lunedì 28 febbraio 2011

LA BIBLIOTECA DEI MIEI SOGNI- Julie Highmore

Un giovane papà alle prese con una noiosissima tesi di laurea; una commerciante in via di fallimento; una bella ragazza col morale a terra per via dell'amante sposato; un quasi-pensionato quasi-sfrattato dalla moglie; una mamma stanca di nutrire i figli e bisognosa di nutrire la propria mente: per tutti costoro, trascorrere gualche serata fuori casa non può essere che salutare. La biblioteca comunale promuove un circolo di lettura, ed ecco che un eterogeneo gruppo di "personaggi in cerca di svago" si trasforma in un'improbabile, ma meravigliosa comunità. Con straordinaria leggerezza e humour, Julie Highmore intreccia una commedia su uomini e donne appassionati di libri e protagonisti del guotidiano, dove il circolo letterario diventa la vera alternativa alla terapia di gruppo e dove la vita di ciascuno risulta essere molto meglio di un film.

La prima cosa che si deve dire su questo romanzo è "complimenti a chi ha scelto il titolo italiano"... responsabile sicuramente della vendita di un bel po' di copie di questo libro. Peccato che poi si apre la copertina e si legge che l'originale è "Pure Fiction" (effettivamente molto più adatto alla trama) e soprattutto che di libri ne compaiono sì, ma pochi pochi (e a parte quelli della Tyler che già ho letto, non mi è venuta voglia di leggere nessuno degli altri).
I libri sono in realtà un espediente per narrare le vicende di questo gruppo di persone, che si conoscono partecipando allo stesso gruppo di lettura e le cui vite si legano e si intrecciano in modo più o meno buffo, scontanto o profondo, al punto da schierarsi tutti insieme per vendicare uno dei membri.
Ci sono un sacco di personaggi principali, nessuno che però mi abbia conquistato così tanto. C'è Ed, scrittore frustrato e casalingo, che all'inizio sembra adorabile ma che poi almeno per me diventa irritante. C'è Kate, restauratrice con una figlia ribelle. Ci sono Zoe e Donna, che finiranno con lo stesso uomo e che insieme si vendicheranno. Ci sono Bob e Browen, i più pacati del gruppo, e l'odioso e saccente Gideon. Insomma, tanti personaggi ma a mio avviso non tanto ben riusciti (molto meglio i personaggi minori). E anche la trama sì, carina, divertente anche a tratti, ma con l'espediente inziale del circolo di lettura, poteva venire fuori qualcosa di molto meglio. E lo stile dell'autrice, a tratti un po' confuso, non aiuta di certo...
Un libro da spiaggia o da treno senza troppe pretese (anche perché se le avesse, le deluderebbe sicuramente), che va bene per passare qualche ora... Ma potete anche non leggerlo.

Nota alla traduzione: a parte il titolo, nulla da dire

mercoledì 23 febbraio 2011

LA VERSIONE DI BARNEY- Mordecai Richler

Approdato a una tarda, linguacciuta, rissosa età, Barney Panofsky impugna la penna per difendersi dall'accusa di omicidio, e da altre calunnie non meno incresciose, diffuse dal suo arcinemico Terry McIver. Così, fra quattro dita di whisky e una boccata di Montecristo, Barney ripercorre la vita allegramente dissipata e profondamente scorretta che dal quartiere ebraico di Montreal lo ha portato nella Parigi dei primi anni Cinquanta e poi di nuovo in Canada, a trasformare le idee rastrellate nella giovinezza in "sitcom" decisamente popolari e altrettanto redditizie.


Se dovessi spiegarvi perché ci ho messo tutto questo tempo a leggere questo romanzo (quasi due settimane, cosa che mi succede assai di rado), non saprei che dirvi. Il libro non è scritto male, anzi. Quando si inizia a leggere un capitolo, questo poi scorre veloce sotto agli occhi e ci si rende conto della bravura e dell'ingegno dell'autore. Però boh, leggevo un capitolo e poi lo lasciavo lì, non mi veniva voglia di continuarlo. E' stato difficile riuscire a superare le prime 150 pagine, in cui non si capisce praticamente nulla. Barney Panofsky, produttore televisivo di telenovela sdi terz'ordine, decide di scrivere una sua autobiografia, la sua "versione", in risposta a quanto narrato dal suo nemico e rivale, con il quale da giovane ha condiviso un passato un po' bohémien.
Eppure, anche quando si entra nella logica narrativa di Barney, ovvero il mettere insieme tanti anedotti, a volte staccati tra loro, per raccontare la sua vita, divisa in base ai suoi tre matrimoni, la voglia di abbandonarlo diventa diverse volte molto forte.

Credo dipenda principalmente dai sentimenti che suscita Barney nel lettore. O si odia o si ama. E a me, sostanzialmente, sta antipatico. Al punto che anche i suoi anedotti più divertenti (ovvero quelli legati al suo matrimonio con la seconda moglie, o quelli del padre) mi hanno quasi lasciata indifferente.
Ma ripeto, il libro è scritto bene e la lettura scorre bene, quindi non me la sentirei minimamente di sconsigliarlo. Anche perché le ultime cinque righe del romanzo, quelle non scritte da Barney ma dal figlio che si è occupato di raccogliere e curare questa sua autobiografia, sono tra le più geniali e sconvolgenti che abbia mai letto. E il libro merita anche solo per quelle.

Nota alla traduzione: non lo so, le traduzioni Adelphi non mi piacciono. Non mi piacciono i glossari in fondo, non mi piacciono i testi delle canzoni lasciate in lingua originale (ma forse semplicemente perché il francese non lo capisco) e non mi piacciono certe scelte traduttive. Insomma, la rivedrei.

sabato 12 febbraio 2011

QUATTRO AMICI- David Trueba

Moderni moschettieri su uno scassato furgoncino, quattro amici in crisi da maturità si lanciano in un improbabile viaggio per strappare un po' di tempo all'esistenza e riaffermare la propria voglia di ribellione e divertimento. Solo, ventisettenne oppresso da genitori troppo perfetti e dal ricordo di una ex che sta per convolare a nozze; Blass, grasso e goffo, alla frustata ricerca di un amore; Claudio, tombeur de femmes che vive solo per l'amicizia, Raul, precipitato dalle fantasie sadomaso a un tranquillo menage familiare con due gemelli a carico. Su un furgoncino di seconda mano che olezza di formaggio, i quattro decidono di concedersi un agosto da leoni, illusorio risarcimento dalla quotidianeità. Da Madrid a Valencia, da Saragozza ancora a Madrid, attraverso una scia di risse, ubriacature, cuori infranti e amplessi frettolosi, rinsalderanno la propria amicizia in una tardiva fine dell'adolescenza. Un caleidoscopio di avventure, un romanzo acido e melanconico che ha il ritmo del miglior cinema.


Dopo aver letto e adorato "Aperto tutta la notte", mi sembrava impensabile non leggere anche questo altro romanzo di David Trueba, sicura che mi sarei trovata di fronte a un altro piccolo capolavoro.
E in parte, sicuramente lo è, sebbene sia completamente diverso dal primo romanzo. Quattro Amici, sulla soglia dei trent'anni, decidono di partire per due settimane di vacanze all'avventura su un vecchio furgone che puzza di formaggio. "Il lungo viaggio verso la fica", "viaggio al centro delle cosce", "il giro del culo in ottanta giorni", "ventimila leghe subnormali"... sono i titoli plausibili per la loro avventura. Manca però quello che effettivamente è, ovvero "fuga dai fallimenti, dalle paure e dai problemi" che affligono in modo diverso e con risultati diversi ciascuno dei protagonisti. C'è Raúl, appassionato di sadomaso, che si ritrova sposato e con due gemelli piccoli, in profonda e continua lotta tra la sua voglia di divertirsi e il senso della famiglia da cui è stato travolto. C'è Blass, grassone troppo buono e ingenuo che proprio a causa della sua bontà è destinato a rimanere per sempre il migliore amico di qualunque ragazza che incontra, c'è Claudio, forse il più intraprendente dei quattro, "scopavecchie" e amante degli animali. E poi c'è Solo (sì, come quello di Guerre Stellari), voce narrante e fulcro di tutta la vicenda. Soffocato dai genitori pieni di aspettative nei suoi confronti, spirito inquieto che ancora non sa cosa vuole dalla sua vita. E soprattutto innamorato, ancora innamorato di Barbara, che sta per sposarsi con un uomo che è l'opposto di lui. Un viaggio all'avventura, alla ricerca di sè stessi, in compagnia delle uniche persone che possono veramente sopportarci: gli amici.
Il libro segue le avventure di questi quattro ragazzi in vacanza, tra personaggi pittoreschi, scopate frettolose, conquiste impossibili e sfighe inverosimili, passando per luoghi turistici, spiagge e alberghi abbandonati in posti sperduti, per poi concludersi alla festa del matrimonio di Barbara.

Lo stile di Trueba mi piace molto, mi piace la sua ironia, la sua buona dose di cinismo (un pochino eccessivo forse a volte, ma comunque condivisibile) e la sua caratterizzazione dei personaggi e delle situazioni. Ed è bellissima l'idea del viaggio con gli amici di sempre (che tutti, almeno una volta nella vita, sono sicura abbiamo fatto), il sopportarsi nonostante gli innumerevoli difetti e le fobie. E tante sono le frasi che mi sono rimaste di questo romanzo (una più bella dell'altra le citazioni da "Scritto su tovaglioli di carta" alla fine di ogni capitolo).
Però una pecca ce l'ha. Si parla e si fa veramente troppo sesso... qualche riferimento in meno, e qualche scena meno esplicita e il libro forse sarebbe stato ancora più apprezzato.
Rimane comunque un libro che consiglierei.

Nota alla traduzione: non c'è male. Qualche nota, ma forse indispensabile per chi non è o non sa lo spagnolo.

"E' curioso, la gente è capace di cambiarsi le tette, il naso, le labbra, ma nessuno penserebbe mai di cambiarsi il cervello. Quasi tutti potrebbero migliorarlo, e invece il cervello continua a tenerci nell'inganno, facendoci credere che non possiamo averne uno migliore. E' un organo sopravvalutato, senza ombra di dubbio"

"Quando ricevi un bacio sulla guancia da una donna che hai baciato mille volte sulle labbra, capisci che hai perduto il tuo posto nel suo cuore"

"Ci sono seghe che possono essere come schiaffi, così come schiaffi che sembrano baci"

"Fallisci più in fretta che puoi, così avrai tempo, nella vita, di riprenderti"

"Gli amici credono che volerti bene significhi accettarti così come sei: hai proprio ragione, va bene, quando invece avresti bisogno di qualcuno che ti gridi che stai sbagliando, che devi cambiare".

martedì 8 febbraio 2011

L'AMORE E GLI STRACCI DEL TEMPO- Anilda Ibrahimi

La prima volta che Zlatan vede Ajkuna è rapito dal dondolio delle sue trecce che "si allungano quasi a toccare terra". Non sa ancora che quella bambina diventerà così centrale nella sua vita. Crescono insieme a Pristina, nella stessa casa, anche se lui è serbo e lei kosovara di etnia albanese. I loro padri, Milos e Besor, condividono la passione per la medicina e per le poesie di Charles Simic. Le loro madri, Slavica e Donika, litigano su come fare le conserve di peperoni e sui particolari di certe ballate, patrimonio comune dei popoli dei Balcani. Ma il Kosovo, in cui per secoli questi popoli hanno convissuto, alla fine degli anni Novanta sanguina. Ed è l'ennesima ferita al cuore dell'Europa balcanica. Tra i botti di Capodanno e gli spari della guerriglia, Ajkuna e Zlatan si promettono amore eterno "come solo due ragazzi possono promettersi". La storia però li separa: militare di leva lui, profuga lei. Ajkuna si ritrova in Svizzera, dove partorisce Sarah. Zlatan finisce in Italia, dove incontra Ines. Una ragazza minuta, con i capelli lisci che le cadono sulle spalle. Proprio come Ajkuna. In un montaggio alternato, il romanzo segue le vite dei due protagonisti, il loro rincorrersi e sfiorarsi, e forse perdersi. Lungo il cammino, in una babele arruffata di lingue, Zlatan e Ajkuna incroceranno una piccola folla di personaggi intensi, veri, col loro bagaglio di storie al seguito.

Ho appena chiuso questo libro e so già che mi mancherà. L'ho divorato in poche ore, talmente bella e coinvolgente è la storia narrata. Una storia dura, triste, di sofferenza ma anche di amore. Della sofferenza che solo una guerra può dare, una guerra recente tra serbi e albanesi, che lascia strappi profondi nella vita di tutti. E di amore, quello profondo e intenso che lega due bambini che crescono insieme che si proteggono e che sarebbero destinati a stare insieme. E' la storia di una promessa d'amore, che dovrebbe essere più forte di tutto. Ma la guerra non fa sconti. Irrompe nella vita, rende profughi e constringe a separarsi. E così succede ai due protagonisti: Zlatan in Italia si innamora di nuovo, si ricostruisce una vita, sempre però con un pezzetto di cuore mancante. Quello dedicato a Ajkuna, anche rifugiata politica, con una storia ancor più terribile alle spalle, quella di tutte le donne vittime dell'esercito. Entrambi però ricominciano a vivere, diventano altri, crescono e cambiano tanto che al momento del tanto agognato incontro stentano a riconoscersi. E poi c'è Ines, ci sono Sarah e Jacquelin, e ci sono soprattutto i genitori dei due ragazzi, il loro passato così terribilmente simile a quello dei figli.
E' un libro incredibile. Una storia d'amore (forse un pochino esagerata alla fine), ma anche una storia di guerra. Una storia che tocca nel profondo e che ti prende, forse anche perché si parla di un passato recente, un passato che tutti abbiam letto sui giornali.
Da leggere, assolutamente.

"Io non so niente, nessuno sa niente quando si innamora. Vaffanculo!"

"Si sono picchiati, sì, ma tutti si picchiano. Certi usano le parole, altri le mano. E altri ancora il silenzio."

"certi sogni sono già difficili da sognare per conto proprio, figuriamoci in due"

mercoledì 2 febbraio 2011

ACCABADORA- Michela Murgia

Perché Maria sia finita a vivere in casa di Bonaria Urrai, è un mistero che a Soreni si fa fatica a comprendere. La vecchia e la bambina camminano per le strade del paese seguite da uno strascico di commenti malevoli, eppure è così semplice: Tzia Bonaria ha preso Maria con sé, la farà crescere e ne farà la sua erede, chiedendole in cambio la presenza e la cura per quando sarà lei ad averne bisogno. Quarta figlia femmina di madre vedova, Maria è abituata a pensarsi, lei per prima, come "l'ultima". Per questo non finiscono di sorprenderla il rispetto e le attenzioni della vecchia sarta del paese, che le ha offerto una casa e un futuro, ma soprattutto la lascia vivere e non sembra desiderare niente al posto suo. "Tutt'a un tratto era come se fosse stato sempre così, anima e fili'e anima, un modo meno colpevole di essere madre e figlia". Eppure c'è qualcosa in questa vecchia vestita di nero e nei suoi silenzi lunghi, c'è un'aura misteriosa che l'accompagna, insieme a quell'ombra di spavento che accende negli occhi di chi la incontra. Ci sono uscite notturne che Maria intercetta ma non capisce, e una sapienza quasi millenaria riguardo alle cose della vita e della morte. Quello che tutti sanno e che Maria non immagina, è che Tzia Bonaria Urrai cuce gli abiti e conforta gli animi, conosce i sortilegi e le fatture, ma quando è necessario è pronta a entrare nelle case per portare una morte pietosa. Il suo è il gesto amorevole e finale dell'accabadora, l'ultima madre.

Se il libro terminasse circa a metà, questo commento si ridurrebbe semplicemente a "stupendo" o "piccolo capolavoro", perché sarebbe difficile trovare altre parole per descrivere la vicenda narrata e il modo in cui l'autrice riesce a portarci all'interno della storia, in quel paesino sardo degli anni ''50 dove si svolgono le vicende di Maria e della sua "madre adottiva". Un rapporto bellissimo quello tra le due, che viene bruscamente interrotto quando la bambina scopre che la donna con cui vive è un'"accabadora", colei che finisce... ovvero colei che da' una spinta al fato con le persone ormai in procinto di morire. Bellissima questa parte, belle, poetiche e molto realistiche le descrizioni (adoro i romanzi "veristi") e la trama non può non catturarti.
Poi però, quando Maria scopre questo segreto e non riesce ad accettarlo, decide di andarsene a Torino a fare da bambinaia. E qui la scrittrice si perde. Il romanzo diventa troppo sbrigativo, come se avesse voluto aggiungere qualcosa senza però saper bene come scriverla. Peccato, perché anche questa parte sarebbe molto bella e interessante, se non fosse così sbrigativa.
Il finale, beh, scontato, certo, ma anche l'unico veramente possibile.

Merita comunque molto di essere letto. E questa autrice italiana ha sicuramente un grande talento.