giovedì 19 aprile 2012

IL BAMBINO CHE COLLEZIONAVA PAROLE - Juan Pablo Villalobos

Tochtli è un bambino sveglio per la sua età. Tochtli è triste. Vive rinchiuso in un palazzo lussuoso che però non sembra neanche un palazzo, perché è troppo sporco e trasandato. Non può uscire di casa. Non ha una madre, solo uno stravagante istitutore e un padre: Yolcaut, re del narcotraffico messicano. Per ingannare il tempo, e per avere una vita veramente sua, colleziona di tutto: parole difficili, cappelli, animali in via di estinzione, tra cui il mitico ippopotamo nano della Liberia. E conta: le ore che passano, la gente che muore. Quasi tutta, per mano di suo padre e dei suoi aiutanti.

So che c'è qualcuno che sta aspettando con ansia (ok, vabbè, magari proprio ansia no...con curiosità diciamo) questa recensione. E devo ammettere che mi fa uno strano effetto recensire un libro tradotto da una mia cara amica, nonchè compagna di università, che è riuscita a realizzare il sogno che avevamo tutte: quello di diventare traduttrice letteraria.
Certo, questo non è il primo romanzo che traduce, ma il primo mi ha caldamente consigliato di evitarlo che perché non ne valeva assolutamente la pena.
Di questo invece mi ha sempre parlato bene, appena lo ha letto, appena ha iniziato a tradurlo. Al punto che è arrivata a dirmi: "guai a te se lo stronchi".
Quindi, con un tantino di invidia ma soprattutto con tanto tanto orgoglio, ho acquistato e letto questo romanzo.

Tochtli è un bambino molto sveglio per la sua età, ma anche molto molto solo. E non potrebbe essere altrimenti, visto che vive rinchiuso nell'enorme palazzo del padre, il più potente narcotrafficante del Messico, da cui non può uscire nemmeno per andare a scuola. Tochtli non ha quindi molti amici, conosce si e no quattordici o quindici persone, che arrivano a una ventina se si contano quelle che sono diventate cadavere per mano del padre e dei suoi sottoposti. Colleziona cappelli e animali esotici, ha un istitutore bizzarro con la passione per il Giappone e occupa le sue ore vuote giocando alla playstation.
Il legame con il padre è molto forte, è lui che lo cresce, e il bambino prova una venerazione profonda nei suoi confronti, alimentata dalla sua innocenza e dalla sua dolcezza che gli impediscono di vedere (o semplicemente di capire) l'attività che il padre svolge.

Una storia narrata in modo semplice e banale, attraverso gli occhi e le parole di un bambino, a cui è impossibile non affezionarsi. Attraverso Tochtli e la sua innocenza, la sua candidezza e il suo modo ingenuo e buffo di vedere il mondo, Villalobos ci offre un ritratto del mondo del narcotraffico sudamericano, una vera e propria piaga di quei paesi.

Avrei forse preferito un romanzo più lungo, che non si esaurisse in 80 pagine e che approfondisse un po' di più il rapporto tra padre e figlio.
Ma rimane comunque un libricino molto tenero, che si legge bene e in fretta, tutto d'un fiato in una mezz'oretta. Fa sorridere e fa riflettere. E merita!

Nota alla traduzione: come si fa ad essere imparziali commentando una traduzione svolta da una tua amica? In questo caso non è poi così difficile: la traduzione è ben fatta e riesce a rispecchiare bene la personalità di questo bambino, che usa termini difficili perché grande lettore del dizionario. Quindi, assolutamente nulla da dire!
Brava Thais!
E lo so che la scelta del titolo non è colpa tua... (l'ennesimo titolo italiano che non c'entra niente con l'originale e che si riferisce a una singola caratteristica del protagonista...)

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