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sabato 1 dicembre 2018

Il mio novembre, con Jeffrey Eugenides e Fabio Bartolomei (e tante altre cose)

Novembre è stato un mese molto pieno per me, e solo ora che si è concluso riesco finalmente a fermarmi un attimo e fare mente locale su tutto quello che è successo.
Un’occasione di lavoro inaspettata che ho colto al volo, perché le occasioni di provare a fare qualcosa che non sappiamo se ci possa piacere o no vanno colte sempre, ma che ha rivoluzionato drasticamente il mio tempo. Ritmi e incastri nuovi (perché sì, ho accettato questo lavoro nuovo ma senza lasciare nessuno di quelli vecchi, che sono e continueranno a essere sempre quello che davvero voglio fare nella vita), momenti di panico da “non ce la faccio”, serate in cui mi addormento sul divano senza neanche accorgermene... insomma, indovinate un po’ chi ha pagato lo scotto maggiore di questi nuovi ritmi non ancora ben ingranati? Il mio povero blog a pois, ovviamente, che se ne sta va qui tutto solo dal 5 novembre (remember remember), senza che io lo aggiornassi sulle mie nuove letture.

Non che ce ne siano state molte, in questo mese. I ritagli di tempo che usavo prima per leggere ora vengono impiegati per altro e quindi non sono riuscita a finire più di tre libri per piacere (se ci aggiungiamo quelli per lavoro però la cifra sale, ci tengo davvero a dirlo). Ma anche se sono state un po’ pochine, ci tengo comunque a parlare dei due romanzi, oltre a Destino di Raffaella Romagnolo di cui invece avevo già parlato, che ho letto in questo mese, perché sono state due belle letture.

La prima è Una cosa sull’amore di Jeffrey Eugenides, scrittore americano che avevo conosciuto con Middlesex prima e con La trama del matrimonio poi. In questo caso, però, siamo di fronte a una raccolta di dieci racconti, scritti tra il 1995 e oggi.



Dieci storie diverse tra loro, unite dal sottile filo conduttore dell’amore che si sviluppa in forme diverse: l’amore che unisce due amiche, nonostante le differenze d’età e di indole, e che sopravvive anche alla malattia, in quello che secondo me rimane il racconto più bello dell’intera raccolta, Le brontolone (piazzato proprio in apertura, per far subito capire l’eccezionale bravura dell’autore); l’amore un po’ egoistico che porta a scegliersi il padre del proprio figlio tra una selezione di tre e quello mai sopito che riflette su questa scelta; la passione e l’amore per la musica, che potrebbe sfasciare una famiglia ma che al tempo stesso la tiene insieme; i legami famigliari, che non si spezzano neanche di fronte alle decisioni più assurde; l’amore che finisce e il bisogno di accettarlo, nonostante il dolore (in Trova il cattivo, la seconda piccola perla di questa raccolta).

Quella prima notte, e ancor più nelle notti successive, era come se a letto lei si restringesse, oppure come se mi allargassi io, fino a diventare grandi uguali. E piano piano quel pareggiarsi continuò anche alla luce del sole. Facevamo ancora girare la gente per strada, ma ora sembrava che ci guardassero come se fossimo una sola creatura, e non due esseri di misura sbagliata agganciati al girovita. Noi. Insieme. All'epoca nessuno dei due scappava o inseguiva l'altro. Stavamo soltanto cercando, e ogni volta che uno di noi andava a controllare, l'altro era lì, in attesa di essere trovato. Ci siamo trovati a lungo, prima di perderci. Eccomi qua! dicevamo, dal profondo del cuore. Vieni a cercarmi. Facile come colorare l'arcobaleno.

E poi si parla di sessuologia e di vulve oracolari; di amicizie soffocanti e di notti d’amore mancate; di promesse mai mantenute e di vendette; per finire con Denuncia tempestiva, in cui si racconta forse un tentativo di violenza o forse uno di estorsione, in una storia geniale per il cambio di punto di vista, di prospettiva e per i mille dubbi che instilla nel lettore.

Ovviamente non tutti i racconti sono allo stesso livello, anche se i tre di cui ho citato il titolo sono sicuramente tra i racconti più belli che abbia mai letto. In ogni caso, Jeffrey Eugenides si dimostra bravo ed efficace anche nelle storie più brevi, che sono sempre incisive, in grado di coinvolgere a più livelli il lettore e che, soprattutto, non sembrano mai romanzi mancati (come spesso succede ai romanzieri che si prestano ai racconti, che pensano che si possano scrivere allo stesso modo).

Il secondo libro è L’ultima volta che siamo stati bambini di Fabio Bartolomei, uscito per e/o come tutte le sue opere precedenti.



Pur non conoscendolo personalmente, io a questo autore sento di voler un bene dell’anima e quindi, da quando l’ho scoperto tanti anni fa con La banda degli invisibili prima e con Giulia 1300 e altri miracoli poi, festeggio con entusiasmo l’uscita di ogni suo nuovo libro.

Protagonisti di L’ultima volta che siamo stati bambini sono Cosimo, Italo e Vanda.  Siamo nel 1943, la guerra e il fascismo hanno sfiancato il paese e mietuto già molte vittime. Loro hanno dieci anni, sono completamente diversi l’uno dall’altro eppure uniti da quei forti legami che si possono creare solo da bambini, quando si gioca insieme ogni giorno e si guarda al mondo e alle sue brutture senza capirle davvero. Quando il quattro membro del loro gruppo, Riccardo, viene portato via dai tedeschi insieme ai suoi genitori e ad altri ebrei, decidono di partire per andare a cercarlo: Vanda scappa così dall’orfanotrofio in cui vive, Cosimo lascia il nonno sapendo già che quando tornerà dovrà trascorrere molto tempo in punizione chiuso in cantina, Italo indossa la sua bella divisa da Balilla, sicuro che gli aprirà molte porte. Seguono i binari, perché è con il treno che Riccardo è stato portato via, quindi basta seguire le rotaie per arrivare dov’è andato lui, e si incamminano per un lungo viaggio che aprirà loro gli occhi su quanto sta succedendo davvero nel paese, segnando per sempre la fine della loro infanzia. A inseguirli, ci sono Suor Agnese, che ha sempre riversato su Vanda un enorme affetto, e Vittorio, il fratello di Italo che è ritornato dalla guerra con una ferita alla gamba e molti onori.

L’ultima volta che siamo stati bambini è un romanzo molto forte e commovente. E Fabio Bartolomei si dimostra ancora una volta molto bravo nel raccontare storie dal punto di vista dei bambini (se non l’avete ancora letto, leggete assolutamente il suo We are family, ne avrete conferma): è bravo a trasmetterne l’innocenza, il modo quasi disarmante di guardare il mondo,  il senso profondo di ingiustizia e il bisogno di ripararla, l’ingenuità che a poco a poco si trasforma in consapevolezza.

«Davvero pensavi di giocare con noi per tutta la vita?» Lo interrompe Vanda.
«Certo. Tu no?»
Lei ci riflette su, arrotola intorno al dito una ciocca di capelli.
«Sì, anche io a volte, però lo so che da grandi cambia tutto. Quando si cresce non si pensano le stesse cose di adesso».
«Allora dobbiamo promettere di diventare dei grandi diversi».

In alcuni punti, però, devo ammettere che ho avuto l'impressione che mancasse qualcosa, che l'autore non abbia spinto fin dove avrebbe potuto (forse per paura di diventare banale o ripetitivo?) nel racconto dell'avventura dei tre bambini, e ancor più dei loro inseguitori, perdendo così l'occasione di trasformare un bel libro in un vero e proprio capolavoro. In ogni caso, è davvero una lettura che merita.

Ho iniziato il mese di dicembre insieme a Jonathan Coe e al suo nuovo romanzo, Middle England, da poco uscito con Feltrinelli. Per me leggere Coe è sempre un po' come ritornare a casa e, anche se per il momento ho letto solo una sessantina di pagine, direi che la sensazione si sta riconfermando anche in questo caso. Spero solo di riuscire a parlarvene prima di gennaio. 


Titolo: Una cosa sull'amore
Autore: Jeffrey Eugenides
Traduttore: Katia Bagnoli
Pagine: 300
Editore: Mondadori
Anno: 2018
Prezzo: 20€
Acquista su Amazon:
formato cartaceo: Una cosa sull'amore
formato ebook: Una cosa sull'amore


Titolo: L'ultima volta che siamo stati bambini
Autore: Fabio Bartolomei
Pagine: 208
Editore: edizioni e/o
Anno: 2018
Prezzo: 16€
Acquista su Amazon:

martedì 23 ottobre 2018

LA BAMBINA OVUNQUE - Stefano Sgambati

In effetti da quando la ginecologa ha pronunciato la frase "Da adesso può nascere in qualsiasi momento" sono precipitato, e c'era da aspettarselo, in un abisso di letture e riletture delle più svariate sintomatologie: fosse per me mia moglie dovrebbe già essere ricoverata, osservata da dodici o tredici medici ventiquattro ore su ventiquattro, intubata e il suo organismo invaso di sostanze psicotrope calmanti, la sala d'attesa dell'ospedale gremita di parenti e amici, troupe televisive, giornalisti; invece è uscita.
Mia moglie è uscita
Per la precisione prima è uscita la pancia, poi mia moglie, che mi pare la segua:  segue una pancia enorme che contiene nasconde protegge nostra figlia, la persona qualunque che piegherà il piano inclinato del mondo.


I libri come La bambina ovunque di Stefano Sgambati, uscito a settembre per Mondadori, sono molto difficili da recensire. 
Potrei buttarla facilmente sulla tenerezza, che è uno dei sentimenti predominanti che si prova durante la lettura e anche una volta concluso il libro. La tenerezza di una coppia che si innamora e a poco a poco si scopre a vicenda; la tenerezza di un marito e di una moglie nella loro quotidianità, fatta di differenze caratteriali, a volte incomprensioni, a volte discussioni, e sempre amore; la tenerezza di un padre che non sa bene quale sia il suo ruolo (se davvero ne ha uno) durante i nove mesi di gravidanza di sua moglie; e la tenerezza dello stesso padre quando la bambina nasce e lui ancora non sa bene che farne; e infine la tenerezza del padre cresciuto, che guarda la figlia e quel che è diventata.

La madre tamburella le dita in quel punto e il padre capisce, perché è un gioco che fanno da tantissimo tempo, "darsi appuntamento" vicino agli oggetti sui tavoli, dietro al bicchiere, accanto al coltello; perciò raggiunge con la sua mano le dita tamburellanti di lei, gliele copre con il palmo, stop, è tutto lì, non c'è altro, il più grande e semplice gesto di pace che si sia mai visto in una cucina, lei gli sorride, sono bellissimi, la panciona di lei tocca il bordo del tavolo, sono bellissimi, sono la cosa più bella che io abbia mai visto e per un po' non dicono niente, non c'è un'altra proposta di matrimonio da fare, soltanto quella mano sopra un'altra mano e la torta rustica un po' sbocconcellata nei piatti, un forno a microonde bianco, un kitchen-aid arancione grazie al quale il padre sta imparando la panificazione, e c'è un pezzo di scottex sul pavimento che la madre proverà più tardi a raccogliere, subito bloccata da lui, che le dirà "Lascia lascia", e così tutti i giorni, da quasi nove mesi e così sarà per sempre, ma a turno, aiutarsi, venirsi incontro, incantarsi.

Potrei altrettanto facilmente buttarla sul personale, visto che io e mio marito siamo più o meno coetanei di questo padre e di questa madre e anche a noi piaceva guardare Masterchef in tv finché c’era Cracco (il programma dei pacchi no, non l’ho mai sopportato invece, nemmeno come sottofondo). Di figli noi non ne abbiamo ancora, anche se è un argomento di cui ogni tanto si parla, che aleggia tra noi in modo più o meno serio (di solito con buffi accostamenti di nomi con il cognome), ma che, onestamente non sappiamo se e quando sarà. E nemmeno come, se dovremo anche noi affrontare quello che hanno affrontato i protagonisti di La bambina ovunque, tra FIVET, campioni di sperma e siringhe di ormoni schizzate sullo specchio del bagno.

E ogni tanto ci ritrovavamo svegli entrambi su un letto umido che sembrava una zattera e avevamo fatto da poco l'amore per la quattordicesima volta di fila nei Giorgi Giusti e di nuovo e sempre orbitava sopra di noi, a pochi centimetri dal naso, la sensazione misteriosa e inesplicabile che avessimo fallito ancora, che qualcosa tra me e mia moglie si opponesse.

Ma se mi limitassi a buttarla sulla tenerezza e sul personale, non credo riuscirei a rendere giustizia al libro, perché, al di là dell’empatia con i protagonisti, al di là delle proprie esperienze e della facile commozione di fronte quegli episodi quotidiani della vita di coppia che quasi la tengono su, in questo c’è anche tanto altro.

La bambina ovunque è un memoir ironico e sincero, che non edulcora nulla, in cui questo padre s’interroga su quale sia il suo posto, senza lasciarsi prendere dalle smancerie o dall'entusiasmo che ci si aspetterebbe necessariamente da chi sta per avere un figlio. Stefano ammette subito di non essere tanto convinto all'inizio, di farlo più per soddisfare il desiderio di maternità della moglie; racconta quanto sia stato difficile arrivarci, quanto imbarazzo abbia provato nel momento di fornire il suo contributo in un barattolino, quanto sia stato difficile accettare che quell'esserino minuscolo sia arrivato nelle loro vite per stravolgerle talmente tanto che nemmeno le terribili notizie in tv possono distogliere l’attenzione da quel fagottino inerte.

Mi è piaciuto forse un pochino meno il capitolo finale, quello in cui il memoir si trasforma in finzione e il padre guarda la figlia e com'è diventata. Per quanto dolce sia ritrovarla da grande in uno dei luoghi preferiti dell'autore, questa proiezione nel futuro attribuisce a questa bambina ovunque (che oggi di anni dovrebbe averne un paio) una certa "responsabilità" che non so quanto sia giusto che abbia.

In ogni caso, La bambina ovunque è un libro divertente e a tratti molto tenero, da cui è facile lasciarsi coinvolgere, soprattutto se si è vicini all'età dei protagonisti. Ma, soprattutto, è un libro molto vero, reale, che dà voce a quei pensieri che magari molti genitori, soprattutto padri, fanno quando stanno aspettando un figlio, senza aver però il coraggio di pronunciarli. E che poi, una volta che il figlio arriva, a poco a poco spariscono, sostituiti dall'amore, dalla scoperta, dal vedere un noi fatto di due, diventare di tre.


Titolo: La bambina ovunque
Autore: Stefano Sgambati
Pagine: 137
Editore: Mondadori
Anno: 2018
Prezzo: 18,00
Acquista su Amazon:
formato cartaceo: La bambina ovunque
formato ebook: La bambina ovunque

giovedì 9 agosto 2018

IL MARE DOVE NON SI TOCCA - Fabio Genovesi

Agiti le gambe, le braccia, annaspi, bevi anche un po’, ma poi sei a galla, respiri, vivi.



Non ho mai creduto troppo nel potere curativo dei libri. I libri ti aprono la mente, ti insegnano cose, ti divertono, ti fanno passare il tempo, ti fanno piangere, commuovere o arrabbiare e, in qualche modo, sì, ti tengono compagnia. Ma, almeno per quanto mi riguarda, nei momenti più bui della vita non possono fare proprio niente. Non ti aiutano ad affrontare il dolore. Non ti spiegano come andare avanti, né come combattere quel magone che ti attanaglia il cuore e lo stomaco e ti toglie il fiato. A volte riescono ad alleviarlo un po’, certo. A farti distrarre e, perché no, anche sorridere. Però le loro capacità, almeno con me, finiscono lì. E di solito in questi periodi io dalla lettura tendo ad allontanarmi: leggo poco e male, non trovo mai il libro giusto che mi soddisfi... ma forse semplicemente perché la mia testa, in quel momento, proprio non ne vuole sapere.

È più o meno quello che mi sta succedendo nell'ultimo mese e mezzo, in cui mi sto ritrovando a fare i conti con una perdita improvvisa, inaspettata e devastante. È per questo che ho letto poco e male. Che non riesco a concentrarmi se non sulle cose di lavoro su cui devo farlo per forza. Che apro un libro e poi lo richiudo, ne apro un altro e poi lo richiudo, e così via, fino a lasciar perdere. Sono riuscita a leggere qualche fumetto, qualche cosa scema che ha davvero portato per un momento la mia testa da un’altra parte, ma non molto di più.

Finché non è arrivato Il mare dove non si tocca di Fabio Genovesi. Lo puntavo già da un po’, in realtà. Da ben prima di ritrovarmi io stessa ad annaspare e cercare di stare a galla in un mare dove non si tocca. Ma mi è arrivato proprio adesso e, memore di quanto abbia amato Chi manda le onde, ho capito che per uscire da questo periodo di letture inconcludenti lui poteva sicuramente aiutarmi.

Protagonista è Fabio Mancini, un bambino di sei anni, che vive con i genitori, la nonna e una pletora di nonni, in realtà fratelli del suo nonno ufficiale che invece non c’è più. È una famiglia un po’ strampalata, quella di Fabio, che si trascina dietro una terribile maledizione che sembra colpire solo ed esclusivamente i maschi. Ma lui tra una battuta di pesca, la ricerca di funghi e mille altre singolari avventure in cui viene trascinato dai nonni-zii, non sembra preoccuparsene troppo. Finché non inizia la scuola e Fabio scopre che esiste anche un altro mondo oltre a quello della sua famiglia. E soprattutto, che esistono anche altri bambini. Per lui stare al passo con questo nuovo mondo “normale” non è per niente semplice. Per fortuna ci sono i suoi genitori, una madre che lo protegge in ogni modo dalle brutture del mondo e un padre di poche parole ma in grado di costruire e aggiustare qualunque cosa. 
A complicare le cose per Fabio arriva una bambina-coccinella e soprattutto un’enorme catastrofe famigliare, che rende il suo crescere ancor più difficile. Ma lui combatte, fa di tutto per non farsi schiacciare dalle brutture del mondo e non farsi portare via le sue stranezze, che sono la cosa più bella e preziosa che ha. Fa di tutto per non smettere di credere.

Infatti il problema vero era proprio questo, che in giro c'erano mille cose da vedere, da vivere e imparare, ma io stavo piantato qua, fra una stanza di ospedale e il Villaggio Mancini. E quando non leggevo al babbo, quando non pedalavo fortissimo sulla bici per sentire il cuore che mi usciva dalle orecchie e il vento che mi rubava le lacrime, quando la mamma non mi stringeva nel suo abbraccio che mi toglieva il respiro e anche i pensieri, ecco, io mi sentivo tanto sperso e tanto, tantissimo solo.
Solo, sì, anche se a casa avevo un villaggio intero di zii, che già prima si erano promossi a nonni e adesso si comportavano pure da babbi. La solitudine è così, non devi mica essere solo per sentirla, ti prende anche in mezzo alla folla, perché quando ti senti solo davvero non è che ti mancano tante persone, te ne manca una, ma tanto.

Il mare dove non si tocca è un romanzo dolce, divertente e commovente, come solo Fabio Genovesi li sa scrivere. Credo non ci sia stata nemmeno una delle sue 318 pagine in cui io non abbia sorriso o mi sia commossa (alcune volte proprio fino alle lacrime) per le avventure, i pensieri e il grande coraggio del piccolo Fabio nell’affrontare il mondo.
Certo, ci sono molte somiglianze, molti trascorsi famigliari che mi fanno sentire questo libro particolarmente vicino: un libro letto a qualcuno che non si sa se può sentirti; una mano che si alza all’improvviso e ti saluta, togliendoti il respiro; l’attesa, la speranza che si alternano allo sconforto; il ritrovarsi ad annaspare in un mare dove non si tocca e metterci un po’ a capire che basta smettere di agitarsi per non annegare. 

Il mare dove non si tocca è in qualche modo un romanzo di formazione, ma anche un elogio delle nostre bizzarrie, delle nostre stranezze che ci rendono speciali. Ed è un inno al volersi bene, sempre e comunque, perché è l’unico modo per sopravvivere in un mondo che spesso fa di tutto per farci andare a fondo.
Ho adorato Fabio e la sua visione del mondo, questo continuo tira-e-molla tra il modo e l’ambiente in cui è cresciuto e la voglia di uscirne, di essere “normale”, per poi scoprire che tutto sommato la normalità è un po’ sopravvalutata. Ma ho adorato ancor di più i suoi nonni-zii strampalati, con le loro storie e i loro racconti,  e ancor di più il suo papà aggiusta-tutto.

E infatti l'amore, ecco, anche l'amore è una cosa che se non c'eri quando c'era la guerra non la puoi capire. Uno dice che in guerra impari a morire o ammazzare, e sarà anche vero, ma soprattutto impari a fare l'amore. È proprio una cosa diversa, fare l'amore quando c'è la guerra. È come bere un bicchiere d'acqua: te lo sai che a me l'acqua fa schifo e non la bevo mai, però bere un bicchiere d'acqua nel deserto quando muori di sete dev'essere stupendo. E uguale fare l'amore in mezzo alle bombe e alla morte. È una cosa centomila volte più forte, ti ci aggrappi proprio.

Il dolore e lo sconforto di questo ultimo mese e mezzo non se ne sono andati. Questo libro non mi ha curato, no. Ma è stato un po’ un balsamo che, con la sua dolcezza e il suo mostrare una luce anche nei momenti più duri, è riuscito ad alleviare per un momento sia le ferite vecchie, con cui con il tempo ho imparato a convivere ma che ogni tanto si fanno ancora sentire, sia quelle nuove, ancora completamente aperte. Ho preso un po' di fiato, insomma, tra un annaspare e l'altro, tra un'onda che ti tira giù e la lotta per rimanere a galla.

E direi che a un libro non si potrebbe proprio chiedere di più.

Titolo: Il mare dove non si tocca
Autore: Fabio Genovesi
Pagine: 318
Anno di pubblicazione: 2017
Editore: Mondadori
Prezzo di copertina: 19€
Acquista su amazon:
formato cartaceo: Il mare dove non si tocca
formato ebook: Il mare dove non si tocca

mercoledì 2 maggio 2018

MANHATTAN BEACH - Jennifer Egan

Dopo anni di lontananza il padre le fu di nuovo vicino. Non riuscì a vederlo, ma sentì il dolore nodoso delle sue mani sotto le ascelle quando la sollevava da terra per portarla in braccio. Udì il tintinnio attutito degli spiccioli nelle tasche dei pantaloni. La sua mano era una presa elettrica dove lei infilava sempre la propria, ovunque andassero, anche quando non le importava. Anna si fermò, stordita dalla forza di quelle impressioni. Senza pensarci, si portò le dita al viso, aspettandosi quasi l'odore caldo, amaro del tabacco di suo padre.


Manhattan Beach, uscito da poco per Mondadori con la traduzione di Giovanna Granato, è il primo romanzo che leggo di Jennifer Egan. Non so se sia una premessa necessaria oppure no, perché se da un lato le più frequenti critiche che ho letto nei confronti di questo libro riguardavano proprio il suo essere completamente diverso rispetto alle opere precedenti (Guardami, La fortezza, Il tempo è un bastardo e Scatola nera usciti tutti per minimum fax con le traduzioni di Matteo Colombo e Martina Testa), dall’altro sono convinta che uno scrittore che riesca a cambiare drasticamente il suo stile ed essere comunque convincente sia per forza di cose un bravo, bravissimo scrittore. Già solo per il fatto di aver osato cambiare, sapendo benissimo di andare contro alle aspettative di tutti i suoi precedenti lettori. 
Comunque, io di Jennifer Egan non avevo mai letto niente e Manhattan Beach mi è piaciuto molto. Sarà che ho una passione per i romanzi che, attraverso personaggi inventati seppur ispirati a qualcuno di reale, raccontano un periodo storico ben preciso. E più pagine hanno, più fitti sono gli intrighi, più a fondo scavano nella società di un’epoca, più mi piacciono.

Con Manhattan Beach andiamo nella New York degli anni ’30 e poi ’40, insieme ad Anna, bambina che segue suo padre Eddie quando va in giro a svolgere gli affari per il sindacato che sta tenendo in vita lui e la sua famiglia, e poi donna adulta che si occupa della famiglia lavorando nel cantiere navale in preparazione alla guerra e intanto sogna di diventare palombara. 
Da piccola ad Anna piaceva andare in giro con suo padre. Tra loro c’era un legame speciale: lui la adorava, quasi in contrasto con quello che provava verso l’altra figlia, Lydia, nata con un grave problema di salute; lei amava stare in auto con lui, tenerlo per mano e mantenere ogni segreto che lui le chiedeva di mantenere. I loro cammini iniziano però a dividersi quando Eddie decide di accettare di lavorare per Dexter Styles, un uomo molto potente nella New York di quegli anni grazie ai suoi traffici non proprio puliti, che però garantirebbero una vita migliore a tutta la famiglia. 
Anni dopo, di Eddie non c’è più traccia. Sparito nel nulla un giorno, lasciando la moglie e le due figlie e senza mai più dare notizie. Anna è delusa dal padre, ma a poco a poco pare essersi abituata alla sua assenza. Lavora come molte altre donne, che quando gli uomini sono stati chiamati alle armi, hanno occupato il loro posto, ma a differenza delle altre lei non ci sta a essere solo una sostituta e a vedersi preclusi posti che agli uomini non sono. Così, il giorno in cui vede degli uomini immergersi con un enorme scafandro, decide che quello sarà il suo destino: diventare palombara. 
Finché una sera, proprio grazie a una sua collega, dopo tanti anni incontra Dexter Styles. Subito non si ricorda di lui, di quel giorno di tanti anni fa in cui ha accompagnato suo padre a casa sua, dando inizio a tutto quanto. Poi a poco a poco i ricordi tornano a galla e la voglia di scoprire cosa è successo si fa di nuovo viva. Anna è disposta a tutto pur di capire, di sapere, di ritrovare suo padre, vivo o morto.

Jennifer Egan ha scritto un romanzone, è l’unico modo in cui riesco a definire Manhattan Beach. Un romanzo storico in qualche modo, che descrive diversi aspetti di quell’epoca: da un lato le difficoltà economiche di chi è stato schiacciato dalla crisi, dall’altro chi invece riesce ad arricchirsi e a sfruttare questa crisi; l’epoca della seconda guerra mondiale, dal punto di vista di chi parte ma anche da quello di chi resta e aiuta come può. Ma ha scritto soprattutto un grande storia famigliare, con una protagonista incredibile.

Rose si era sbagliata dicendo che il mondo sarebbe tornato di nuovo piccolo. O almeno non sarebbe mai più stato il piccolo mondo di prima. Erano cambiate troppe cose. E, fra una trasformazione e un riallineamento, Anna si era infilata in una crepa ed era scappata.

Leggendo questo libro si percepisce poi quanto l’autrice si sia divertita a scriverlo, a fare ricerche, scavare nelle storie e nei racconti di chi quell'epoca l’ha vissuta per fornirne un ritratto il più reale e fedele possibile, nonostante l’uso di personaggi inventati. 
Non tutti sono in grado di farlo. Non tutti sono in grado di scrivere un romanzo così articolato, con così tanti legami, intrecci, colpi di scena, momenti di tenerezza e di fragilità, ma anche di forza, coraggio e tenacia, e riuscire a tenere il lettore sempre lì, immerso nelle pagine come Anna lo è nel mare del porto nel suo scafandro. 

E forse sì, forse Manhattan Beach è un romanzo più “classico”, diverso dalle opere precedenti dell’autrice e dallo sperimentalismo che da sempre si associa allo stile e alla scrittura della Egan. Ma questo non vuol dire che non possa essere altrettanto bello. 


Titolo: Manhattan Beach
Autore: Jennifer Egan
Traduttore: Giovanna Granato
Pagine: 510
Anno di pubblicazione: 2018
Editore: Mondadori
Prezzo di copertina: 22€
Acquista su amazon:
formato brossura:Manhattan beach
formato ebook: Manhattan Beach (versione italiana)

giovedì 28 settembre 2017

MIA NONNA SALUTA E CHIEDE SCUSA - Fredrik Backman

"Modificare i ricordi è un bel superpotere" ammette Elsa.
La nonna alza le spalle.
"Se non si riescono a eliminare le cose brutte, basta mettercene sopra altre megliose."
"Non esiste quella parola."
"Lo so."
"Grazie, nonna" dice Elsa appoggiandole la testa sul braccio.
Allora la nonna annuisce e sussurra: "Noi cavalieri del regno di Miamas facciamo solo il nostro dovere".
Perché tutti i bambini di sette anni si meritano dei supereroi.
E chi non la pensa così è fuori di testa.


Ho conosciuto lo scrittore svedese Fredrik Backman con il suo primo romanzo, L’uomo che metteva in ordine il mondo, pubblicato da Mondadori nel 2014.
Ero stata un po’ indecisa se leggerlo o meno, in realtà, per via di quel titolo un po’ respingente nella sua banalità. Ma quel romanzo in qualche modo mi chiamava. E alla fine, superate le remore, è stata una delle letture più belle di quell’anno.
Una rivelazione, sia per quanto riguarda la trama sia per lo stile, per quella capacità che Backman ha di mescolare momenti tristi ad altri molto buffi, scene commoventi ad altre esilaranti.

Due anni dopo è uscito Mia nonna saluta e chiede scusa, sempre edito da Mondadori e tradotto da Andrea Stringhetti. Un titolo che trovo fenomenale e che quindi, alla prima occasione, mi sono fatta regalare. E ci ho ritrovato esattamente tutto quello che avevo trovato nel primo romanzo, con anzi forse qualcosa in più.

Elsa è una bambina di sette anni, quasi otto, con una passione smodata per Harry Potter e Wikipedia, un’intelligenza superiore alla media che agli occhi degli altri bambini la etichetta come diversa, e una nonna supereroe che non sta ferma un attimo e che inventa per lei le avventure più fantastiche. È lei che aiuta la piccola Elsa a sconfiggere le sue paure, è lei che ha creato mondi magici in cui rifugiarsi e creature fantastiche da accudire, è lei che quando la nipote è giù di morale la porta in uno zoo di notte a vedere le scimmie per poi farsi arrestare. Ed è sempre lei che, quando se ne va, lascia in Elsa un vuoto che la piccola non sa bene come colmare. La nonna sapeva che sarebbe stato così, e, come ultimo gesto prima di morire, organizza per Elsa una misteriosa caccia al tesoro, fatta di lettere che la bambina deve consegnare, che la porterà a conoscere meglio tutti i suoi vicini di casa e le loro storie. C’è Alf, tassista scorbutico che beve sempre caffè. C’è la donna con il bambino con la sindrome. C’è quella che si veste sempre di nero, colore della sua anima. C’è Cuore di Lupo, con manie ossessivo compulsive che Elsa si divertirà a stuzzicare. Ci sono Maud e Lennard, la prima e la seconda persona più gentili al mondo, che curano tutto con caffè, abbracci e biscotti a forma di sogni. Ci sono Britt-Marie, che sorride sempre ben disposta e ha un’ossessione per le regole, e il marito Kent, sempre al telefono. E poi ci sono Ulrica, la mamma di Elsa, incinta del suo nuovo compagno George, un uomo che Elsa vorrebbe odiare, un po' perché vuole bene al suo papà sempre dubbioso, un po' perché tutti lo amano. Tanta gente popola quel palazzo e, a poco a poco, Elsa scoprirà tutte le loro storie, tutti i legami che li univano a sua nonna e, soprattutto, tra loro. Legami che difficilmente potranno sciogliersi.

Ancora una volta Fredrik Backman è riuscito a stupirmi. Leggendo Mia nonna saluta e chiede scusa più volte mi sono ritrovata un sorriso sulle labbra, a volte di vera e propria allegria, altre per come l’autore decide di risolvere le situazioni più tristi (di cui questo libro, in effetti, è ricco perché la storia che lega i vari personaggi non è delle più felici) e cercare il più possibile di far stare tutti bene.
Perché si può essere tristi quando si mangiano i babbi natale gommosi. Ma è molto, molto, molto difficile.
(Ok, confesso che a un certo punto ho anche pianto, insieme alla piccola protagonista e ai suoi nuovi amici, ma, di nuovo, era un pianto inevitabile per poter poi stare meglio).

Qualcuno ha definito i libri di questo autore un balsamo per l’anima, dei libri che scaldano il cuore e che, una volta finiti, ti lasciano addosso una bella sensazione. E per quanto io rifugga un po’ queste frasi per descrivere i libri, in questo caso sono semplicemente perfette. È vero, leggi Mia nonna saluta e chiede scusa (ma anche L’uomo che metteva in ordine il mondo) e ti senti bene. È vero, in certe scene senti proprio un calore nel petto, per come viene descritto quello che succede, per il modo in cui questa bambina di sette anni quasi otto guarda il mondo che la circonda e affronta le sue paure. È vero, lo chiudi con addosso una bella sensazione, che non ti lascia, che ritorna ogni volta che ci pensi e che ti fa ritornare lo stesso sorriso sulle labbra di quando stavi leggendo.

E Maud prepara i sogni, perché quando il buio è troppo grande per farcela e troppe cose si sono rotte in troppi modi perché si possano riparare, Maud non sa davvero che arma usare se non i sogni.
Quindi fa così. Un giorno alla volta. Un sogno alla volta. Si può pensare che sia giusto e si può pensare che sia sbagliato. E di sicuro si ha ragione in entrambi i casi. Perché la vita è sia complicata che semplice.
Per questo esistono i biscotti.

E diamine se certe volte servono i sogni e i biscotti. E anche i libri come questo.


Titolo: Mia nonna saluta e chiede scusa
Autore: Fredrik Backman
Traduttore: Andrea Stringhetti
Pagine: 401
Anno di pubblicazione: 2016
Editore: Mondadori
Prezzo di copertina: 19,50€
Acquista su Amazon:
formato brossura: Mia nonna saluta e chiede scusa
formato ebook: Mia nonna saluta e chiede scusa

venerdì 1 settembre 2017

VERSILIA ROCK CITY - Fabio Genovesi

Il piccolo Mozzi sa un sacco di cose sulla vita, anche se la vita non sa niente di lui. Una specie di amore non corrisposto. Sa che gli uomini molto muscolosi non possono accostare le braccia ai fianchi, che le orche assassine tra loro non si assassinano mica e anzi quando si incontrano si presentano con nome e cognome, che il colore della domenica pomeriggio è fegato misto al viola, che la corteccia degli alberi è amara e anche la terra. E un'altra cosa che sa è questa, che i fatti quando succedono succedono così, tutti insieme.


Versilia Rock City, pubblicato per la prima volta nel 2008 da Transeuropa e poi di nuovo da Mondadori in una versione revisionata nel 2013, è il primo romanzo di Fabio Genovesi.

È un’informazione importante, questa. O almeno lo è stata per me, che ho iniziato a leggere questo scrittore toscano partendo dal suo ultimo romanzo, Chi manda le onde, innamorandomene perdutamente. Ho poi recuperato Esche vive, il suo penultimo, e anche in quel caso mi sono divertita da matti. Ero quindi molto curiosa di leggere altro, e dato che il suo nuovo romanzo, Il mare dove non si tocca, uscirà il 5 settembre (sempre per Mondadori), per ingannare l’attesa ho recuperato appunto Versilia Rock City. Per scoprire dove tutto è cominciato.

Ed è cominciato tutto a Forte dei Marmi, d’inverno, con la storia di quattro personaggi le cui vite non stanno andando esattamente come avevano immaginato. Mario, per esempio, per un certo periodo è stato un dj di successo, ma da diversi anni vive con sua madre letteralmente tappato in casa, senza mai muoversi. Renato, invece, si è trasferito a Milano, a gestire un’agenzia internazionale di modelle, ha detto ai suoi amici, a organizzare finti viaggi esotici per chi non se li può permettere invece. Roberta è un avvocato di successo, che fa tutte le cose che da lei ci si aspetterebbero: va in enoteca, esce con i colleghi, rispetta sempre le regole, ha una vita piena, anche se in realtà si sente molto sola. Lo capisce quando nella sua vita ricompare Nello, un ex tossico che ora vive in un capanno nel cortile di casa di Mario, suo nipote, e sogna di diventare un pirata.

Le vite di tutti e quattro all’improvviso vengono stravolte, in modi abbastanza bislacchi: c’è chi riceve una mail piccante che potrebbe cambiargli la vita; chi si ritrova ad affrontare le conseguenze di un tsnunami; chi si innamora perdutamente di qualcuno di cui sarebbe meglio non innamorarsi e chi, invece, scopre di avere un piccolo sé, di cui tutti tranne lui erano all’esistenza. 

Ecco cosa può succedere a Forte dei Marmi d'inverno. Ecco come quattro vite possono venire completamente stravolte all’improvviso e quasi senza un senso, per poi scoprire che forse, dopotutto, un senso si può trovare anche in questi casi. Anzi, soprattutto.

Ho un brutto rapporto io col passato. Mi sa che a un certo punto ci siamo fatti uno sgarbo e non ci parliamo più. E anche il futuro, che io giuro non gli ho fatto niente, evita di frequentarmi. Secondo me è il passato che gli parla male di me.

Versilia Rock City, dicevamo, è il primo romanzo di Fabio Genovesi. E si sente. Lo stile non è ancora quello dei romanzi successivi: fa ridere e ci sono alcune grandi verità che quasi sfuggono, piazzate lì per caso tra una parolaccia, un episodio buffo e grottesco e una valanga di sfighe, questo sì, ma manca qualcosa di ciò che mi ha fatto amare Esche vive e Chi manda le onde.
Anche la trama, in alcuni punti, è forse un po’ troppo frettolosa: di quasi tutti i personaggi avrei voluto sapere di più, sul come sono arrivati a essere quello che sono, sul legame che li unisce. Mancano un po’ di risposte a certi perché che inevitabilmente sorgono durante la lettura.

Ma il ragazzo si doveva ancora fare, è evidente. E come esordio non è per niente male. Perché se da un lato ci sono alcune mancanze, non si può negare che ci siano già molti accenni dei suoi tratti distintivi: il linguaggio, l'ironia, i personaggi quasi grotteschi e soprattutto un grande, grandissimo bambino (i bambini come li racconta Genovesi mi commuovono sempre tanto).

Non so dire, però, se partendo da Versilia Rock City mi sarei comunque innamorata così tanto di questo scrittore: mi avrebbe  lasciato un po’ di curiosità per i romanzi successivi, ma forse non al punto da non vedere l’ora che esca una sua nuova storia.
Quindi leggetelo e se una volta chiuso penserete “carino e divertente, ma nulla di più”, be’, date a Genovesi altre possibilità. Perché se le merita tutte.

Titolo: Versilia Rock City
Autore: Fabio Genovesi
Pagine: 211
Anno di pubblicazione: 2013
Editore: Mondadori
Prezzo di copertina: 10€
Acquista su amazon:
formato brossura: Versilia rock city

giovedì 20 luglio 2017

Ritornare a Macondo: ovvero leggere e rileggere Cent'anni di solitudine di Gabriel García Márquez

Sul finire del maggio del 1967, la casa editrice argentina Editorial Sudamericana pubblicò per la prima volta Cien años de soledad dello scrittore colombiano Gabriel García Márquez.
Lo scrittore, che aveva iniziato la sua carriera come giornalista, carriera che non abbandonò mai per tutto il corso della sua vita, aveva già pubblicato tre romanzi (La hojarasca, El coronel no tiene quien le escriba e La mala hora, ovvero Foglie morte, Nessuno scrive al colonnello e La mala ora, tradotti in italiano però solo più tardi), ma la sua consacrazione, soprattutto a livello internazionale, arrivò proprio con la storia della famiglia Buendía

Da allora sono passati cinquant'anni. Il libro è stato letto da milioni di persone, è stato tradotto in più di trenta lingue, è considerato da molti uno dei capolavori letterari del XX secolo e ha svolto un ruolo fondamentale per l'assegnazione a Gabriel García Márquez del premio Nobel per la letteratura del 1982.

La prima traduzione italiana di Cent'anni di solitudine risale all'anno successivo all'uscita, il 1968. A portare il libro in Italia è stato l’editore Feltrinelli e, soprattutto, il traduttore Enrico Cicogna, molto attivo in quegli anni nella scoperta di alcuni autori sudamericani (oltre a García Márquez, Mario Vargas Llosa e Manuel Puig).

Quarantanove anni per una traduzione sono indubbiamente tanti e la necessità di una revisione abbastanza evidente. Oltre all'evoluzione della lingua e di alcune regole grammaticali e ortografiche, spesso in traduzioni così vecchie si trovano anche fraintendimenti di significato e veri e propri errori (non bisogna dimenticare che i mezzi a disposizione dei traduttori un tempo erano molto limitati).
Per festeggiare questo cinquantesimo compleanno, quindi, Mondadori (nuovo editore dei romanzi di Garcí Márquez a partire dall’inizio degli anni ‘80) ha deciso di regalare a Cent’anni di solitudine e a tutta la famiglia Buendía una nuova traduzione, a opera di Ilide Carmignani.



Questa nuova traduzione, come la stessa traduttrice spiega nella nota finale al libro, si basa sull'edizione commemorativa data alle stampe dalla Real Academia Española e dalla Asociación de Academias de Lengua Española nel 2007, in occasione degli ottant'anni dello scrittore. Una versione considerata “definitiva”, che scioglieva alcuni dubbi interpretativi e sistemava errori, su cui aveva lavorato lo stesso García Márquez:
“Nel 2007, in occasione dell’ottantesimo compleanno di Gabriel García Márquez e dei quarant’anni dalla prima pubblicazione, la Real Academia Española e dalla Asociación de Academias de Lengua Española hanno dato alle stampe un’edizione commemorativa che fissa definitivamente il testo: attraverso un minuzioso lavoro di collazione delle edizioni precedenti, realizzato con la supervisione dell’autore, sono state risolte espressioni dubbie ed emendati errori; l’autore stesso ha poi effettuato interventi di natura stilistica relativi al lessico, alla costruzione sintattica e alla punteggiatura. È su questa edizione rivista e corretta che è stata realizzata la presente traduzione”.
Nella stessa nota, ma anche in un bell'articolo di confronto scritto da Ida Bozzi e pubblicato su laLettura del 25 giugno 2017, Ilide Carmignani spiega l’approccio seguito da Cicogna durante la traduzione e quali modifiche ha apportato invece lei affrontando di nuovo questo testo, alla luce anche dei nuovi mezzi a disposizione.
In quasi cinquant’anni la lingua è italiana è molto cambiata, così come sono cambiate le strategie di mediazione linguistico-culturale, oggi più rispettose dell’alterità dei testi. Per aiutare i lettori, che all’epoca viaggiavano ben poco, si usava ad esempio addomesticare i culturemi, e infatti la traduzione di Cicogna trasforma il sanchoco, piatto tipico colombiano a base di verdure locali, in un generico stufato. […] Strettamente legata allo “specchio dei tempi” è infine la tendenza esotizzante della traduzione di Cicogna, che esalta con forza la componente magica a scapito di quella realistica: sinonimi rari e desueti si sovrappongono al traducente naturale italiano, per cui medanos, secche, viene reso con sirti, oppure al contrario si scelgono soluzioni iperletterali ricalcando il suo dei termini spagnolo a detrimento del senso.

Nel corso della mia vita, ho letto questo romanzo diverse volte, in tre edizioni differenti:


La prima volta nella traduzione di Enrico Cicogna in un vecchio volume dalle pagine ingiallite e la rilegatura ormai distrutta, dopo essere passato tra le mani di mio padre, mia sorella e mio fratello (un libro poi sostituito da un’edizione più recente, nella collana dei Grandi Classici del '900 in edicola con Repubblica qualche anno fa, che però, per forza di cose, non aveva lo stesso fascino).

All’inizio, come mi è già capitato più volte di raccontare, io Cent’anni di solitudine non lo volevo leggere. Tutti in casa mi dicevano che avrei dovuto, che era un libro bellissimo, che mi sarebbe piaciuto tanto. Ma visto com'ero da adolescente, dirmi quelle cose non era una spinta ma un ostacolo.
Poi nell'estate tra la prima e la seconda liceo (o tra la seconda e la terza, non ricordo più bene… avrò avuto quindici anni comunque), Cent’anni di solitudine compariva insieme a una ventina di altri libri nella lista tra cui scegliere le letture per le vacanze. C’era anche L’amore ai tempi del colera, primo romanzo scritto da García Márquez dopo aver vinto il premio Nobel, e, per non dare ai miei quella soddisfazione, lessi prima quello. E mi innamorai perdutamente della storia di Florentino Ariza e Fermina Daza. Capii così che era arrivato il momento anche per Cent’anni di solitudine.

Così ho conosciuto Aureliano Buendía, il colonnello che "ha preso parte a trentadue rivoluzioni e trentadue rivoluzioni le ha perdute", che ha avuto altrettanti figli e che è riuscito a sopravvivere persino davanti a un plotone di esecuzione.
“Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito”.
Ho conosciuto Úrsula e José Arcadio Buendía, Amaranta e Rebeca e le loro passioni amorose, Melquiades e la bella Remedios, e pian piano tutte le generazioni di Buendía che hanno popolato Macondo, questo paese della Colombia caraibica fondato proprio da loro.

Temevo che mi sarei persa in questo fiume di personaggi che si susseguono (gli alberi genealogici che si trovano di solito a inizio o fine volume in quasi tutte le edizioni aiutano molto), in questo paesino dove realtà e magia si mescolano con naturalezza (non per niente questo libro viene considerato uno dei capostipiti del “realismo magico”) e anche le cose più assurde vengono considerate normali.
E invece no, non mi sono persa. O forse sì, ma è stato un perdersi bello, un perdere il contatto con la realtà e immergersi per le strade di Macondo seguendo le sue avventure, il suo fiorire e la sua successiva decadenza nel corso degli anni.

So che può sembrare retorico, ma da allora quel romanzo è diventato una parte di me. Sono andata avanti per mesi (e ogni tanto lo faccio ancora adesso) ad ascoltare l’album Terra e Libertà dei Modena City Rambles, al cui interno ci sono alcune canzoni che ispirate proprio ai personaggi di Cent’anni di solitudine (tipo questa). A lungo sono rimasta convinta che avrei chiamato mia figlia Remedios (anche Amaranta, in realtà, non mi dispiaceva) e che magari, chissà, un giorno mi sarei trovata circondata da farfalle dorate o sarei volata via insieme alle lenzuola.
“Ti senti male?” le chiese.
Remedios la bella, che teneva stretto il lenzuolo all’altro capo, fece un sorriso di compatimento.
"Macché,” disse, “non mi sono mai sentita così bene.”
Aveva appena finito di dirlo, quando Fernanda sentì che un delicato vento di luce le strappava le lenzuola dalle mani e le spiegava in tutta la loro ampiezza. Amaranta sentì un tremito misterioso nei pizzi delle sue sottane e cercò di aggrapparsi al lenzuolo per non cadere, nell’istante in cui Remedios cominciava a sollevarsi. Ursula, già quasi cieca, fu l’unica che ebbe tanta serenità da riconoscere la natura di quel vento ineluttabile, e lasciò le lenzuola alla mercé della luce, e vide Remedios la bella che la salutava con la mano, tra l’abbagliante palpitare delle lenzuola che salivano con lei, che uscivano con lei dall’aria degli scarabei e delle dalie, e con lei attraversavano l’aria in cui si spegnevano le quattro del pomeriggio, e con lei si perdevano per sempre nelle alte arie dove non potevano raggiungerla nemmeno i più alti uccelli della memoria.
Poi, in parte proprio per questo libro, ho scelto di studiare spagnolo all'Università, perché volevo leggerlo in lingua originale. Ho aspettato circa un anno, per avere almeno le basi dello spagnolo (lingua da cui partito proprio da zero) prima di cimentarmi in quest’impresa. Poi me ne è stata regalata una copia, edita da Catedra e con un buffo colonnello Aureliano in copertina.





Ricordo di aver aperto il libro per la prima volta con un po’ timore riguardo alla difficoltà della lingua e alla mia comprensione. Poi ho letto l’incipit e mi sono ritrovata ancora una volta persa per Macondo, a forgiare pesciolini d’argento e a temere che il prossimo figlio nascesse con la coda di maiale.
Muchos años después, frente al pelotón de fusilamiento, el coronel Aureliano Buendía había de recordar aquella tarde remota en que su padre lo llevó a conocer el hielo. Macondo era entonces una aldea de veinte casas de barro y cañabrava construidas a la orilla de un río de aguas diáfanas que se precipitaban por un lecho de piedras pulidas, blancas y enormes como huevos prehistóricos. El mundo era tan reciente, que muchas cosas carecían de nombre, y para mencionarlas había que señalarlas con el dedo
Da allora mi è capitato di rileggere Cien años de soledad un altro paio di volte, sempre in lingua originale, per rendere ancor più forti e vividi l’incanto e la magia come solo le letture in lingua riescono a fare. Io non sono una grande amante delle riletture, devo dir la verità, più per una questione di tempo e di quantità di libri nuovi da leggere. Ma ci sono alcuni romanzi a cui a volte sento il bisogno di tornare. E Cent’anni di solitudine è appunto uno di questi (un altro è 1984 di Orwell).

Dalla mia ultima gita a Macondo, però, erano passati diversi anni e anche per questo, quando è stata annunciata questa nuova traduzione, ho deciso di ricomprarla. In parte attratta dalla bellissima copertina con le illustrazioni di Velia de Iuliis, in parte per la curiosità di scoprire che cosa è cambiato. 

Non avevo però intenzione di fare un confronto vero e proprio: mi interessa di più l’impressione generale di coinvolgimento nella lettura, della percezione di differenze o di cose in qualche modo stonate (che in realtà era abbastanza improbabile ci fossero, perché questa nuova versione ha ripristinato parti originali che Enrico Cicogna invece aveva cambiato).
E quindi via, ho letto anche questa nuova versione di Cent’anni di solitudine.
Molti anni dopo, davanti al plotone di esecuzione, il colonnello aureliano Buendía avrebbe ricordato quel pomeriggio remoto in cui suo padre l’aveva portato a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di fango e canne costruite sulla riva di un fiume dalle acque diafane che si precipitavano su un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente che molte cose erano senza nome, e per menzionarle bisognava indicarle con un dito.
E proprio come la prima volta, con la traduzione di Enrico Cicogna, e come la seconda, quando l’ho letto in lingua originale, mi sono di nuovo ritrovata dentro Macondo, seduta al tavolo di Ursula a mangiare insieme ad altri avventori sconosciuti, a soffrire con Amaranta per le sue pene d’amore, a seguire Aureliano Segundo nelle sue peregrinazioni tra moglie e amante, a tifare per Meme e il suo amore clandestino, e sì, ancora una volta, a immaginarmi circondata di farfalle dorate o in volo insieme a delle lenzuola.


«Ti senti male?» le domandò.
Remedios la bella, che teneva l’altro capo del lenzuolo, fece un sorriso di compatimento.
«Al contrario,» disse «Non sono mai stata meglio».
Appena ebbe finito di dirlo, Fernanda sentì che un delicato vento di luce le strappava le lenzuola di mano e le spiegava in tutta la loro ampiezza. Amaranta sentì un fremito misterioso nei pizzi delle sottogonne e cercò di afferrarsi al lenzuolo per non cadere nell’istante in cui Remedios la bella cominciava a sollevarsi. Úrsula, già quasi cieca, fu l’unica abbastanza lucida da capire la natura di quel vento irreparabile, e lasciò il lenzuolo alla mercé della luce, e vide Remedios la bella che le diceva addio con la mano, nell’abbagliante aleggiare delle lenzuola che salivano con lei, che abbandonavano con lei l’aria degli scarabei e delle dalie, e attraversavano con lei l’aria dove finivano le quattro di pomeriggio, e si perdevano per sempre con lei nelle arie alte, dove non potevano raggiungerla nemmeno i più alti uccelli della memoria.


In questa nuova edizione, ho trovato tutto quello che Ilide Carmignani ha detto nella sua nota di traduzione (che, ammetto, ho letto prima del libro, per avere un'idea generale di cosa aspettarmi) e nelle varie interviste, senza trovare praticamente mai nulla di stonato né di incomprensibile, nemmeno nei localismi lasciati in lingua originale. Si nota, anche, il ripristino degli accenti in tutti i nomi propri spagnoli (Cicogna, per esempio, non accentava "Úrsula").
Solo in alcuni punti ho sentito la necessità (forse più curiosità, in realtà) di fare un confronto tra la vecchia versione di Enrico Cicogna e quella nuova di Ilide Carmignani. Ma per parole singole, per frasi forse un po’ troppo moderne che mi sembravano un po’ fuori contesto (un “cavolo”al posto di un “accidenti”… cose così). 



Da appassionata di Cent’anni di Solitudine e di Gabriel García Márquez sono convinta che questa nuova traduzione fosse necessaria. Io ho scoperto questo libro e me ne sono innamorata con la prima traduzione, è vero, e come me molti altri. Però altrettanti l’hanno trovato un po’ respingente, e la lingua utilizzata da Cicogna, perché invecchiata, perché a volte eccessivamente esotica, può avere una sua colpa (e ve ne renderete conto ancor di più se riuscirete a leggerlo in lingua originale).
Quindi se siete tra chi l’ha già letto e l’ha amato, anche in questa nuova traduzione continuerete ad amarlo. Se ci avete provato in passato ma qualcosa non ha funzionato, o se non vi ci siete mai approcciati per paura, ecco, forse questa nuova edizione può essere la spinta necessaria a dare a Cent’anni di solitudine un'altra possibilità.

Poi fatemi sapere. Io intanto vado a mettere due mollette in più alle lenzuola stese, sia mai che qualcuno decida di portarsele via.

mercoledì 30 novembre 2016

ESCHE VIVE - Fabio Genovesi

Ci sono cose che sono proprio giuste, cose che semplicemente devono succedere per quanto sono belle, anche se poi non succedono. Ma non c'è problema, perché magari succedono domani, o il giorno dopo domani o quando gli pare a loro.


Mi capita spesso di scoprire un autore dall’ultimo romanzo che ha pubblicato e poi da lì, pian piano, riscoprire tutti i suoi lavori precedenti. Ovviamente lo faccio solo se il romanzo mi è piaciuto, o mi ha in qualche modo dato lo stimolo per leggere altro.

Il primo romanzo che ho letto di Fabio Genovesi è stato Chi manda le onde, uscito nel 2015 per Mondadori e anche finalista al premio strega di quell’anno (vinto poi da Nicola Lagioia). Mi ci ero avvicinata incuriosita dalla copertina, senza neanche lontanamente immaginare quanto me ne sarei poi innamorata. 
Quel libro è stato per me una grandissima rivelazione: per la storia, per lo stile, per l’incredibile caratterizzazione dei personaggi (il piccolo Zot rimarrà per sempre nel mio cuore) e per tutte le sensazioni che mi ha lasciato una volta terminata la lettura. E quindi, capite anche voi perché volessi assolutamente leggere qualcos’altro di Fabio Genovesi.
Poi, l’altra sera, in un Libraccio (sì, a Milano c’è un Libraccio aperto fino a mezzanotte, una cosa bellissima, soprattutto quando fuori piove e tu ci arrivi sottobraccio a una persona speciale) ho trovato in condizioni eccellenti e a un prezzo incredibile Esche vive. L’ho comprato e, la mattina dopo, ho iniziato a dare un’occhiata alle prime pagine. Senza sapere bene come, mi sono ritrovata in Toscana, a Muglione, completamente coinvolta nella storia di Fiorenzo e del campioncino.

Loro due sono i protagonisti della storia raccontata da Fabio Genovesi. Fiorenzo era una giovane promessa del ciclismo su cui molti, tra cui il padre stesso che lo allenava, puntavano. Finché non decide insieme a due suoi amichetti di provare a stanare il mostro del fossato dove va a trascorrere i suoi pomeriggi estivi. Come? Fabbricando una specie di bomba fatta di petardi, che non solo non stanano il mostro, ma gli portano via anche una mano. Fine dei sogni di gloria per Fiorenzo e, soprattutto, per suo padre.
Da quel giorno sono passati alcuni anni, Fiorenzo ha imparato a vivere con una mano sola e sta per finire le scuole superiori, anche se al frequentare le lezioni preferisce andare a pescare o lavorare nel negozio di articoli per la pesca di suo padre. Suona in una band metal e non ha alcuna esperienza con le ragazze. Ma, soprattutto, si ritrova a fare i conti con un’altra grande tragedia: l’improvvisa perdita della madre, avvenuta l’anno precedente e di cui si sente in qualche modo responsabile.
A peggiorare il suo stato d’animo arriva Mirko, un ragazzino tanto forte e bravo in bicicletta quanto ingenuo, che il padre di Fiorenzo porta a vivere a casa sua per trasformarlo in un vero campione. Fiorenzo, ovviamente, lo odia. Ma proprio grazie ai suoi tentativi di boicottarlo conosce Tiziana, che dopo aver studiato all’estero, ha deciso di tornare a Muglione per provare a cambiare le cose, e che ora si ritrova incastrata in una vita fatta di disincanto e disperazione.

Le storie di Fiorenzo, Tiziana e Mirko si intrecciano per tutto il romanzo, dando vita a una storia l’apparenza potrebbe essere banale, ma che invece va in profondità e tratta temi importanti. L’amicizia e l’amore, sicuramente, ma anche il non arrendersi, il darsi seconde possibilità e il fare i conti con se stessi e con il proprio passato. Il tutto scritto con uno stile divertente, scanzonato e serio al tempo stesso.

Sono scoppiata a ridere più volte, mentre leggevo Esche vive. E più volte mi sono anche fermata anche a riflettere di quel che veniva raccontato, su quel senso di insoddisfazione e di immobilità che riguarda un po’ tutti quelli che vivono in paesini come Muglione (e ce ne sono davvero tanti).
Ho riso e un pochino mi sono anche commossa, perché Fabio Genovesi dà seconde possibilità a tutti, dà a tutti una speranza, anche quando sembra davvero impossibile.
Fiorenzo ha detto che il suo sogno era comprarsi una barca e girare i mari, tu gli hai ricordato che il suo sogno era diventare famoso con la sua band e lui ha detto che era vero, ma che nella vita è meglio avere tanti sogni perché funziona come con le cartelle della tombola: più ne hai e più è probabile che vinci.

Non so se mi sia piaciuto di più Esche vive o Chi manda le onde. Non lo so davvero. Però so che mi piace tantissimo il modo in cui Fabio Genovesi racconta le sue storie e il modo in cui mi sento una volta arrivata alla fine.
Insomma, che cosa state aspettando a leggere Fabio Genovesi? Sono sicura che non ve ne pentirete.


Titolo: Esche vive
Autore: Fabio Genovesi
Pagine: 388
Editore: Mondadori
Anno: 2013
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formato brossura:Esche vive

giovedì 22 settembre 2016

UN AMORE DI SALINGER - Frédéric Beigbeder

Quando due lingue si toccano, a volte non succede niente. Ma a volte qualcosa succede... Oh mio Dio, accade qualcosa che fa venire voglia di fondersi, di disgregarsi, è come se si entrasse nell'altro a occhi chiusi, per mettere tutto sottosopra dentro. Lui la stringeva contro la sua bocca, in apnea. Quando la depose sul pontile, Oona aveva solo un desiderio: decollare di nuovo


Come avevo già scritto quando avevo recensito il bellissimo Un anno con Salinger di Joanna Rakoff, io di Salinger non so praticamente nulla.

Ho letto Il giovane Holden qualche anno fa e ne ho un vago ricordo. Ho letto i Nove racconti più di recente e ancora sono convinta di non aver capito quasi nulla (anche se, in questo caso, so che dovrei provare a rileggerli). Eppure, nonostante ciò, mi sono ritrovata di nuovo a leggere un libro che parla di Jerry, trovato nella libreria di una persona che invece Salinger e il suo Holden li adora eccome.

Un amore di Salinger di Frédéric Beigbeder, pubblicato da Mondadori con la traduzione di Giovanni Pacchiano, racconta dell’amore estivo tra il giovane Jerry e la bella e giovanissima Oona O’Neill. Un amore forte e potente, ma al tempo stesso passeggero, che lascerà però un grande segno nello scrittore americano. Jerry continuerà a scrivere a Oona anche mentre è in guerra, sebbene lei ormai lo abbia lasciato e si sia innamorata di Charlie Chaplin. E lei, tra figli, vita mondana e l’esilio del marito accusato di comunismo, un pochino a lui continuerà a pensare, nel corso degli anni.

La storia raccontata da Frédéric Beigbeder è in parte vera, in parte inventata. È vera la relazione che c’è stata tra Salinger e Oona O’Neill, è vero che poi quest’ultima si è messa con Charlie Chaplin proprio mentre Salinger era in guerra, così come è vero tutto quello che lo scrittore ha vissuto in guerra e quello che è successo dopo alla famiglia Chaplin. Di inventato c’è il come. Frédéric Beigbeder immagina, insomma, che le cose siano andate così. Immagina come sia stata la relazione tra i due, come sia proseguita negli anni, immagina le lettere che si sono scambiati e come il ricordo abbia continuato ad accompagnare entrambi.

Un problema grosso è che nell’immaginare questo "come" mette troppo se stesso. Troppi suoi commenti esterni, a volte in nota a volte direttamente nel testo, troppi suoi “giudizi” e troppi paralleli tra passato e presente che risultano forzati e un po’ rovinano l’atmosfera che è riuscito a creare nel raccontare il passato. 

Questo stile e questa commistione di generi (non è narrativa, non è saggistica… non si capisce bene che cosa sia, in realtà) durante la lettura rendono il romanzo irritante. Ho dovuto arrivare alla fine, rifletterci un po’ di tempo (e soprassedere su alcune imperfezioni a livello traduttivo e di revisione, che raggiungono il loro culmine nella frase "Accasciata, Oona acquistò un appartamento di due piani a New York...") per riuscire a capire se Un amore di Salinger mi sia piaciuto o meno.
E la risposta è doppia: è sì, perché in effetti ho scoperto cose che non sapevo sulla vita di Salinger e di Charlie Chaplin e letto un paio di citazioni notevoli sull’amore e la sua forza; ma è anche no, perché non mi è piaciuto il modo di scrivere dell’autore (per quanto mi sforzi, io con la narrativa francese ho sempre qualche problema) né il modo in cui si è immaginato certe cose (per non parlare del finale).

Insomma, Un amore di Salinger è un libro che se vi capita sottomano potete anche leggere, sia che siate appassionati di Jerry sia che non lo siate, perché scoprirete sicuramente qualche curiosità. Però, ecco, potete anche tranquillamente soprassedere.

Titolo: Un amore di Salinger
Autore: Frédéric Beigbeder
Traduttore: Giovanni Pacchiano
Pagine: 257
Editore: Mondadori
Acquista su Amazon:
formato brossura: Un amore di Salinger
formato ebook: Un amore di  Salinger

mercoledì 13 luglio 2016

HO SEMPRE AMATO QUESTO POSTO - Annie Proulx

Una giovinezza, la sua, senza rumori, eccetto il suono naturale del vento, lo scalpiccio degli zoccoli, lo schiocco delle vecchie travi che si incrinavano nel gelo dell'inverno, le strida degli aironi che scendevano lungo il fiume. A quel tempo uomini e donne stavano in silenzio, affidandosi alla loro capacità di osservazione. Certi giorni, vedendo muoversi qualche baffo di nuvola, gli sembrava di sentirne il rumore, come quello di una piuma trascinata lungo un cavo. Poi il vento portava via tutto, e il cielo rimaneva solo.


Ho dovuto cercare una mappa degli Stati Uniti per riuscire a localizzare precisamente dove si trovi il Wyoming. È uno di quegli stati che sai che esiste, che qualche volta hai sentito nominare, ma di cui fatichi a ricordare la giusta posizione geografica.
Anche perché è nel mezzo, un po’ a nord, lontano dalle coste e dalle grandi città turistiche. Vaste pianure circondate da alte montagne, dove di inverno si muore di freddo e d’estate ci si scioglie dal caldo.

È lì che sono ambientati tutti i racconti di Ho sempre amato questo posto, raccolta di Annie Proulx pubblicata in Italia da Mondadori con la traduzione di Silvia Pareschi. È lì che i personaggi di queste storie vivono la loro vita, quasi tutti con il sogno di possedere un ranch, di lavorare la terra, di fare i cowboy e quasi tutti costretti poi a fare i conti con la realtà, che spesso non lascia scampo.

E quindi è lì che troviamo un anziano in una casa di riposo che racconta a sua nipote il giorno della morte del padre e la scoperta di una terribile quanto incredibile verità (Un padre di famiglia). È lì che conosciamo Archie e Rose e il loro sogno d’amore, infranto dalla ricerca del lavoro e da un terribile inverno di solitudine (Quelle vecchie canzoni d’amore). È lì che cresce il Bambino di Artemisia, una pianta curata come se fosse un figlio da una coppia che di bambini non ne può avere (Il bambino di Artemisia). È lì che Hi e Helen cercano di farsi una vita che nel corso degli anni diventa sempre più difficile, soprattutto se si ha una tempra morale come quella di Hi (Il Great Divide). E ancora, è sempre in quel Wyoming sperduto che ci viene raccontata la vecchia abitudine della caccia ai bisonti (Grande- Ciotola-Unta- con Sangue) e dove Caitlin cresce come donna emancipata e robusta, che non litiga mai con il suo Marc, fino al giorno in cui si riversano contro tutto quello che per anni non si sono detti (Il testamento dell’asino). Ed è ancora lì che Dakotah vive la sua vita da figlia abbandonata e non voluta, e dove poi fa ritorno dalla guerra (A gambe all’aria nel fosso).

A questi racconti, tutti incredibilmente belli, a livello di stile, per la lucidità e la crudezza delle immagini e delle situazioni che Annie Proulx riesce a creare, e a livello di trama, se ne aggiungono due che hanno come protagonista il diavolo, che su questo Wyoming butta spesso il suo occhio. Due racconti, Ho sempre amato questo posto e Lo scherzetto della palude, che devo ammettere sembrano piazzati qui un po’ a sproposito, rovinando lo stile e l’atmosfera di tutti gli altri.
Nel complesso, comunque, Ho sempre amato questo posto è un gran bel libro, una gran bella raccolta di racconti che riesce a portare il lettore proprio là, tra quelle montagne e quelle terre desolate, in quel vecchio West che, dal punto di vista di chi lo vive e non ha soldi per sopravvivere, non ha niente di mitico e di leggendario. È solo vita e lotta per sopravvivere, per realizzare i propri sogni, o anche solo per non permettere che il mondo li infranga troppo.
Un libro consigliatissimo.


Titolo: Ho sempre amato questo posto
Autore: Annie Proulx
Traduttore: Silvia Pareschi
Pagine: 220
Editore: Mondadori
Prezzo di copertina: 18€
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venerdì 5 febbraio 2016

Di quella volta in cui ho comprato un Libro Distillato (e poi l'ho confrontato con l'originale)

Se bazzicate un po’ nel mondo dei libri e dell’editoria, anche da semplici appassionati, avrete sicuramente già sentito parlare dei Libri Distillati, la nuova iniziativa editoriale promossa da Centauria editore. 
Nel caso vi fosse sfuggito, comunque, i Distillati sono “un’occasione senza precedenti per goderti i bestseller in meno della metà delle pagine dell’originale ma senza perderti nulla della trama, dei personaggi, delle emozioni”. (per un maggior approfondimento vi rimando al loro sito web)
Esatto sì, prendono due bestseller al mese, li tagliuzzano qua e là, li mandano in stampa con molte meno pagine rispetto al romanzo originale e poi li vendono nelle edicole e nei supermercati alla cifra fissa di 3.90€.
Lo scopo dovrebbe essere quello di far leggere un determinato libro alle persone che hanno poco tempo e poca voglia per leggerlo. Tolgono un bel po’ di pagine, così la lettura vi porta via meno tempo e potete comunque parlarne con gli amici come se lo aveste letto. 
Perché non cercarsi la trama su Wikipedia e farla finita? Ma perché questi non sono riassunti, sottolinea l’editore più volte, sono distillati! Il libro c’è tutto, mancano solo le parti considerate superflue. 
La mia prima reazione è stata,ovviamente, lo sdegno più totale. Come puoi tagliare i pezzi di un libro e ridurlo a meno della metà? Chi è che decide quale parte è superflua e quale no? Ma soprattutto, come è possibile che un autore abbia accettato una cosa del genere?

Devo ammettere però che a un certo punto la curiosità ha preso il sopravvento. E quindi ho aspettato che uscisse un libro che già possedevo in originale, l’ho comprato, e ho passato una giornata a fare un confronto, per cercare di capire qual è il processo che sta dietro alla distillazione di un libro.
Il fortunato è La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano, romanzo del 2008 pubblicato da Mondadori, che ha vinto, tra gli altri, il Premio Strega.
Il libro originale non mi aveva fatta impazzire, ma nemmeno mi era poi così dispiaciuto, quindi questo confronto, lo chiarisco subito, non entrerà minimamente nel merito della qualità letteraria del testo.
Ecco che cosa ne è venuto fuori.


LA VESTE GRAFICA e L’IMPAGINAZIONE
La prima edizione dell’originale è un’edizione cartonata, con sovracoperta. Quella del Distillato è paragonabile a un tascabile direi, un tascabile molto sottile, che viene venduto appiccicato a un cartone promozionale, che spiega cosa sono i Distillati e lancia i prossimi volumi. Se per caso non conoscete il libro e volete leggerne la trama prima di acquistarlo, non potete farlo (o potete, se riuscite a staccarlo e riattacarlo senza farvi vedere dall'edicolante o da un addetto del supermercato). 
Una volta aperto, si notano subito le differenze a livello di impaginazione. Sì, l’originale di Mondadori è impaginato forse in modo un po’ furbo per aumentarne le pagine: margini un po’ larghi, carattere medio-grande, interruzioni di pagina tra un capitolo e l’altro. Ma è un cartonato e sono tutti così. Il distillato ha i margini un po’ meno larghi, è scritto un po’ più piccolo, e non ha interruzioni di pagina tra un capitolo e l’altro, quindi è come se fosse tutto attaccato. Già solo così, almeno una ventina di pagine viene recuperata.



Altre tre vengono recuperate con la scelta di eliminare la dedica, la citazione iniziale e i ringraziamenti dell’autore. Tutte cose evidentemente considerate superflue e poco interessanti per un lettore che non ha tempo da perdere (sarei curiosa di sapere cosa ne pensa l’autore o il destinatario della dedica… ma vabbè).
Per quanto riguarda il numero di pagine, la versione originale ne ha in tutto 307, divise in 7 sezioni e 47 capitoli. Il distillato conta invece 121 pagine (186 in meno!), divise in 7 sezioni e 38 capitoli (9 in meno rispetto all’originale!).
Questa cosa dei capitoli quando l’ho scoperta mi ha un po’ sconvolta. Ho verificato e coincidono fino al capitolo 14 dell’originale. Il distillato nel suo capitolo 14 fa però rientrare anche il 15 e il 16 dell’originale. Poi, il capitolo 16 del distillato è formato dal capitolo 18 e 19 dell’originale, il 22 dal 25 e il 26 dell’originale, il 23 dal 27 e il 28, il 28, dal 33 e 34, il 29 dal 35 e 36, il 36 dal 43 e 44, e il 38, che è il capitolo finale del distillato, dal 46 e 47 dell’originale,  rispettivamente il penultimo e l'ultimo.

LA DISTILLAZIONE
Ma che cos’è esattamente che viene distillato? Ecco qui alcuni esempi (cliccando sulla foto,si apre in versione ingrandita):

Qui sparisce una pagina intera a inizio capitolo

Qui tre pagine sono state riassunte in una decina di righe

Qui sparisce un intero paragrafo a fine capitolo

E qui due pagine intere. Il Distillato parte dall'inizio della terza pagina del capitolo.

Man mano che si procede con la lettura e il confronto si inizia a capire un po’ il meccanismo dei tagli. Le parti considerate superflue sono soprattutto le descrizioni, quelle che non hanno un’influenza diretta sulla trama ma che l’autore ha comunque inserito per delineare meglio i personaggi e, soprattutto, il suo stile. Ecco, forse è questo quello che più risulta evidente alla fine della lettura: lo stile dell’autore viene completamente appiattito. La trama rimane, certo, e ha anche un suo svolgimento logico, ma si riduce quasi a una mera cronaca dei fatti, quei tanti che bastano perché chi legge capisca a grandi linee quello che sta succedendo.

Il processo di tagli diventa più fitto man mano che ci si avvicina al finale. Oltre ad avere molti più capitoli condensati in un solo, è stato spesso difficile trovare la corrispondenza tra originale e distillato. Non so se chi ci ha lavorato si è reso conto che le pagine stavano diventando troppe e quindi ci è andato giù più pesante. Però, ecco, molti, moltissimi dettagli vengono a mancare.


Un capitolo di 4 facciate e mezza nell'originale diventa di una nel Distillato.
Potrei andare avanti a lungo a postarvi esempi come questi, perché i tagli e i collage fatti sono veramente tanti. E sì che La solitudine dei numeri primi non è un libro poi così lungo e se è diventato un bestseller vuol dire che è leggibile anche da un lettore non così abituato.

Sicuramente se non conoscete il romanzo originale e non avete la possibilità di effettuare questo confronto, a livello narrativo anche il Distillato funziona e la sua lettura è sicuramente sufficiente per potersi dare un tono durante le conversazioni con gli amici (così come lo sarebbe leggersi semplicemente la trama del romanzo su wikipedia).

Poter apprezzare (o meno, per carità) lo stile di Paolo Giordano da questo distillato però, francamente, mi sembra impossibile. Così come faccio davvero fatica a capire come un autore possa accettare che qualcosa del suo romanzo venga considerato inutile e tagliato. Ok, probabilmente il fattore economico ha avuto un peso notevole, però non dovrebbe esserci un attaccamento diverso alla propria opera? Mi piacerebbe davvero sapere che cosa si prova a vedere il proprio romanzo ridotto in questo stato.

Alla luce di questo confronto lo sdegno iniziale è confermato e amplificato. Non so se questa iniziativa funzionerà, se davvero c'è qualcuno che li trova un'idea geniale e ora si metterà a leggere tutti i libri più venduti in questo formato per non perdere tempo.
Di sicuro posso dire che non è obbligatorio leggere se non se ne ha tempo o voglia. E piuttosto che leggere un libro snaturato dallo stile dell'autore, forse sarebbe meglio non leggere affatto.
E con gli amici si può sempre parlare di altro.