Proprio qui accanto a te, dove sta sempre.
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Cathy Haruf, con la sua bravissima interprete |
Non so bene da dove cominciare per raccontarvi l’incontro con Cathy Haruf avvenuto domenica 12 al Teatro Franco Parenti di Milano in occasione dell’uscita di Le nostre anime di notte, ultimo romanzo del marito Kent, pubblicato quando lui ormai non c’era più.
Vorrei scrivere un post super professionale, in cui vi racconto quali domande le sono state fatte e come lei ha risposto, senza lasciarmi andare a sentimentalismi o commenti personali. E mi ero ripromessa di essere così anche durante l’incontro stesso: ascoltare, prendere appunti, fare domande intelligenti.
Però poi mi sono seduta, lei è arrivata, con il suo bastone colorato e un sorriso dolcissimo sul viso e niente, al diavolo la professionalità, qui il problema era non commuoversi.
Questa donna è la moglie di Kent Haruf, l’autore di La trilogia della Pianura, su cui ho versato una valle di lacrime, di tristezza, di gioia, di commozione, e che, almeno in parte, ha contribuito a farmi innamorare.
Ed è anche la persona a cui Haruf ha dedicato Le nostre anime di notte, questo piccolo gioiello appena uscito per NNeditore, sempre con la magistrale traduzione di Fabio Cremonesi, che racconta la storia d’amore tra due anziani, facendomi commuovere ancora una volta, e in alcuni punti forse ancor di più che nei tre libri precedenti.
Cathy ci tiene però a dire che il libro è autobiografico solo nella struttura di base, quella dei due anziani che la notte si ritrovano per mano nel letto, a chiacchierare. «Era il momento della giornata che Kent amava di più» ci dice. «La sera ci mettevamo nel letto e ci raccontavamo le nostre giornate. Abbiamo sempre fatto così, abbiamo sempre parlato di tutto, senza mai attaccarci, e parlandone in qualche modo anche le cose più difficili in parte già si risolvevano. E quando Kent stava ormai per morire, gli ho chiesto se c’era altro che avremmo potuto dirci, secondo lui. Ha risposto di no e io gli ho detto che ero d’accordo. Nessun rimpianto, insomma».
Da questo espediente, da queste mani di due anziani che si stringono nella notte e si abbandonano alle chiacchiere, è poi nato il romanzo vero e proprio, la storia di Addie Moore e Louis Waters e il loro dolcissimo amore. Dolcissimo e un po’ scandaloso per Holt, un paesino di poche anime in cui inevitabilmente tutti sanno tutto di tutti e tutti chiacchierano. Eh sì, la Holt di Le nostre anime di notte è un po’ diversa rispetto a quella della Trilogia della Pianura: una Holt che fa battute, che lancia frecciatine e piena di pettegoli, ma che al tempo stesso, almeno in parte, invidia il coraggio che Addie e Louis hanno avuto nel tentare di essere felici anche da anziani.
Holt è un paesino inventato, in cui Kent Haruf ha ambientato tutti i suoi romanzi (anche i due precedenti alla Trilogia della Pianura e non ancora usciti in Italia), di cui nemmeno Cathy ha ben chiara l’origine: potrebbe in qualche modo ricordare i paesini in cui Haruf ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza, ma anche essere semplicemente un luogo del Colorado che potrebbe essere un posto qualunque. Kent, però, da lì non si sarebbe mai potuto muovere: «I’m stuck in Holt» diceva sempre.
Ma com’era il Kent Haruf non scrittore? Il Kent Haruf che dai libri non emerge? Cathy racconta di un uomo timido, ma al tempo stesso molto popolare e molto amato dai suoi studenti per il suo senso dell’umorismo. Un uomo che amava ascoltare gli altri e le loro storie, «e che probabilmente se fosse qui adesso risponderebbe alle vostre domande e poi ve ne farebbe lui altre, per scoprire qualcosa di voi». Un uomo molto disponibile e una persona vera, non costruita. Un uomo molto tranquillo, tranne quando guardava la sua squadra di football del cuore, in tv. In quei momenti, improvvisamente, si trasformava.
«Io uscivo dalla stanza, perché era impossibile stare con lui mentre guardava i Denver Broncos, soprattutto se perdevano. E poi ogni tanto, quando gli uscivano le parole peggiori, gli cantavo “tu andrai all’inferno, tu andrai all’inferno”».
Per quanto riguarda la scrittura, lui e Cathy erano un meccanismo ben oliato. Nel caso dei romanzi precedenti, Kent ha impiegato molto tempo per scriverli. Iniziava a pensare ai personaggi almeno un anno prima di metterli su carta. Poi scriveva tutto a macchina, con gli occhi bendati, così da poter vedere dentro di sé quello che stava scrivendo. Aggiungeva qualche annotazione e poi passava la bozza a Cathy, perché la battesse al pc. E così via, per altri quattro o cinque giri di bozze. Cathy si è sempre occupata solo di correggere errori e refusi, non ha mai fatto alcuna osservazione sulle trame, perché i libri non erano suoi. («Una volta, mentre stavo battendo al pc uno dei libri della trilogia, gli ho detto che un personaggio mi era piaciuto molto e avrei voluto saperne di più. Kent si è chiuso in camera e non è uscito per due giorni. E pensare che a me sembrava un complimento».)
Con Le nostre anime di notte è stato diverso. Kent sapeva che stava per morire, sapeva di non avere tempo e quindi ha scritto con più urgenza, stupendosi della velocità con cui era capace di abbozzare i capitoli. Cathy racconta che quando ha letto le prime due pagine del libro ha pensato che si trattasse di un’idea geniale, quella di un uomo e una donna ormai anziani ed entrambi soli che decidono di attraversare insieme le notti. E ha sorriso, perché sapeva che Kent sapeva che lei, come Addie Moore, ne sarebbe stata capace («Lui no, era troppo timido»).
«È sciocco pensare di essere soli quando si potrebbe essere insieme» ci dice. E racconta di come abbia cercato di convincere i membri del suo club del libro, desiderosi di un po’ di compagnia, a fare qualcosa di simile. «Alla peggio si soffre un po’, si viene un po’ feriti. Ma se le cose vanno bene, si ottiene qualcosa di bellissimo».
Io avevo due curiosità che mi ronzavano in testa da un po’.
La prima riguardava il film che da Le nostre anime di notte è stato tratto. Il regista è Robert Redford, che interpreta anche Louis Waters, mentre la parte di Addie è affidata da Jane Fonda. Volevo capire come fosse nata l’idea del film. Se un giorno le fosse squillato il telefono e «Salve, sono Robert Redford, vorrei girare un film dal romanzo postumo di suo marito».
E in effetti sì, è andata proprio così. Robert Redford era alla ricerca di un nuovo film in cui recitare con Jane Fonda. Ha letto Le nostre anime di notte in bozze, prima che uscisse, e ha deciso che era questo. Cathy gli ha fatto un'unica richiesta, che fosse fedele al libro.
Poi, qualche tempo dopo, è di nuovo squillato il telefono in casa Haruf e: «Salve, sono Jane Fonda, posso venire qualche giorno lì da lei e ce ne andiamo un po’ a spasso per il Colorado?».
A questo punto anche qualche amico di Cathy ha avuto la reazione che avrei avuto io (ok, forse io sarei proprio svenuta), chiedendole se non fosse emozionata dalla cosa. E lei semplicemente ha risposto che sì, certo, Jane Fonda fa un lavoro che la mette sotto i riflettori e che la rende conosciuta a tutti, ma è un essere umano, come tutti gli altri, e siamo tutti sulla stessa barca, abbiamo tutti gli stessi problemi e le stesse difficoltà. «E Kent scriveva con questa consapevolezza. E per questo scriveva della condizione umana, di eventi che tutti condividiamo, tirando fuori da ogni personaggio la sua umanità, senza mai giudicare nessuno. Di se stesso diceva di essere un po’ pettegolo, perché osservava tutto e tutti».
(Per la cronaca, il film dovrebbe uscire a settembre di quest’anno, sarà nelle sale solo per una settimana, così da garantirsi la possibilità di essere candidato agli Oscar, e poi sarà visibile su Netflix.)
La seconda curiosità riguardava invece quale fosse il suo libro preferito. Togliendo Le nostre anime di notte, che «per quel che rappresenta e quel che racconta è ovviamente in un’altra categoria», il suo preferito è Canto della Pianura (mentre Crepuscolo è e rimarrà per tutti quello in cui Kent ha fatto quella cosa terribile, che non vi dico ma se l’avete letto sapete cos'è e da cui io ancora non mi sono ripresa, che lui giustificava con «sì, ma è solo un libro!».)
Poi l’incontro con i blogger è finito, lei ci ha ringraziato con lo stesso sorriso dolce con cui ci ha salutato entrando. Io non ho potuto non pensare a quanto bello e triste al tempo stesso fosse tutto questo: venire in Italia a parlare dei libri di suo marito, scomparso poco più di due anni fa, e riuscire a farlo senza mai versare una lacrima, senza mai scadere nel patetismo, ricordando sempre tutto con un sorriso e facendo sorridere di rimando anche chi era lì ad ascoltarla. In ogni sua parola, in ogni suo gesto, si è visto e sentito quanto amasse Kent e quanto bello fosse quello che avevano costruito insieme e che, anche se lui ora non c'è più, in qualche modo stanno ancora costruendo.
Il pomeriggio è proseguito con lo spettacolo vero e proprio. In una sala stracolma di persone (500 persone, a sentire parlare di un libro pubblicato da un piccolo editore sono un vero e proprio record), Marco Missiroli ha raccontato il suo rapporto con Haruf, Lella Costa e Gioele Dix hanno dato voce a Addie Moore e Louis Waters e poi Fabio Cremonesi e la stessa Cathy hanno risposto alle domande di Antonio Calabrò.
Ed è stato tutto bellissimo, proprio come lo era stato leggere la
Trilogia della Pianura e, pochi giorni fa, anche
Le nostre anime di notte.
Stavolta però non ho mai pianto.
Giuro.