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giovedì 21 dicembre 2017

MAPOCHO - Nona Fernández

Il passato è la chiave. È un libro aperto con tutte le risposte. Basta guardarlo, scorrere le pagine e aprire gli occhi con attenzione per rendersene conto. Il passato è una zavorra di cui non è possibile liberarsi. Meglio adottarlo, dargli un nome, addomesticarlo e tenerlo docile sottobraccio, altrimenti ci perseguiterà come un fantasma nei momenti più inaspettati. Ci torturerà in forma di odore, di musica, a volte di sogno.




Il Mapocho è il fiume che attraversa Santiago del Cile. Lo attraversava in passato e lo attraversa ancora oggi. Ha visto tutti i cambiamenti di quella città. Ha visto la libertà e ha visto susseguirsi una dittatura dopo l’altra. Ha accolto la vita, ma anche tanti cadaveri. Dal Mapocho chi ha potuto è fuggito, ma qualcuno poi ci è anche ritornato.

Non è un caso, quindi, che proprio Mapocho sia il titolo del romanzo d’esordio della scrittrice cilena Nona Fernández, pubblicato in Italia da gran vía edizioni con la traduzione di Stefania Marinoni.

Protagonista è la Bionda, fuggita da Santiago del Cile quando era una bambina, insieme alla madre e al fratello, l’Indio, dopo la sparizione del padre. Ora è cresciuta e si trova da sola, su qualche terra che affaccia sul Mediterraneo, con l’urna contenente le ceneri della madre morta in un incidente d’auto. Guidava L’Indio e da allora è sparito anche lui. Finché un giorno la Bionda non riceve una telefonata dal fratello che le chiede di tornare da lui, a Santiago del Cile. È lì che tutto è iniziato ed è lì che tutto deve finire. La Bionda allora parte in cerca del fratello, ma anche del loro passato, del ricordo di sua madre, di suo padre e della storia dell’intero paese. Un viaggio doloroso tra i segreti, tra il reale e l’immaginario, attraverso cui la Bionda ripercorre tutta la sua vita, ma anche tutte le ferite di un paese per anni flagellato da dittature e sparizioni.

È davvero difficile fare un riassunto della trama di Mapocho. Si rischia di non farsi capire, di sminuirne il contenuto e, soprattutto, la sua forza. Bisogna leggerlo e lasciarsi andare. Perdersi tra le parole della Bionda, nella storia confusa della sua famiglia, nel suo rapporto con l’Indio e nella sua ricerca di verità ora che manca poco alla sua fine. Bisogna andare sulle sponde del Mapocho e guardare che cosa contengono le sue acque: quanta merda e quanto sangue, tutta la merda e il sangue che il paese ha dovuto sopportare negli anni. Bisogna fare un giro nel Quartiere e fermarsi a casa di Fausto a consultare i suoi libri di storia: quelli che ha scritto su commissione e in cui ha modificato la realtà. 

Intrighi, racconti di fantasia, storie nate male, trame mal costruite, finzioni, tranelli, inganni, falsità. Menzogne. Quante menzogne. Le menzogne si costruiscono con le parole. Escono da una bocca indecente ed essendo fatte di lettere prendono vita nel momento in cui vengono pronunciate. Le menzogne hanno le ali e volano come un avvoltoio, girano sulla carogna e si nutrono di quelli che hanno anima, di quelli che non sanno, che non vedono o non vogliono vedere. Le menzogne ingannano. Si fissano per iscritto, seducono dalle insegne al neon, nelle vetrine colorate, nelle biblioteche, nelle alte torri dai vetri oscurati. È così facile viverci dentro e lasciarsi avvolgere dai loro incantesimi. Le menzogne respirano, puzzano, gridano, vivono come un topo del Mapocho, nutrendosi di merda, contaminando, propagando la malattia, mandando tutto in rovina, creando altre menzogne, aggiungendo falsità a falsità, ingarbugliando, confondendo, complicando.

Bisogna andare in uno stadio a guardare una partita di calcio, su un tetto a osservare la gente passare per strada in cerca di qualcuno, o in un cimitero, a pregare per tanti, troppi morti.

Lo stile di Nona Fernٌández è ipnotico. Delicato e violento al tempo stesso. A volte ti sembra di non capire cosa ti stia dicendo, altre di capirlo fin troppo bene. A volte con una parola ti dà un pugno, altre una carezza che fa scendere una lacrima. Si è sempre un po’ in bilico, leggendo, proprio come lo sono tutti i protagonisti della storia: sospesi tra verità e menzogna, tra vita e morte.

Non stupisce che questa scrittrice stia diventando un punto di riferimento per la narrativa cilena contemporanea, perché nei suoi libri c’è forza e denuncia (di suo avevo già letto e amato Chilean electric, edito da edicolas ediciones e tradotto da Rocco D’Alessandro), ma anche soprattutto un racconto realistico di quella che era la vita in Cile negli anni delle dittature e che spesso nei libri di storia non si trova.
Ma il Mapocho, per quanta acqua scorra, non la può dimenticare.



TITOLO: Mapocho
AUTORE: Nona Fernández
TRADUTTORE: Stefania Marinoni
PAGINE: 210
ANNO: 2017
EDITORE: Gran vía
ACQUISTA SU AMAZON
formato cartaceo:Mapocho

martedì 31 ottobre 2017

L'ANGOLO DEL MONDO - Mylene Fernández Pintado

Non avrei mai pensato di sentirti dire che l'amore non è sufficiente. Ci aiuta a sconfiggere la guerra, la cattiveria, l'avidità, l'infedeltà, l'invidia. Ci fa credere in noi stessi e negli altri, in qualcosa di meglio per tutti. In un mondo migliore.


Restare o andarsene?
Tutti, almeno una volta nella vita, ci siamo trovati o ci troveremo di fronte a questo bivio. Può essere per motivi affettivi, lavorativi o per mille altre ragioni. A volte è una decisione semplicissima da prendere, altre toglie il sonno. Spesso ci va coraggio in entrambi i casi, oltre a una buona dose di auto-convincimento su cosa sia meglio e cosa sia più giusto. Così come in entrambi i casi c’è paura. A volte ci si pente. Altre ci si guarda indietro pensando “ma perché non l’ho fatto prima”.

Tutto questo si amplifica, ovviamente, se si vive in paesi da cui è considerato normale andarsene perché sembra che da offrire a chi ci vive non abbiano nulla.
Ed è proprio di fronte a questo dubbio che si ritrova Marian, la protagonista di L’angolo del mondo, romanzo di Mylene Fernández Pintado, tradotto per marcos y marcos da Laura Mariottini e Alessandro Oricchio.

Marian ha trentasette anni, vive all’Avana e insegna, con passione ma senza troppi slanci, all'università. Sua madre è morta da poco e le ha lasciato in eredità un’auto sgangherata, una vecchia casa, qualche porcellana e oggetto antico che Marian ogni tanto vende, e un po’ di senso di colpa, per averle fatto credere fino all'ultimo che stesse scrivendo un romanzo che avrebbe dato una svolta alla sua vita.

Non sono coraggiosa. Per questo non ho mai scritto niente se non gli appunti delle lezioni. Non saprei dare una risposta memorabile se qualcuno mi chiedesse dei miei progetti futuri, della letteratura che si produce dentro e fuori dall'Isola, o di come faccio a scrivere con tutti questi impegni.
Non ho nessun impegno oltre al sacerdozio docente. Non ho animali, né piante. Ho dei libri, che sopravviverebbero anche se non li spolverassi, ho una stanza tutta mia  e tanto tempo a disposizione: le condizioni ideali per essere condannata a diventare una magnifica scrittrice ancor prima di aver scritto una sola frase.

Marian ha anche un ex fidanzato, Marcos, da cui si è presa una pausa di riflessione che consiste nell’andare a letto insieme di tanto in tanto; e un’amica artista, Lorena, sposata in terze nozze con un uomo molto saggio.
Lei sembra stare bene in questa sua vita grigia e senza slanci, quasi adagiata in una situazione che non sente di dover cambiare. Un giorno, però, la responsabile del dipartimento per cui lavora le offre un diversivo: scrivere la prefazione di un libro di un giovane scrittore, Daniel Arco, che sta facendo molto parlare di sé. Marian accetta l’incarico, per vedere d’improvviso tutta la sua vita e le sue certezze stravolte dall'entusiasmo, dalle ambizioni e dai sogni di Daniel, con cui inizia una travolgente storia d’amore, che la porterà a riflettere su cosa fare della sua vita.
Restare a casa, a Cuba, o andarsene, sapendo che casa e Cuba mancheranno sempre?

BiDi mi racconta parecchie cose dell'esilio, un cliché in quest'isola talmente affacciata sul mare che l'istinto di attraversarlo è quasi un'epidemia incontrollabile. I cliché, però, non sono altro che verità ripetute.
Chi se ne va, si dice, sente sempre la mancanza di qualcosa. Forse degli altri. Non conta quanti nuovi amici ti farai. Ti mancherà sempre qualcuno. Anche nel resto del mondo il cielo è blu, fa caldo, ci sono il mare e dei begli acquazzoni. Però a quello spazio manca il tempo. Quello che continua a scorrere senza di te, che scrosta le pareti, sbiadisce le fotografie e sotterra i vecchietti della casa all'angolo.

In L’angolo del mondo Mylene Fernández Pintado riesce a concentrare tutti i dubbi e le paure di chi si ritrova a vivere in un luogo che sembra avere poche prospettive, ma che al tempo stesso non verrebbe abbandonare, ma anche tutte le incomprensioni che possono nascere tra due persone che si amano ma che, al tempo stesso, vogliono due cose diverse e non riescono a capirsi l’un l’altro.

Marian ha un lavoro che le piace, ha una casa, ha degli amici e ama vedere il mare. Ama l’Avana e  Cuba. E ama Daniel, anche se non capisce perché se ne voglia andare. Daniel, invece, è più giovane e non vede (o non vuole vedere) prospettive e non capisce come possa la donna che ama accontentarsi.

Abbiamo fatto l'amore. Daniel, come se non potesse vivere senza di me in Spagna né in nessun altro luogo della terra. Io, come se dovessi ricordargli che il nostro mondo era bello e sicuro. Lui, credevo che lo avrei accompagnato. Io, che non se ne sarebbe andato da nessuna parte.

E, soprattutto, questo libro offre uno spaccato della società cubana e delle varie rivoluzioni che nel corso degli anni in essa si sono sviluppate. L'arrivo degli americani e poi la loro fuga. La povertà di molti e la ricchezza di pochi. Le scarse prospettive, ma al tempo stesso le difficoltà ad ambientarsi lontano da lì e il desiderio, di molti, di tornare. La frustrazione e la paralisi, ma anche la capacità, non di tutti, di riuscire a vedere del buono e del bello anche dove per molti sembra impossibile.

Da amante della letteratura sudamericana, sempre in cerca di autori contemporanei per raccontare le vicende caraibiche del passato e del presente, devo dire che quella di L'angolo del mondo è stata proprio una bella lettura. Ho amato molto lo stile dell'autrice e il modo in cui ha raccontato il personaggio Marian: una donna che si pone domande e si tormenta di dubbi e incertezze, che si lascia coinvolgere e trasportare dall'amore, ma senza mai mettere il desiderio degli altri di fronte al suo, per quanto possa essere doloroso lasciar andare chi non vuole rimanere. O lasciare indietro chi, invece, è deciso a restare.


Titolo: L'angolo del mondo
Autore: Mylene Fernández Pintado
Traduttore: Laura Mariottini e Alessandro Oricchio
Pagine: 221
Anno di pubblicazione: 2017
Editore: marcos y marcos
Prezzo di copertina: 16 €
Acquista su Amazon:
formato cartaceo:L'angolo del mondo

giovedì 20 luglio 2017

Ritornare a Macondo: ovvero leggere e rileggere Cent'anni di solitudine di Gabriel García Márquez

Sul finire del maggio del 1967, la casa editrice argentina Editorial Sudamericana pubblicò per la prima volta Cien años de soledad dello scrittore colombiano Gabriel García Márquez.
Lo scrittore, che aveva iniziato la sua carriera come giornalista, carriera che non abbandonò mai per tutto il corso della sua vita, aveva già pubblicato tre romanzi (La hojarasca, El coronel no tiene quien le escriba e La mala hora, ovvero Foglie morte, Nessuno scrive al colonnello e La mala ora, tradotti in italiano però solo più tardi), ma la sua consacrazione, soprattutto a livello internazionale, arrivò proprio con la storia della famiglia Buendía

Da allora sono passati cinquant'anni. Il libro è stato letto da milioni di persone, è stato tradotto in più di trenta lingue, è considerato da molti uno dei capolavori letterari del XX secolo e ha svolto un ruolo fondamentale per l'assegnazione a Gabriel García Márquez del premio Nobel per la letteratura del 1982.

La prima traduzione italiana di Cent'anni di solitudine risale all'anno successivo all'uscita, il 1968. A portare il libro in Italia è stato l’editore Feltrinelli e, soprattutto, il traduttore Enrico Cicogna, molto attivo in quegli anni nella scoperta di alcuni autori sudamericani (oltre a García Márquez, Mario Vargas Llosa e Manuel Puig).

Quarantanove anni per una traduzione sono indubbiamente tanti e la necessità di una revisione abbastanza evidente. Oltre all'evoluzione della lingua e di alcune regole grammaticali e ortografiche, spesso in traduzioni così vecchie si trovano anche fraintendimenti di significato e veri e propri errori (non bisogna dimenticare che i mezzi a disposizione dei traduttori un tempo erano molto limitati).
Per festeggiare questo cinquantesimo compleanno, quindi, Mondadori (nuovo editore dei romanzi di Garcí Márquez a partire dall’inizio degli anni ‘80) ha deciso di regalare a Cent’anni di solitudine e a tutta la famiglia Buendía una nuova traduzione, a opera di Ilide Carmignani.



Questa nuova traduzione, come la stessa traduttrice spiega nella nota finale al libro, si basa sull'edizione commemorativa data alle stampe dalla Real Academia Española e dalla Asociación de Academias de Lengua Española nel 2007, in occasione degli ottant'anni dello scrittore. Una versione considerata “definitiva”, che scioglieva alcuni dubbi interpretativi e sistemava errori, su cui aveva lavorato lo stesso García Márquez:
“Nel 2007, in occasione dell’ottantesimo compleanno di Gabriel García Márquez e dei quarant’anni dalla prima pubblicazione, la Real Academia Española e dalla Asociación de Academias de Lengua Española hanno dato alle stampe un’edizione commemorativa che fissa definitivamente il testo: attraverso un minuzioso lavoro di collazione delle edizioni precedenti, realizzato con la supervisione dell’autore, sono state risolte espressioni dubbie ed emendati errori; l’autore stesso ha poi effettuato interventi di natura stilistica relativi al lessico, alla costruzione sintattica e alla punteggiatura. È su questa edizione rivista e corretta che è stata realizzata la presente traduzione”.
Nella stessa nota, ma anche in un bell'articolo di confronto scritto da Ida Bozzi e pubblicato su laLettura del 25 giugno 2017, Ilide Carmignani spiega l’approccio seguito da Cicogna durante la traduzione e quali modifiche ha apportato invece lei affrontando di nuovo questo testo, alla luce anche dei nuovi mezzi a disposizione.
In quasi cinquant’anni la lingua è italiana è molto cambiata, così come sono cambiate le strategie di mediazione linguistico-culturale, oggi più rispettose dell’alterità dei testi. Per aiutare i lettori, che all’epoca viaggiavano ben poco, si usava ad esempio addomesticare i culturemi, e infatti la traduzione di Cicogna trasforma il sanchoco, piatto tipico colombiano a base di verdure locali, in un generico stufato. […] Strettamente legata allo “specchio dei tempi” è infine la tendenza esotizzante della traduzione di Cicogna, che esalta con forza la componente magica a scapito di quella realistica: sinonimi rari e desueti si sovrappongono al traducente naturale italiano, per cui medanos, secche, viene reso con sirti, oppure al contrario si scelgono soluzioni iperletterali ricalcando il suo dei termini spagnolo a detrimento del senso.

Nel corso della mia vita, ho letto questo romanzo diverse volte, in tre edizioni differenti:


La prima volta nella traduzione di Enrico Cicogna in un vecchio volume dalle pagine ingiallite e la rilegatura ormai distrutta, dopo essere passato tra le mani di mio padre, mia sorella e mio fratello (un libro poi sostituito da un’edizione più recente, nella collana dei Grandi Classici del '900 in edicola con Repubblica qualche anno fa, che però, per forza di cose, non aveva lo stesso fascino).

All’inizio, come mi è già capitato più volte di raccontare, io Cent’anni di solitudine non lo volevo leggere. Tutti in casa mi dicevano che avrei dovuto, che era un libro bellissimo, che mi sarebbe piaciuto tanto. Ma visto com'ero da adolescente, dirmi quelle cose non era una spinta ma un ostacolo.
Poi nell'estate tra la prima e la seconda liceo (o tra la seconda e la terza, non ricordo più bene… avrò avuto quindici anni comunque), Cent’anni di solitudine compariva insieme a una ventina di altri libri nella lista tra cui scegliere le letture per le vacanze. C’era anche L’amore ai tempi del colera, primo romanzo scritto da García Márquez dopo aver vinto il premio Nobel, e, per non dare ai miei quella soddisfazione, lessi prima quello. E mi innamorai perdutamente della storia di Florentino Ariza e Fermina Daza. Capii così che era arrivato il momento anche per Cent’anni di solitudine.

Così ho conosciuto Aureliano Buendía, il colonnello che "ha preso parte a trentadue rivoluzioni e trentadue rivoluzioni le ha perdute", che ha avuto altrettanti figli e che è riuscito a sopravvivere persino davanti a un plotone di esecuzione.
“Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito”.
Ho conosciuto Úrsula e José Arcadio Buendía, Amaranta e Rebeca e le loro passioni amorose, Melquiades e la bella Remedios, e pian piano tutte le generazioni di Buendía che hanno popolato Macondo, questo paese della Colombia caraibica fondato proprio da loro.

Temevo che mi sarei persa in questo fiume di personaggi che si susseguono (gli alberi genealogici che si trovano di solito a inizio o fine volume in quasi tutte le edizioni aiutano molto), in questo paesino dove realtà e magia si mescolano con naturalezza (non per niente questo libro viene considerato uno dei capostipiti del “realismo magico”) e anche le cose più assurde vengono considerate normali.
E invece no, non mi sono persa. O forse sì, ma è stato un perdersi bello, un perdere il contatto con la realtà e immergersi per le strade di Macondo seguendo le sue avventure, il suo fiorire e la sua successiva decadenza nel corso degli anni.

So che può sembrare retorico, ma da allora quel romanzo è diventato una parte di me. Sono andata avanti per mesi (e ogni tanto lo faccio ancora adesso) ad ascoltare l’album Terra e Libertà dei Modena City Rambles, al cui interno ci sono alcune canzoni che ispirate proprio ai personaggi di Cent’anni di solitudine (tipo questa). A lungo sono rimasta convinta che avrei chiamato mia figlia Remedios (anche Amaranta, in realtà, non mi dispiaceva) e che magari, chissà, un giorno mi sarei trovata circondata da farfalle dorate o sarei volata via insieme alle lenzuola.
“Ti senti male?” le chiese.
Remedios la bella, che teneva stretto il lenzuolo all’altro capo, fece un sorriso di compatimento.
"Macché,” disse, “non mi sono mai sentita così bene.”
Aveva appena finito di dirlo, quando Fernanda sentì che un delicato vento di luce le strappava le lenzuola dalle mani e le spiegava in tutta la loro ampiezza. Amaranta sentì un tremito misterioso nei pizzi delle sue sottane e cercò di aggrapparsi al lenzuolo per non cadere, nell’istante in cui Remedios cominciava a sollevarsi. Ursula, già quasi cieca, fu l’unica che ebbe tanta serenità da riconoscere la natura di quel vento ineluttabile, e lasciò le lenzuola alla mercé della luce, e vide Remedios la bella che la salutava con la mano, tra l’abbagliante palpitare delle lenzuola che salivano con lei, che uscivano con lei dall’aria degli scarabei e delle dalie, e con lei attraversavano l’aria in cui si spegnevano le quattro del pomeriggio, e con lei si perdevano per sempre nelle alte arie dove non potevano raggiungerla nemmeno i più alti uccelli della memoria.
Poi, in parte proprio per questo libro, ho scelto di studiare spagnolo all'Università, perché volevo leggerlo in lingua originale. Ho aspettato circa un anno, per avere almeno le basi dello spagnolo (lingua da cui partito proprio da zero) prima di cimentarmi in quest’impresa. Poi me ne è stata regalata una copia, edita da Catedra e con un buffo colonnello Aureliano in copertina.





Ricordo di aver aperto il libro per la prima volta con un po’ timore riguardo alla difficoltà della lingua e alla mia comprensione. Poi ho letto l’incipit e mi sono ritrovata ancora una volta persa per Macondo, a forgiare pesciolini d’argento e a temere che il prossimo figlio nascesse con la coda di maiale.
Muchos años después, frente al pelotón de fusilamiento, el coronel Aureliano Buendía había de recordar aquella tarde remota en que su padre lo llevó a conocer el hielo. Macondo era entonces una aldea de veinte casas de barro y cañabrava construidas a la orilla de un río de aguas diáfanas que se precipitaban por un lecho de piedras pulidas, blancas y enormes como huevos prehistóricos. El mundo era tan reciente, que muchas cosas carecían de nombre, y para mencionarlas había que señalarlas con el dedo
Da allora mi è capitato di rileggere Cien años de soledad un altro paio di volte, sempre in lingua originale, per rendere ancor più forti e vividi l’incanto e la magia come solo le letture in lingua riescono a fare. Io non sono una grande amante delle riletture, devo dir la verità, più per una questione di tempo e di quantità di libri nuovi da leggere. Ma ci sono alcuni romanzi a cui a volte sento il bisogno di tornare. E Cent’anni di solitudine è appunto uno di questi (un altro è 1984 di Orwell).

Dalla mia ultima gita a Macondo, però, erano passati diversi anni e anche per questo, quando è stata annunciata questa nuova traduzione, ho deciso di ricomprarla. In parte attratta dalla bellissima copertina con le illustrazioni di Velia de Iuliis, in parte per la curiosità di scoprire che cosa è cambiato. 

Non avevo però intenzione di fare un confronto vero e proprio: mi interessa di più l’impressione generale di coinvolgimento nella lettura, della percezione di differenze o di cose in qualche modo stonate (che in realtà era abbastanza improbabile ci fossero, perché questa nuova versione ha ripristinato parti originali che Enrico Cicogna invece aveva cambiato).
E quindi via, ho letto anche questa nuova versione di Cent’anni di solitudine.
Molti anni dopo, davanti al plotone di esecuzione, il colonnello aureliano Buendía avrebbe ricordato quel pomeriggio remoto in cui suo padre l’aveva portato a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di fango e canne costruite sulla riva di un fiume dalle acque diafane che si precipitavano su un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente che molte cose erano senza nome, e per menzionarle bisognava indicarle con un dito.
E proprio come la prima volta, con la traduzione di Enrico Cicogna, e come la seconda, quando l’ho letto in lingua originale, mi sono di nuovo ritrovata dentro Macondo, seduta al tavolo di Ursula a mangiare insieme ad altri avventori sconosciuti, a soffrire con Amaranta per le sue pene d’amore, a seguire Aureliano Segundo nelle sue peregrinazioni tra moglie e amante, a tifare per Meme e il suo amore clandestino, e sì, ancora una volta, a immaginarmi circondata di farfalle dorate o in volo insieme a delle lenzuola.


«Ti senti male?» le domandò.
Remedios la bella, che teneva l’altro capo del lenzuolo, fece un sorriso di compatimento.
«Al contrario,» disse «Non sono mai stata meglio».
Appena ebbe finito di dirlo, Fernanda sentì che un delicato vento di luce le strappava le lenzuola di mano e le spiegava in tutta la loro ampiezza. Amaranta sentì un fremito misterioso nei pizzi delle sottogonne e cercò di afferrarsi al lenzuolo per non cadere nell’istante in cui Remedios la bella cominciava a sollevarsi. Úrsula, già quasi cieca, fu l’unica abbastanza lucida da capire la natura di quel vento irreparabile, e lasciò il lenzuolo alla mercé della luce, e vide Remedios la bella che le diceva addio con la mano, nell’abbagliante aleggiare delle lenzuola che salivano con lei, che abbandonavano con lei l’aria degli scarabei e delle dalie, e attraversavano con lei l’aria dove finivano le quattro di pomeriggio, e si perdevano per sempre con lei nelle arie alte, dove non potevano raggiungerla nemmeno i più alti uccelli della memoria.


In questa nuova edizione, ho trovato tutto quello che Ilide Carmignani ha detto nella sua nota di traduzione (che, ammetto, ho letto prima del libro, per avere un'idea generale di cosa aspettarmi) e nelle varie interviste, senza trovare praticamente mai nulla di stonato né di incomprensibile, nemmeno nei localismi lasciati in lingua originale. Si nota, anche, il ripristino degli accenti in tutti i nomi propri spagnoli (Cicogna, per esempio, non accentava "Úrsula").
Solo in alcuni punti ho sentito la necessità (forse più curiosità, in realtà) di fare un confronto tra la vecchia versione di Enrico Cicogna e quella nuova di Ilide Carmignani. Ma per parole singole, per frasi forse un po’ troppo moderne che mi sembravano un po’ fuori contesto (un “cavolo”al posto di un “accidenti”… cose così). 



Da appassionata di Cent’anni di Solitudine e di Gabriel García Márquez sono convinta che questa nuova traduzione fosse necessaria. Io ho scoperto questo libro e me ne sono innamorata con la prima traduzione, è vero, e come me molti altri. Però altrettanti l’hanno trovato un po’ respingente, e la lingua utilizzata da Cicogna, perché invecchiata, perché a volte eccessivamente esotica, può avere una sua colpa (e ve ne renderete conto ancor di più se riuscirete a leggerlo in lingua originale).
Quindi se siete tra chi l’ha già letto e l’ha amato, anche in questa nuova traduzione continuerete ad amarlo. Se ci avete provato in passato ma qualcosa non ha funzionato, o se non vi ci siete mai approcciati per paura, ecco, forse questa nuova edizione può essere la spinta necessaria a dare a Cent’anni di solitudine un'altra possibilità.

Poi fatemi sapere. Io intanto vado a mettere due mollette in più alle lenzuola stese, sia mai che qualcuno decida di portarsele via.

giovedì 29 giugno 2017

CHILEAN ELECTRIC - Nona Fernández

La luce entrò dalle finestre nelle case, nelle stanze e sopra i cuscini dei più fortunati, che forse da quel momento iniziarono a immaginare nei loro sogni contorti una città delimitata da neon, lucette colorate e luci di sicurezza. Una città vigile, sempre accesa, la città insonne.


È il 1883 e a Santiago del Cile è appena arrivata la luce elettrica. È un momento importante per la città e per i suoi abitanti, che si sono raccolti tutti in Plaza de Armas per assistere alla prima accensione, con un misto di paura e stupore. Le strade, ora, sono illuminate dai lampioni, che sembrano dissipare tutte le ombre e dare, in qualche modo, una speranza luminosa per il futuro.
Ad assistere alla cerimonia di accensione c’è anche una bambina che, crescendo, tramanderà questo ricordo, insieme a tanti altri, alla nipote: perché sì, nel 1883 è arrivata la luce, ma non è riuscita a illuminare completamente il buio di un’epoca e di un secolo, fatto di dittature, di lavoro in condizioni disumane, di proteste represse con la violenza e di sparizioni inspiegabili.

In Chilean Electric di Nona Fernández, pubblicato da Edizioni Edicolas e tradotto da Rocco D’Alessandro, assistiamo proprio al momento dell’accensione dei lampioni e anche a tutto il resto. Lo facciamo tramite la nipote di quella bambina che ha visto intimorita e curiosa la prima luce accendersi. Sarà lei a tramandare i suoi racconti e i suoi ricordi, a volte confusi, a volte forse addirittura inventati, alla nipote, affinché si conservino, affinché non spariscano nel buio. E la nipote, con la sua scrittura e le sue parole, sarà proprio quella luce necessaria per non dimenticare la storia di sua nonna, ma anche quella di un intero paese.

Potrei dire queste e altre cose, ma probabilmente ciò che dico sono semplici arbitrarietà, ingenue e sterili; non sono una storica, né una politica, né un'economista e non mi compete entrare nel merito. L'unica cosa che posso fare è osservare. Osservare e trascrivere, illuminando con la letteratura la temibile oscurità.

Chilean Electric è un libro molto bello. Scritto con uno stile molto particolare, a volte poetico altre molto pratico (in apertura, per esempio, troverete una bolletta della luce), il romanzo gioca continuamente con la contrapposizione buio/luce, oblio/ricordo e ripercorre tutta la storia del Cile (e in parte di tutto il Sud America) nel corso del '900: un paese che da un lato andava verso l'innovazione, con i lampioni, la corrente elettrica in casa, i primi elettrodomestici, le prime bollette e poi l'arrivo di altre compagnie; ma dall'altro il paese continuava a sprofondare nel baratro delle dittature, dei colpi di stato, dei desaparecidos e delle repressioni.

Nona Fernández parla di sua nonna e di sé; parla di quando erano bambine entrambe e poi di quando entrambe sono diventate grandi. Parla delle feste e delle celebrazioni illuminate da mille lucine, ma anche delle semplici candele che i parenti delle persone scomparse non hanno mai smesso di accendere. Parla di Allende e del suo tentativo di dare potere al popolo, della sua morte e del suo funerale di stato tardivo, avvenuto quasi vent'anni dopo. E parla, poi, di un legame indissolubile, quello tra una nonna e una nipote che raccontano e si raccontano la propria storia e quella di un paese.

Mia nonna appoggiò la testa sul cuscino e dopo che ebbi spento la luce della lampada sul suo comodino, mi strinse forte la mano. Pensa che quella che sto per raccontarti non è una storia, le dissi. È una luce soave, una piccola lampadina da quindici watt. Un faretto che allontana le paure e aiuta ad addormentarsi. Una lucina notturna che ti vigila sul tuo letto mentre dormi.

Chilean Electric è stato una vera rivelazione, una piccola perla di letteratura sudamericana contemporanea, che non ha nessuna intenzione di dimenticare il passato. Non ho letto il primo romanzo di Nona Fernández, Space Invaders (pubblicato sempre da Edizioni Edicolas, sempre tradotto da Rocco D'Alessandro), ma sicuramente ora lo recupererò, per aggiungere un ulteriore tassello al racconto della storia del Cile, ma anche per rileggere ancora una volta le parole di questa autrice e lasciarmi incantare dal suo stile, duro e delicato al tempo stesso.

E se amate la letteratura sudamericana, se amate la storia e, soprattutto, non volete che i ricordi e le ingiustizie cadano nell'oblio, dovreste leggerli anche voi, per illuminare non con la scrittura ma con la lettura la temibile oscurità.


Titolo: Chilean Electric
Autore: Nona Fernández
Traduttore: Rocco D'Alessandro
Pagine: 110
Anno di pubblicazione: 2017
Editore: Edicola Ediciones
Prezzo di copertina: 10 €
Acquista su amazon:
formato brossura: Chilean electric
formato ebook: Chilean Electric (Al tiro)

lunedì 8 maggio 2017

DI ME ORMAI NEANCHE TI RICORDI - Luiz Ruffato

Stavolta sono stato più in giro per la città, ho visto qualche amico, ne ho incontrati altri che stanno lavorando anche loro a San Paolo e la sensazione che mi resta è che non tornerò mai più. Questo è molto triste, perché qui non è casa mia. Ma oramai sento che anche lì non è più casa mia. Ossia, da nessuna parte è casa mia. È questo che fa male dentro.

Alla morte della madre, facendo ordine tra i suoi beni per dare il più possibile in beneficenza, Luiz Ruffato trova un pacco di lettere: sono quelle che suo fratello Célio spedì alla donna durante i sette anni che trascorse a San Paolo. Si era trasferito in città dal paese, per andare a lavorare in fabbrica e per cercare fortuna, come in molti facevano all'epoca, sapendo benissimo che difficilmente sarebbero tornati.
Il destino di Célio, però, fu ancora più tragico: morì in un incidente d’auto, proprio mentre stava andando a trovare i genitori.
Una perdita terribile, da cui nessuno è mai riuscito a riprendersi. Un dolore enorme, che la madre conserva fino alla fine, in quelle lettere che Luiz ritrova e che, subito, non ha il coraggio di leggere. Troppa sofferenza, ma anche troppa gelosia nei confronti del fratello che non ha fatto in tempo a conoscere e la cui assenza ha influito sulla sua vita e sul rapporto con sua madre ancor più di quanto avrebbe fatto la sua presenza.
Finché un giorno, finalmente, si decide, scioglie la cordicella che tiene uniti quegli scritti e, attraverso quelle cinquanta lettere, fa un tuffo nel passato: quello della sua famiglia, ma anche quello di tutto il paese.

Di me ormai neanche ti ricordi, pubblicato da laNuovafrontiera con la traduzione di Gian Luigi De Rosa, è la raccolta di quelle lettere. Un romanzo epistolare, accompagnato da un’introduzione che spiega che cosa sono questi scritti e perché finalmente sono tornati alla luce, che si compone di una voce sola. Le risposte che Célio riceve dalla madre, infatti, non ci sono, ma si riescono a intuire, così come si intuisce quanto gli manchino il suo paese e la sua famiglia, ma, al tempo stesso, quanto impossibile gli sia tornare.

A San Paolo Célio lavora in fabbrica, stringe amicizie, trova l’amore e poi lo perde, va a vedere le partite di calcio e pensa al futuro, senza mai dimenticarsi quello che ha lasciato. Da lontano, si preoccupa per la salute del padre, per i suoi fratelli e per tutto quello che è rimasto a casa. Poi si avvicina alle lotte sindacali e coglie i primi segni di una dittatura militare sempre più opprimente. 
C’è tutto il Brasile degli anni ’70 nelle sue parole, di cui fornisce un ritratto quasi inconsapevole raccontando semplicemente la sua quotidianità.

Di me ormai neanche ti ricordi è un libro malinconico: non solo per il suo finale tragico, ma per tutto il senso di tristezza e solitudine che traspare dalle lettere di Célio e per quello che invade Luiz Ruffato stesso, che sente i ricordi farsi sempre più sbiaditi ma che non vuole cedere al passare inesorabile del tempo.
Non ricordo volti, vestiti, situazioni, nulla, ricordo solo voci che riecheggiano sospese in un universo  senza orologi e senza età. Nella fotografia in cui siamo insieme, però, il tempo è presente: i tuoi occhi guardano il fotografo e quel che vediamo è l’immagine di qualcuno che sembrava sapere che non sarebbe cambiato mai.
E questo libro altro non è che uno strumento, struggente e bellissimo, per non dimenticare.

TITOLO: Di me ormai neanche ti ricordi
AUTORE: Luiz Ruffato
TRADUTTORE: Gian Luigi De Rosa
PAGINE: 136
EDITORE: laNuovafrontiera
ANNO: 2014
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formato cartaceo: Di me ormai neanche ti ricordi

giovedì 26 gennaio 2017

VOLTI NELLA FOLLA - Valeria Luiselli

Sapevo che non era molto sensato riporre alcun tipo di fiducia negli oggetti e che non appena ci abituiamo alla presenza silenziosa di qualcosa, questa si rompe o sparisce. Anche i legami con le persone che mi circondavano erano segnati da questi due modi della temporaneità: rompersi o sparire.


Ho comprato Volti nella folla di Valeria Luiselli, pubblicato in Italia da LaNuovaFrontiera e tradotto da Elisa Tramontin, alla fiera Più Libri Più Liberi di Roma. Stavo chiacchierando in chat con una mia amica, che mi stava raccontando di quanto le stesse piacendo questo libro che, a sua volta, le era stato consigliato da un’altra amica comune, che lo aveva amato allo stesso modo.

Questo dialogo, unito al bellissimo titolo, alla ancor più bella illustrazione di copertina a opera di Gaia Stella e al fatto che avessi sentito parlare spesso di questa scrittrice messicana senza però mai decidermi a leggere niente, mi hanno fatto venire un’improvvisa voglia di comprare questo libro. Poi è rimasto un po’ lì a guardarmi, dallo scaffale dei libri da leggere, prima che arrivasse il momento di aprirlo.

Volti nella folla è narrato in prima persona da una giovane donna, sposata con un architetto che forse la tradisce e madre di due figli piccoli. Una vita famigliare molto comune, che alla donna però inizia a stare un po’ stretta. Per evadere da questi ritmi e da queste abitudini inizia a scrivere un romanzo, in cui racconta della sua giovinezza newyorchese, quando di mestiere faceva la traduttrice e viveva di poesia, di incontri con personaggi bizzarri ed eccentrici e dormiva sempre a casa di altri. A questi racconti nel passato, si mescolano quelli nel presente, con il marito e i figli, ma anche quelli ancor più passati, con personaggi che non può aver incontrato ma che vivono comunque nella sua mente e, in qualche modo, la condizionano.
La protagonista si ritrova così a scrivere di sé e di altri, a ricordare e immaginare i tanti volti che, in mezzo alla folla, ha incontrato o abbandonato.

Volti nella folla è un libro abbastanza complesso. Il lettore entra nei pensieri della protagonista, salta con lei tra passato e presente, tra reale e immaginato, tra personaggi realmente esisti e altri che nascono e vivono solo nella sua mente. E, a un certo punto, un po’ si perde.
O almeno è quello che è successo a me.
Ho amato tantissimo la prima parte di questo romanzo e i ricordi della protagonista sul suo passato: il lavoro di traduttrice, la sua quotidianità fatta di incontri con sconosciuti a cui lasciare le chiavi di casa, fino al momento in cui le cose sono cambiate.
A volte, prima di ritornare nella sua cittadina, veniva nel mio appartamento a farsi un altro bagno e cenavamo con gli avanzi di quello che aveva cucinato il venerdì. Parlavamo dei libri che aveva venduto; parlavamo di libri in generale. A volte, la domenica, facevamo l'amore.

Così come ho amato anche il presente: il marito che legge quello che lei scrive da sopra la sua spalla e poi si interroga sulla sua veridicità, ma anche i sospetti che nei confronti dell’uomo la protagonista inizia a provare; e poi i figli e gli strani vicini di casa.

Mio marito mi chiede se è vero che non riesco a dormire dopo aver fatto sesso.
«A volte.»
«E che fai quando io mi addormento?»
«Ti abbraccio, ti ascolto respirare.»
«E poi?» insiste.
«E poi niente, poi mi addormento.»

A un certo punto, però, non ho quasi più capito che cosa stessi leggendo. Troppi personaggi che si mescolano, troppi incontri, e quel confine, tra reale e immaginato, valicato troppo di frequente. Può darsi fosse un effetto voluto, che portasse il lettore a perdersi tra i mille volti della folla che ci circonda e che spesso nemmeno esiste. Però, ecco, mi rimane la sensazione, anche dopo un paio di giorni dal termine della lettura, di essermi persa qualcosa, di non essere stata in grado di comprendere appieno il senso del libro.
Lo stile di Valeria Luiselli è incredibile. Mi sono piaciute le sue frasi, i suoi costrutti, il suo modo di osservare il mondo e descrivere i rapporti che si creano.

Anche se mi ci sono persa, anche se non sono sicura di aver capito tutto, Volti nella folla è sicuramente un libro da leggere. Per il modo in cui è narrato e per tutta una serie di piccole riflessioni, sulla vita e su quello che si è o non è, che fa nascere leggendo.


TITOLO: Volti nella folla
AUTORE: Valeria Luiselli
TRADUTTORE: Elisa Tramontin
PAGINE:169
EDITORE: laNuovafrontiera
ANNO: 2015
ACQUISTA SU AMAZON
formato cartaceo: Volti nella folla

lunedì 7 novembre 2016

LA VEDOVA VAN GOGH - Camilo Sánchez

Un’ombra pesante su ogni gradino della scala è stato l’annuncio: Theo Van Gogh entra con il fantasma della morte attaccato alle scarpe.
Johanna lo guarda. In tre giorni è invecchiato di dieci anni.
Quasi non fa caso alla moglie e a malapena saluta il bambino. Con una cautela estrema, sistema sotto il letto gli ultimi lavori del fratello, una serie di rotoli con tele dipinte di fresco. Quindi, nel bauletto di rovere delle lettere, ne deposita un’ultima, quella che Vincent Van Gogh aveva addosso quando si era sparato un colpo, e poi si era sdraiato per dormire.

(Questo mia recensione è stato pubblicata su Ultima pagina il 25 ottobre 2016)

Il 27 luglio 1890 Vincent Van Gogh si spara un colpo di rivoltella al petto. Muore alle prime ore del 29 luglio, dopo poco più di un giorno di agonia. Accanto lui c’è il fratello Theo, accorso al suo capezzale da Parigi non appena saputo del tentativo di suicidio, e rimasto accanto a lui fino alla fine.
Nemmeno a lui Vincent ha voluto dare spiegazioni del suo gesto, culmine di una vita fatta di disturbi mentali e inquietudini. E Theo, che al fratello è molto legato, da questo grande dolore non si riprende più. Dopo mesi di depressioni e malattie psicosomatiche, muore il 25 gennaio 1891, a soli sei mesi di distanza dal suicidio del fratello.
La vedova Van Gogh, romanzo dello scrittore argentino Camilo Sánchez, pubblicato da marcos y marcos con la traduzione di Francesca Conte, parte dal momento in cui Theo ritorna alla sua casa di Parigi, dalla moglie Johanna Van Gogh – Borger e dal figlioletto appena nato, chiamato Vincent in onore del fratello, dopo essere stato al capezzale del pittore morente.
Torna a casa, ma è come se non tornasse più, talmente forte è il dolore che prova e che, nei pochi mesi successivi, lo ucciderà.

La storia viene raccontata dal punto di vista di Johanna, che con il cognato Vincent non aveva poi chissà quale grande rapporto, ma che invece è profondamente innamorata del marito. Vorrebbe aiutarlo, nel suo tentativo di rendere il giusto onore all’opera del fratello, ma al tempo stesso prova rabbia nei suoi confronti, per il modo in cui si sta lasciando andare, per la scarsa attenzione che prova nei confronti del figlio e per quello stato di apatia che si è impossessato di lui e che sa lo porterà alla morte.
È così. Ora posso perfino scriverlo senza tristezza: il vero amore della vita di Theo è stato Van Gogh.
Né io né mio figlio siamo riusciti a cambiare il suo destino. Ma non mi si chieda di comprendere questo genere di amore incondizionato, che li ha trascinati alla morte.
Quando poi Theo effettivamente muore, Johanna dovrà prendere in mano la sua vita e quella di suo figlio e cercare di sopravvivere. Per farlo, le vengono in aiuto proprio i quadri del cognato, che inizierà a riscoprire e, soprattutto, a far scoprire agli altri: dapprima semplicemente appendendoli alle pareti di Villa Helma, la locanda che ha deciso di aprire per rifarsi una vita, poi, con il passare del tempo riuscendo a organizzare mostre, a vendere alcune delle opere e a far conoscere Vincent Van Gogh per il grande pittore che è.
Ho camminato in mezzo ai quadri.
Mi sono fermata solo davanti al mandorlo in fiore che ha dipinto per mio figlio.
E mi ha divertito come non mai la sensazione di vedermi come un’intrusa, una fra le tante spettatrici che sfilavano davanti alle immagini come a messa.
C’è chi parla di Van Gogh al presente, come se non fosse morto.
Ecco qua. D’ora innanzi,Vincent Van Gogh sarà il nome di un artista.
Camilo Sanchéz sceglie di narrare le vicende di La vedova Van Gogh attraverso tre espedienti narrativi: il primo, quello che dà la struttura al romanzo e tiene unito il tutto, è una narrazione quasi asettica, una mera cronaca degli eventi e dello scorrere del tempo, senza interventi personali dell’autore; poi, ci sono le pagine di diario che Johanna scrive e in cui racconta le sue preoccupazioni, le sue paure, il suo senso di impotenza di fronte a quello che sta succedendo al marito e alla sua vita, ma anche le gioie del veder crescere il figlio, per nulla intaccato dal dolore che ha pervaso tutta la famiglia. Infine, ci sono le lettere che Vincent Van Gogh ha scritto negli anni al fratello e che Johanna scopre insieme al lettore. Lettere realmente esistite (pubblicate in Italia da Guanda nel 2007 nel volume Lettere a Theo, curato da M. Cescon) e che mostrano l’abilità a scrivere del grande pittore e, soprattutto, il forte legame di affetto e protezione che ha sempre unito i due fratelli.

Ed è proprio a partire da queste lettere, di cui Johanna era depositaria insieme alle opere, che lo scrittore argentino ha deciso di scrivere il suo primo romanzo. Incuriosito dalla figura della donna, dal ruolo che ha avuto nel difendere e diffondere i quadri del cognato, ha raccontato la sua storia e permettere così di conoscere un aspetto, di cui probabilmente solo gli appassionati sono consapevoli, del grande pittore impressionista.
Il libro è una passeggiata tra le opere di Van Gogh che va oltre la semplice tela. Leggendo si scoprono alcuni dettagli, alcuni retroscena e, soprattutto, alcuni dei più grandi turbamenti del pittore olandese che poi si sono riversati nei suoi quadri, racconti da un punto di vista vicino ma al tempo stesso esterno, quello di una donna che sì, riconosce il valore di quelle opere e ama perdersi in quei colori, ma al tempo stesso vorrebbe più tranquillità per la sua famiglia e per se stessa.
Molti indizi dell’autunno sugli alberi che costeggiano il percorso. Quando siamo passati davanti alla chiesa di Auvers, mi sono ricordata del dipinto che la raffigura, attaccato con le puntine nel corridoio che porta in cucina, a Pigalle.Senza il luccichio giovanile del disegno, né il cielo sullo sfondo, drammatico e carico di presagi, la chiesa, davanti ai miei occhi, pareva aver perduto la vitalità del quadro.Il quadro di Van Gogh migliorava il paesaggio.Scrivo sul treno che mi riporta a casa, a Pigalle. Confusa come prima o anche di più.Il dottor Gachet non può o non vuole darmi una diagnosi precisa sulla salute di Theo?
Ad arricchire questa biografia in forma di romanzo ci sono le note finali dell’autore, integrate nella versione italiana dalla traduttrice Francesca Conte, che spiegano e approfondiscono alcune delle cose raccontate nel romanzo, così da fornire basi realmente solide alla parte romanzata della vicenda.

Il risultato è un romanzo biografico e autobiografico al tempo stesso, in grado di coinvolgere e appassionare sia gli esperti e gli amanti di Vincent Van Gogh, sia chi invece lo conosce poco e solo per i suoi quadri più famosi. Attraverso il racconto e le parole di una donna forte e coraggiosa come Johanna Van Gogh – Borger, Camilo Sanchéz  va oltre i quadri e la pittura di Vincent Van Gogh, mostrandone anche l’aspetto più fragile, più umano, che ha contribuito a renderlo un grande.


Titolo: La vedova Van Gogh
Autore: Camilo Sánchez
Traduttore: Francesca Conte
Pagine: 192
Editore: marcos y marcos
Prezzo di copertina: 16,00€
Acquista su Amazon:
formato brossura: La vedova Van Gogh

lunedì 10 ottobre 2016

LA PROMESSA - Silvina Ocampo

Pensavo che mantenere la promessa mi sarebbe costato un enorme sacrificio. Mi sembrava che compilare questo dizionario di ricordi a volte vergognosi, umilianti, significasse consegnare la mia intimità a chiunque. (Una preoccupazione che, in fin dei conti, si è rivelata senza fondamento).
Non ho una vita mia, ho dei sentimenti. Le mie esperienze non hanno avuto importanza nel corso della vita e neppure sull’orlo della morte, invece la vita degli altri diventa mia.


Immaginate di essere su una nave che sta navigando sull’oceano. Immaginate di cadere giù e ritrovarvi in acqua, senza che nessuno se ne sia accorto. State a galla, mentre vedete la nave allontanarsi, senza di voi. Che cosa fareste? 

Alla donna protagonista e voce narrante di La Promessa di Silvina Ocampo, pubblicato da laNuovafrontiera con la traduzione di Francesca Lazzarato, succede proprio questo. È su un transatlantico in mezzo all’oceano, si china per raccogliere una spilla e vola giù. Quando si rende conto che la nave se ne sta andando lasciandola lì, fa una promessa a Santa Rita, l’avvocata dei casi impossibili: se riuscirà a salvarsi, scriverà un libro e lo finirà prima del suo compleanno. Un libro che sarà fatto di ricordi delle persone che ha incontrato nell'arco della sua vita. Non vuole parlare direttamente di sé, ma farlo attraverso gli altri, attraverso le persone che hanno sfiorato la sua vita anche solo per un istante, sufficiente però a lasciare un piccolo segno. Un viaggio nel passato, che la donna fa per non lasciarsi sopraffare dal presente e da quella distesa d’acqua a cui, sempre di più, sente di volersi abbandonare.

La promessa è una raccolta di racconti che, messi tutti insieme e uniti dal filo conduttore della protagonista che ricorda mentre si trova in mare, formano un romanzo. Ogni personaggio raccontato, ogni ricordo che la donna evoca degli incontri del suo passato, reggerebbe anche da solo. Sono storie d'amore, storie di passioni, ma anche di tristezza e di dolore, con protagonisti bambini, anziani, uomini e donne innamorate. Quelle persone che tutti abbiamo attorno nella nostra vita, ma a cui forse non pensiamo mai.

Non conoscevo Silvina Ocampo prima di leggere questo suo ultimo romanzo. Non sapevo della sua amicizia con Borges, che fosse la moglie di Adolfo Bioy Casares, né che La promessa, un libricino all’apparenza sottile, sia in realtà un lavoro durato molti anni e che abbia subito molte riscritture, molte limature, per raggiungere la forma che ha ora, ritrovata solo dopo la morte della donna. 
L’ho letto perché mi è piaciuta fin da subito la sua copertina e sicuramente non immaginavo di ritrovarmi così tanto coinvolta nei racconti, nei pensieri e nei ricordi di questa donna. Di perdermi insieme a lei in mezzo alla distesa azzurra e trovare nello sconforto una forma di poesia.

La promessa è un libro molto bello, di quella bellezza di cui forse subito, mentre si sta leggendo, non ci si rende tanto conto, ma che andando avanti nella lettura a poco a poco emerge e poi un po' ti travolge, proprio come il mare dentro cui la protagonista sta raccontando.

Titolo: La promessa
Autore: Silvina Ocampo
Traduttore: Francesca Lazzarato
Pagine: 154
Editore: La nuova frontiera
Prezzo di copertina: 15,00€
Acquista su Amazon:
formato brossura:La promessa

venerdì 1 aprile 2016

PARLAMI D'AMORE - Pedro Lemebel

La sua prima lettera la ricevette per posta, in una busta con il sigillo di ceralacca e il francobollo dell'Uruguay. Era scritta in un bel corsivo elegante con il suo inchiostro grigio azzurro. Era un tratto delicato. In ogni pausa della scrittura, un soffio di mare tiepido scompigliava le vocali come uccelli ballerini davanti ai miei occhi. Il suo nome era Aloma, viveva a Montevideo in una casa troppo grande per il suo andare lento, da rondine attempata.


Pedro Lemebel è entrato nella mia vita per caso, e quasi all'improvviso. Un giorno ero in un mercatino dell’usato, uno di quelli di catena, in cui i libri occupano solo una minima parte in mezzo ad altre cianfrusaglie dal design spesso improponibile. Arrivati al momento di pagare, ora non ricordo più cosa in realtà, sul bancone c’era questo libro di marcos y marcos dalla copertina azzurra. L’ho acquistato senza quasi guardarlo, visto che i libri di questo editore come ho già detto più e più volte, li compro praticamente a scatola chiusa, talmente mi piace. Ovviamente, il libro era Ho paura torero di Pedro Lemebel, uno dei romanzi più belli che io abbia mai letto negli ultimi anni.

Racconto spesso questo aneddoto, lo so, perché mi piace pensare che la Fata dell’angolo, la protagonista di quel romanzo, abbia voluto che io la trovassi così, che abbia voluto irrompere all'improvviso nella mia vita e lasciarci un bel segno. Da allora, ho poi cercato di recuperare tutte le opere di Lemebel pubblicate in italiano. Sono solo altre due, in realtà, quindi non è stato tanto difficile. Baciami ancora Forestiero e quella di cui vi parlo oggi, Parlami d’amore, da poco pubblicata sempre da marcos y marcos e tradotta dai partecipanti al laboratorio di traduzione tenuto a Roma da Matteo Lefévre (un laboratorio che se fosse stato più vicino avrei sicuramente frequentato anche io).

Proprio come lo era Baciami ancora, Forestiero, Parlami d’amore è una raccolta di scritti di Lemebel. Degli episodi, delle cronache, dei racconti realmente vissuti, in cui ciò che traspare maggiormente è il suo amore per la vita. Un poeta, anche se non scrive poesie, lo definisce Roberto Bolaño. E credo non esista definizione più azzeccata. Dai racconti d’amore alle cronache di viaggio (da Helsinki a Roma, senza dimenticare mai la sua paura di volare), dalle semplici riflessioni sulla quotidianità, agli incontri d’amore casuali su un bus, senza dimenticare l’impegno civile: le sue avventure alle feste delle fate, vietate dal regime ma a cui lui (lei, come spesso si chiama) non vuole rinunciare, ma anche le riflessioni sul primo maggio, sulla fine della dittatura e sull'aborto.

Se non avete mai letto niente di Pedro Lemebel e non conoscete il “personaggio”, non dovete partire da Parlami d’amore. Non riuscireste a cogliere completamente la sua poesia, né la bellezza di quello che scrive. In alcuni racconti, ammetto, ho faticato anche io, che questo autore lo amo con tutta me stessa. Partite da quel capolavoro di Ho paura torero e poi, sono sicura, inevitabilmente approderete anche qui. E vi perderete nelle sue parole d’amore, nel suo stile canzonatorio e appassionato, nel suo amore per la vita, per la bellezza, per il mondo.

Parlami d’amore fornisce un tassello in più per completare il personaggio di Lemebel, per conoscerlo ancora più a fondo. E innamorarsene, di nuovo.


Titolo: Parlami d'amore
Autore: Pedro Lemebel
Traduttore: a cura di Matteo Lefèvre
Pagine: 160
Editore: marcos y marcos
Acquista su Amazon:
formato brossura: Parlami d'amore

lunedì 21 marzo 2016

UNA VALIGIA DI LIBRI - Resoconto di un viaggio in SUD AMERICA (e un po' anche in Centro)

Sabato 19 marzo si è tenuto il terzo appuntamento di Una valigia di libri, il ciclo di incontri organizzato da me, da Claudia di Il giro del mondo attraverso i libri e da Stefania della Libreria sulla parola di Caluso, che ci porta in giro per il mondo attraverso i consigli di lettura dei partecipanti.
Destinazione di questo terzo incontro:
Centro e Sud America.


Parto con i ringraziamenti di rito a tutti i partecipanti, e questa volta son ancor più sentiti. Non so per voi, ma per me è stato un pomeriggio bellissimo, fatto di consigli letterari (tanti, tantissimi consigli letterari!), ma anche di chiacchierate, di momenti di condivisione di storie personali, di curiosità scoperte e svelate (e non... ma quanto è divertente formulare teorie assurde?) e di tante, tante risate... ennesima dimostrazione che i libri possono avvicinare persone che altrimenti forse non si sarebbero mai incontrate e, soprattutto, che si può parlare di libri e di letteratura anche senza prendersi troppo sul serio.
Non so se sia stato merito dell'ambientazione sudamericana, molto allegra e vivace già di suo, di quel bel calore che si prova ogni volta che si entra nella Libreria Sulla parola o del fatto che avevamo tutti una grande voglia di essere lì, o, cosa ancor più probabile, di tutte e tre le cose messe insieme... fatto sta che, almeno per quanto mi riguarda, sono state due ore e mezza (sì, due ore e mezza e nemmeno ce ne siamo accorti!) incredibili.

© Claudia - Il giro del mondo attraverso i libri
Quindi, davvero, grazie a tutti coloro che hanno partecipato, presentando libri o anche solo ascoltando, ma anche a chi non è potuto venire e ha voluto comunque mandarci i suoi consigli a distanza.

Ma ora basta smancerie, e passiamo ai veri protagonisti dell'incontro: i libri! Come vi dicevo all'inizio, questa volta i consigli sono davvero tanti. La letteratura centro e sud americana è molto più conosciuta, e soprattutto amata, di quanto pensassi, e questo non può che farmi piacere. (Al mio portafogli forse un pochino meno, ma peggio per lui).

Ecco qui, divisi per paese, tutti i consigli che sono arrivati, fisicamente e virtualmente. Troverete titolo, autore e, tra parentesi, editore. Cliccando sui titoli linkati verrete invece indirizzati alla recensione dei blog che l'hanno consigliato.

ARGENTINA
Santa Evita - Tomás Eloy Martínez (edizioni SUR)
Purgatorio - Tomás Eloy Martínez (edizioni SUR)
Sopra eroi e tombe - Ernesto Sabato (Einaudi)
Il tunnel - Ernesto Sabato (Einaudi)
Scende la notte tropicale - Manuel Puig (Sellerio)
Una frase, un rigo appena - Manuel Puig (Sellerio)
Le reaparecide - Munù Actis, Cristina Aldini, Liliana Gardella, Miriam Lewin, Elisa Tokar (Stampa Alternativa)
Racconti - Jorge Luis Borges
Racconti - Julio Cortázar
Estela Carlotto una nonna di Plaza de Mayo -  Javier Folco (Edizioni a nordest)

BRASILE
Le Valchirie - Paulo Coelho (Bompiani)
Monte cinque - Paulo Coelho (Bompiani)
Cacao - Jorge Amado (Einaudi)
Gabriella garofano e cannella - Jorge Amado (Einaudi)
Doña Flor e i suoi due mariti - Jorge Amado (Garzanti)
Di me ormai neanche ti ricordi - Luiz Ruffato (La nuova frontiera)
Passaporto per il mio corpo - Heloneida Studart (marcos y marcos)
Francobollo d'addio - Heloneida Studart (marcos y marcos)

CILE
2666 - Roberto Bolaño (Adelphi)
Sangue negli occhi - Lina Meruane (La nuova frontiera)
Ho paura torero - Pedro Lemebel (marcos y marcos... dato che è stato un consiglio condiviso, ecco tutte e tre le recensioni: Il giro del mondo attraverso i libri, Una ciliegia tira l'altra, La lettrice rampante)
La casa degli spiriti - Isabel Allende (Feltrinelli)
L'ultimo tango di Salvador Allende - Roberto Ampuero (Mondadori)
Terra del fuoco - Francisco Coloane (Guanda)

COLOMBIA
Nessuno scrive al colonnello - Gabriel García Márquez (Mondadori)
Cent'anni di solitudine - Gabriel García Márquez (Mondadori)
Ilona arriva con la pioggia - Álvaro Mutis (Einaudi)

CUBA
Fragola e cioccolato - Senel Paz (Giunti)

GUATEMALA
Uomini di mais - Miguel Ángel Asturias (Dalai editore)

MESSICO
La morte di Artemio Cruz - Carlos Fuentes (Il saggiatore)
Gli anni di Laura Díaz - Carlos Fuentes (Il saggiatore)
Pedro Páramo - Juan Rulfo (Einaudi)
Dolce come il cioccolato - Laura Esquivel (Garzanti)

NICARAGUA
L'intenso calore della Luna - Gioconda Belli (Feltrinelli)
La donna abitata - Gioconda Belli (edizioni e/o)

PERU
Avventure della ragazza cattiva - Mario Vargas Llosa (Einaudi)
Niente miracoli a ottobre -  Oswaldo Reynoso (Edizioni SUR)
Festa di sangue - José María Arguedas (Einaudi)

SANTO DOMINGO
I gatti non hanno nome - Rita Indiana (NN Editore)

URUGUAY
La vita breve - Juan Carlos Onetti (Einaudi)
La felicità al potere - José Pepe Mujica (EIR)

VENEZUELA
Mi chiamo Rigoberta Menchú - Elizabeth Burgos (Giunti)
Il meraviglioso viaggio di Octavio - Miguel Bonnefoy (66thand2nd)

CENTRO E SUD AMERICA da Nord a Sud
L'ultimo treno della Patagonia - Paul Theroux (Dalai editore)


Per facilitarvi le cose se, come me, non siete esattamente dei geni in geografia, Claudia ha creato una bellissima mappa tramite google maps, in cui potete vedere la localizzazione geografica di ogni libro di cui abbiamo parlato. La trovate qui.


Come potete ben vedere, i consigli sono stati tanti e hanno toccato molte degli stati del Centro e del Sud America.
Il prossimo incontro è fissato per sabato 16 aprile e ci porterà in Asia, dal medio oriente all'estremo oriente, passando per la Cina e l'India fino ad arrivare in Giappone. Come sempre, aspettiamo i vostri consigli, fisici se volete venire in gita a Caluso e trascorrere un bel pomeriggio in compagnia, o virtuali sulle nostre pagine, per essere con noi anche a distanza!

mercoledì 16 marzo 2016

Rileggendo... SCENDE LA NOTTE TROPICALE di Manuel Puig

Di solito deve passare parecchio tempo prima che io rilegga un libro. Non tanto perché non mi andrebbe o perché ho una memoria di ferro che mi consente di ricordami ogni singolo dettaglio anche dopo anni, no, semplicemente per una questione di tempo. Ci sono tanti libri nuovi che devo ancora leggere, che difficilmente riesco a prenderne in mano uno che già ho letto. Al massimo lo sfoglio, di tanto in tanto. Vado a cercarmi una citazione o un passo che mi ricordo che mi erano piaciuti, ma nulla di più.
In passato mi è capitato di rileggere, certo. Cent’anni di solitudine almeno quattro volte, tra lingua originale e traduzione. 1984  e Il Grande Gatsby, anche. E pure gli Harry Potter, sempre usando la scusa della lingua.
È quindi molto strano che io sia qui a parlarvi di un libro che ho già letto. E probabilmente non fosse stato per il nuovo appuntamento di Una valigia di libri dedicato alla narrativa Sud Americana in programma questo sabato, questa rilettura l’avrei rimandata ancora a lungo.

Manuel Puig è forse lo scrittore che più di tutti ha segnato i miei anni di università. Non conoscevo questo autore argentino prima di allora, prima di frequentare i corsi di lingua e letteratura ispano-americana tenuti da Vittoria Martinetto e Angelo Morino, scomparso prematuramente nel 2007, come esami a scelta (se mi era possibile, infilavo ogni anno un esame di ispano-americano nel mio piano di studi), e probabilmente non li avrei mai scoperti (o forse sì, ma non è che di Manuel Puig venga nominato così spesso quando si parla di letteratura Sud Americana).

L’ho conosciuto durante quei corsi, vi dicevo, grazie al suo ultimo traduttore, Angelo Morino, e al confronto che facevamo tra la vecchia traduzione di Enrico Cicogna e la nuova edizione di Una frase, un rigo appena. È stato lì che ho imparato quanto davvero possa invecchiare la lingua e quanto sia necessario ritradurre libri già tradotti in passato.
In particolare ci eravamo concentrati su tre suoi libri: Una frase un rigo appena, appunto (in originale Boquitas Pintadas, e di cosa era successo al titolo vi avevo parlato qui), Il bacio della donna ragno e Scende la notte tropicale, ultimo romanzo di Manuel Puig, pubblicato due anni prima che morisse a seguito delle complicazioni per un banale intervento (che ha voluto fare in una piccola clinica in un piccolo paese, anziché in città, per non allontanarsi troppo dalla madre).


Ognuno di questi tre libri meriterebbe un post a sé, ma oggi vi parlerò solo di Scende la notte tropicale, perché è quello che ho riletto in questi giorni. Ho scelto di rileggere questo forse perché degli altri due avevo ben in mente sia la trama sia le sensazioni, bellissime, che mi avevano lasciato. Di questo invece, non so perché, ricordo solo che lo avevo adorato. Ok, ricordavo anche che aveva due anziane sorelle come protagoniste, ma cosa succedeva di preciso no, mi era completamente passato di mente.




Iniziamo subito con il dire che Scende la notte tropicale è un libro stupendo. Un libro sul finire della vita e su come affrontare quella marea di ricordi che quando si è anziani fanno a gara per occuparci la mente. Protagoniste sono due sorelle, Lucy e Nidia, entrambe argentine, che ora vivono insieme a Rio de Janeiro. Lucy si è trasferita lì anni prima, per seguire il figlio e il suo lavoro. Nidia è solo in villeggiatura, per cercare di riprendersi dalla recente morte della figlia. Le due anziane si distraggono come possono, lasciandosi coinvolgere dalle avventure amorose della vicina di casa. Finchè poi qualcosa nella loro vita che vorrebbero solo la tranquillità degli ultimi anni cambia di nuovo.
I bei ricordi dovrebbero aiutare la gente a vivere, non rattristarla
Al di là della trama, la cosa che più colpisce di questo libro è lo stile di Manuel Puig. La narrazione nella prima parte procede tutta semplicemente con i dialoghi tra le due sorelle. Dai loro racconti, dalle loro osservazioni, dalle impressioni che si scambiano, scopriamo non solo il loro passato, ma soprattutto il loro carattere. Più sognatrice Lucy, più cinica e pragmatica Nidia. Nella seconda, invece, la narrazione è affidata a delle lettere, che le sorelle e i vari protagonisti che ruotano intorno a loro si scambiano, e a dei verbali di polizia. 
La cosa bella è che tutto funziona perfettamente e crea un grandissimo romanzo (come funziona anche in Una frase un rigo appena, in cui questi espedienti narrativi sono elevati all'ennesima potenza... pagine di diario, pagine di giornale, annunci mortuari, pubblicità, canzoni, verbali, mai una parola diretta dell'autore. E anche in Il bacio della donna ragno, in cui i dialoghi sono inframmezzati dai film).

Non credo che Manuel Puig potesse immaginare che Scende la notte tropicale sarebbe stato il suo ultimo romanzo. Eppure, quel senso di vita che si spegne, di presente che vive solo attraverso i ricordi ma al tempo stesso di voglia di vivere ancora (appassionandosi alle storie degli altri), di notte che scende a conclusione del giorno, suona quasi come un commiato.
Peccato che spesso Lucy avesse la sensazione che i bei momenti vissuti non fossero toccati a lei, che li avesse vissuti un'altra.Questo è terribile, ma c'è un'altra cosa ancora peggiore, ed è dimenticarsi completamente di quello che è stato bello e ricordare solo quello che è stato brutto. Allora sì che bisognerebbe uscire di corsa nei campi come fa la povera Wilma e, se si è chiusi un appartamento e fuori piove, bisogna mettersi in fretta a fare qualcosa di utile, se una ce la fa. Se una può ancora rendersi utile. Un lavoro di cucito o un lavoro a maglia, o quello che capita tra le mani. Questa è la salvezza.
Ma per un'analisi più approfondita sul significato del libro, anche in relazione alle opere precedenti dell'autore, vi lascio leggere la nota in fondo al libro di Angelo Morino, che oltre a essere stato un grande promotore di Manuel Puig in Italia, questo libro l'ha anche tradotto. Scoprirete del rapporto molto stretto dell'autore con la madre e di quell'idea di ottimismo che, nonostante tutto, pervade tutto il libro.

Quel che da lettrice vi posso dire è che Scende la notte tropicale è un libro avvolto da un alone di malinconia, di disincanto, ma al tempo stesso di sogni e di speranze, che non dovrebbero morire a nessuna età. Un libro all'apparenza semplice, per il suo stile, per questi dialoghi tra le due anziane protagoniste, ma che racchiude qualcosa di estremamente profondo. La vita e la sua fine.

Da leggere, assolutamente! Prima che finisca nel triste dimenticatoio del fuori catalogo...



Titolo: Scende la notte tropicale
Autore: Manuel Puig
Traduttore: Angelo Morino
Pagine: 279
Editore: Sellerio editore
Acquista su Amazon:
formato brossura: Scende la notte tropicale

giovedì 10 marzo 2016

SANGUE NEGLI OCCHI - Lina Meruane

«Ma la parola giorno non evocò niente in me. Niente che somigliasse al giorno. I miei occhi si stavano svuotando di tutte le cose viste. E pensai che sarebbero rimaste le parole con il loro ritmo ma non i paesaggi, non i colori né i visi, non gli occhi neri di Ignacio in cui avevo visto il riflesso di un amore a volte diffidente, cupo, aspro, ma soprattutto un amore aperto, in attesa di qualcosa, pieno di miraggi che il cruciverba definiva allucinazioni»

Tra le paure più grandi che ho legate a una malattia o comunque a una condizione fisica, credo che perdere la vista occupi uno dei primi posti. Non poter più fare la maggior parte delle cose che prima facevi, quelle belle e quelle brutte. Muoversi alla cieca in un mondo che è sempre più caotico e confuso. Dover fare affidamento quasi totale sugli altri e provare l’inevitabile sensazione di essere un peso, per quanto l’altro si sforzi di farti capire che non lo sei. Devo essere sincera, non so cosa farei se mi succedesse. E provo grande, grandissima ammirazione per quelle persone che, nonostante la mancanza della vista, comunque non si sono fermate.

Sangue negli occhi di Lina Meruane, pubblicato da laNuovafrontiera con la traduzione di Luca Mariotti, racconta la storia di una donna, Lina stessa, a cui una sera esplode una vena in un occhio e ne perde l’uso. Sapeva da sempre che sarebbe potuto succedere, anche se ha sempre sperato non succedesse. O almeno non adesso, mentre sta scrivendo un libro che ora non riesce più a vedere, mentre sta andando a vivere in una casa nuova con Ignacio e vederci, per lei, sarebbe più importante che mai. E invece il medico le dice che quello che hanno sempre temuto è successo. E ora, prima di poter valutare come procedere, dovrà aspettare un mese. Forse il sangue dall’occhio se ne andrà da solo. Forse l’altro, già debole, riuscirà comunque ad abituarsi e compensare. Lina cerca di allontanarsi da Ignacio, di non intrappolarlo in quella gabbia scura che sta intrappolando anche lei. Fugge in Cile dai suoi genitori, due medici stakanovisti che sembrano non accettare la decisione della figlia, ma poi Ignacio arriva anche lì e insieme decidono di tornare a casa e di provare ad affrontare quel che sarà, per quanto difficile e doloroso.

Sangue negli occhi è un libro incredibile, sia per la storia raccontata, sia soprattutto per lo stile. La prima persona, le frasi sospese, i pensieri messi così profondamente su carta riescono a trasmettere perfettamente tutta l’angoscia e tutta la voglia di vedere, di non arrendersi di Lina. Sembra quasi un diario, in cui si legge l’inizio della malattia e poi i progressi, i momenti di speranza e quelli, inevitabili, di sconforto e di esasperazione, in cui la donna non fa sconti a nessuno, nemmeno a se stessa.
E poi c’è quel finale che.

Come vi dicevo prima, non so davvero che cosa farei se un giorno non potessi più vedere. Non so cosa vorrei che facesse chi mi sta accanto. Solo quelle cose che finché non lo vivi non le puoi sapere, per quanto tu preparato possa essere.
Sangue negli occhi di Lina Meruane dà un assaggio di quello che potrebbe essere. Un assaggio triste, crudo, doloroso. E bellissimo.

Titolo: Sangue negli occhi
Autore: Lina Meruane
Traduttore: Luca Mariotti
Pagine: 160
Editore: la Nuova frontiera
Prezzo di copertina: 16,00€
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formato brossura: Sangue negli occhi