Visualizzazione post con etichetta Sellerio. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Sellerio. Mostra tutti i post

sabato 2 febbraio 2019

Leggendo a gennaio: Korn, Manzini, Backman, Saramago... per tacer di Tom Gauld

Gennaio è stato un mese lunghissimo. I sei giorni di ferie con cui è iniziato sono diventati un ricordo già dal primo giorno di rientro al lavoro e, adesso che finalmente il mese e finito e ne è iniziato uno nuovo, se mi guardo indietro mi sembra che siano passati secoli da quando il 2019 è iniziato.
Eppure no, è durato solo trentuno giorni, come sempre e come fanno tanti altri mesi dell’anno. E ne sono passati poco più di quindici dall’ultima volta in cui ho pubblicato un post qui sul blog. Mi ero ripromessa che nel nuovo anno avrei tentato di aggiornarlo più spesso ma, come potete ben vedere, mi sa che il mio intento è già miseramente fallito.
E mi dispiace molto, soprattutto perché in questo mese ho letto tanto e tante cose belle. Per questo ho deciso di fare un post cumulativo, per raccontare in breve le letture che mi hanno accompagnato in questi lunghissimi trentun giorni appena trascorsi e a cui non sono purtroppo riuscita a dedicare un post singolo (quindi no, qui non ribadirò quanto poco mi abbia convinto La misura dell’uomo di Marco Malvaldi, perché lui si è meritato una recensione tutta sua).
Eccoli qua:


Partiamo con quella meraviglia di Figlie di una nuova era di Carmen Korn, primo volume di una trilogia portato qui in Italia da Fazi editore e tradotto da Manuela Francescon e Stefano Jorio. Protagoniste sono quattro donne, di origini e classi diverse, che vivono ad Amburgo nella prima metà del ‘900 e i cui destini si incroceranno con l’arrivo della guerra e delle varie vicende personali che si ritroveranno a vivere. Henny e Kathe sono amiche da sempre e ora, insieme, stanno studiando per diventare ostetriche; Ida è la rampolla di una buona famiglia, abituata agli agi e ai lussi e disposta a tutto pur di averli, forse anche a sacrificare l’amore; Lina è sopravvissuta alla Prima guerra mondiale insieme al fratello grazie ai genitori, morti di fame per permettere a loro due di sopravvivere. Mentre le loro vicende personali proseguono, tra amori clandestini, desiderio d’indipendenza, impegno politico e tante decisioni sbagliate (Henny, porca miseria!), sullo sfondo scorre la storia del ‘900, con l’avvento del nazismo e tutto ciò che porterà con sé. Era da tanto che un libro non mi prendeva così tanto, che non mi ritrovavo tanto immersa in una storia e nei suoi intrecci. Non vedo l’ora che esca il secondo volume, perché una volta girata l’ultima pagina, queste donne di Amburgo già mi mancavano parecchio.
Henny tese l'orecchio. Le sembrava di aver sentito salire dal cortile, fino al secondo piano, un suono venuto dal passato, come un rintocco di campana o il verso di un merlo. Le vennero in mente i sabati della sua infanzia. Sabati estivi. L'acqua che scintillava nella cisterna. Il ribes bianco che le lasciavano cogliere dai rovi addossati al muro di cinta, il profumo della torta che sua madre aveva già messo in forno per la domenica. Suo padre, appena tornato dall'ufficio, che fischiettava mentre si liberava della cravatta e si sbottonava il colletto della camicia.
Henny andò alla finestra, l'aprì e stette ad ascoltare il suono che aveva risvegliato in lei quella serie di immagini. Il cigolio della vecchia altalena.
Era ottobre quando è uscito Fate il vostro gioco di Antonio Manzini. Ne avevo parlato come un romanzo di transizione, dopo due libri carichi di emozioni e tensioni. Mi era sembrato quasi un libro sospeso, finito un po’ troppo bruscamente... ed ecco svelato l’arcano: il 10 gennaio, infatti, è uscito Rien ne va plus, un’altra avventura del vicequestore Rocco Schiavone. No, Manzini non ha scritto un romanzo in tre mesi. Semplicemente Fate il vostro gioco e Rien ne va plus sono lo stesso libro, diviso in due per questioni verosimilmente di lunghezza, ma anche (e soprattutto, forse) per far contenti i fan, non costretti ad attendere il solito anno tra una puntata e l’altra. In Rien ne va plus tutte le cose che mi avevano lasciato perplessa di Fate il vostro gioco un po’ si chiariscono: da un lato continuano le vicende personali di Rocco, tra il rimpianto per Caterina e le rivelazioni sempre più pericolose di Baiocchi, che rischiano di mettere il nostro vicequestore preferito in una posizione terribile; dall’altro c’è un portavalori del casinò di Saint Vincent che misteriosamente sparisce e Rocco capisce subito che c’è un collegamento con la morte del ragionier Favre; ma soprattutto che c’è qualcosa di molto, molto più grande dietro. Intanto si consolida il rapporto con Gabriele, Lupa è sempre più coccolosa e Rocco (che sì, ora ha inevitabilmente la faccia di Marco Giallini, ma va benissimo così) ha ancora tanti fantasmi a perseguitarlo. Non vedo l’ora che esca il prossimo.

Ho scoperto Fredrik Backman qualche anno fa con il suo romanzo d’esordio, L’uomo che metteva in ordine il mondo. Me ne ero follemente innamorata: avevo adorato il modo in cui tratteggiava i suoi personaggi e il suo stile, con quella capacità che non tutti hanno di raccontare anche le cose più tristi nel modo più buffo e dolce possibile (il dolore resta sempre, ma diventa più affrontabile). L’amore si è poi consolidato con Mia nonna saluta e chiede scusa, dove compare per la prima volta il personaggio di Britt-Marie, che si è poi meritata un romanzo tutto suo: Britt-Marie è stata qui (pubblicato da Mondadori con la traduzione di Andrea Stringhetti).
Britt-Marie è una donna un po’ scontrosa, incapace di uscire dalla gabbia delle imposizioni sociali e del “chissà cosa direbbero gli altri”. Ha sempre vissuto per il marito e per i figli di lui, tenendo la casa impeccabile e sacrificando se stessa, ricevendo in cambio solo recriminazioni e prese in giro.

Alla fine desiderava solo un balcone e un marito che non camminasse sul parquet con le scarpe da golf, che qualche volta mettesse la camicia nel cesto della biancheria senza bisogno di ricordarglielo e che ogni tanto dicesse che la cena era buona senza bisogno di chiederglielo. Una casa. Figli non suoi ma che vengono lo stesso a Natale. O almeno cerchino di far finta di avere un motivo per non venire. Un cassetto delle posate sistemato in modo corretto. Finestre da cui si possa vedere il mondo. Qualcuno che si accorga che si è sistemata i capelli con particolare cura. O che almeno faccia finta di accorgersene. O che almeno le permetta di continuare a fingere. 
Qualcuno che una volta ogni tanto torni in una casa con il pavimento pulito e la cena calda in tavola e veda i suoi sforzi. Perché le persone sono come le cene. Devono avere un senso. "Che bella pettinatura". È una frase che ha senso.

Forse un cuore si spezza solo quando si esce da una stanza d'ospedale con camicie che puzzano di pizza e di profumo, ma tutto si spezza più facilmente se prima si sono formate delle crepe.

Però quando il tradimento del marito, che lei già conosceva, diventa di dominio pubblico decide che non può più sopportare e se ne va di casa. Alla ricerca disperata e ossessiva di un lavoro, accetta uno strano incarico a Borg, una comunità sperduta su cui la crisi ha picchiato molto duro. Tutti i negozi e le attività che ancora non sono chiuse chiuderanno a breve e il paesino sembra destinato a morire. Britt-Marie, con le sue fobie, la sua smania per le pulizie e la sua mentalità ingenua, riesce in qualche modo a far breccia nei pochi abitanti rimasti. Senza nemmeno capire come, si ritrova addirittura ad allenare la squadra di calcio dei ragazzi del paese e a prendersi cura di loro a modo suo. Sembra esserci una speranza per Borg, nonostante tutte le tragedie e le difficoltà che sta vivendo, e sembra esserci anche per Britt-Marie.
Nella caratterizzazione di questo personaggio forse Fredrik Backman ha calcato un po’ troppo la mano, perché nella prima parte è talmente insopportabile e talmente incredibile nelle sue ingenuità che vien quasi voglia di chiudere il libro. Una voglia che però poi passa, man mano che si procede con la lettura e si assiste al cambiamento di Britt-Marie e di tutte le persone attorno a lei. È un libro pieno di buoni sentimenti, di quelli che scaldano il cuore e fanno bene, perché, ancora una volta, mostra come anche nelle tragedie, nelle difficoltà e nei momenti brutti si possa (e si debba!) trovare qualcosa per cui vale la pena sorridere.

L’ultimo libro di gennaio è Le piccole memorie di José Saramago, tradotto da Rita Desti. Un libriccino comprato un po’ per caso (insieme a Diario di scuola di Pennac per prendere la coperta del lettore di Alice nel paese delle meraviglie) e che mi ha fatto ricordare ancora una volta quanto io voglia bene a José Saramago. In questo piccolo memoir, lo scrittore portoghese racconta alcuni aneddoti della sua infanzia: i rapporti con i genitori e con i nonni, gli anni di scuola e le amicizie nate tra i banchi, i personaggi bislacchi che ha incontrato nella sua infanzia e adolescenza, i ricordi del fratellino morto a tre anni... tante piccole cose, che forse alla produzione di Saramago non aggiungono nulla, ma che per chi già lo conosce e lo ha sempre adorato sono molto preziose. (Nel caso voleste iniziare a conoscerlo: consiglio Cecità, L’uomo duplicato e Lucernario... tenetevi Il Vangelo secondo Gesù Cristo e Caino per quando avrete preso più in confidenza con il suo stile).

Ho raccontato altrove come e perché mi chiamo Saramago. Che quel Saramago non era un cognome per parte paterna, bensì il soprannome con cui era conosciuta la mia famiglia nel paese. Che quando mio padre andò a dichiarare all'Anagrafe di Galeğa la nascita del suo secondo figlio, capitò che l'impiegato (si chiamava Silvino) fosse ubriaco (indignato, di questo lo avrebbe sempre accusato mio padre) e che, nei fumi dell'alcol e senza che nessuno si accorgesse dell'onomastico frode, decidesse, a suo rischio e pericolo, di aggiungere Saramago al laconico José de Sousa che mio padre voleva che fossi. E che, in questo modo, infine, grazie a un intervento a tutte le evidenze divino, mi riferisco, è chiaro, a Bacco, dio del vino e di coloro che eccedono nel berlo, non ho avuto bisogno di inventare uno pseudonimo, caso mai ci fosse stato un futuro, per firmare i miei libri.

Tra un romanzo e l’altro, a gennaio c’è stato tempo anche per i fumetti di Tom Gauld, in particolare di Baking with Kafka (esiste anche la versione italiana, In cucina con Kafka, pubblicata da Mondadori... ma se sapete l’inglese vi consiglio l’originale). Tutti gli appassionati di libri e di letteratura dovrebbero conoscere e leggere le vignette di Gauld: fanno ridere e fanno riflettere, ma soprattutto dimostrano quanto si possa amare il mondo dei libri senza prendersi mai troppo sul serio, perché gli scrittori famosi ma anche i personaggi dei libri sono prima di tutto esseri umani.

Source: https://bit.ly/2S8aIID


mercoledì 17 ottobre 2018

FATE IL VOSTRO GIOCO - Antonio Manzini


La settimana scorsa è uscito Fate il vostro gioco, il nuovo romanzo di Antonio Manzini con protagonista il vicequestore Rocco Schiavone. Non starò qui a dirvi per l’ennesima volta quanto io ami questo personaggio, quanto attenda con ansia ogni sua nuova avventura e quanto, dopo un inizio non proprio entusiasta, mi sia appassionata anche alla serie tv che ne hanno tratto. Rocco Schiavone è un figo, burbero, stronzo, segnato da un passato che non gli dà tregua e che condiziona tutto il suo presente. Ma è anche tenero, a modo suo, con chi se lo merita (Lupa, più di tutti).

Aspettavo con ansia un nuovo romanzo, vi dicevo, anche perché sono ancora sconvolta da quanto successo da Pulvis et umbra l’anno scorso (per non fare spoiler dico solo: Caterina) ed ero curiosa di vedere come ne sarebbe uscito il mio vicequestore preferito.
Non benissimo, diciamoci la verità, perché Fate il vostro gioco, nonostante non sia un romanzo breve e abbia richiesto comunque un anno per essere scritto, è un po’ sottotono rispetto ai precedenti. E ci sta, ci mancherebbe, in una serie arrivata ora al settimo romanzo, più tutta una serie di racconti; ci sta che uno sia meno riuscito di un altro, soprattutto se arriva dopo due storie in cui la vicenda di Rocco ha forse toccato il suo climax. 

In questo nuovo romanzo, Rocco Schiavone si ritrova a indagare sull’omicidio di Romano Favre, un pensionato del casinò di Saint Vincent, ritrovato cadavere in casa sua con la fiche di un altro casino tra le mani. “Un morto che parla”, lo definisce Rocco, che si sforza per capire che cosa voglia dirgli. C’entra il riciclaggio? C’entrano i prestiti ai poveracci che si rovinano sul tavolo da gioco? O nessuna di queste cose? Rocco indaga con tutta la squadra, anatomopatologo Fumagalli e complottista della scientifica Gambino compresi. Ma nel mentre deve anche stare un po’ dietro a Italo, che sembra avere più di un problema, e, soprattutto, fare i conti con quanto successo nel romanzo precedente: i suoi amici romani che sembrano fidarsi più di lui, Enzo Baiocchi che pare intenzionato a fare grandi rivelazioni alla polizia, Marina che non si fa più sentire, e Caterina, ovviamente. A complicare ulteriormente le cose ci si mettono pure il vicino di casa adolescente Gabriele e sua madre. Riuscirà il nostro vicequestore preferito a risolvere il caso e, una volta per tutte, anche i suoi tormenti?

Lo scopriremo nella prossima puntata. Dico davvero (e prima che mi si accusi di spoiler, lo dice anche la bandella), perché Fate il vostro gioco è un romanzo che non finisce, che lascia in sospeso tante cose per quello a venire. E questo, per quanto mi riguarda, rappresenta un po’ un problema: non mi piacciono i gialli che non sono autoconclusivi; o meglio, mi piace che ci sia una trama parallela che li colleghi tutti, ma l’omicidio che viene affrontato in un romanzo preferisco che in quello finisca.
Al di là di questo, che è sicuramente una questione più personale, trovo che Fate il vostro gioco sia un po’ frettoloso, un po’ abbozzato. Più nella scrittura, forse, che non nella trama vera e propria. E qualcuno mi faceva notare che probabilmente è già pensato per serie tv: è più fatto di scenette, più televisivo. E poi, diciamocela, Rocco senza le sue donne non funziona tanto. E Antonio Manzini stesso sembra esserne reso conto perché poi, verso la fine, corregge un po’ il tiro con una scena in effetti molto commovente.

Fate il vostro gioco non è un brutto romanzo, sia chiaro. E, come si diceva già prima, un libro un po’ sottotono in una serie che inizia a diventare piuttosto lunga ci sta eccome. Però al tempo stesso un po’ mi spiace perché, pur avendolo divorato in un paio di giorni senza riuscire a metterlo giù, mi è mancato qualcosa che negli altri avevo trovato. Che il personaggio di Rocco stia iniziando a esaurirsi? Che stiano finendo tutte le complicazioni (e le rotture di coglioni) che il vicequestore possa affrontare risultando ancora credibile? 
Mi sa che, anche questo, lo scopriremo nella prossima puntata.


Titolo: Fate il vostro gioco
Autore: Antonio Manzini
Pagine: 391
Editore: Sellerio
Anno: 2018
Prezzo: 15€
Acquista su Amazon:
formato cartaceo: Fate il vostro gioco
formato ebook: Fate il vostro gioco (Il vicequestore Rocco Schiavone Vol. 11)

venerdì 10 novembre 2017

NEGLI OCCHI DI CHI GUARDA - Marco Malvaldi

Margherita si chinò un momento, raccolse un dente di leone da una piccola macchia erbosa vicino al sentiero e soffiò via i petali con un'espressione da bimba concentrata - l'unica espressione adeguata quando si soffia un dente di leone, a noi sembra una cosa da nulla ma se uno pensa ai denti di leone che ha inconsapevolmente contribuito a piantare quando era piccolo si ha quasi la sensazione di servire a qualcosa in questo mondo.

Marco Malvaldi ultimamente dà il meglio di sé quando chiude per ferie il Barlume e si avventura in altri romanzi. Lo dico da appassionata delle vicende dei vecchietti e del barrista Massimo, che mi hanno fatto scoprire questo autore toscano qualche anno fa e portato poi a leggere, di conseguenza, tutti i suoi romanzi. Il mio preferito in assoluto rimane Odore di chiuso, in cui secondo me l’autore ha elevato la sua bravura alla massima potenza, ma in generale quando Malvaldi ha più libertà di azione, con i personaggi, con i luoghi e con le trame, gli riesce qualcosa in più.

È il caso di Negli occhi di chi guarda, il suo ultimo romanzo uscito a ottobre per Sellerio editore.
Siamo sempre in Toscana: questa volta a Poggio alle Ghiande, una tenuta agricola molto antica e molto bella nel comune di Castagneto Carducci. È di proprietà di due fratelli gemelli, Zeno e Alfredo Cavalcati, di indole completamente diversa tra loro nonostante la genetica li abbia voluti identici: Zeno è un collezionista d’arte, che vive da decenni a Poggio alle Ghiande senza mai allontanarsene, al punto da aver creato in casa un museo; Alfredo è un broker, sempre in giro per il mondo e sempre in equilibrio precario tra la ricchezza e la bancarotta. Queste loro diversità li hanno portati, adesso, a non riuscire a prendere una decisione importante: vendere Poggio alle Ghiande a quegli investitori cinesi che vorrebbero farci un resort di lusso o tenerla? Alfredo e i suoi problemi economici propendono per la prima opzione, Zeno e tutti gli altri abitanti di Poggio alle Ghiande per la seconda, ovviamente.
Perché sì, oltre ai due fratelli, c’è tutta una serie di personaggi che da anni o per la prima volta in vita, per motivi diversi, ruota attorno a questa tenuta: c’è Piotr, uomo delle pulizie polacco che crede fermamente nella Santa Vergine di Czestochowa e nel potere della varechina; c’è Raimondo, uscito dal manicomio quando sono stati chiusi per leggere e ora custode della tenuta; c’è Giancarla Bernardeschi, professoressa di chimica in pensione che a Poggio alle Ghiande trascorre sempre le vacanze, distillando qualunque pianta incontri sul suo cammino; c’è Riccardo Maria Torregrossa, che durante l’anno lavora in formula Uno e d’estate cerca il silenzio nelle colline toscane; Anna Maria Marangoni, lasciata dal marito dopo ventisette anni di matrimonio per stare con una ventisettenne; ci sono Enrico Della Rosa e sua moglie Cristina. E poi Margherita e Piergiorgio, i due giovani a Poggio alle Ghiande solo di passaggio: filologa e archivista alla ricerca di un quadro perduto lei, ricercatore desideroso di studiare i gemelli lui.

Poi ovviamente avviene un omicidio, anzi due, e i piani dei due fratelli e di tutti gli altri abitanti di Poggio alle Ghiande vengono completamente stravolti.

Marco Malvaldi dà il meglio di sé quando si allontana dal BarLume, dicevamo all’inizio. E Negli occhi di chi guarda, secondo me, ne è una prova. Leggendo, si percepisce quanto lui si sia divertito a creare la storia e a caratterizzare i vari personaggi, a giocare con la chimica ma anche con l’arte, la storia e, perché no, anche qualche curiosità bizzarra (a un certo punto, durante la lettura, mi sono ritrovata a scrivere nella barra di ricerca di google “Venere di Milo cacca panda”, così, giusto per darvi un’idea).

La cosa bella è che riesce a fare tutto questo scrivendo comunque un romanzo scorrevole e divertente, mai pedante o saccente, anche per chi di chimica, storia, arte (e cacca di panda) non sa assolutamente nulla, perché alla base c’è un giallo appassionante e ben costruito, ci sono personaggi esilaranti (Piotr è il mio preferito in assoluto) accanto ad altri più profondi e c’è quell’ironia tipica malvaldiana, che a volte si coglie al volo altre dopo un attimo, e poi ti fa esclamare “che genio!” (o “che pirla!”, a volte, ma in senso buono).

Negli occhi di chi guarda mi è piaciuto molto anche per altri motivi, abbastanza casuali in realtà. Nella mia prima vacanza da sola con gli amici ho fatto proprio la tratta di treno che fa Piergiorgio per arrivare a Poggio alle Ghiande, per esempio.
Uno degli stati d'animo più belli dell'essere umano è quello del viaggio di andata. Specialmente se uno è in treno.

Eccessi di velocità, colpi di sonno, mancanza di benzina non ti riguardano; del viaggio da un punto di vista tecnico non hai niente di cui preoccuparti, e mentre il treno ti culla tu puoi cullare le tue aspettative.
Se poi sei talmente fortunato che il tuo treno è sulla tratta da Genova a Roma, puoi anche spegnere il cellulare - scusa se ho visto solo ora la chiamata ma sai, con tutte quelle gallerie il segnale non prende mai - e goderti il viaggio senza dover essere costretto ad affrontare la vita che si svolge altrove.
Alle medie, poi, avevo sviluppato una passione per il pittore Ligabue e per i suoi quadri (anche se non riesco a ricordarmi bene perché), e, tra l’altro, mi piacciono da matti le tombe etrusche.

Insomma, Negli occhi di ci guarda è un bel romanzo giallo, ma anche qualcosa di più, che intrattiene e diverte (che è poi l’obiettivo principale di questi romanzi), ma incuriosisce anche, trasmettendoti la voglia di imparare, di scoprire qualcosa in più.


(Anche se sulla Venere di Milo fatta con gli escrementi di panda continuo ad avere qualche perplessità).


Titolo: Negli occhi di chi guarda
Autore: Marco Malvaldi
Pagine: 274
Anno di pubblicazione: 2017
Editore: Sellerio
Acquista su Amazon:
formato brossura: Negli occhi di chi guarda
formato ebook: Negli occhi di chi guarda

lunedì 11 settembre 2017

PULVIS ET UMBRA - Antonio Manzini



A un anno e un mese di distanza da 7-7-2007, Antonio Manzini è tornato in libreria con una nuova avventura del vicequestore più fig… ehm… più burbero del mondo, Rocco Schiavone. 
Un libro che ho atteso molto, questo Pulvis et umbra (uscito per Sellerio il 31 agosto), soprattutto dopo le emozioni che mi aveva trasmesso il volume precedente e dopo il successo della serie tv andata in onda l’autunno scorso su Rai2, in cui Rocco è stato interpretato da uno strepitoso Marco Giallini.

Da un lato, infatti, avevo una voglia matta di tornare ad Aosta, di scoprire come se la stava cavando adesso il vicequestore, dopo aver raccontato tutta la sua storia ai suoi superiori e aver dovuto fare i conti, ancora una volta, con i sensi di colpa. Volevo vedere anche come si stavano mettendo le cose tra Italo e Caterina, se il buon D’Intino era sempre così stordito e soprattutto come stava vivendo la situazione Seba, dopo aver perso l’amore della sua vita. Dall’altro, però, avevo paura che l’aver visto la trasposizione sullo schermo mi facesse un po’ perdere il gusto della lettura. 
Anche se molto spesso durante la lettura all’immagine di Rocco si sovrapponeva quella di Marco Giallini, devo dire che no, non è successo. Ho divorato Pulvis et umbra proprio come avevo fatto con i romanzi precedenti. E, proprio come con i romanzi precedenti, ora che l'ho finito non vedo l'ora che esca il prossimo.

La trama si sviluppa su due fronti: nella prima parte siamo ad Aosta, dove sulle sponde della Dora viene ritrovato il cadavere di una trans. Rocco e la sua squadra sono chiamati a indagare e il tutto sembra ruotare attorno al palazzo dove la donna esercitava. Ben presto, però, il vicequestore si rende conto che c’è qualcosa di potente dietro a questa storia, qualcosa su cui forse non dovrebbero indagare e che potrebbe mettere a rischio la vita sua e dei suoi agenti. Nella seconda parte, invece, si riprende il filo della storia romana: quella nata con Marina tanti anni fa, riportata alla luce con l’uccisione di Adele e che Rocco, per una volta, sta cercando di risolvere nel modo più giusto. Per se stesso, ma anche e soprattutto per non mettere ancor più nei guai il suo amico Seba. Il tutto si trasforma in una lunga caccia all’uomo, che da Roma si sposta verso nord, fino a un epilogo che è un colpo al cuore.

Ce ne sono tanti di colpi al cuore in Pulvis et umbra. Alcuni sono di pura tenerezza, come il bel rapporto che si sviluppa tra Rocco e il suo vicino di casa adolescente Gabriele, o quello con Lupa, la sua cagnolina che il vicequestore, anche in pubblico, non si fa alcun problema a chiamare amore; altri sono tradimenti e perdite di fiducia che sarà difficile, se non impossibile, recuperare. 

Già durante la lettura, mi sono ritrovata a pensare a quanto incredibilmente bravo sia Antonio Manzini nello scrivere le avventure di Rocco Schiavone. Siamo arrivati al sesto volume, con una trama secondaria che è partita dal primo (Pista nera) e che piano piano ha raggiunto il suo climax ed è presente ancora oggi. Avrebbe potuto logorarsi nel corso di sei romanzi. Iniziare a sfilacciarsi, diventare noiosa, perdere di forza e, perché no, trasformare quel gran personaggio di Rocco Schiavone in una macchietta di se stesso. E invece no, ogni romanzo è come il precedente e al tempo stesso ti lascia qualcosa di più. In ogni romanzo Rocco evolve, sviluppa sentimenti nuovi, diventa più riflessivo e meno impulsivo, matura in qualche modo. Tutto questo, ovviamente, sempre accompagnato dalla sua irriverenza, dalla sua ironia, oltre che dalle sue innumerevoli rotture di coglioni.

Pulvis et umbra mi è piaciuto tanto. Mi è piaciuto Rocco (vabbè, di lui sono innamorata, c’è poco da fare) e mi sono piaciute le storie e i personaggi che ruotano intorno a lui (con una menzione speciale a Michela Gambino, la nuova esperta della scientifica, nonché complottista). Certo, per il colpo di scena finale un po’ ci sono rimasta male, devo dir la verità, ma questo forse dimostra ancora di più quanto io ami questi romanzi e, soprattutto, la bravura di Antonio Manzini.

Ora non resta che aspettare un altro anno, per sapere come si rialzerà questa volta Rocco dalle mazzate che, di nuovo, si è preso.


Titolo: Pulvis et umbra
Autore: Antonio Manzini
Pagine: 403
Editore: Sellerio
Anno: 2017
Acquista su Amazon:
formato brossura: Pulvis et umbra

venerdì 7 luglio 2017

LA LETTRICE SCOMPARSA - Fabio Stassi

La lettura non è un'attività passiva, non si inganni. Dipende solo dal grado di coinvolgimenti con il quale il lettore partecipa alle traversie di un personaggio. È più facile che alcuni libri possano far deperire chi li legge che concedergli qualche chilo in più.


Qualche anno fa Sellerio ha pubblicato un libro intitolato Curarsi con i libri. Era una sorta di enciclopedia medico-letteraria, in cui le autrici Ella Berthoud e Susan Elderkin associano a ogni malattia un libro che potrebbe aiutare in qualche modo a curarla. La versione italiana è stata curata da Fabio Stassi, che poi per un breve periodo ha tenuto una rubrica simile, con consigli di lettura "curativi", su Vanity Fair. Non so per quanto tempo sia proseguita, né quanto effettivamente questi consigli possano aver giovato a chi li ha ricevuti (l’idea di curare i malanni con la letteratura è sicuramente molto bella e molto romantica, ma altrettanto sicuramente inattuabile), ma di certo ha dato a Fabio Stassi l’ispirazione per La lettrice scomparsa, romanzo pubblicato l’anno scorso da Sellerio.

Protagonista è Vince Corso, un professore precario che, rimasto escluso dalle graduatorie scolastiche dopo l’ultimo concorsone, decide di provare a mettersi in proprio, sfruttando la sua enorme passione per la letteratura aprendo uno studio di biblioterapia. Una sorta di psicologo, che ascolta i pazienti e poi, anziché pastiglie o cure, consiglia una lettura adeguata allo stato d’animo espresso.
Pochi giorni dopo essersi trasferito nel palazzo che ospita il suo nuovo studio e che funge anche da casa, una vicina di casa di Vince scompare nel nulla e il marito viene accusato di omicidio. Per qualche motivo, Vince si sente molto attratto da questa storia. Forse perché la donna era una grande lettrice, che frequentava la stessa libreria frequentata dal protagonista, o forse semplicemente perché l’uomo vede della letteratura in ogni situazione della vita… fatto sta che Vince decide di indagare e scopre che la verità è molto più complessa di quello che potrebbe sembrare all'apparenza.

Ho iniziato a leggere La lettrice scomparsa con un certo entusiasmo. Finora ho amato molto tutti i romanzi che ho letto di Fabio Stassi (con una menzione speciale a Come un respiro interrotto) e ho un debole per i libri che parlano di libri.

E questo lo è, forse fin troppo.

Fabio Stassi, prima di essere uno scrittore, è un grande, grandissimo lettore. Lo si percepisce dal suo modo di scrivere, ma anche e soprattutto dall'enorme quantità di libri che riesce a citare nel dettaglio, in questo romanzo e negli altri. Già l’idea di poter curare, o comunque alleviare il dolore, con i libri ne presuppone una conoscenza smodata. Il risultato però, almeno in questo caso, è una punta di autocompiacimento involontario, che porta il lettore a perdersi un po’ tra i pensieri, i consigli e persino le indagini di Vince Corso.

Un personaggio, questo creato da Fabio Stassi, che ama la letteratura al punto da non riuscire a immaginare che possa esistere una vita senza di essa e senza la sua influenza. E quindi apre uno studio per curare con i libri, dove però arrivano però solo donne con problemi complicati, che tendono a sbeffeggiarlo, a contraddirlo, a disilluderlo più che a seguire ciecamente i suoi consigli.
In giro c'è molta più infelicità di quanto credessi: tutti i libri di questa biblioteca non potrebbero farci niente.
E poi si mette a indagare su una donna scomparsa, una lettrice amante della letteratura quanto lui, che dalla letteratura ha preso spunto per creare una trama complicata, un giallo che il lettore non ha alcun modo di risolvere.

È proprio nella caratterizzazione di Vince Corsi, appassionato di letteratura ma al tempo stesso insicuro e insoddisfatto di sé, nel rapporto con le sue assistite, ma soprattutto nelle indagini che il protagonista compie per scoprire che fine abbia fatto la donna scomparsa nel suo palazzo che Fabio Stassi un po’ si perde. Ci sono troppi elementi ricercati, troppe citazioni, troppo di tutto (e i libri, e la musica, e gli scacchi, e..., e..., e...).
E se all'inizio l'idea affascina ed emoziona (grazie anche alle frasi ad hoc per mandare un po' in visibilio gli appassionati lettori) a un certo punto il romanzo diventa un po' noioso, un po' pesante, un po' ripetitivo.

O forse semplicemente non tutti (non io, almeno, pur avendo letto moltissimi dei libri che il biblioterapeuta consiglia nel corso del romanzo) sono in grado di seguire tutti questi intrecci, letterari e non.

La lettrice scomparsa non è un brutto libro, intendiamoci. È scritto davvero bene e alcuni elementi sono molto toccanti (le cartoline che Vince invia al padre, per esempio) e, soprattutto, come si è già detto, l'autore dimostra ancora una volta il suo amore e la sua conoscenza per le letteratura. Che però dovrebbe essere un mondo inclusivo, almeno secondo l’idea del protagonista e dell’autore stesso, ma che in queste pagine si trasforma invece in un luogo quasi ostile e respingente.
Il solo potere taumaturgico che conosco è quello dell'amicizia. Consigliare un romanzo è un modo di voler bene a una persona.

Titolo: La lettrice scomparsa
Autore: Fabio Stassi
Pagine: 273
Anno di pubblicazione: 2016
Editore: Sellerio
Prezzo di copertina:14 €
Acquista su amazon:
formato brossura: La lettrice scomparsa
formato ebook: La lettrice scomparsa

lunedì 23 gennaio 2017

UN SOLO PARADISO - Giorgio Fontana

«Te l’ho già detto. Ero convinto di non essere in grado di amare. E non avendo particolari ambizioni nella vita, ho finito per obbedire a questa legge: mi sono accontentato. È triste, ma anche – come dire – igienico. In ogni caso funzionava alla perfezione, persino io ne ero stupito. Ti accorgi di come la ricerca della felicità abbia qualcosa dell’inganno».
«Ma è impossibile informarsi in questo modo», disse lei. «Scusa, ma la trovo un’idiozia».
«Vero. Eppure mi ha risparmiato parecchia sofferenza. Prima non avevo idea di cosa desiderassi, di cosa volessi fare della mia vita. Poi con il tempo ho imparato a non pensarci più. Il desiderio mi sembrava una cosa sopravvalutata. Se te ne sbarazzi, ottieni la libertà».
«E invece ora?».
«Ora ci sei tu», disse Alessio.

(Questa mio recensione è stata pubblicata su Ultima pagina il 10 gennaio 2017)

Alessio ha quasi trent’anni e non si è mai innamorato. Credeva di non averne bisogno. Credeva che l’amore e la felicità non fossero indispensabili o che, semplicemente, non dovesse né aspettarli né tantomeno cercarli. Bisogna accontentarsi di quello che si ha, non desiderare niente, per poter sopravvivere. “Un dolceamaro contentarsi”, lo chiama, fatto di un lavoro stabile lontano dal paesino di montagna in cui è cresciuto e a cui non ama tornare e dalla sua famiglia; fatto di viaggi in solitaria e di musica jazz. Finché nella sua vita non entra Martina, una ragazza dalla risata un po’ rumorosa, che parla poco di sé e sfugge da un amore passato che ancora la tormenta. La ragazza lo travolge, lo fa innamorare e poi stare male, come succede con quasi tutti gli amori. Ma Alessio da questa sofferenza non riesce a riprendersi. Diventa un’ossessione, che lo porta a chiudersi in se stesso, a deprimersi, a non saper più vivere.

Dopo Morte di un uomo felice, con cui ha vinto il Premio Campiello 2014, Giorgio Fontana mette da parte le tematiche storiche e sociali e in questo suo nuovo romanzo, Un solo paradiso, pubblicato ancora da Sellerio editore, decide di raccontare una storia d’amore. Un uomo che non cerca e non vuole l’amore, che si accontenta di quello che fa, forse per paura di soffrire, forse perché più semplice. Finché l’amore non arriva, lo travolge, e poi lo distrugge, mostrando quanto si possa essere fragili quando si perde qualcosa e, soprattutto, quanto difficile sia sopportare il dolore della fine della felicità.
Si accorse che fino a quel momento non aveva capito nulla di quanto gli fosse successo. Ma ora, infine, comprese: non aveva perso l’amore. Quello era sempre possibile, come gli aveva detto Laura. Aveva perso unicamente lei, un semplice essere umano – e questo era mille volte peggio.
La storia di Alessio viene raccontata tramite un espediente abbastanza classico: un ragazzo, appena rientrato a Milano dopo aver lavorato per qualche tempo a Roma, entra nel bar che frequentava da giovane con il suo gruppo di amici. Amici che ha perso di vista, come succede spesso quando si diventa adulti e le vite prendono cammini diversi, e di cui non ha saputo quasi più nulla. In quel bar, su uno sgabello, c’è Alessio che beve. I due si salutano, si scambiano banali convenevoli e poi Alessio decide di riversare tutta la sua storia con Martina e tutta la sua sofferenza su questo amico che non vede da un anno e che sa che non rivedrà più. Beve e racconta. Racconta e beve. Poi, alla fine, si alza e se ne va, perché nonostante sia passato ormai del tempo, nonostante sappia che il dolore quasi sempre passa, non sa come fare a uscirne, non sa se esista una soluzione per sopravvivere.
Alessio era passato attraverso la solitudine dell’adolescenza in quel posto dimenticato da dio, l’aggressione del padre, il fratello in prigione; era passato attraverso le infamie di vecchi amici, i lavori umilianti, la morte di una cugina cui era tanto legato; tutto il cumulo di problemi che non rivelava a nessuno per decenza o vergogna: e dunque perché ora non era in grado di riaversi?
Perché comprese questo – il vero punto della storia, come mi disse finalmente al Ritornello: si sopravvive a tanti inferni, e non a un solo paradiso.
A far da sfondo al romanzo c’è Milano, una città che Giorgio Fontana conosce e ama molto, e a cui dedica un ritratto bellissimo. È quasi una protagonista, che assiste alle gioie, ai dolori, agli amori, ai ritorni, agli addii di chi la vive, cambiando il suo aspetto di pari passo con gli stati d’animo dei protagonisti. Dal centro alla periferia. Da una città piena di luce e colori, a un posto grigio, triste, che inghiotte chi lo popola e se lo porta via.
Ecco cos’era Milano. Era una città di addii. Gli amori terminavano regolarmente a ogni ora, nei luoghi più imprevedibili: lo spazio di un abbraccio consumato di fronte al parcheggio di Bisceglie, al limite urbano occidentale. Uno schiaffo di fronte alla Biblioteca Sormani. Uomini e donne la cui sola presenza era ormai diventata intollerabile: si mormoravano addii inferociti in letti di viale Lomellina, di via San Marco, di piazzale Brescia: matrimoni terminati da una firma, o interrotti bruscamente senza altre parole.
Con Un solo paradiso, Giorgio Fontana dimostra di saper parlare anche d’amore, di saper affrontare con uno stile impeccabile e profondo il tema forse più banale e comune del mondo, quello della fine di una storia, analizzandone gli aspetti più controversi, più difficili, più brutti. Tutti, almeno una volta nella vita, hanno subito una perdita e un dolore così forti come solo la fine di un amore può provocare. Quasi tutti ne escono, riprendono in mano ciò che resta di se stessi e continuano la loro esistenza. Poi ci sono quelli che invece non ci riescono: come Alessio e Martina. Che passano da un «dolceamaro contentarsi» a un paradiso andato in frantumi, al cui cospetto non si può far altro che arrendersi. 

Titolo: Un solo paradiso
Autore: Giorgio Fontana
Pagine: 208
Anno di pubblicazione: 2016
Editore: Sellerio
ISBN: 9788838935466 
Prezzo di copertina: 14 €
Acquista su Amazon:
formato cartaceo: Un solo paradiso
formato ebook: Un solo paradiso

lunedì 19 dicembre 2016

Due favole per Natale: Il caso dell'oca di Natale di Arthur Conan Doyle e La volpe nella mangiatoia di P.L. Travers

Pur essendo da sempre una grande appassionata del Natale (di quelle persone che a metà novembre iniziano a scalpitare per accendere lucine, appendere palline, confezionare pacchetti e mangiare panettoni pieni di cioccolato, per intenderci), mi capita molto raramente in questo periodo di leggere libri a tema. Forse perché non ho una programmazione precisa delle mie letture, forse perché qualsiasi libro per me diventa natalizio quando lo si legge sul divano davanti all'albero di Natale acceso, forse per evitare un sovraccarico di spirito natalizio... in ogni caso, romanzi e racconti a tema non ne leggo quasi mai.
Quest'anno, però, ho fatto un'eccezione. Anzi, due. Perché di fronte a certi racconti e a certe bellissime collane, non riesco proprio a resistere.


Il primo racconto è Il caso dell'oca di Natale di Arthur Conan Doyle, pubblicato da Interlinea edizioni con la traduzione di Marina Vaggi, nella bellissima collana Nativitas. Una delle scoperte più belle di Più libri più liberi, aggiungerei: una collana tutta incentrata sul Natale, che raccoglie racconti, lettere, scritti di vario genere di autori italiani e stranieri del passato.
Il mio occhio è caduto subito sul buon vecchio Conan Doyle, perché mi piaceva l'idea di scoprire come passa il suo Natale Sherlock Holmes. 
E lo passa indagando, ovviamente. In questo caso, sul mistero di un'oca dentro al cui becco viene trovata una pietra azzurra di enorme valore, rubata qualche giorno prima alla contessa di Morcar in un lussuoso albergo londinese. Come ci è finita quella pietra preziosa dentro a un'oca? Dopo un po' di indagini, in compagnia del fidato Watson anche durante le feste, Sherlock Holmes risolverà ancora una volta il mistero.

Il secondo racconto è invece La volpe nella mangiatoia di Pamela Lyndon Travers, edito da Sellerio con la traduzione di Orietta Guaita e le belle illustrazioni di Thomas Bewick. In questo caso, ad attirarmi è stato il mio amore per Mary Poppins (che sotto Natale si amplifica sempre un po', in ricordo della tradizione mia e di mio fratello di guardare il film una volta l'anno, proprio in questi giorni) e il ricordo di quanto mi fosse piaciuta Zia Sass, la raccolta di racconti che Sellerio ha pubblicato proprio in questo periodo l'anno passato.
Qui ci troviamo di fronte a una favola natalizia vera e propria, ambientata durante la prima messa di Natale nella chiesa di Saint Paul, a Londra, dopo la fine della guerra. Protagonista è la volpe Reynard che, sebbene osteggiata da tutti gli altri animali, porta a Gesù bambino un dono esclusivo, che nessun altro animale della mangiatoia può portare.

Due favole, più tradizionale quella di P. L. Travers, in perfetto stile giallo (anche se senza omicidi) quella di Conan Doyle, che si leggono in una sera e che, complici le decorazioni, i pacchetti e le mille lucine sull'albero di Natale a far da sfondo alla lettura, riescono a trasmettere perfettamente lo spirito e la magia di questi giorni. Oltre a farti venire venire voglia di leggerne altre, tante, tante altre, di storie natalizie come queste. 


Titolo: Il caso dell'oca di Natale
Autore: Arthur Conan Doyle
Traduttore: Marina Vaggi
Pagine: 40
Editore: Interlinea
Prezzo di copertina: 6€
Acquista su Amazon:
Titolo: La volpe nella mangiatoia
Autore: Pamela Lyndon Travers
Traduttore: Orietta Guaita
Pagine: 100
Editore: Sellerio
Prezzo di copertina: 10€
Acquista su Amazon:

giovedì 10 novembre 2016

ROCCO SCHIAVONE - LA SERIE - il mio parere spassionato sulla prima puntata

Ieri sera su Rai2 è andata in onda la prima puntata di Rocco Schiavone, la serie tv tratta dai romanzi di Antonio Manzini pubblicati da Sellerio, che hanno come protagonista l’omonimo vice questore.
Se mi seguite già da qualche tempo, saprete quanto io sia innamorata di Rocco Schiavone: questo vice questore romano, spedito in punizione in Valle d’Aosta, che proprio non riesce ad adattarsi a quel clima così diverso e si ostina, nonostante il freddo e le condizioni climatiche avverse, ad andare in giro solo con un loden e con le Clarks. È davvero un gran personaggio, quello inventato da Antonio Manzini: un poliziotto un po’ burbero, che adora farsi una canna non appena arriva in ufficio al mattino, che non sempre è così rispettoso della legge che dovrebbe difendere e che, soprattutto, ha un doloroso passato alle spalle, che nei romanzi si scopre pian piano.

Sono innamorata di Rocco Schiavone, vi dicevo, e quindi quando ho saputo che sarebbe andata in onda una serie tv, sono stata molto combattuta tra un incontenibile entusiasmo e la paura che rovinassero tutto (e il fatto che la serie sarebbe stata per la Rai alimentava parecchio questa paura). Poi s’è scoperto che l’avrebbe scritta Antonio Manzini stesso, insieme con Maurizio Careddu, che sarebbe stata girata da Michele Soavi e, soprattutto, che a interpretare Rocco sarebbe stato Marco Giallini. Che è esattamente come io mi ero immaginata Rocco Schiavone leggendo i libri.
E quindi ieri (ma anche i giorni precedenti, in realtà) ho passato la giornata aspettando che arrivassero le 21.10 e che la prima puntata, tratta dal primo romanzo (Pista Nera), incominciasse.
Io, sul divano, mentre aspetto che inizi la puntata (foto di Luca, tutto intento a trollarmi)

Poi, una volta finita, ho scritto qualche commentino veloce su Facebook, per poi aspettare che passasse una notte per schiarirmi bene le idee e parlarvene come si deve. Alcune impressioni, dormendoci su, sono rimaste esattamente le stesse. Qualcuno è peggiorata.

I PERSONAGGI
Come dicevo prima, Marco Giallini È Rocco Schiavone. Ed è di una bravura incredibile. È riuscito a interpretare bene tutte le caratteristiche tipiche di questo personaggio: la sua apparente antipatia e stronzaggine, il suo menefreghismo per le regole, la sua dolcezza in determinati momenti e situazioni.
Ma è Rocco Schiavone anche nel senso che, se non ci fosse lui, la serie sarebbe un disastro. Se li mangia tutti, gli altri personaggi, ridotti, forse per esigenze di copione, forse per inesperienza degli attori che li interpretano, a delle mere macchiette.
Italo Pierron nel libro è ben caratterizzato: un poliziotto un po’ timido ma che con Rocco instaura subito un grande rapporto, nonostante la soggezione iniziale. Nella serie tv, almeno nella puntata di ieri, sembra un po’ uno scemo. Come se non sapesse molto bene che cosa deve fare ( o provasse soggezione per la bravura di Marco Giallini).
E lo stesso si può dire più o meno di tutti gli altri personaggi. I due poliziotti scemi; la Rispoli (di cui lacaratteristica principale emersa ieri è solo ed esclusivamente il bel sedere); Nora, che compare per meno di cinque minuti, mentre nel libro aveva un ruolo notevole; e anche i protagonisti dell’omicidio.
Si salva Isabella Ragonese, bravissima anche lei a rendere davvero commoventi le scene tra Rocco e Marina (soprattutto se avete letto i libri).

Si può basare un’intera serie tv sulla bravura di uno solo dei suoi protagonisti? Secondo me, no. E infatti Marco Giallini mangia tutti gli altri.



LA FEDELTÀ AL LIBRO
Fedele è fedele. Quasi troppo, verrebbe da dire. Perché, per inserire dentro alla puntata tutte le cose che succedono nel libro, molte sono state solo accennate, abbozzate, rendendole a volte incomprensibili, a volte semplicemente inutili.
È ovvio che è impossibile far stare in una trasposizione televisiva di due ore tutto quello che c’è in un libro di 275 pagine. E quindi forse qualcosa avrebbe potuto essere sacrificato… o si fa bene o non si fa, insomma. (Per esempio, ha reso pochissimo la scena del tir che Rocco, Sebastiano e Italo fermano una sera per smerciare quello che ci dovrebbe essere dentro… e quella nel libro era una scena importante, anche per capire meglio il carattere di Rocco).
Anche lo svolgimento della trama principale (di cui non vi dico nulla, tranquilli, così se non avete visto la serie o letto il libro non avete problemi) è stato un po’ troppo frettoloso e, secondo me, non del tutto comprensibile. Ho capito cosa è successo, ho capito chi è stato, ma in tv viene reso talmente tanto in fretta che arrivi alla fine e pensi “aspetta, siamo già qui?”.
E poi, come dicevo prima, c’è il discorso personaggi. Anche loro solo abbozzati (con alcuni riferimenti incomprensibili o precisati solo con una frasetta in mezzo alle altre) e, in qualche modo, rovinati.

LA REGIA, I DETTAGLI E ALTRE COSE BUFFE
L’atmosfera valdostana del libro viene ricreata perfettamente anche nella serie. Il problema, però, è che ci sono molti dettagli e molte scene un pochino strane, e a volte anche ridicole.
Tipo il momento in cui Rocco, Italo e il maestro di sci sono sulla motoslitta, che si vede lontano un miglio essere finta (ma ci può stare, per carità) e, soprattutto, fatta male.
Oppure il fatto che Rocco in una scena abbia la barba e in quella immediatamente dopo non ce l’abbia più. E una cosa simile succede anche con le scarpe (scende dall’auto con gli scarponcini e sale sul tetto con le Clarks) e con la neve nei dintorni (vi assicuro che quando nevica in Valle d'Aosta come nelle prime scene della puntata, difficilmente dopo due giorni la neve è andata via tutta).
E poi, ma qui forse è colpa mia, a volte non riuscivo a capire che cosa dicessero i vari personaggi. (Per non parlare della questione accento valdostano, completamente ignorato).


IL MIO GIUDIZIO FINALE
Marco Giallini vale tutta la serie. Lui e le scene con Marina.
Senza di lui, temo che farebbe un pochino pena. Lui, con la sua eccezionale bravura, con il suo essere davvero Rocco Schiavone, riesce a salvare quasi sempre il tutto, anche se a volte la noia e il piattume prendono il sopravvento.
Non so se la percezione cambia se si ha letto il libro oppure no. Il mio compagno, seduto accanto a me per tutta la serata (quanta pazienza che hai, amore!), il libro non l’ha letto e la serie lo ha convinto ancora meno di quanto non abbia convinto me.
E quindi non lo so. Sicuramente guarderò anche le altre puntate (venerdì 11 c'è quella tratta da La costola di Adamo, uno dei miei preferiti della serie di Manzini), un po' perché magari migliorano, un po' perché rimane sempre Rocco Schiavone. E sicuramente da una fiction Rai non ci si poteva forse aspettare molto di più.

Però, ecco, i libri ancora una volta sono davvero un’altra cosa.

martedì 19 luglio 2016

7-7-2007 - Antonio Manzini

Aspettavo il nuovo romanzo di Antonio Manzini con protagonista il vicequestore Rocco Schiavone fin da quando ho girato l’ultima pagina di quello precedente, Era di maggio, più o meno un anno fa.

L’incredibile differenza che esiste tra il tempo che ci va a scrivere un libro e quello che ci mette un lettore per leggerlo è una di quelle cose che più di tutte turba la mia vita di lettrice. Tu aspetti un anno, ma anche di più in altri casi, per avere tra le mani qualcosa che poi finisci in pochi giorni, ma anche di meno, e via, riparte l'attesa.

7-7-2007, da poco pubblicato da Sellerio, è un esempio lampante. Rocco Schiavone mi mancava terribilmente, al punto da correre in libreria a prendere questa sua nuova avventura praticamente lo stesso giorno in cui è uscita.
E, all'attesa dovuta al mio personalissimo innamoramento per questo burbero poliziotto e per lo stile di Manzini, si aggiungeva quella per le spiegazioni che sapevo già che in questo libro sarebbero arrivate.

7-7-2007 inizia in Valle d’Aosta, pochi giorni dopo la fine del romanzo precedente. C’è un Rocco Schiavone incazzato e tormentato, da quanto successo nel romanzo precedente e, soprattutto, dal suo passato e dal suo amore per la moglie Marina. Inizia in Valle d’Aosta, dicevamo, e poi si sposta a Roma, all’estate del 2007 appunto, quella in cui tutto è incominciato. È più giovane, Rocco, ma è sempre un po’ burbero, sempre un po’ al limite tra il rispetto della legge che la divisa gli impone e quello che invece gli fa fare la sua ragione. Ed è innamorato, follemente, di sua moglie, che però questa suo scarso rispetto per le regole non sa se riesce ad accettarlo.
Di sfondo c’è un’indagine di droga e spaccio, una cosa all'apparenza banale, ma che segnerà per sempre la sua vita.

Della trama non vi dico nient’altro, anche perché chi conosce Rocco Schiavone sa benissimo che cosa scoprirà in questo nuovo libro e chi invece ancora non lo conosce sarebbe meglio non partisse da qui.
Quello che posso dire però è che una cotta letteraria così forte non me la prendevo da un bel po’. Forse dai tempi dell’avvocato Guerrieri di Gianrico Carofiglio, verso cui però la passione è scemata in fretta. Rocco Schiavone è un figo, non saprei in che altro modo dirlo. Nel suo modo di essere, così burbero, a volte persino stronzo, eppure con una certa sua etica e una sua dolcezza nascosta, che riserva davvero solo a chi se la merita.

Antonio Manzini è riuscito a creare un grandissimo personaggio e a non rovinarlo nemmeno dopo cinque romanzi. Certo, dopo Era di maggio qualche dubbio ho iniziato ad averlo, ma in 7-7-2007 si riprende alla stragrande, creando un giallo davvero ben riuscito (e facendomi pure versare qualche lacrimuccia).

L'unico vero problema è che ora bisogna aspettare, di nuovo, il prossimo.


Titolo: 7-7-2007
Autore: Antonio Manzini
Pagine: 370
Editore: Sellerio
Anno: 2016
Acquista su Amazon:
formato brossura: 7-7-2007

venerdì 29 aprile 2016

LA BATTAGLIA NAVALE - Marco Malvaldi

- Dammi retta, parti, vai in vacanza e levati dai coglioni per una settimanetta. Qui non succede niente - disse Aldo, in tono sincero, calmo e rassicurante.
Dimenticandosi una cosa.
Che, come detto all'inizio del capitolo, siamo a Pineta.
Un posto dove ammazzano una persona l'anno.



Voi non immaginate neanche quanto sia difficile per me scrivere questa recensione. Ho letto tutti i romanzi pubblicati da Malvaldi. Mi fiondo in libreria appena escono e li inizio il prima possibile (a discapito di tutti gli altri che sono in attesa da più tempo). Malvaldi mi piace tanto anche come persona, e lo dimostra il fatto che io vada a ogni sua presentazione che fa da queste parti. Amo la sua intelligente ironia, il suo modo di raccontare e il suo rapportarsi con gli altri. 

Quando ho saputo dell'uscita di La battaglia navale, nuova avventura di Massimo e i vecchietti del Barlume, non vedevo davvero l'ora di iniziarlo e di ritornare a Pineta, quel paese di mare che ha un tasso di mortalità per omicidi decisamente superiore alla media. Per cui sono corsa a comprarlo, ma avevo un libro da finire, quindi l'ho fatto leggere prima a qualcun altro. Dalla cui faccia e dalle cui reazioni già mi ero resa conto che c'era qualcosa che non andava.
E, quando finalmente l'ho iniziato anche io, ho capito il perché di quelle facce e di quelle reazioni.

La trama è più o meno sempre la stessa, cambia solo il morto (che è una donna, in questo caso) e il movente. C'è sempre Massimo il barrista, che ora ha anche un ristorante insieme ad Aldo, che indaga con l'aiuto dei quattro vecchietti (che sono invecchiati proprio tanto). Un aiuto che la nuova vicequestore Alice Martelli sembra apprezzare molto di più rispetto al precedente. Tra indagini un po' sgangherate e soprattutto tante riflessioni, Massimo come sempre arriverà alla soluzione del caso.

Il grosso, grossissimo problema di La battaglia navale è che non fa ridere. O almeno, a me non ha fatto ridere praticamente mai. E la forza dei gialli del Barlume sta tutto in quello, nelle risate e nelle buffe situazioni che il quartetto di vecchini e Massimo creano in ogni indagine che affrontano. Se quelle risate vengono meno, il romanzo non decolla, rimane piatto e quasi noioso da leggere.
Malvaldi scrive sicuramente bene, e sa benissimo di farlo, ma forse qui si è fatto prendere un po' la mano, creando una storia troppo labile, troppo sottile, che non è riuscito a tenere in piedi con i personaggi. I vecchietti sì, sono sempre fenomenali, ma forse un po' meno del solito. Tiziana e Marchino ci sono, ma è come se non ci fossero. E Massimo è troppo preso dalla sua bella vicequestora, per riuscire a dare il meglio di sé.

Uno dei grossi problemi dei libri in serie è questo: l'impossibilità di mantenere sempre nel tempo lo stesso livello. E quindi sì, si va avanti a scrivere, perché lo chiedono i lettori, lo chiedono gli editori o per andare sul sicuro, ma il rischio che il meccanismo si rompa è molto, molto alto. E forse a un certo punto, se non si ha più niente da dire, sarebbe giusto anche lasciare andare i personaggi, le storie, il bar e Pineta.

Non lo so se la mia delusione di fronte a La battaglia navale sia un problema di aspettative altissime. In parte forse sì. Ma avendo letto e amato, in misura diversa certo, tutti i romanzi di Malvaldi, queste aspettative è stato normale che si creassero. E poi so che altri, che per Malvaldi hanno una passione meno marcata della mia, hanno provato la stessa cosa (vi rimando, per esempio, alla bella recensione di La libridinosa). Quindi sì, è colpa delle aspettative, ma forse è colpa anche del libro.

Che si legge bene, è scorrevole e tutto quanto, ma non si avvicina nemmeno lontanamente a ciò a cui Malvaldi ci (mi) aveva abituato.

Titolo: La battaglia navale
Autore: Marco Malvaldi
Pagine: 179
Anno di pubblicazione: 2016
Editore: Sellerio
Acquista su Amazon:
formato brossura: La battaglia navale
formato ebook: La battaglia navale

giovedì 31 marzo 2016

I bookblog di marzo si vestono di nuovi colori... e di tanti libri!

E siamo arrivati anche alla fine di marzo. Finalmente c'è l'ora legale, le piante sono piene di fiori, il sole quando c'è è già bello caldo e permette le prime letture sul balcone, e questo fine settimana c'è il Book Pride a Milano, l'evento che dà un po' il via alla mia stagione di fiere del libro.

Ma pensiamo al mese che sta finendo. Un mese di letture, come sempre, e anche di qualche incontro. E partiamo subito da quello che da gennaio è diventato un appuntamento mensile fisso e che lo sarà fino a giugno, ovvero Una valigia di libri. Nell'incontro di questo mese, che si è tenuto il 19 marzo, protagonista era la letteratura centro e sud americana. È stato proprio un bell'incontro, ricco di suggerimenti (tantissimi suggerimenti, virtuali e dal vivo) e di spunti di riflessione, ma anche di chiacchiere. Non vedo davvero l'ora che arrivi il 16 aprile per il nuovo appuntamento (destinazione: Asia).

Pochi giorni dopo, il 22, sono invece andata con la mia amica Barbara alla presentazione del nuovo romanzo di Jonathan Coe, Numero undici, alla Scuola Holden di Torino. Avevo già assistito in passato a un incontro con questo autore, ad Alba durante la sagra del tartufo, e avevo proprio voglia di risentirlo. Che dire? Un bellissimo incontro e, soprattutto, una bellissima persona lui. Ci ho anche chiacchierato un po' durante il firmacopie ed è stato proprio emozionante.

Segnalo poi anche la puntata di questo mese di Casa Rampante, Tamponamenti, e il fatto che in questi giorni esce terzo libro tradotto da me, La guerra del marketing (non so se mi abituerò mai all'emozione che si prova vedendo il proprio nome all'interno di un libro).

E ora passiamo ai libri. Un mese di letture e riletture, otto in tutto, con qualche grande scoperta e qualche piccola delusione.
Le letture del mese meno La parte divertente, che ho restituito prima di fare la foto

BENEDIZIONE - Kent Haruf: la prima lettura del mese è stata una grande, grandissima lettura. Pubblicato in Italia da NN editore, con la traduzione di Fabio Cremonesi, Benedizione di Kent Haruf è un libro semplicissimo e dolorosissimo. Assolutamente da leggere.

LA PARTE DIVERTENTE - Sam Lipsyte: una raccolta di racconti, per amanti del genere, che più che divertenti definirei grotteschi... come la società che criticano. Pubblicato da minimum fax con la traduzione di Anna Mioni.

SANGUE NEGLI OCCHI - Lina Meruane: edito da laNuovafrontiera, con la traduzione di Luca Mariotti, questo libro è stata una grande rivelazione di questo mese. La storia è quella di una donna che diventa cieca e fatica ad abituarsi a questa condizione. Incredibile soprattutto lo stile dell'autrice.

L'ERA DI CUPIDIX - Paolo Pasi: le edizioni Spartaco, e Paolo Pasi in particolare, sono per me garanzia di editoria italiana indipendente di qualità. E L'era di Cupidix, che racconta di un mondo dove i sentimenti vengono regolati da pastiglie, ne è l'ennesimo esempio.

SCENDE LA NOTTE TROPICALE di Manuel  Puig: la mia prima rilettura dopo anni che non lo facevo. Pubblicato da Sellerio, con la traduzione di Angelo Morino, Scende la notte tropicale di Manuel Puig è un libro bellissimo che ha segnato i miei anni universitari. La storia di due anziane sorelle, raccontata solo tramite dialoghi e lettere.

CAFÉ JULIEN - Dawn Powell: eccola qua, la delusione del mese. Da questo libro, edito da Fazi e tradotto da Silvia Castoldi, mi aspettavo davvero tantissimo. Forse troppo, al punto da aver un po' condizionato la lettura, che si è rivelata lunga e faticosa. Peccato.

NUMERO UNDICI - Jonathan Coe: eh niente, il Jonathan Coe che tutti i suoi fan stavano (ok, stavamo!) aspettando è davvero tornato. Pubblicato sempre da Feltrinelli, con la traduzione di Mariagiulia Castagnone.

GIRL RUNNER - Carrie Snyder: pubblicato da Sonzogno con la traduzione di Gioia Guerzoni, questo libro è stata la seconda grande rivelazione di questo mese. Per fortuna non mi sono fermata al titolo e alla copertina, ma ho letto anche i commenti della critica e ho letto il libro. Che si è rivelato molto intenso e coinvolgente. Anche se non amate correre.

Il vostro marzo come è stato? Quali libri avete letto?

mercoledì 16 marzo 2016

Rileggendo... SCENDE LA NOTTE TROPICALE di Manuel Puig

Di solito deve passare parecchio tempo prima che io rilegga un libro. Non tanto perché non mi andrebbe o perché ho una memoria di ferro che mi consente di ricordami ogni singolo dettaglio anche dopo anni, no, semplicemente per una questione di tempo. Ci sono tanti libri nuovi che devo ancora leggere, che difficilmente riesco a prenderne in mano uno che già ho letto. Al massimo lo sfoglio, di tanto in tanto. Vado a cercarmi una citazione o un passo che mi ricordo che mi erano piaciuti, ma nulla di più.
In passato mi è capitato di rileggere, certo. Cent’anni di solitudine almeno quattro volte, tra lingua originale e traduzione. 1984  e Il Grande Gatsby, anche. E pure gli Harry Potter, sempre usando la scusa della lingua.
È quindi molto strano che io sia qui a parlarvi di un libro che ho già letto. E probabilmente non fosse stato per il nuovo appuntamento di Una valigia di libri dedicato alla narrativa Sud Americana in programma questo sabato, questa rilettura l’avrei rimandata ancora a lungo.

Manuel Puig è forse lo scrittore che più di tutti ha segnato i miei anni di università. Non conoscevo questo autore argentino prima di allora, prima di frequentare i corsi di lingua e letteratura ispano-americana tenuti da Vittoria Martinetto e Angelo Morino, scomparso prematuramente nel 2007, come esami a scelta (se mi era possibile, infilavo ogni anno un esame di ispano-americano nel mio piano di studi), e probabilmente non li avrei mai scoperti (o forse sì, ma non è che di Manuel Puig venga nominato così spesso quando si parla di letteratura Sud Americana).

L’ho conosciuto durante quei corsi, vi dicevo, grazie al suo ultimo traduttore, Angelo Morino, e al confronto che facevamo tra la vecchia traduzione di Enrico Cicogna e la nuova edizione di Una frase, un rigo appena. È stato lì che ho imparato quanto davvero possa invecchiare la lingua e quanto sia necessario ritradurre libri già tradotti in passato.
In particolare ci eravamo concentrati su tre suoi libri: Una frase un rigo appena, appunto (in originale Boquitas Pintadas, e di cosa era successo al titolo vi avevo parlato qui), Il bacio della donna ragno e Scende la notte tropicale, ultimo romanzo di Manuel Puig, pubblicato due anni prima che morisse a seguito delle complicazioni per un banale intervento (che ha voluto fare in una piccola clinica in un piccolo paese, anziché in città, per non allontanarsi troppo dalla madre).


Ognuno di questi tre libri meriterebbe un post a sé, ma oggi vi parlerò solo di Scende la notte tropicale, perché è quello che ho riletto in questi giorni. Ho scelto di rileggere questo forse perché degli altri due avevo ben in mente sia la trama sia le sensazioni, bellissime, che mi avevano lasciato. Di questo invece, non so perché, ricordo solo che lo avevo adorato. Ok, ricordavo anche che aveva due anziane sorelle come protagoniste, ma cosa succedeva di preciso no, mi era completamente passato di mente.




Iniziamo subito con il dire che Scende la notte tropicale è un libro stupendo. Un libro sul finire della vita e su come affrontare quella marea di ricordi che quando si è anziani fanno a gara per occuparci la mente. Protagoniste sono due sorelle, Lucy e Nidia, entrambe argentine, che ora vivono insieme a Rio de Janeiro. Lucy si è trasferita lì anni prima, per seguire il figlio e il suo lavoro. Nidia è solo in villeggiatura, per cercare di riprendersi dalla recente morte della figlia. Le due anziane si distraggono come possono, lasciandosi coinvolgere dalle avventure amorose della vicina di casa. Finchè poi qualcosa nella loro vita che vorrebbero solo la tranquillità degli ultimi anni cambia di nuovo.
I bei ricordi dovrebbero aiutare la gente a vivere, non rattristarla
Al di là della trama, la cosa che più colpisce di questo libro è lo stile di Manuel Puig. La narrazione nella prima parte procede tutta semplicemente con i dialoghi tra le due sorelle. Dai loro racconti, dalle loro osservazioni, dalle impressioni che si scambiano, scopriamo non solo il loro passato, ma soprattutto il loro carattere. Più sognatrice Lucy, più cinica e pragmatica Nidia. Nella seconda, invece, la narrazione è affidata a delle lettere, che le sorelle e i vari protagonisti che ruotano intorno a loro si scambiano, e a dei verbali di polizia. 
La cosa bella è che tutto funziona perfettamente e crea un grandissimo romanzo (come funziona anche in Una frase un rigo appena, in cui questi espedienti narrativi sono elevati all'ennesima potenza... pagine di diario, pagine di giornale, annunci mortuari, pubblicità, canzoni, verbali, mai una parola diretta dell'autore. E anche in Il bacio della donna ragno, in cui i dialoghi sono inframmezzati dai film).

Non credo che Manuel Puig potesse immaginare che Scende la notte tropicale sarebbe stato il suo ultimo romanzo. Eppure, quel senso di vita che si spegne, di presente che vive solo attraverso i ricordi ma al tempo stesso di voglia di vivere ancora (appassionandosi alle storie degli altri), di notte che scende a conclusione del giorno, suona quasi come un commiato.
Peccato che spesso Lucy avesse la sensazione che i bei momenti vissuti non fossero toccati a lei, che li avesse vissuti un'altra.Questo è terribile, ma c'è un'altra cosa ancora peggiore, ed è dimenticarsi completamente di quello che è stato bello e ricordare solo quello che è stato brutto. Allora sì che bisognerebbe uscire di corsa nei campi come fa la povera Wilma e, se si è chiusi un appartamento e fuori piove, bisogna mettersi in fretta a fare qualcosa di utile, se una ce la fa. Se una può ancora rendersi utile. Un lavoro di cucito o un lavoro a maglia, o quello che capita tra le mani. Questa è la salvezza.
Ma per un'analisi più approfondita sul significato del libro, anche in relazione alle opere precedenti dell'autore, vi lascio leggere la nota in fondo al libro di Angelo Morino, che oltre a essere stato un grande promotore di Manuel Puig in Italia, questo libro l'ha anche tradotto. Scoprirete del rapporto molto stretto dell'autore con la madre e di quell'idea di ottimismo che, nonostante tutto, pervade tutto il libro.

Quel che da lettrice vi posso dire è che Scende la notte tropicale è un libro avvolto da un alone di malinconia, di disincanto, ma al tempo stesso di sogni e di speranze, che non dovrebbero morire a nessuna età. Un libro all'apparenza semplice, per il suo stile, per questi dialoghi tra le due anziane protagoniste, ma che racchiude qualcosa di estremamente profondo. La vita e la sua fine.

Da leggere, assolutamente! Prima che finisca nel triste dimenticatoio del fuori catalogo...



Titolo: Scende la notte tropicale
Autore: Manuel Puig
Traduttore: Angelo Morino
Pagine: 279
Editore: Sellerio editore
Acquista su Amazon:
formato brossura: Scende la notte tropicale