le tue aspettative spesso disattese nel crescere i vostri figli. E poi, soprattutto, il racconto della tua fattoria e della comunità di Port William, quel posto magico che avevo già conosciuto con Jayber Crow, il vostro barbiere, in grado di rimetterti in pace con te stessa anche solo leggendolo.
Purtroppo posti così non esistono quasi più, ma questo temo che tu lo sappia già. Il progresso, la tecnologia, la città che ha invaso la campagna hanno reso Port William e tutte le comunità rurali che ci sono ancora per il mondo delle piccole oasi, delle perle, in mezzo al caos della vita moderna.

Ma non è per tutto questo che ho deciso di scriverti. O meglio, è anche per tutto questo, ma c’è ancora qualcosa. L’amore. Io credo molto nell’amore, sai? Al limite del patologico forse. Credo davvero che se c’è amore, quello di una famiglia, di un compagno, di un figlio, di un amico, qualunque difficoltà si possa davvero superare uscendone non indenni, ma comunque sempre uniti e sempre insieme. Proprio come quando tu dici “Eravamo riusciti a superare i momenti più difficili. Ne siamo usciti cambiati, ma sempre tutti insieme”. Ecco, io in tutto questo credo davvero tanto. Così come credo nell'amore tra due persone che può superare ogni cosa, nel porto sicuro (d’altronde nemmeno io, proprio come chi ha dato il nome a Port William, so dove passerà il fiume esattamente) a cui si approda sempre, ogni sera, dopo ogni difficoltà.
Il problema, mia cara Hannah, è che troppo spesso di tutto questo ci dimentichiamo. Quando il dolore è troppo grande, quando la rabbia è talmente accecante da coprire tutto il resto, quando la perdita sembra incolmabile, soprattutto per chi, come me e molti, nel volere di Dio crede poco.

E quindi ti scrivo per ringraziarti. Perché la tua storia e tutte le altre storie come la tua che esistono al mondo (e poco importa se la maggior parte di esse esistono solo nei libri), ti fanno capire che se si vuole ce la si può fare davvero. A trovare se stessi, a trovare un posto da chiamare casa e a cui sempre ritornare, ad amare incondizionatamente e nonostante tutto.

Grazie a te e a Nathan e alla vostro amore e alla vostra tranquillità, grazie a Port William e a tutti i suoi abitanti che hanno deciso di restare ma anche a quelli che a un certo punto se ne sono andati, grazie alla campagna, ai campi coltivati, ai trattori sgangherati e alle amicizie che non vogliono nulla in campo. Oh sì, e grazie anche a Wendell Berry per avermi raccontato ancora una volta una storia che all’apparenza potrebbe sembrare  anche banale, ma che invece in qualche modo ti aiuta ad essere felice.

Con immenso affetto


Elisa

Titolo: Hannah Coulter
Autore: Wendell Berry
Traduttore: Vincenzo Perna
Pagine: 276
Editore: Lindau
Anno: 2014
Acquista su Amazon:
formato brossura: Hannah Coulter

mercoledì 25 febbraio 2015

Due titoli, un solo libro: ma perché? #Arrivederci e grazie

A partire da oggi la rubrica Due titoli, un solo libro: ma perché? si prenderà un po' di riposo.
Non so ancora dirvi se sarà un’interruzione temporanea o definitiva, ma credo sia giunto il momento che si prenda una pausa. Ci ho ragionato a lungo prima di decidermi. Mesi, addirittura. E alla fine sono giunta a questa conclusione. La rubrica deve andare in stand-by almeno per un po’ e i motivi sono diversi.

Sicuramente non è perché mi manchi la materia prima. Questa brutta abitudine di cambiare i titoli originali con titoli italiani che, spesso, non c’entrano nulla e che seguono logiche e strutture comuni, ahimè, non sta diminuendo. Anzi. Cambia solo la moda, la parola da usare, la struttura, ma il succo di molte pubblicazioni di certi editori rimane sempre lo stesso. Non che pensassi che la mia rubrica avrebbe potuto cambiare qualcosa, ci mancherebbe. Però ecco, forse più che la mancanza di titoli, il problema è proprio l’opposto. Ce ne sono troppi e non so più dove girarmi e come fare a scegliere, in modo parziale e non ripetitivo, di quale libro parlare.

Dall’entusiasmo iniziale, con il passare dei mesi e degli anni (sì, perché sono anni che esiste questa rubrica su questo blog) a poco a poco scrivere questo post settimanale è diventato per me sempre più faticoso. Non mi divertivo più come all’inizio, un po’ per mancanza di tempo, un po’ perché a volte certi post hanno generato brutte discussioni, un po’ perché invece non ne hanno generate affatto. E credo che in un blog personale non abbia senso scrivere qualcosa solo perché per qualche motivo ci si sente obbligati a farlo o perché si ha un po’ di timore a dire basta (le abitudini sono una brutta bestia). Ci deve essere entusiasmo, passione, voglia, altrimenti non ha alcun senso.

E poi mi è venuto anche spontaneo chiedermi se la rubrica non stesse effettivamente diventando un po’ ripetitiva, soprattutto considerando che indignarsi per i titoli è diventato molto comune (mi vengono in mente almeno quattro o cinque pagine e blog che hanno una rubrica molto simile). E ci aggiungo un per fortuna, perché vuol dire che un po’ di sensibilizzazione c’è stata e che certi lettori si stanno un po’ svegliando e non si lasciano più abbindolare da certi titoli e da certe copertine (anche se probabilmente ancora non sono abbastanza, visto che continuano a uscirne).

Alla luce di ciò credo, quindi, che sia giunto il momento di mettere a riposo Due titoli, un  solo libro: ma perché?.  Non smetterò di certo di verificare gli originali di certi titoli italiani che sono palesemente costruiti, né di arrabbiarmi per i cambiamenti totalmente ingiustificati. Continuerò a farlo, nonostante tutte le occhiatacce che spesso mi sono state rivolte nelle varie librerie in cui mi è capitato di sbirciare. Però lo farò un po’ più rilassata, senza l’obbligo, assolutamente autoimposto sia chiaro, della puntata settimanale. Così come continuerò sicuramente a portare avanti sul blog e sulla pagina Facebook la mia personalissima lotta contro questi titoli (che si concretizza quasi sempre con il non comprare e leggere questi libri, a meno che qualcuno di altamente fidato non mi convinca che, sebbene sulla copertina ci sia una Ragazza che fa qualcosa o una Libreria segreta/misteriosa/profumata, o qualunque altra cosa di simile, insomma, valga comunque la pena di leggere quel libro.

Non è un addio ovviamente, anche perché il blog continuerà la sua normale programmazione (recensioni, Case Rampanti e qualunque altra cosa mi venga in mente di scriverci…ho un paio di idee nuove in mente che spero presto di riuscire a concretizzare), ma semplicemente il saluto di e a una rubrica a cui ho voluto e vorrò sempre molto bene, ma che forse ha fatto un po’ il suo tempo e che ora è giusto che si riposi un po’.

Concludo ringraziando tutti coloro che hanno seguito assiduamente questa rubrica, che hanno inviato segnalazioni e che si sono imbufaliti con me per certi cambiamenti. E per non lasciarvi proprio soli e spaesati vi consiglio di seguire Photoshop non ti conosco, obbrobrio non ti temo, Paint ti amo, la fantastica rubrica del blog LibrAngolo Acuto sulle copertine terrificanti)

lunedì 23 febbraio 2015

PISTA NERA - Antonio Manzini

Io non sono una grande amante della montagna, né d’estate né d’inverno. E mi rendo conto che sia un po’ assurdo, considerando che la Val d’Aosta è a due passi da dove abito, che vedo le montagne da tutte le finestre di casa e che, se volessi, potrei andarci quasi ogni giorno. Eppure la montagna mi annoia. Bella la natura, bello il silenzio, buona l’aria che si respira e belle le piste da sci innevate d’inverno (quando non c’è nessuno però, che se c’è tanta gente mi innervosisco). Però lasciatemi in montagna più di due giorni e io inizio a dare di matto.

Per cui non fatico per nulla a capire lo stato d’animo del vicequestore Rocco Schiavone, protagonista di Pista Nera di Antonio Manzini, primo volume di una serie di romanzi polizieschi ambientati proprio in Val d’Aosta. Rocco Schiavone infatti arriva da Roma, a seguito di un trasferimento punitivo di cui non si sa bene il motivo (corruzione? Eccessiva violenza? Ribellione verso i superiori? Qualche azione non del tutto legale?). Non ce la fa proprio ad abituarsi a quel freddo, considerando anche che proprio non ne vuole sapere di togliersi le sue belle Clarks e il suo loden per un abbigliamento più consono. E poi c’è davvero troppa pace, lì tra le montagne. Una pace che viene rotta però dal ritrovamento di un corpo su una scorciatoia tra due piste da sci. Di pezzi di un corpo in realtà, ché il gatto delle nevi ha visto l’ostacolo troppo tardi e non ha proprio potuto evitarlo. Rocco Schiavone si ritroverà ad indagare, insieme ai suoi sottoposti, su questa strana morte, avvenuta in un paesino in cui tutti si conoscono e tutti sanno tutto. Mentre svolge le indagini, però, per allontanare un po’ la noia, oltre a frequentare una donna del luogo, si ritrova invischiato in uno strano affare con un suo vecchio amico romano, che renderà molto labile il confine tra poliziotto e criminale.

Ho letto questo romanzo in meno di un giorno, perché davvero non riuscivo a metterlo giù. E credo che non ci sia pregio più grande per questo genere di libri. Una storia ben costruita, dei personaggi che funzionano (adoro soprattutto l’anatomopatologo!) e uno stile perfettamente adatto alla trama raccontata. Certo, Rocco Schiavone non è esattamente quel bell'investigatore affascinante e intelligente, a cui altri romanzi di questo tipo ci hanno abituato. E’ un po’ uno stronzo, insomma. Eppure, mano a mano che si procede nella lettura, a questo suo carattere irruento, violento, ambiguo e un po’ bastardo ci si affeziona, soprattutto perché Manzini è molto bravo nel lasciare intendere che dietro questo suo atteggiamento c’è davvero qualcosa di brutto, a cui l’uomo cerca di non lasciarsi andare. 

Non so se la mia avversione per la montagna, seppur meno esasperata di quella di Rocco Schiavone, mi abbia fatto provare nei suoi confronti una maggiore empatia e quindi fatto apprezzare maggiormente il libro. Non credo, onestamente. Fatto sta che questo Pista Nera è stata una vera rivelazione e che mi sa che ho appena scoperto un'altra di quelle serie (vedi il Barlume di Malvaldi o i primi romanzi Guido Guerrieri di Carofiglio... guarda caso tutti Sellerio!) che ora ho una voglia matta di leggere.

Titolo: Pista nera
Autore: Antonio Manzini
Pagine: 278
Editore: Sellerio
Anno: 2013
Acquista su Amazon:
formato brossura:Pista nera

venerdì 20 febbraio 2015

LA FAMIGLIA KARNOWSKI - I. J. Singer

Ho sempre amato leggere le saghe familiari. Mi piace partire dall'inizio della storia di una famiglia e ripercorrere quello che i suoi membri hanno vissuto, ciò che è loro capitato, conoscere le persone che hanno incontrato, leggere dei loro turbamenti, dei loro amori, dei loro lavori e del mondo che attorno a loro ha influenzato il loro modo di essere. Può darsi che sia semplicemente perché ho un animo un po’ pettegolo e mi appassiono alla vita degli altri, realmente esistiti ma anche inventati. O forse, come mi piace pensare, è perché ognuno di noi potrebbe essere protagonista di una di queste saghe se solo si mettesse a guardare a ritroso nella sua famiglia e questo me le rende in qualche modo simpatiche e congeniali.

La differenza, ovviamente, è che non tutti poi saremmo in grado di scriverla, la storia di una famiglia. Che sia inventata o reale, bisogna saper scrivere, saper narrare, saper appassionare il lettore senza limitarsi ovviamente a una mera cronaca di eventi. Insomma, non tutti siamo I.J. Singer che, con il suo La famiglia Karnowski, è riuscito a creare una saga familiare strepitosa e appassionante.

Non ha tanto senso che io faccia un riassunto della trama (è un po’ come se vi chiedessero di fare un riassunto della vostra vita), vi basti sapere che protagonista è la famiglia Karnowski, ebrea di origine polacca, che si è trasferita a Berlino in cerca di successo. Il capostipite, David, è un mercante di legnami che nel mondo esterno un po’ nasconde il suo essere ebreo che però poi vive pienamente in casa. David e la moglie Lea, che di imparare il tedesco proprio non ne vuole sapere e che ama tutte le espressioni e le tradizioni ebree con cui è crescita, hanno un figlio, Georg, che cresce in questo dubbio tra il considerarsi tedesco ed ebreo. Un dubbio che diventa ancora più forte per Jegor, il figlio che nasce da Georg e Teresa, donna di pura razza ariana, che si ritrova a vivere la sua adolescenza nel periodo dell’ascesa del governo nazista. Jegor si sente tedesco, sebbene il suo cognome e il suo aspetto, scuro di capelli e con un grosso naso, renda evidente a tutti le sue origini ebraiche.  Un conflitto interiore il suo, che viene amplificato dalle angherie che è costretto a subire a scuola e che si sfoga verso il padre. E nemmeno la fuga negli Stati Uniti riesce a calmare il suo animo e i suoi turbamenti.

Ecco, ora immaginatevi questa storia amplificata in 490 pagine, scritte in modo eccelso. Arriverete a conoscere bene David e Lea, seguirete Georg nella sua professione di ginecologo e nel suo graduale innamoramento per Teresa, scoprirete quanto doloroso possa essere per un ragazzino non sapere chi è. Vi appassionerete tanto a questa storia e a questi suoi tre principali protagonisti e in più scoprirete come poteva essere la vita di un ebreo nella Germania dei primi quarant'anni del novecento e nel loro continuo dover fuggire, anche dopo essersi affermati.

Tutti mi avevano parlato di La famiglia Karnowski come di un capolavoro. Un termine che, purtroppo o per fortuna a seconda dei punti di vista, non si può associare a tutti i libri.
In questo caso, però, è una definizione perfetta.

Titolo: La famiglia Karnowski
Autore: I. J. Singer
Traduttore: Anna Linda Callow
Pagine: 494
Editore: Adelphi
Anno: 2014
Acquista su Amazon:
formato brossura:La famiglia Karnowski

mercoledì 18 febbraio 2015

Due titoli, un solo libro: ma perché? #108


Ancora una volta, fin dalla prima lettura del titolo italiano, mi è stato evidente che non poteva corrispondere all'originale, perché davvero troppo simile ad altri già sentiti. Non avrei mai immaginato però che questo Una casa di acqua e cenere fossa l'alternativa scelta per non tradurre letteralmente No country. Sicuramente è una traduzione difficile, perché Nessun paese o Nessuno stato o Nessuna terra hanno, almeno per quanto mi riguarda, la stessa incisività, lo stesso potere evocativo dell'originale. Però forse avrei cercato comunque un titolo più corto (magari Nessuna casa, per salvare qualcosa dell'italiano?) e non avrei usato il corsivo di cui, ammetto, non riesco a capire molto il significato.
Stranamente invece le due copertine, seppur completamente diverse, mi piacciono allo stesso modo.



Titolo originale: No country
Titolo italiano tradotto in modo assai bislacco: Una casa di acqua e cenere
Autore: Kalyan Ray
Traduttore italiano: F. Toticchi
Editore italiano: Nord

lunedì 16 febbraio 2015

CASSANDRA AL MATRIMONIO - Dorothy Baker

I gemelli e il legame che si crea tra di loro mi ha sempre affascinato. Non so se mi sarebbe piaciuto avere un fratello o una sorella gemella, questo no, però al tempo stesso mi sarebbe piaciuto provare per qualcuno quel legame indissolubile che sicuramente le coppie di gemelli provano. C’è anche tra fratelli non gemelli questo legame, sicuramente, e può essere più o meno forte. Però credo che non possa raggiungere i livelli di quello tra due consanguinei nati nello stesso momento. 
Eppure, in letteratura, i gemelli compaiono quasi sempre in romanzi in qualche modo disturbanti. Mi viene in mente il non proprio ben riuscito Un’inquietante simmetria di Audrey Niffenegger o la Trilogia della città di K di Agota Kristoff (anche se…).  Romanzi in cui il rapporto tra i gemelli è fragile, disturbato, doloroso e spesso tragico.

Cassandra al matrimonio di Dorothy Baker si infila dritto dritto in questo elenco. Protagonista del romanzo è la Cassandra del titolo, che parte per tornare al ranch di famiglia per assistere al matrimonio della sorella gemella Judith. Non è contenta di questo legame Cassandra. Perché solo lei può capire realmente Judith, solo lei può amarla e darle tutto ciò di cui ha bisogno. È sempre stato così e non riesce a capire come qualcuno di esterno, di estraneo, possa pensare di sconvolgere questo suo equilibrio. Peccato che in realtà Judith da questo equilibrio che sta cercando di fuggire da anni, per aprirsi a quel mondo che fin dall’infanzia le è stato negato, da una famiglia che si è sempre sentita un po’ superiore a tutti. 
Cassandra cercherà quindi in ogni modo di far cambiare idea a Judith. Ma, quando ormai era convinta di esserci riuscita, la sorella la spiazza e lei non può che capitolare. Nel modo più drastico e drammatico possibile, ovviamente, così che Judith capisca quanto male le ha fatto e ne rimanga traumatizzata per sempre. Ma qualcosa nel piano di Cassandra va storto e alla fine, davvero, non ha che da accettare e, soprattutto, da imparare a vivere davvero la sua vita.

Nelle recensioni e nei commenti scovati in giro prima di iniziare la lettura, ma anche e soprattutto nella postfazione al libro scritta da Peter Cameron, si trova come definizione ricorrente la parola “sconvolgente”. Una parola che, posso dire, si addice perfettamente a Cassandra al matrimonio, ma che al tempo stesso forse è un po’ troppo limitata ed esaspera una sensazione che  sì alla fine si prova, ma che, almeno per me, non è stata quella primaria. È vero che Cassandra è un personaggio sicuramente problematico e disturbato, e che il legame che la unisce alla sorella rasenta il patologico (anzi no, lo è). Eppure al tempo stesso non ci vedo nulla di così sconvolgente nel dolore e nel conseguente egoismo che nasce quando ci si rende conto di stare perdendo ciò che da anni ci tiene insieme. 
Torni a casa tua, dove hai vissuto una vita, e scopri che è cambiato tutto, non riesci neanche più a trovare una cuffia per farti il bagno, qualcuno ti frega il drink, un pipistrello ti finisce in mezzo ai capelli ed è tutto un grande, immenso casino.
Certo, dovremmo volere solo il meglio per le persone a cui vogliamo più bene, mettendo da parte ogni interesse personale, ma al contempo, e soprattutto se si hanno degli evidenti problemi come Cassandra, trovo così umano quel senso di attaccamento e la conseguente paura di non farcela se qualcosa smette di essere come è sempre stato. 
Judith, poi, fa tenerezza, per il suo tentativo di non offendere nessuno ma al contempo la sua legittima voglia di rivendicare se stessa, di uscire da quella famiglia che forse involontariamente l’ha sempre tenuta lontana dal resto del mondo. E altrettanta tenerezza fa l’uomo che sta per sposare (se non è amore sopportare una futura cognata pazza, un suocero che non si separa mai dai suoi libri di filosofia e dal suo bicchiere di alcool, e una nonna che cerca di prendere il posto della suocera che non c’è più, non so bene cosa lo possa essere).

Sicuramente per gli anni in cui è stato scritto e in cui è ambientato, e, soprattutto, per l’incredibile prosa di Dorothy Baker che non fa sconti a niente e a nessuno e non ha problemi a raccontare le cose come stanno, Cassandra al matrimonio è un romanzo sconvolgente. Ma forse proprio come lo è la realtà e la vita di tutti i giorni, soprattutto delle persone più fragili.
Davvero un bel libro.

Titolo: Cassandra al matrimonio
Autore: Dorothy Baker
Traduttore: Stefano Tummolini
Pagine: 275
Editore: Fazi editore
Anno: 2014
Acquista su Amazon:
formato brossura: Cassandra al matrimonio

venerdì 13 febbraio 2015

TERZO SETTORE IN FONDO - Marco Ehlardo

È raro, estremamente raro, che io legga un saggio. È sicuramente un mio limite tenermi lontana da questo genere di lettura. Ma un limite che non riesco mai a convincermi di superare. Sarà che ne ho letti tanti all’Università, sarà che le cose, se mi vengono raccontate in forma di romanzo, mi rimangono più a mente.

Quando la casa editrice Spartaco (che, se seguite questo blog, ormai dovreste sapere quanto gli sono affezionata, per i bei libri che mi ha sempre fatto scoprire) mi ha inviato  Terzo settore in fondo di Marco Ehlardo,  ultimo titolo della loro collana di saggistica, il primo pensiero è stato “E adesso?”. Faccio finta di nulla e lo nascondo in uno scaffale della libreria o provo a superare questa mia riluttanza per i saggi. Ne ho parlato direttamente con loro, (e questo è un altro dei motivi per cui mi trovo così bene con i libri di questa casa editrice, la possibilità che si ha di confrontarsi con loro) che mi hanno detto di fidarmi, di leggerlo, di dargli una possibilità. Ammetto che il sottotitolo Cronistoria seminseria di un operatore sociale precario già in parte mi aveva convinto, ma di fronte a questa richiesta di fiducia alla fine mi sono decisa del tutto.

Terzo settore in fondo di Marco Ehlardo è un saggio che è anche un romanzo. Racconta una storia vera, come il sottotitolo lascia intendere la cronistoria di un operatore sociale, Mauro Eliah che è poi è lo stesso Marco Ehlardo sotto mentite spoglie, che lavora a Napoli e che ha il compito di aiutare i rifugiati a fare domanda di asilo politico. Non di clandestini, quindi, ma di quelle persone che sono fuggite non “solo” dalla miseria e in cerca di un futuro migliore (quel solo non può che andare tra virgolette) ma perché perseguitati, in pericolo, nel loro paese. Il protagonista ci racconta i giochi di potere, le incongruenze e le assurdità delle istituzioni coinvolte, l’ignoranza di chi le rappresenta, le pecche e i vuoti legislativi che regolamentano queste procedure. E in più, ci racconta di Thomas Compaoré, uno di questi richiedenti asilo, un giornalista fuggito dal Burkina  Faso che sta aspettando ancora il permesso di soggiorno e che si ritrova a combattere anche qui, nel nostro Belpaese, contro le ingiustizie che persone come lui subiscono.

Devo ammettere che non sapevo assolutamente nulla di rifugiati politici e della prassi per ottenere il permesso di soggiorno. Di questi argomenti so quello che viene detto ogni al tg, in forma sicuramente edulcorata e manipolata in base alle esigenze. Non sapevo che l’emergenza è continua, non sapevo quali strani giochi di soldi, di potere, di facciate, di rapporti da non incrinare e di burocrazia ci fossero dietro (certo, in parte sono immaginabili, che la burocrazia italiana è lunga per qualunque cosa).

Marco Ehlardo ce lo racconta in modo tragicomico, sottolineando tutti gli aspetti assurdi del suo lavoro di operatore del terzo settore a Napoli (ma sono convinta che l’ambientazione geografica conti davvero poco). Ci racconta la passione che ci mette lui e che ci mettono anche alcune altre persone che lavorano nello settore, che lavorano onestamente, che aiutano più che possono e che non riescono a lasciar perdere. Ci racconta anche di chi invece se ne frega, di chi non sa quali possano essere i problemi di un rifugiato politico, che se ne frega da che cosa sia fuggito, ma pensa solo ad apparire, a mettere d’accordo tutti, a fare bella figura. E ci racconta anche di come questi rifugiati vivono e affrontano la loro condizione, di come vengono spesso fregati e di come, purtroppo, a volte loro si stessi si fregano non collaborando come dovrebbero.

È libro breve, questo Terzo settore in fondo, che scorre veloce e si legge in poche ore. Ma è anche un libro importante, che riesce a trasmettere nel lettore un po’ di consapevolezza, che lo spinge, oltre che ad arrabbiarsi, a informarsi, a provare una maggiore empatia. E da’  voce a una situazione che spesso viene messa a tacere, o affrontata semplicemente con urla (da parte di chi è contrario ad aiutare chi ha bisogno) o con proclami che lasciano il tempo che trovano.
Insomma, un libro da leggere.

(Ok, se tutti i saggi sono così, forse qualcuno in più lo potrei anche leggere).

Titolo: Terzo settore in fondo
Autore: Marco Ehlardo
Pagine: 117
Editore: Edizioni Spartaco
Anno: 2014
Acquista su Amazon:


mercoledì 11 febbraio 2015

Due titoli, un solo libro: ma perché?#107

 


«Uh guarda, un libro ambientato in una libreria! Ma cavolo, dal titolo si capisce! Meglio se lo specifichiamo, che se no poi i lettori appassionati di libri che parlano di libri magari non se n accorgono e non non lo comprano! E poi che ci mettiamo, un faccione o una ragazza di spalle?»
«La ragazza di spalle, il faccione lo abbiamo messo l'ultima volta»
«Hai ragione!Stavo per sbagliarmi».

Ed è così che The moment of everything (letteralmente "Il momento di tutto") di Shelly King è diventato Tutta colpa di un libro.

Titolo originale: The moment of everything
Titolo italiano tradotto in modo assai bislacco: Tutta colpa di un libro
Autore: Shelly King
Traduttore italiano: Lo sto cercando disperatamente ma non riesco a trovarlo, troppo faticoso metterlo nella pagina del libro sul sito o su Il Libraio, quando viene presentato? EDIT delle 11.40: dalla regia mi informano che la traduttrice è Roberta Scarabelli. 
Editore italiano: Garzanti

martedì 10 febbraio 2015

SHOTGUN LOVESONGS - Nickolas Butler

Non sono ancora riuscita a decidere se mi faccia più arrabbiare un libro brutto o un libro che invece avrebbe potuto non esserlo, ma in cui l’autore non è stato in grado di sfruttare tutto il potenziale che la sua storia aveva a disposizione.

Se dovessi riassumere con una sola parola Shotgun Lovesongs di Nickolas Butler userei “Peccato”. Che poi è la parola che mi è risuonata in testa fin dalle prime pagine, quando era già evidente che il libro avrebbe potuto raccontare una bella storia ma che l’autore non abbia voluto, per qualche motivo, farlo. 

Siamo negli Stati Uniti, a Little Wing,  un paesino sperduto nel Wisconsin. I protagonisti sono quattro amici, Henry, Lee, Kip e Ronnie che sono cresciuti insieme e anche ora, da adulti, non si sono mai persi per strada. Certo, Lee è diventato una rockstar e non torna così spesso a casa; Ronny da quando ha avuto quel brutto incidente non ha potuto continuare la sua carriera nei rodei; Kip è tornato dopo la sua esperienza a Chicago, con una moglie bellissima e il desiderio di salvare la vecchia fabbrica del paese;  solo Henry sembra non essersi mai mosso, perché con i suoi campi, le sue mucche e l’amore di Beth, la donna della sua vita, ha tutto quello che gli serve. Complici i tre matrimoni di Lee, Kip e Ronny,  e i successivi disastri a poco a poco vengono fuori però tutte le parole non dette, tutte le cose rimaste in sospeso, tutti i piccoli e grandi altarini che questi quattro amici hanno lasciato in sospeso negli anni e che potrebbero allontanarli definitivamente.

Il potenziale, come vi dicevo, c’è tutto. C’è l’idea del raccontare la vita di paese, quella in vita in cui tutti si conoscono, tutti parlano e chi si ne va viene guardato sia con invidia sia con fastidio da chi invece rimane. C’è l’idea dei quattro amici che giocoforza crescono insieme, che con gli anni si avvicinano o si allontano. C’è l’amicizia e c’è, ovviamente, l’amore. 
Eppure, non lo so. Qualcosa non funziona come dovrebbe, secondo me. Un po’ è la scrittura che non è sempre molto scorrevole, un po’ è la prevedibilità con cui si è scelto di sviluppare la trama. Non mi ha convinto Kip e la sua rudezza, non mi ha convinto più di tanto nemmeno Ronny, con la sua ingenuità e il suo problema che spesso l’autore si dimentica, e soprattutto non mi hanno convinto Lee, Henry e Beth e il loro strano, e forse un tantino forzato, triangolo affettivo (ok, Beth l’avrei presa a schiaffoni, se devo essere sincera).

E quindi peccato. Perché poteva venire fuori un ritratto bellissimo di un contesto, quello della vita di paese e di campagna, che a volte viene un po’ dimenticato. E poteva venire fuori una storia di grande, grandissima amicizia, senza cercare necessariamente di farla crollare.

Peccato l'ho già detto?
(Ok, direi mi fanno arrabbiare di più i libri che avrebbero potuto essere bellissimi ma che sono stati buttati via).

Titolo: Shotgun Lovesongs
Autore: Nickolas Butler
Pagine: 318
Editore: Marsilio
Anno: 2014
Acquista su Amazon:
formato brossura: Shotgun lovesongs

domenica 8 febbraio 2015

LE PERSONE, SOLTANTO LE PERSONE - Christian Raimo

Devo ammetterlo, sono un po' in difficoltà. Non so bene da dove partire per parlarvi di Le persone, soltanto le persone di Christian Raimo. 
Non so bene nemmeno se sono davvero in grado di parlarvi di questo libro,  di esprimere cose sensate che vi possano spingere in qualche modo a leggerlo.
Perché non mi aspettavo proprio che questa raccolta di racconti mi piacesse così tanto. Che non riuscissi a smettere di leggere e che arrivata alla fine sentissi questo vuoto.

Ecco, sono di nuovo frasi fatte, parole già sentite e che forse ripeto un po' troppo spesso quando mi ritrovo a parlare dei libri che mi sono piaciuti. E questo libro, le sensazioni, strane, che mi ha lasciato addosso, non se le merita tanto le frasi fatte. Forse perché Raimo non le usa mai. Non ricorre mai a cose già sentite, a fatti preconfezionati, ma racconta la vita e la sua reale assurdità, racconta le tensioni, la fragilità, la difficoltà e racconta di chi questa vita, queste assurdità, queste tensioni, queste fragilità e difficoltà le vive, le affronta, le subisce. Le persone, soltanto le persone, che possono fare di tutto e in qualche modo giustificare quello che fanno. Un titolo che trovo bellissimo e che in ogni racconto, che parli di un uomo che si innamora di tante Daniela, di  due amici che si allontano e poi si ritrovano e sembra quasi che non sia cambiato nulla, di un Calvino che proprio non sopporta Pasolini o di un Christian Raimo che si ritrova in un romanzo che sta leggendo, trova un suo senso, un suo sviluppo, al punto che potrebbe essere il titolo azzeccatissimo di ognuno di questi racconti.


Questa raccolta parla di tutti noi. I protagonisti dei vari racconti potremmo essere (o essere già stati) noi. Fragili a volte, disperati altre, innamorati, depressi, tristi, soli. Come lo sono tutti, almeno una volta nella vita. E nessuno sa come davvero andrà a finire... e per questo ho amato i finali aperti di questi racconti, a volte poetici, spesso quasi incongruenti e lontani da quel che ogni singolo racconto narra. Perché è la vita ad essere così.

Mi sa che ho iniziato a parlare a vanvera. E me ne scuso. Ma, come dicevo all'inizio, davvero non so cosa dire su questa raccolta per potervela consigliare in modo ragionato. Non so spiegare nemmeno a me stessa perché mi abbia colpito così tanto (considerando soprattutto che la prima raccolta di Christian Raimo, Latte, mi aveva lasciata un po' tiepida, come se non avessi capito cosa l'autore volesse dirmi).

E quindi mi fermo qui. Magari non avete capito niente di quello che ho detto. Magari quello che ho detto non ha alcun senso. Ma anche io sono una persona, soltanto una persona, che sta cercando un modo per consigliarvi un libro, per lei, bellissimo.


Titolo: Le persone, soltanto le persone
Autore: Christian Raimo
Pagine: 210
Editore: minimum fax
Anno: 2014
Acquista su Amazon:
formato brossura: Le persone, soltanto le persone

giovedì 5 febbraio 2015

COME UNA FOGLIA AL VENTO.Cocaine Blues - Claudio Metallo

Tra i vari generi di libri che  vengono pubblicati, ce n’è uno per cui ho una particolare predilezione: quelli che trattano un argomento difficile, generalmente di attualità, in modo tragicomico, mostrando il lato assurdo e buffo del personaggio o della situazione raccontata. Credo molto in questo genere di opere, perché sono convinta che ridere di qualcosa di brutto sia un modo efficace per affrontarlo e, perché no, vincerlo.

Mi vengono in mente diversi  esempi di questo genere di libri, tutti dalla letteratura italiana contemporanea. Ci sono Fabio Bartolomei con i suoi La Banda degli invisibili e Giulia 1300 e altri miracoli o Stefano Piedimonte con In nome dello zio, ad esempio.
 E da oggi aggiungo a questo elenco anche Come una foglia al vento. Cocaine Blues di Claudio Metallo. Un libro che probabilmente non avrei mai scoperto se la casa editrice CasaSirio (di cui vi consiglio caldamente di visitare la pagina Manoscritti sul loro sito, giusto per farvi un'idea) non mi avesse contatta per propormi qualche lettura dal loro catalogo. È uno dei privilegi da blogger, questo, che mi ha permesso negli anni di scoprire dei piccoli grandi libri.

Ma veniamo a Come una foglia al vento di Claudio Metallo. Il romanzo ha come protagonista Giuseppe Blaganò detto Peppe, nato al nord da genitori emigrati dal sud, a cui poi fa ritorno una volta rimasto orfano, con l’intento di aprire un’attività. Non che abbia chissà quali capacità Peppe Blaganò: una passione per Osvaldo Soriano e i suoi racconti di calcio, la conoscenza dello spagnolo e un po’ di soldi, ma nemmeno troppi, da parte. Eppure, una volta tornato nel paese natale dei genitori, senza quasi rendersene conto si ritrova a essere il proprietario di un mobilificio, con diversi dipendenti assunti senza mai neanche dover fare un colloquio. Il tutto grazie all’Onorevole Franco Farao, con la O maiuscola, che ha le mani in pasta in ogni attività del paese e che si dimostra ben lieto di fornire a Peppe tutto il necessario per la sua attività. Per far fronte ai debiti, che ben presto però vengono a bussare alla porta di Peppe, l’uomo è costretto a chiedere di nuovo aiuto. Insomma, tra una conoscenza e l’altra, tra un chiedo a questo o chiedi a quell'altro, grazie alla sua conoscenza dello spagnolo Peppe si ritrova assoldato da un malavitoso locale nei panni di interprete per i suoi loschi affari in SudAmerica. Un sogno per Peppe, poter visitare i paesi descritti dall'amato Soriano. Un sogno che però ben presto si trasforma in un incubo, proprio come quello di Roberto Baggio quando ha sbagliato il rigore nella finale dei Mondiali del 1994.

Come una foglia al vento parte molto bene, con la presentazione di questo personaggio, Peppe, che difficilmente può risultare antipatico. Ingenuo e naïf  al punto giusto, con questa sua smisurata passione per il calcio (e tra l’altro ho il libro di Soriano sulla mensola, che aspetta mi ritorni la passione calcistica che mi travolge a fasi alterne), riesce tutto sommato e senza che nemmeno lui capisca come a destreggiarsi in un mondo, quello della mafia e del narcotraffico, in cui difficilmente si riuscirebbe a sopravvivere. E poi c’è una critica, molto forte anche se all'apparenza potrebbe non sembrare, verso il mondo della mafia, degli aiuti, degli scambi di favore, della corruzione, che la fanno da padrone in molti paesi in Italia (al sud, ma anche al nord).

Forse a un certo punto il romanzo perde un po’ del  brio iniziale, o forse semplicemente scherzare su certi argomenti diventa davvero troppo difficile. In ogni caso, nel complesso questo libro di Claudio Metallo (così come la casa editrice CasaSirio) si è rivelata davvero una bella scoperta, scorrevole e piacevole da leggere, che consiglio a tutti coloro che sono in cerca di una lettura seria e divertente allo stesso tempo (e anche a coloro che si stanno ancora mangiando le mani, per quei mondiali persi all'ultimo).

Titolo: Come una foglia al vento. Cocaine Blues
Autore: Claudio Metallo
Pagine: 192
Editore: CasaSirio
Anno: 2014

mercoledì 4 febbraio 2015

Due titoli, un solo libro: ma perché? #106


Febbraio è il mese dell'ammmmore (e del carnevale, delle bugie e, se siete piemontesi, dei fagioli grassi) e non potevo che dedicare la prima puntata del mese della rubrica di confronto tra titoli a un bel romanzo rosa.
Se sia bello in realtà non lo so, perché non l'ho letto. Ma titolo e copertina della versione italiana sicuramente meritano di finire in questa rubrica.
Perché Come aggiustare un cuore innamorato è il titolo che la Sperling Kupfer ha scelto di dare al romanzo dello scrittore catalano Use Lahoz, che in originale si intitola El año en que me enamoré de todas, letteralmente L'anno in cui mi innamorai di tutte.
«Cavolo, un titolo così non sembra molto romantico, anzi! Questo sembra che innamori di chiunque vede. Non va mica bene!» deve aver pensato l'editore. «Piazziamoci un cuore, un amore e una bella coppia in copertina, così siamo sicuri che i lettori capiscano che si tratta di un romanzo d'amore».
E la copertina? Già, la copertina. Non dico che la copertina italiana sia brutta, per carità. E' una bella foto, molto romantica, etc etc. Però, vedete anche voi, con quella originale non c'entra assolutamente nulla. E, proprio come il titolo, ne cambia un po' il senso e il target.
Insomma, il libro in spagnolo lo comprerei. Quello in italiano, manco morta.
Titolo originale: El año en que me enamoré de todas
Titolo italiano tradotto in modo assai bislacco: Come aggiustare un cuore innamorato
Autore: Use Lahoz
Traduttore italiano: F. Niola
Editore italiano: Sperling Kupfer

martedì 3 febbraio 2015

SORELLA, MIO UNICO AMORE - Joyce Carol Oates

La prima, primissima cosa che devo dire su Sorella, mio unico amore di Joyce Carol Oates è che la copertina italiana è incredibile. Perfetta. Semplicemente perfetta nel suo essere inquietante. E tanto di cappello quindi a chi in Mondadori l’ha scelta. 

Ma veniamo al libro. Parlare di Sorella, mio unico amore non è per niente semplice, soprattutto se non ci si vuole lasciare andare a rabbia e imprecazioni nei confronti della storia e della società che Joyce Carol Oates racconta così bene.

Bliss Rampike ha sei anni ed è una promessa del pattinaggio artistico, con i suoi capelli biondi cotonati, il suo viso sapientemente truccato, i suoi costumini da bambolina e quelle mutandine di pizzo che sapientemente fanno capolino sotto il gonnellino. Bliss Rampike ha sei anni e una madre manager, Betsey, con un passato da pattinatrice, una paura folle di non integrarsi nella nuova, snob, società in cui si è appena trasferita, che fa dell’apparenza il suo unico scopo e che, guidata da Gesù nelle sue scelte,  proietta su Bliss la sua voglia di successo e notorietà, sebbene in privato a volte sta bambina proprio non riesce a sopportarla. Ha anche un padre, Bix, che di questa famiglia è un po’ stufo ma che per non creare(si) troppi problemi lascia che la moglie faccia dei figli quello che vuole. E poi, Bliss ha un fratello maggiore, Skyler, che di anni ne ha nove e che avrebbe dovuto diventare famoso al posto suo, se non fosse che le sue doti atletiche non erano poi così spiccate e si è infortunato ancor prima di riuscire a esibirsi, con somma vergogna dei genitori, e che ora non sa come rapportarsi alla vita folle che la sua sorellina è costretta a vivere.  Bliss Rampike ha sei anni, e viene trovata morta nel locale caldaia della sua enorme villa a Fair Hills, New Jersey.  Da quel momento, diventa una leggenda. Che segna i suoi famigliari in modi diversi: la madre diventa ancor più affascinata dalla notorietà e dalle telecamere, al punto da vivere di questa morte, giustificandosi dietro a un Gesù e a un Dio che la guidano; il padre fugge definitivamente, e Skyler, il povero Skyler, completamente traumatizzato dal senso di colpa, passa da un istituto psichiatrico all'altro, da una diagnosi all'altra, alla ricerca di una verità di cui forse, alla fine, non se ne farà comunque nulla.

È Skyler che ci racconta la storia, in una sorta di diario che alterna la prima e la terza persona, in cui l’autore compare direttamente o nelle note a piè di pagina (un espediente narrativo che mi è piaciuto molto), dove cerca di raccontare com'è vivere in una famiglia del genere, com'è rapportarsi al successo della sorella e come  si possa rimanere profondamente segnati da un’infanzia terrificante e da dei genitori così. Perché sì, fin dall'inizio nei confronti di questi genitori si prova un odio e un’incazzatura che diventano via via più profondi. E sapere che la storia di Bliss è ispirata a una storia vera rende quest’odio e questa incazzatura ancora più forti. 

Viene da domandarsi perché nessuno fermi dei genitori così fermati. Perché un bambino un po’ vivace o un po’ timido non possa essere semplicemente un bambino vivace o un bambino timido, e non un malato di qualche malattia mentale dalla sigla bizzarra. Perché il mondo di oggi accetta che i bambini siano obbligati a diventare grandi troppo presto (e qui non è necessità, è obbligo) dalle persone che più invece dovrebbero proteggerli, per soddisfare il capriccio o il sogno infranto di qualcun altro. Perché l’immagine conti così tanto.

La prosa della Oates è semplicemente incredibile. La denuncia che fa di questa società, attraverso una sua vittima, è  semplicemente agghiacciante. E non pensate che il fatto che il libro sia ambientato in America, che il fatto di cronaca sia successo in America, in qualche modo lo renda distante e quindi ci renda immuni. Perché non è così. 

Leggete Sorella, mio unico amore, anche se la copertina vi sembra troppo inquietante. Leggetelo, anche se queste storie vi fanno stare male. Leggetelo e incazzatevi. 
Leggetelo e vi innamorerete di ogni singolo pugno nello stomaco che Joyce Carol Oates vi tirerà raccontandovi questa storia.

Titolo: Sorella, mio unico amore
Autore: Joyce Carol Oates
Traduttore: Giuseppe Costigliola
Pagine: 669
Editore: Mondadori
Anno: 2009
Acquista su Amazon:
formato brossura: Sorella, mio unico amore

lunedì 2 febbraio 2015

Riflessione sconclusionata su sogni e lavori, direttamente dal divano.

Questo post non parlerà di libri. E spero che mi perdonerete se per una volta uscirò dall'argomento principale di questo blog per parlarvi un po' di me. Ok, in realtà ogni volta che vi parlo di un libro che ho letto vi parlo un po' di me. Ma questa volta lo farò direttamente.

È lunedì mattina e io sono a casa, seduta sul divano, dopo aver appena fatto colazione. Venerdì a quest'ora ero a lavoro. Il mio ultimo giorno in un'azienda in cui sono stata per cinque anni. 
"C'è crisi", "I vertici vogliono che riduciamo il personale", "Non posso licenziare chi ha un contratto a tempo indeterminato", "Mi spiace, non posso rinnovarti, ma teniamoci in contatto eh". 
È andata più o meno così, e sapevo che sarebbe andata più o meno così. Lo sapevo da circa cinque anni, in realtà, dal primo contratto a progetto rinnovato una volta, poi due, poi tre, poi trasformato un anno fa in determinato, sempre con la promessa dell'inserimento in azienda. Scema io a esserci cascata, ma la comodità, la vicinanza a casa, il lavoro, di traduzione prima, di web dopo, che tutto sommato nemmeno mi dispiaceva (sull'ambiente preferisco non esprimermi), il "non vorrai mica lasciare un lavoro ora, che c'è crisi e chissà quando ne trovi un altro"... insomma, mi sono fermata lì, aspettando con ansia ad ogni rinnovo che diventasse quello definitivo e rimanendoci un po' male ma poi nemmeno troppo ogni volta che non è stato. Fino appunto al rientro dopo le feste di Natale, in cui era evidente fin da subito, da quel "magari insegna a lui a fare questo, magari insegna a lei a fare quest'altro", che non mi avrebbe rinnovato.

La mia piantina a lavoro,
 quando le ho detto che ce ne saremmo andate
E venerdì, quindi, sono uscita definitivamente da quell'ufficio. Con un po' d'ansia, certo, che non sono mica così pazza da non sapere che adesso non sarà esattamente una passeggiata trovare qualcosa di nuovo.  Con la consapevolezza che forse un figlio dovrà aspettare ancora un po' e anche quella bella sensazione (che è bella, inutile negarlo) di poter finalmente dire "ok, ora sono sistemata".
Ma, devo ammettere, che c'è stato anche un sospiro di sollievo. Un po' perché in quell'ambiente stavo impazzendo, tra colleghi con cui non ho mai del tutto legato e scelte direzionali spesso non del tutto comprensibili (hey, colleghi e dirigenti, se state leggendo, nulla di personale eh... che lo sapete benissimo anche voi qual era la situazione lì dentro). Un po' perché compio trent'anni quest'anno ed è ora che decida davvero cosa voglio fare della mia vita. È ora che prenda coraggio e almeno ci provi a inseguire il sogno di vivere di traduzione, di editing, di libri o di scrittura (no, non voglio di colpo diventare scrittrice, che non sarei in grado, però su blog e giornali mi piacerebbe un sacco). È ora che ammetta, a me stessa e agli altri, che quel lavoretti di editing che faccio, quella prima traduzione che mi è stata commissionata proprio prima di Natale, mi danno una soddisfazione che là dentro, in questi cinque anni, forse ho provato solo un paio di volte (sebbene con lo stipendio che prendevo là dentro ci potevo vivere e stravivere, con questi lavoretti di editing e traduzione, per il momento, no).

E quindi boh, sono qui sul divano, chiedendomi che cosa devo fare ora. Correre in agenzia a cercare un lavoretto, magari part time, che mi consenta di avere del tempo libero da dedicare alla mia passione, magari frequentando anche qualche corso specifico, oltre a limitarmi a fare quello che faccio già? Cercare un lavoro full time e continuare a tradurre ed editare "per arrotondare", finché troverò il coraggio di dire "ok, posso vivere solo di questo"? Invadere le case editrici di cv implorandole di farmi provare (case editrici, se state leggendo, vi chiedo già scusa per le valanghe di mail che riceverete a breve da parte mia... non sono psicopatica, solo molto entusiasta)?
Sono un po' spaesata, devo ammetterlo. Forse perché per quanto poco apprezzata, un'abitudine è pur sempre un'abitudine e quando viene a mancare un po' destabilizza. Forse perché ho un po' paura. Di non trovare altro, di trovare qualcosa che non mi piace, di non essere capace di trasformare il mio sogno in realtà. O di dover accettare tanti, troppi compromessi per riuscire a farlo e di non sapere scegliere quali valga davvero la pena di fare.
Ci pensavo l'altro giorno, quando una mia collega mi ha chiesto: "resterai qui o te ne andrai?". Beh, a me piacerebbe restare qui, devo essere sincera (magari non proprio qui qui in Canavese, anche se nemmeno questo mi dispiacerebbe, però mi rendo conto che sarebbe forse chiedere un po' troppo, però ecco di non dovermi allontanare troppo, quello sì). Forse è folle, considerando che ho studiato lingue e dovrei avrei come sogno quello di vivere all'estero. Eppure, no, ammetto di non averlo quel sogno. Mi piace viaggiare, per lavoro e per vacanza, e ho adorato i quattro viaggi all'estero che in quest'ultimo anno di lavoro ho avuto la fortuna di fare. Alcuni avrei anche voluto fossero durati di più. Però mi piace anche tornare a casa. È così sbagliato? Mi beccherò della bambocciona per questo?

Ok, ora mi fermo con questo sproloquio. E vi chiedo ancora scusa per questo post un po' sconclusionato un po' di sfogo, da cui non ricaverete credo niente. Ma avevo bisogno di mettere per iscritto i miei pensieri e di condividerli con qualcuno.E chi meglio di voi, o adorati lettori del mio adorato blog, fonte di una delle mie più grandi soddisfazioni nella vita? 
Bene, ora vado ad aggiornare il cv.