martedì 3 agosto 2010

PORTAMI A CASA- Jonathan Tropper

Alcune famiglie possono diventare tossiche, se ci si sottopone a prolungata esposizione. E la famiglia Foxman, in particolare, può raggiungere un livello di tossicità letale. Ecco cosa sta pensando il trentenne Judd Foxman mentre, di fronte al suo piatto di salmone e patate, cerca di estraniarsi dalle urla dei nipotini. Il telefono del cognato non smette mai di squillare, la sorella non fa che scoccargli frecciatine acide, in combutta con il fratello minore, mentre la madre, stretta in un vestito troppo provocante, gli rivolge solo sguardi di commiserazione. L'unico desiderio di Judd è scappare lontano e non pensare più a tutti i guai della sua vita. Perché Judd è senza casa, senza moglie, che l'ha appena tradito con il suo capo, e ora anche senza più un padre, morto all'improvviso. Per questo è dovuto tornare a casa e non può fuggire. Le ultime volontà del padre richiedono che venga celebrata la Shiva, il periodo di lutto prescritto dalla religione ebraica: per sette giorni consecutivi tutta la famiglia dovrà riunirsi sotto lo stesso tetto. E sette giorni possono essere un tempo infinito, soprattutto se i componenti della famiglia sono tutti fuori di testa e non riescono a stare per più di ventiquattr'ore insieme senza scannarsi. Ne bastano molte meno perché la casa diventi una polveriera pronta per esplodere a causa di vecchi rancori, passioni mai sopite e segreti inconfessabili.

Dopo "Tutto Può Cambiare" e "Dopo di Lei", Tropper ritorna con un altro bel romanzo, all'altezza dei suoi due precedenti (che io avevo adorato).
Cosa potrebbe succedere di peggio al protagonista Judd, dopo aver scoperto l'adorata moglie a letto con il suo capo, aver lasciato il lavoro (per ovvie ragioni) e essere costretto a dormire in uno scantinato? Ma dover passare 7 interi giorni i suoi fratelli ovviamente. Perchè alla sua morte il padre, come ultimo desiderio, ha chiesto che venisse celebrata la Shiva in suo onore e la madre, un'eccentrica sessantenne con il seno rifatto, è disposta a tutto affinchè i suoi 4 figli soddisfino questo desiderio.
Tra vecchi rancori mai sopiti, situazioni sentimentali a dir poco disastrose, ma anche bei ricordi che poco a poco riaffiorano e legami che si ricreano, Tropper racconta con ironia la vita di una famiglia americana che poi tanto tipica non è ma in cui, almeno a tratti, non è poi così difficile immedesimarsi.
Mi piace molto lo stile di questo scrittore, un linguaggio diretto e molto ironico per descrivere situazioni che ironiche non sono, ma che lo diventano nella loro "tragicità"(qualche eco dell'Hornby dei tempi migliori, per intenderci). Un libro che si legge bene, capace di tenerti incollato alle sue pagine fino a notte fonda per sapere cosa succederà ancora a questi fratelli, che fa ridere ma fa anche riflettere.
Mi ha solo lasciato un po' perplessa il finale. Ma forse qualunque finale mi avrebbe lasciato la stessa sensazione.
Lo consiglio!

Nota alla traduzione: qualche nota del traduttore abbastanza inutile (so che cos'è il ball nel baseball... e anche se non lo sapessi, non è necessario che me lo si spieghi in 4 righe...). E poi la scelta del titolo: l'originale è "This is where I leave you", che in italiano diventa "Portami a Casa". Il problema, oltre ovviamente alla scarsa e ingiustificata infedeltà, è che la frase "portami a casa" compare a un certo punto nel romanzo... dove sicuramente però in originale non potrebbe comparire "this is where I leave you", perchè non avrebbe senso. E queste cose mi fanno arrabbiare.

Nessun commento:

Posta un commento