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venerdì 2 agosto 2024

DEMON COPPERHEAD - Barbara Kingsolver

Voleva copiare tutti il libro sull'aquilone? No. Solo le parti che gli erano piaciute di più. 
"E poi cosa succede?"
Indicò la finestra e con la mano fece segno su, su.
"Fai volare l'aquilone?"
Fece sì con la testa. Disse che spesso, dopo aver letto un libro, avrebbe voluto ringraziare  chiunque l'aveva scritto, ma di solito erano morti. Sul suo libro c'era un nome che avevo già sentito. Shakespeare. Morto, evidentemente.
"Quindi è un po' come recitare il ringraziamento?"
Fece segno di sì. Proprio così. Però mia nonna aveva detto che non si faceva, in quella casa. Quanto meno non a Dio. Ringraziare Shakespeare e gli altri, a quanto pare, andava bene.

È passata più di una settimana da quando ho terminato la lettura di Demon Copperhead di Barbara Kingsolver (tradotto da Laura Prandino per Neri Pozza), ma ho voluto aspettare un po' di tempo prima di parlarne. Volevo lasciarlo sedimentare un po', vedere che effetto mi avrebbe fatto anche una volta finito, perché capisco se un libro mi è piaciuto davvero se continuo a tornarci in qualche modo, anche quando non lo sto più leggendo.

E ancora adesso, a distanza di diversi giorni, ogni tanto mi ritrovo a pensare a Demon e alla sua infanzia sfortunata: il padre morto prima che lui nascesse, una madre che vorrebbe prendersi cura di lui ma non riesce nemmeno a prendersi cura di se stessa, fino all'ingresso nel mondo delle famiglie affidatarie... un destino che lui affronta come può e con i mezzi che ha, cercando di rimanere il più possibile a galla aggrappandosi ai pochi punti fermi che ha: i vicini di casa, la famiglia Peggot, scalcagnata come la sua e che cerca però di prendersi cura di lui; la sua passione per i supereroi della Marvel, che gli consentono di trasformare ogni sua giornata in una lotta tra buoni e cattivi; se stesso.

Ma ripenso anche a Demon quando arriva nell'adolescenza, quando scopre di essere bravo in qualcosa e che forse forse qualcosa nel suo destino segnato può cambiare, deve solo arrivare la svolta, svolta vera. Con tutto ciò che ne consegue.

Demon Copperhead è un romanzone, che in alcuni punti ti massacra, per il dolore che racconta, e in altri ti fa anche un po' arrabbiare. In alcuni punti questa sua lunghezza si sente e, personalmente, ho trovato l'ultimo centinaio di pagine un po' sfilacciato, rispetto al resto. Ma forse perché ancor più sfilacciata, incredibilmente, è la vita di Demon, nella sua incapacità di concepire che anche per lui, volendo, le cose potrebbero andare bene.

Comunque Demon Coppehead è uno di quei libri che una volta letto non puoi dimenticare e che ogni tanto ti torna in mente, anche mentre stai facendo altro. Ed è l'ulteriore conferma di quando già avevo sostenuti in precedenza: i premi Pulitzer sono una vera garanzia.

IL CUSTODE - Ron Rush

 “Se ne restò in mezzo al silenzio delle lapidi a pensare, non al futuro ma al passato, a due ragazzi che si stringevano la mano lungo un recinto di filo spinato, un patto sigillato col sangue. Spense la lanterna, lasciò gli attrezzi dov’erano. Il canto del cardinale rosso annunciò il risveglio del mondo. La prima luce del giorno filtrava tra gli alberi.”



Il custode di Ron Rash (tradotto da Tommaso Pincio per La nuova frontiera ) è il primo romanzo che leggo di questo autore. Ad attrarmi, ancor prima di aver letto la trama, è stata soprattutto la copertina, che mi ha immediatamente portato nella provincia americana degli anni '50, senza nemmeno sapere dove e quando il romanzo fosse ambientato.

Nonostante la ferma opposizione dei suoi genitori, Jacob si è spostato con Naomi e stanno per avere un figlio, quando lui riceve la cartolina di arruolamento e, nel giro di poche settimane, si ritrova a combattere in Corea. I suoi genitori si rifiutano di prendersi cura di Naomi mentre lui è via e quindi chiede aiuto a Blackbum Gant, custode del cimitero del paese e segnato fin da bambino dalla poliomielite. Il ragazzo accoglie la richiesta dell'amico e aiuta Naomi ad affrontare la gravidanza e soprattutto la paura che Jacob non torni a casa. Poi succede qualcosa, che sconvolge le vite di tutti.

Il custode è un romanzo che arriva dopo. O almeno, con me è stato così. Quando ho chiuso il libro il mio primo pensiero è stato "bello ma...tutto qui?". Sapevo di aver letto una bella storia, di aver trovato dei bei personaggi, e uno stile delicato ma al tempo stesso deciso, ma per qualche motivo mi ero aspettata qualcosa di più.
Poi però ogni tanto mi è venuto in mente Blackburn, la sua tenerezza e la sua lealtà; Naomi e il suo desiderio di combattere le ingiustizie con i mezzi che ha a disposizione, oltre che il suo immenso amore per Jacob. Mi sono venuti in mente i genitori di Jacob, che non riesco a giustificare in nessun modo. E mi sono quindi resa davvero conto di aver letto un libro all'apparenza semplice ma invece pieno di cose: amore, amicizia, dedizione, rispetto, dolore, egoismo, morte e ancora amore. Tutto in 250 pagine. Tutto in un paesino della North Carolina degli anni '50.

E quel "ma... tutto qui?" non è stato più un limite del romanzo ma la sua vera forza.

lunedì 26 febbraio 2024

NASCITA DI UN CAPOLAVORO DEL CINEMA - Tom Hanks

 I film vivono per sempre. Così come i personaggi dei libri.


Nascita di un capolavoro del cinema di Tom Hanks (tradotto da Alessandro Mari per Bompiani) è il romanzo che non ti aspetti.
Intendiamoci, avevo già apprezzato molto Tipi non comuni, la raccolta di racconti prima fatica letteraria di uno dei miei attori preferiti di sempre, ma mai mi sarei aspettata che il suo primo romanzo mi sarebbe piaciuto così tanto.

Il libro è esattamente quello che il titolo dice: il racconto di come nasce un capolavoro del cinema. E nello specifico, un capolavoro da dove nessuno se lo sarebbe mai aspetto: il regista Bill Johnson, infatti, nel 2020 decide di trarre un film da un vecchio fumetto del 1971, La leggenda dell'incendiario, che il suo autore, Robby, aveva creato in onore di suo zio Bob, mito e leggenda della sua infanzia.

Ed è proprio da quell'infanzia che Tom Hanks parte, per poi raccontare ogni aspetto, del passato e del presente, che hanno portato su quel set: oltre alla storia di Robby e di Bob, c'è anche quella di Bill stesso, della sua assistente Al, della protagonista Wren, più o meno di ogni singolo personaggio che, in un modo o nell'altro, è legato a questo film.

Detta così potrebbe sembrare un libro lunghissimo e noiosissimo, ma invece Tom Hanks è bravissimo nel dosare i dettagli, nello scegliere cosa narrare e cosa no, nel caratterizzare i suoi personaggi e nel raccontare i momenti di svolta della loro vita, oltre che nel far entrare il lettore nell mondo del cinema, senza risparmiare qua e là qualche piccola critica.

È un romanzone, che mi ha tenuta incollata alle sue pagine senza quasi rendermene conto. A cui pensavo anche quando ero intenta a fare altro e a cui non vedevo l'ora di tornare. Un libro che mi ha divertito e anche emozionato

Segno, almeno per me, che Tom Hanks non è solo un attore che scrive, ma qualcuno che lo fa sapendo molto bene cosa sta facendo.

(Piccola nota a margine: c'è un errore bislacco che si ripete per tutto il libro, e che dopo lo sgomento iniziale alle prime due o tre occorrenze, ha contribuito a rendere la lettura per me ancor più divertente. Per qualche motivo, tutte le volte che nel testo dovrebbe esserci la parola "camera" c'è invece la parola "Internet":  "la festa organizzata dalla Internet di commercio", "Si recò nella seconda Internet da letto, adibita a studio", "guardò nella Internet A" e così via. Sicuramente è stato fatto un "trova-sostituisci" senza controllare, anche se non sono riuscita a capire da dove sia partito l'errore. Ovviamente ho provveduto a segnalare la cosa all'editore, che ha confermato di essersene già accorto e immagino sistemerà tutto nella prossima ristampa)

domenica 25 febbraio 2024

LUCY DAVANTI AL MARE - Elizabeth Strout

 Poi una mattina sono uscita a camminare e ho visto un bel dente di leone giallo sul ciglio del vialetto verso il fondo della discesa. E l'ho fissato; non riuscivo a staccare gli occhi da quel fiore. Mi sono chinata e ho appoggiato le dita sulla corolla soffice. Ho pensato: Oh mio Dio! Da lì ho cominciato a vederne altri, denti di leone, durante le mie passeggiate. Ne crescevano tanti al margine della strada sterrata sulla quale avevo vissuto da bambina, e un giorno, quando ero ancora molto piccola, ne avevo fatto un mazzolino da portare a mia madre, e lei si era infuriata perché i fiori avevano macchiato il corpetto del vestito nuovo che mi aveva fatto da poco. Eppure - dopo tutti quegli anni - vederli continuava ad allargarmi il cuore di meraviglia.



 Io voglio molto bene a Elizabeth Strout. So che può sembrare un assurdo, voler bene a una persona che neanche si conosce se non tramite le pagine dei suoi romanzi, eppure per lei sento di provare proprio questo.

Aspettavo da tempo l'uscita in Italia di Lucy davanti al mare, da poco pubblicato da Einaudi editore con la traduzione di Susanna Basso, dopo quasi un anno e mezzo dall'uscita in lingua originale (per dire, negli Stati Uniti tra pochi mesi ne uscirà già uno nuovo). La aspettavo perché perché i romanzi, le frasi, le parole di Elizabeth Strout mi trasmettono sempre un'incredibile quantità di emozioni

Questa volta Lucy si ritrova a dover fare i conti con la recente morte del marito David e con una strana epidemia, che a lei sembra lontana tanto quanto è sembrata a tutti noi quando iniziavano ad arrivare le notizie dei primi contagi. L'ex marito William riesce a convincerla, con molte insistenze, a lasciare New York per rifugiarsi in una vecchia casa nel Maine, che affaccia proprio sul mare. Ed è proprio davanti al mare che Lucy va sempre a passeggiare, a volte con William, a volte sola, a volte con un'altra vecchia conoscenza dei romanzi di Elizabeth Strout. 

Ed è proprio davanti al mare che riflette sulla sua vita, sul rapporto con David e con William, sule sue figlie che, oltre al Covid, stanno affrontando crisi personali profonde senza cercare in lei nessun appoggio, ma anche su come il mondo sta affrontando qualcosa di inimmaginabile.

Elizabeth Strout non usa parole di troppo, ma descrive comunque dettagli, stati d'animo, sensazioni ed emozioni, a volte belle a volte terribili, con una delicatezza che, almeno io, non ho mai riscontrato in altri autori. La trovo sempre una lettura confortante, anche quando magari in quel che racconta di confortante non c'è nulla. 

E quindi sì, voglio bene a Olive Kitteridge, a Lucy, a tutti i personaggi a cui Elizabeth Strout ha dato voce nei suoi libri. E molto, moltissimo anche a lei.

lunedì 26 agosto 2019

LA VERSIONE DELLA CAMERIERA - Daniel Woodrell

L'Angelo nero che sovrastava i defunti senza nome cominciò a ballare. La lapide su cui posava era lunga come due uomini, fitta di nomi cesellati nel marmo molti decenni prima, ma ancora lucida. Reggeva alta una torcia, nel caso che la Verità tentasse la fuga con il favore delle tenebre. 
 


Tutti i paesi, grandi o piccoli che siano, hanno avuto nel corso della loro storia un fatto di cronaca, più o meno grave, che li ha segnati. Un incidente in cui sono morti dei ragazzi, un incendio, una tragedia famigliare, un grave fatto di cronaca nera... insomma, un fatto grave che ha sconvolto emotivamente la vita di tutti. Di solito nei paesi di queste cose non si parla volentieri: ci sono voci, ci sono pettegolezzi e, spesso, mai una sola verità. Qualcuno rimane più segnato di altri, se l’ha vissuto più da vicino: era presente, ha visto qualcosa, sapeva qualcosa, ha perso qualcuno. E solitamente quel qualcuno non riesce mai a darsi a pace, nonostante il tempo che passa.

È quello che succede ad Alma in La versione della cameriera di Daniel Woodrell, tradotto da Guido Calza per NNeditore. Vive a West Table, nel Missouri, e fa la domestica più o meno da sempre per le famiglie ricche della città. Lo faceva anche nel 1929, anno in cui c’è stata un’esplosione nella sala da ballo locale che ha causato la morte di quarantadue persone. Tra queste c’era chi era al suo primo appuntamento; chi si è trovato lì per caso, a sostituire il musicista malato; chi lì ci si era trovato per caso e chi forse nemmeno ci voleva andare. E c’era anche Ruby, l’amata sorella di Alma, dalla cui morte non si è mai ripresa, al punto che per un periodo è persino dovuta rimanere chiusa in un ospedale psichiatrico.
Al manicomio sprofondò ancor di più nel buco, il buco di tristezza sotto i nostri piedi che ci chiama quando perdiamo l'orientamento o un qualunque motivo per andare avanti, il confortante precipizio al di là degli affanni comuni e del buonsenso, giù nella voragine fino alla malinconica poltrona il cui conforto diventa un pericolo in quellospazio solitario, e ci vogliono anni, o un'eternità, perché chi vi si è arenato ritrovi l'energia per alzarsi da quel soffice e mesto isolamento, per tornare verso il buco e arrampicarsi di nuovo su, verso i noti pericoli del mondo alla luce del sole.

Alma racconta tutta la storia, tra salti temporali tra passato e presente, e vite di famiglia che si intrecciano, al nipote Alek, che trascorre da lei l’estate: inizialmente un po’ controvoglia, poi però si lascia prendere dalla storia della nonna, dai suoi ricordo e dalla sua verità su quanto accaduto quella notte. 
Alma DeGeer Dunahew, con la sua indole ostile e sofferente, le sue oscure ossessioni e il suo primitivo bisogno di vendetta, era il grande cuore rosso della nostra famiglia, il cuore vero, quello che teniamo nascosto e ci sorregge.
Passarono anni prima che imparassi a volerle bene.
La versione della cameriera è un romanzo molto particolare, ricco di personaggio e di intrecci che Woodrell distribuisce nel racconto attraverso salti temporali inizialmente un po’ destabilizzanti. Una volta che si entra nel meccanismo, che ci si lascia accompagnare da Alma e dal suo ricordo dentro alle vicissitudini della sua famiglia, però, se ne resta completamente conquistati. Si percepisce forte il suo amore per la sorella Ruby, questa ragazza che si innamora sempre degli uomini sbagliati e che è sempre pronta a dividere con Alma e i suoi tre figli quel poco di cibo che trova. E si percepisce forte anche il dolore che Alma prova per la sua tragica morte, reso ancor più forte dal fatto di credere di sapere chi sia stato.

In mezzo alla storia di Alma e della sua famiglia, Woodrell dedica dei singoli capitoli, bellissimi, ad alcune delle persone che hanno perso la vita nell'esplosione della sala da ballo: quasi una piccola antologia di Spoon River, a tratti molto commovente, che dimostra quali scherzi terribili possa fare a volte il destino.

Lui saltò un altro steccato e risalì Hill Street e il mondo dietro di lui si squarciò e volò in aria, e lui si girò verso il cielo infuocato da un getto arancione che saliva ondeggiando in una torre molto più alta dell’orizzonte, e si fermò, vide un edificio in frantumi schizzare in aria con la gente che volava giù, e restò lì incapace di muoversi, incapace di muoversi o distogliere lo sguardo, sentì le urla tremende, le grida, l’agonia della gente che arrostiva, e non passò un giorno o una notte in cui non le sentisse.

Daniel Woodrell scrive in un modo incredibile. Una prosa segnante, che alterna momenti di estrema ricchezza ad altri di scrittura quasi scarna, asciutta, che riesce a trasmettere appieno lo stato d'animo di Alma e di tutto il resto del paese di fronte a una tragedia di cui tutti conoscono i colpevoli, ma nessuno, forse per proteggersi da altro dolore, forse per proteggere qualcun altro, vuole davvero ammetterlo.

Titolo: La versione della cameriera
Autore: Daniel Woodrell
Traduttore: Guido Calza
Pagine: 190
Editore: NN editore
Anno: 2019
Prezzo: 18,00€
Acquista su Amazon:
formato cartaceo: La versione della cameriera. La serie di West Table
formato ebook: La versione della cameriera

martedì 30 ottobre 2018

ASIMMETRIA - Lisa Halliday

La terza domenica l'uomo comprò due coni da Mister Softee e ne offrì uno ad Alice. Lei lo accettò, come aveva fatto con la cioccolata, anche perché già gocciolava. E comunque uno che ha vinto più di una volta il Premio Pulitzer non va in giro ad avvelenare la gente.


Lo so, lo so. Quella fascetta avrebbe dovuto mettermi in guardia. Le parole “caso editoriale” e “un libro imperdibile” per lanciare un romanzo sono ormai talmente tanto abusate che ogni anno abbiamo almeno duecento libri dell’anno, quattrocento casi editoriali e mille libri imperdibili. Ma si sa, tutte le fascette tendono a essere un po’ roboanti, a lanciare ogni singolo libro come se fosse il capolavoro che tutti dovrebbero leggere, sperando così di emergere un po’ dalla massa. E se non leggessi tutti i libri che hanno un lancio simile, probabilmente mi limiterei a cinque o sei testi all’anno.
Certo, poi sono usciti anche commenti molto entusiastici, forse un po’ troppo, che avrebbero proprio dovuto farmi stare lontana da questo libro. Ma sono curiosa, non ci posso fare niente. E poi non volevo rischiare che un mio preconcetto, spesso totalmente infondato, rischiasse di farmi perdere qualcosa che invece mi sarebbe piaciuto.

E quindi sì, ho letto Asimmetria di Lisa Halliday, tradotto da Federica Aceto per Feltrinelli editore. E un po’ me ne sono pentita.
Intanto, Asimmetria è un romanzo per modo di dire. Si compone di tre parti. La prima e l’ultima sono in qualche modo collegate tra loro, mentre quella intermedia sembra del tutto avulsa dal resto.

Si parte con Follia: protagonisti sono Alice, una ragazza di venticinque anni che lavora come redattrice in una casa editrice ma sogna di scrivere, e Ezra Blazer, scrittore di fama internazionale, vincitore del Premio Pulitzer e di tutta una serie di altri riconoscimenti, tranne il Nobel... vi suona famigliare, eh? L’autrice stessa non ne ha fatto mistero: Ezra è Philip Roth e Alice è lei. E quindi sì, anche la relazione che racconta è reale. Ezra è un signore anziano, con un certo fascino; Alice una ragazza che ancora deve trovare la sua strada. I due vanno a letto insieme, poi, quando lo stato di salute di Ezra peggiore, si frequentano come due innamorati. Lui sta scrivendo e intanto attende che gli arrivi quel tanto agognato premio che aspetta con ansia e che ancora gli manca; lei sta cercando la sua strada nel mondo e, a un certo punto, capisce che forse avere accanto un signore così anziano, con così tanti bisogni e necessità, non sia poi una buona idea.
“Mary-Alice,” le disse lui con tenerezza dopo qualche istante. “Io lo so cos’è che fai.”
“Cosa?”
“So cosa fai quando sei da sola.”
“Cosa?”
“Scrivi. Non è così?”
Alice si strinse nelle spalle. “Un po’.”
Nella seconda parte, Pazzia, la storia cambia completamente. Ci ritroviamo in aeroporto a Heathrow con Amar, un economista iracheno-americano che fa scalo lì nel suo viaggio verso l’Iraq per andare a trovare il fratello. Ha due giorni liberi prima del volo successivo e vorrebbe trascorrerli a Londra con un amico, ma la polizia aeroportuale non vuole farlo uscire: la sua storia e il suo passato sembrano essere troppo complicati per poterlo lasciar andare liberamente in giro per la città. Amar, nell’attesa di capire quale sarà il suo destino in terra inglese, ripensa alla sua vita, alla sua infanzia, al suo rapporto con i genitori e il fratello, a tutto ciò che lo ha portato a essere lì, in quella sala d’attesa, in quel momento.

La terza parte, Desert Island Discs con Ezra Blazer, è invece un’intervista radiofonica, che ha come protagonista proprio Ezra, chiamato a elencare quali dischi poterebbe con sé su un’isola deserta. Fresco fresco di Nobel, lo scrittore parla della musica che ha influenzato la sua vita e la sua scrittura, mentre ci prova spudoratamente con la sua intervistatrice.

Qualcosa in Asimmetria deve essermi sfuggito, perché io l’ho trovato solo molto lento e molto noioso, soprattutto nella parte che, almeno sulla carta, avrebbe dovuto interessarmi di più: ovvero la storia tra lo scrittore Ezra e Alice. Come penso sia stato per molti, ad avermi spinto alla lettura è stato proprio il sapere che Lisa Halliday qui racconta la storia sua e di Philip Roth, filtrata attraverso due alter ego che non so quanto effettivamente siano somiglianti alla realtà (spero poco, perché io Alice l’ho trovata davvero antipatica).  Non ho trovato tenera la storia d’amore tra Ezra e Alice, anzi, a volte per me è stata al limite dell’irrispettoso nei confronti di colui che è stato un grande scrittore, ma anche, a un certo punto e inevitabilmente, un anziano con problemi di salute. 
La seconda parte, secondo me, è quella riuscita meglio, la più interessante, sia per la storia del passato di Amar, sia per le difficoltà al limite del grottesco che sta vivendo in quel momento in aeroporto solo perché ha un doppio passato. Però non ho davvero capito il collegamento né con la precedente né con la successiva (sì, c’è qualche piccolissimo riferimento, ma proprio proprio minimo), al punto che ammetto di aver pensato che sia stata inserita più che altro per dar spessore al libro, altrimenti troppo breve. Oppure è possibile che sia io a non saper cogliere il senso di questa “narrazione asimmetrica” che riflette in qualche modo “le asimmetrie della vita”... insomma, per me sarebbe stato meglio dire semplicemente che si trattava di una raccolta di tre racconti.

In generale, da Asimmetria mi aspettavo molto, molto di più. E non solo per via di una fascetta altisonante e dei commenti positivi letti ovunque (a cui, bisogna dare atto, hanno poi fatto seguito anche altri decisamente meno entusiastici). Mi aspettavo di più perché una storia come quella che ha vissuto Lisa Halliday con Philip Roth per me si merita una trasposizione diversa (oppure non sbandierare in anticipo che si tratta di voi due e lasciare al lettore la possibilità di coglierci quello che vuole). E si merita più spazio anche la storia di Amar e di tutte le persone come lui che, ogni giorno, devono affrontare il controllo passaporti, portandosi dietro un passato che non si sono scelti.
Però si tratta anche di un libro (scusate, proprio non riesco a chiamarlo romanzo) d’esordio e sicuramente Lisa Halliday ha molto potenziale e tanto tempo per affinarlo. Magari seguendo anche i consigli di Philip Roth.


Titolo: Asimmetria
Autore: Lisa Halliday
Traduttore: Federica Aceto
Pagine: 285
Editore: Feltrinelli
Prezzo di copertina: 17,00€
Acquista su Amazon:
formato cartaceo: Asimmetria
formato ebook: Asimmetria

giovedì 13 settembre 2018

IL DINER NEL DESERTO - James Anderson

Non era il paradiso e non era l'inferno, solo un rettilineo che gli passava in mezzo.

Arrivata alla fine di Il diner nel deserto (che ho letto in lingua originale l’anno scorso e che esce proprio oggi in italiano per NN editore con la traduzione di Chiara Baffa), sono andata su google images e ho cercato “diner Utah”. 
Tra i vari risultati di paesaggi brulli e desertici, tra montagne e bacini d’acqua coraggiosi che tentano di trovare il loro spazio in questi luoghi impervi e quando ci riescono fanno danni enormi, c’era un’immagine che raffigurava esattamente l’idea che mi ero fatta della tavola calda di Walt, proprietario del diner che dà il titolo al romanzo e attorno a cui ruota gran parte dell’azione: un locale polveroso e solitario, affacciato su una strada statale poco battuta e circondato dal deserto quasi abbagliante, su cui spunta, qua e là, qualche casa isolata e qualche canyon. Un luogo in grado di trasmettere sicurezza e inquietudine al tempo stesso: un rifugio dopo chilometri di nulla, ma anche un posto in cui potrebbe succedere qualcosa di brutto senza che nessuno se ne accorga.

This photo of JC's Country Diner is courtesy of TripAdvisor

Il romanzo trasmette proprio questa sensazione. Un deserto sconfinato, un luogo in cui nascondersi, essere al sicuro, addormentato in una sua routine che nessuno osa o vuole mettere in discussione, ma che al tempo stesso può celare tante cose brutte, nascoste sotto una sabbia immobile da tempo ma che un soffio di vento un po' più forte può riportare in superficie.

La maggior parte dei personaggi di Il diner nel deserto ha un passato misterioso da cui fugge e in cui al tempo stesso si rifugia: Ben Jones, il camionista protagonista principale, che percorre su e giù la statale 117 per portare viveri e beni di prima necessità ai vari abitanti della zona, è stato abbandonato dalla madre quando era ancora in fasce eppure, pur non avendola mai conosciuta, alla madre pensa sempre; Walt, l’anziano proprietario del diner, in passato non è riuscito a salvare la moglie e da allora si è chiuso in se stesso e nella sua rabbia, per non dover affrontare gli altri, ma anche per non concedersi mai una tregua dai suoi sensi di colpa; Claire, questa ragazza misteriosa che è comparsa all'improvviso in una casa abbandonata vicino alla tavola calda e suona le corde di un violoncello invisibile, è fuggita dalla città e da un ex marito e ora lì, nel deserto, sembra quasi pronta a ricominciare una nuova vita; Ginny, una ragazzina adolescente che non sembra troppo preoccupata né per essere stata cacciata di casa dalla madre né per il figlio che porta in grembo e che dovrà crescere da sola; per arrivare ai fratelli Lacey e al loro solido legame.

Il diner nel deserto è il romanzo d’esordio di James Anderson, nonché primo di una, spero lunga, serie (il secondo volume, Lullaby Road, verrà pubblicato sempre da NN l’anno prossimo). L'autore ha scritto un crime che però si distacca molto dalle caratteristiche del genere: certo, c’è un mistero principale (il furto di un prezioso violoncello) dall'epilogo drammatico che avvince il lettore, prima lentamente per poi lasciarlo alla fine in balia delle piogge torrenziali e della corrente che all'improvviso arrivano e spazzano via tutto. Ma ci sono anche tante, tantissime altre cose. C'è la storia d’amore tra Ben e Claire, prima di tutto: la routine del deserto che si spezza, una deviazione che Ben fa con il suo camion e che sfocia in un rapporto improvviso, e forse per questo ancor più appassionato e potente. Ci sono i legami famigliari, in ogni loro forma possibile: quello fatto di se e di ricordi inestinti, tra Ben e sua madre; quello spezzato e così forse ancor più forte tra Walt e sua moglie; quello appena scoperto tra l'anziano e Claire; quello forse più singolare e al tempo stesso più tenero tra Ben e Ginny; l'amore fraterno che unisce i fratelli Lacey, Fergus e Duncan, e in qualche modo tutta questa comunità che vive nel deserto.
E c’è l’amicizia, quel vincolo forte che forse è il deserto stesso ad aver consolidato e che fa in modo che, anche di fronte alla situazione più critica, a quello che all'apparenza sembra il male in assoluto, nessuno giudichi nessuno.

«Mi sa che non credo più nel lieto fine.»

«Io non penso di averci mai creduto» risposi. «Ma avrei sempre voluto farlo.»
«Secondo te va bene se forse, solo per il momento, credo in un presente felice?»
«Può andare» dissi «a patto di viverlo insieme.»

Il diner nel deserto è un libro intenso, in cui il deserto funge da contenitore delle storie dei personaggi che lo popolano ma anche da protagonista, determinandone in qualche modo il destino.
Bello, davvero, davvero bello.

Titolo: Il diner nel deserto
Autore: James Anderson
Traduttore: Chiara Baffa
Pagine: 320
Anno di pubblicazione: 2018
Editore: NN editore
Prezzo di copertina: 18,00 €
Acquista su amazon:

lunedì 16 luglio 2018

PACIFICO - Tom Drury

Micah si portò pollice e indice alle labbra e fischiò. Di lì a poco una vecchia capra sbucò da dietro la casa. Micah e Lyris l'avevano cresciuta insieme.
La capra si avvicinò con passo felpato sull'erba. I ciuffi rossi e bianchi del suo manto avevano assunto varie sfumature argentee. Scrutò i presenti e poi fissò Micah, come a dire: «Ehi, aspetta, te ne stai andando? È di questo che si tratta?»
Micah si lasciò cadere in ginocchio e le arruffò il manto stopposo e lungo. Si sforzò chiaramente di non piangere, ma pianse comunque. La capra guardava con occhi a fessura la strada davanti alla casa.
«È più difficile di quanto avessi immaginato» disse Micah.


Aspettavo da tempo di tornare nella Grouse County di Tom Drury. Dopo essermici affezionata in La fine dei vandalismi e poi completamente innamorata in A caccia dei sogni, ero curiosa di sapere come andavano le cose per Tiny, Micah e Lyris, per Dan e Louise, per la capretta e per tutti quanti. Una curiosità che è stata prontamente soddisfatta con la pubblicazione, sempre per NN editore e sempre con la traduzione di Gianni Pannofino, del terzo e ultimo volume di questa trilogia, Pacifico, uscito in libreria a fine giugno.

I personaggi che ho conosciuto e amato nel primo e nel secondo volume ritornano tutti. Ritornano Dan, che ora non è più sceriffo ma investigatore privato, e sua moglie Louise, che nonostante i tanti anni passati ancora non si è messa il cuore in pace per quello che ha perso. Ora lei gestisce un negozio di antiquariato e vizia come può Lyris e il suo fidanzato, che vivono insieme nello stesso palazzo. Sì, Lyris se n’è andata da casa di Tiny per seguire la sua vita, ma senza mai abbondare davvero quel padre adottivo che l’ha accolta come fosse sua figlia, né il fratello Micah (e tanto meno la loro capretta). Tiny è sempre Tiny, invece, anche se ora si ritrova a fare i conti con la solitudine:  la ex moglie Joan, infatti, che lo aveva lasciato nel secondo romanzo, è tornata a riprendersi suo figlio Micah per portarlo con sé a Los Angeles, dove lei fa l'attrice, per offrirgli una una nuova vita. 

In Pacifico il raggio della Grouse County si amplia e arriva fino all’oceano. Ai racconti della vita nella contea, fatta sempre di personaggi singolari, di momenti bislacchi alternati ad altri di profonda tenerezza, si alternano quelli nella grande città dove Micah si ritrova a vivere e cercare di ambientarsi. Lì stringerà amicizie, lì conoscerà per la prima volta l’amore, ma da lì continuerà anche a sentire la nostalgia della sorella, della provincia, di casa.

«Ho trovato una fidanzata, pa'».
Tiny si sentì vecchio a quella notizia.
«Una fidanzata, Micah».
«Si chiama Charlotte. Va a cavallo».
«Devo aprirle le porte, capito? E non farle prendere freddo».
«Okay, pa'».
«Prendono freddo facilmente. Cioè, magari non tutte, ma tante sì».
«Le prenderò dei guanti».
«Bravo. E se ha freddo togliti la giacca e dalla a lei. Non so bene perché ma è una cosa molto importante».

Tom Drury conclude la trilogia di Grouse County riprendendo tutti i personaggi principali che sono comparsi nei romanzi precedenti e mostrando al lettore dove sono adesso, come se le passano, come sono diventati, come e se sono cambiati. Ma in Pacifico (che è stato scritto tredici anni dopo da A caccia nei sogni e ben diciannove dopo La fine dei vandalismi... come se l'autore stesso abbia voluto lasciare ai suoi protagonisti un po' di tempo per loro, e poi tornare a vedere come andavano le cose.) non si tirano le somme, non si conclude nulla: proprio come nei romanzi precedenti è semplicemente il racconto di vite normali prese in un momento della loro vita, della loro quotidianità, che affrontano ciò che viene messo loro di fronte ogni giorno, che sia uno strano omicidio su cui indagare, oppure un rimpianto che ancora si fa sentire, un ricordo che proprio non se ne può andare, una rapina fatta tanto per il gusto di farlo o una ragazza da caricare in auto senza farsi troppe domande.

Rispetto ai due precedenti, che avevo amato alla follia, Pacifico mi è piaciuto un pochino meno. Forse perché non c’è solo la Grouse County e la vita di provincia, ma anche la città; forse perché la città così grande per me resta sempre uno spauracchio e non riuscirei mai a viverla come la vive Micah; forse perché ho sempre odiato Joan, fin dalla sua prima apparizione. Ma è comunque un gran bel romanzo, in cui Drury mescola ancora una volta con sapienza comicità, ironia, tenerezza e commozione, attraverso gesti semplici, e spesso singolari, che si caricano di un significato profondo. 

Mi mancherà tanto la Grouse County. Mi mancherà perdermi per i paesini che la compongono e ascoltare le chiacchiere di chi si incontra per strada. Mi mancheranno Tiny, Lyris, Louise, Dan e tutti gli altri. Capretta inclusa.

TITOLO: Pacifico
AUTORE: Tom Drury
TRADUTTORE: Gianni Pannofino
PAGINE: 243
EDITORE: NN editore
ANNO: 2018
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formato cartaceo: Pacifico. Trilogia di Grouse County: 3
formato ebook: Pacifico

lunedì 18 giugno 2018

AVVISO AI NAVIGANTI - Annie Proulx

Prese l'abitudine di passeggiare avanti e indietro nella roulotte chiedendosi ad alta voce: «Chissà? Chissà?» Lo ripeteva in continuazione. Perché nessuno sapeva. Ciò che intendeva dire era: tutto può accadere.
Una moneta che gira su se stessa, in equilibrio sul bordo, può cadere da qualsiasi parte.



Annie Proulx è conosciuta ai più come l’autrice del racconto da cui Ang Lee ha tratto il film I segreti di Brokeback Mountain. Io però non lo sapevo, quando ho letto per la prima volta un’opera di questa autrice: due anni fa, quando mi hanno prestato (con quella frase “secondo me questo potrebbe piacerti”, che per me vale più di qualsiasi spiegazione) Ho sempre amatoquesto posto, una raccolta di racconti ambientata nel Wyoming. Una raccolta di storie che ho amato tantissimo, che mi ha portato in mezzo a montagne e terre desolate, tra ranch e cowboy.
A maggio di quest’anno minimum fax ha ripubblicato Avviso ai naviganti, romanzo con cui Annie Proulx ha vinto sia il National Book Award sia il premio Pulitzer. E io, molto curiosa di leggere qualcos'altro di questa autrice, mi ci sono subito buttata.

Protagonista è Quoyle, un uomo che vive nei sobborghi di New York con una moglie che lo tradisce sempre e due figlie piccole. Sbarca il lunario facendo il giornalista per un quotidiano locale, da cui viene licenziato e riassunto a intervalli regolari. Nel giro di qualche mese la sua vita cambia completamente: i suoi genitori muoiono e la moglie, di cui lui è follemente innamorato e giustifica in ogni sua azione, se ne va con un altro uomo portandosi dietro le due figlie, non certo per istinto materno. Quoyle riesce a recuperarle e decide, con un atto di coraggio che fino a quel momento non è mai stato suo, di andarsene e seguire una sua zia nel Terranova, per andare a vivere nella vecchia casa di famiglia a picco su una scogliera. Il Terranova è un posto freddo in cui nevica spesso, da cui la gente di solito se ne va per non tornare più e quella che resta lo fa solo perché ancora non ha trovato i soldi o il tempo di andarsene. Quoyle troverà un impiego in un altro giornale locale, che pubblica per lo più notizie marittime e foto di gravi incidenti stradali. In questo luogo sperduto, dove la natura ha la ragione su tutto e tradizioni e superstizioni si tramandano da generazioni, Quoyle sembra trovare la sua pace e riprendere finalmente in mano quella vita che gli è sempre sfuggita.
Be', se non altro quella vita l'aveva temprata. Era riuscita a navigare da sola lungo coste impervie, aveva ricucito le proprie vele lacerate, aveva sostituito i ferri vecchi e consumati con un'attrezzatura nuova e resistente. Si era fatta strada in un labirinto di scogli e secche, e aveva preso il largo. Ci era riuscita. Continuava a riuscirci, un giorno dopo l'altro.
Non stupisce che Avviso ai naviganti abbia vinto sia il Pulitzer sia il National Book Award perché è un gran bel romanzo. Quoyle è un personaggio a cui inevitabilmente ci si affeziona; a cui si vorrebbe dare uno scossone, dirgli che si merita di più, che deve trovare il coraggio di prendere in mano la sua vita e smetterla di farsi trasportare dagli eventi e per cui, quando finalmente capisce da solo tutte queste cose, non si può che tifare. Le sue sembrano sempre scelte folli: sposare una donna che chiaramente non lo vuole e continuare nonostante tutto ad amarla; seguire una zia mai vista prima e trasferirsi in un posto da cui la gente di solito fugge; sistemare una casa che sembra poter crollare da un momento all’altro; prendersi cura di due figlie da solo senza avere idea di come fare. Eppure, tutte queste follie a poco a poco trovano un loro senso e smettono di esserlo.
Perché se un uccellino dal collo spezzato era riuscito a volare via, allora cos'altro era possibile? Forse che l'acqua fosse più antica della luce, che i diamanti si sciogliessero nel sangue di capra caldo,  che le cime delle montagne emettessero vampate di fuoco gelido, che le foreste spuntassero in mezzo all'oceano. E che un granchio venisse catturato con l'ombra di una mano, che il vento restasse imprigionato in una cordicella annodata, e che l'amore arrivasse senza dolore e senza sofferenza.
Temo, però, di aver letto Avviso ai naviganti nel momento sbagliato: troppe cose per la testa e troppo caldo per leggere un libro così intenso, così pieno. Ci ho messo tanto tempo a finirlo, a volte perdendomi in mezzo alle descrizioni sulla pesca e sulle navi (che sono parte fondamentale del libro, tant'è che ogni capitolo si apre con la descrizione di un "nodo" che poi verrà sviluppato) e, mentre lo leggevo, già mi rendevo già conto di non riuscire ad apprezzarlo come invece si meriterebbe. È un libro a cui bisogna dedicare tutta la propria attenzione, per non perdersi i dettagli all'apparenza banali ma sempre importanti che l'autrice ha inserito per caratterizzare i personaggi e la loro evoluzione. 
Se si riesce a farlo, se ci si abbandona all'acqua e al vento, si navigherà in questo libro senza perdercisi e si leggerà qualcosa di davvero bello.


Titolo: Avviso ai naviganti
Autore: Annie Proulx
Traduttore: Edmonda Bruscella
Pagine: 470
Anno di pubblicazione: 2018
Editore: minimum fax
Prezzo di copertina: 17€
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formato cartaceo: Avviso ai naviganti
formato ebook: Avviso ai naviganti

mercoledì 6 giugno 2018

BEAUTIFUL MUSIC - Michael Zadoorian

Stasera è tutto diverso. Mi sento libero. Libero dal lutto, libero da dolore di mia madre, libero dalla cattiveria di chiunque al mondo. Voglio soltanto stare in questo momento, con questo divano, questo stereo e questo disco.



Aspettavo con ansia un nuovo romanzo di Michael Zadoorian. Dopo aver amato alla follia In viaggio contromano (no, il film che è stato tratto dal libro ancora non l’ho visto, ma spero di rimediare quanto prima), a tutt’oggi uno dei miei romanzi preferiti di sempre, ed essere rimasta invece un po’ meno soddisfatta di Second Hand, sua opera d’esordio, ero curiosa di leggere qualcosa di nuovo di questo scrittore americano. Per capire se In viaggio contromano sia stata fortuna, perché ce ne sono tanti di scrittori in grado di scrivere solo un romanzo bellissimo nella loro vita (e qualcuno neanche questo, in realtà) o se invece i problemi che ho trovato io in Second Hand fossero legati a una questione di immaturità.

Marcos y Marcos ha risposto a questa mia volontà, pubblicando in contemporanea con l’uscita americana Beautiful Music, tradotto da Claudia Tarolo.

Siamo nella Detroit degli anni ’70 e Danny è un ragazzino un po’ impopolare, goffo, impacciato, per nulla sportivo e facile preda dei bulli. Aveva degli amici, una volta, nel quartiere in cui abitava, ma poi le loro famiglie se ne sono andate , in parte a causa dell’arrivo di nuovi abitanti di colore. Danny si rifugia spesso nella musica: quella che ascolta in auto con suo padre e quella che sente in cantina, sempre insieme a suo padre, quando i due si richiudo lì per fare lavoretti e forse anche per sfuggire a una madre e una moglie un po’ problematica. La musica è un’ancora di salvezza per Danny nei momenti più difficili della sua vita di adolescente, e lo diventa ancora di più quando un’enorme tragedia si abbatte sulla famiglia e lui deve trovare un modo per reagire.
È tutto diverso, adesso, come ci si poteva aspettare. Scopro che anche dopo che è successa una cosa veramente orribile, succedono altre cose. I tuoi occhi continuano ad aprirsi, le tue orecchie continuano a sentire, i tuoi polmoni continuano a respirare, anche se tu non sai perché e non vorresti. Arriva l'inverno. Passano i giorni e in qualche modo arranchi nella loro melma. Quando riesci a dormire, e a volte ci riesci, quando la radio fa bene la sua parte, quando trasmette canzoni di un certo tipo, senza troppi significati, cullandoti in uno spazio vuoto, dove, per un momento o due, i ricordi di lui non ti tolgono il respiro. Quando riesci a dormire, e a volte ci riesci, ti svegli in una casa immobile, e il mormorio della tua radio è l'unico segno che sei sveglio e vivo.
A correre in suo aiuto arriva un’insegnate della sua scuola che, sentendo la sua voce, gli chiede di lavorare alla radio della scuola. Non deve fare niente di particolare: solo mettere un paio di dischi e leggere degli annunci. Un sogno che si avvera, per Danny, ma che poi si scontra con la realtà, molto più complessa di quel che un ragazzino della sua età potrebbe immaginare e forse capire. Ma la musica ha dato a Danny una sensibilità in più, che gli permette, a modo suo, di affrontare le ingiustizie e le difficoltà del mondo.

Beautiful Music è un inno alla musica e al suo potere di salvare vite e di far sentire meno soli. Ma anche un romanzo sulla famiglia, sui legami e sulle difficoltà ad andare avanti quando uno di questi legami suo malgrado si spezza. 
C’è poi la questione degli scontri razziali, che imperversavano nella Detroit e più in generale in tutta l’America di quegli anni, raccontata però dal punto di vista di un ragazzino che, molto semplicemente, non capisce perché si debbano discriminare persone con la pelle di un colore diverso, proprio come non capisce perché i bulli se la debbano prendere con lui a scuola.
Tutti avevano una gran paura che i neri venissero ad abitare nel nostro quartiere. Questa era la cosa peggiore che potesse succedere. Ora i neri stavano venendo ad abitare nel nostro quartiere e non sembra fare una grande differenza. Salvo per tutti quei bianchi che se ne vanno.
Devo dire una cosa a discolpa di mia madre (e di mio padre, quando c'era ancora): non li ho mai visti comportarsi male o essere scortesi con nessuno, nero o bianco che fosse. Ho visto mio padre con i suoi colleghi neri quando mi portava in ufficio i sabati in cui lavorava, ed era gentile e cordiale, come sempre. Lo stesso capitava con mia mamma quando andavamo all'alimentari o all'ambulatorio medico, e lei si metteva a ridere e scherzare con l'infermiera del dottor Hadosian, Mildred. (La mamma era più gentile con lei che con il dottore.) È una finta? È ipocrisia? Si può essere un reazionario gentile? È possibile avere lati opposti di qualcosa nel proprio cuore? Puoi credere che le cose stiano in un modo, mentre le tue azioni rivelano qualcos'altro? Puoi temere l'idea di certe persone, ma non le persone stesse, viste da vicino? Proprio non lo so.
Danny è sicuramente un bel personaggio e ho provato nei suoi confronti una forte simpatia ed empatia fin dalla prima pagina. Mi sono piaciute le sue insicurezze, così incredibilmente condivisibili, e ho adorato il rapporto con suo padre, ma anche il suo tentativo di tenere a galla una famiglia che sta affondando, e la sua frustrazione quando non ci riesce.
Vorrei dirle che non è niente. Vorrei dirle che manca anche a me. Vorrei dirle che andrà tutto bene. Ma non posso, perché non penso che andrà tutto bene. La fisso e basta. Mi rimetto le cuffie, ma la canzone è finita.
E poi c’è la musica, ovviamente. Di cui forse bisognerebbe essere un po’ più conoscitori e appassionati di quanto non lo sia io per apprezzare tutto il potenziale di questo romanzo. Ma anche se non siete dei grandi esperti, come non lo sono io, sicuramente in alcuni momenti della vostra vita avrete fatto ricorso alla musica e alle canzoni per affrontare dei momenti tristi o brutti, o come colonna sonora di istanti bellissimi e quindi non avrete difficoltà a capire comunque quanto sia bello quest’ultimo romanzo di Michael Zadoorian.

Certo, In viaggio contromano rimane il mio preferito, ma Beautiful Music mi ha fatta sorridere ed emozionare, commuovere e, in alcuni punti, anche un po’ arrabbiare. E, ovviamente, lo consiglio tantissimo.


Titolo: Beautiful Music
Autore: Michael Zadoorian
Traduttore: Claudia Tarolo
Pagine: 397
Anno di pubblicazione: 2018
Editore: marcos y marcos
Prezzo di copertina: 18€
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formato cartaceo:Beautiful music

mercoledì 2 maggio 2018

MANHATTAN BEACH - Jennifer Egan

Dopo anni di lontananza il padre le fu di nuovo vicino. Non riuscì a vederlo, ma sentì il dolore nodoso delle sue mani sotto le ascelle quando la sollevava da terra per portarla in braccio. Udì il tintinnio attutito degli spiccioli nelle tasche dei pantaloni. La sua mano era una presa elettrica dove lei infilava sempre la propria, ovunque andassero, anche quando non le importava. Anna si fermò, stordita dalla forza di quelle impressioni. Senza pensarci, si portò le dita al viso, aspettandosi quasi l'odore caldo, amaro del tabacco di suo padre.


Manhattan Beach, uscito da poco per Mondadori con la traduzione di Giovanna Granato, è il primo romanzo che leggo di Jennifer Egan. Non so se sia una premessa necessaria oppure no, perché se da un lato le più frequenti critiche che ho letto nei confronti di questo libro riguardavano proprio il suo essere completamente diverso rispetto alle opere precedenti (Guardami, La fortezza, Il tempo è un bastardo e Scatola nera usciti tutti per minimum fax con le traduzioni di Matteo Colombo e Martina Testa), dall’altro sono convinta che uno scrittore che riesca a cambiare drasticamente il suo stile ed essere comunque convincente sia per forza di cose un bravo, bravissimo scrittore. Già solo per il fatto di aver osato cambiare, sapendo benissimo di andare contro alle aspettative di tutti i suoi precedenti lettori. 
Comunque, io di Jennifer Egan non avevo mai letto niente e Manhattan Beach mi è piaciuto molto. Sarà che ho una passione per i romanzi che, attraverso personaggi inventati seppur ispirati a qualcuno di reale, raccontano un periodo storico ben preciso. E più pagine hanno, più fitti sono gli intrighi, più a fondo scavano nella società di un’epoca, più mi piacciono.

Con Manhattan Beach andiamo nella New York degli anni ’30 e poi ’40, insieme ad Anna, bambina che segue suo padre Eddie quando va in giro a svolgere gli affari per il sindacato che sta tenendo in vita lui e la sua famiglia, e poi donna adulta che si occupa della famiglia lavorando nel cantiere navale in preparazione alla guerra e intanto sogna di diventare palombara. 
Da piccola ad Anna piaceva andare in giro con suo padre. Tra loro c’era un legame speciale: lui la adorava, quasi in contrasto con quello che provava verso l’altra figlia, Lydia, nata con un grave problema di salute; lei amava stare in auto con lui, tenerlo per mano e mantenere ogni segreto che lui le chiedeva di mantenere. I loro cammini iniziano però a dividersi quando Eddie decide di accettare di lavorare per Dexter Styles, un uomo molto potente nella New York di quegli anni grazie ai suoi traffici non proprio puliti, che però garantirebbero una vita migliore a tutta la famiglia. 
Anni dopo, di Eddie non c’è più traccia. Sparito nel nulla un giorno, lasciando la moglie e le due figlie e senza mai più dare notizie. Anna è delusa dal padre, ma a poco a poco pare essersi abituata alla sua assenza. Lavora come molte altre donne, che quando gli uomini sono stati chiamati alle armi, hanno occupato il loro posto, ma a differenza delle altre lei non ci sta a essere solo una sostituta e a vedersi preclusi posti che agli uomini non sono. Così, il giorno in cui vede degli uomini immergersi con un enorme scafandro, decide che quello sarà il suo destino: diventare palombara. 
Finché una sera, proprio grazie a una sua collega, dopo tanti anni incontra Dexter Styles. Subito non si ricorda di lui, di quel giorno di tanti anni fa in cui ha accompagnato suo padre a casa sua, dando inizio a tutto quanto. Poi a poco a poco i ricordi tornano a galla e la voglia di scoprire cosa è successo si fa di nuovo viva. Anna è disposta a tutto pur di capire, di sapere, di ritrovare suo padre, vivo o morto.

Jennifer Egan ha scritto un romanzone, è l’unico modo in cui riesco a definire Manhattan Beach. Un romanzo storico in qualche modo, che descrive diversi aspetti di quell’epoca: da un lato le difficoltà economiche di chi è stato schiacciato dalla crisi, dall’altro chi invece riesce ad arricchirsi e a sfruttare questa crisi; l’epoca della seconda guerra mondiale, dal punto di vista di chi parte ma anche da quello di chi resta e aiuta come può. Ma ha scritto soprattutto un grande storia famigliare, con una protagonista incredibile.

Rose si era sbagliata dicendo che il mondo sarebbe tornato di nuovo piccolo. O almeno non sarebbe mai più stato il piccolo mondo di prima. Erano cambiate troppe cose. E, fra una trasformazione e un riallineamento, Anna si era infilata in una crepa ed era scappata.

Leggendo questo libro si percepisce poi quanto l’autrice si sia divertita a scriverlo, a fare ricerche, scavare nelle storie e nei racconti di chi quell'epoca l’ha vissuta per fornirne un ritratto il più reale e fedele possibile, nonostante l’uso di personaggi inventati. 
Non tutti sono in grado di farlo. Non tutti sono in grado di scrivere un romanzo così articolato, con così tanti legami, intrecci, colpi di scena, momenti di tenerezza e di fragilità, ma anche di forza, coraggio e tenacia, e riuscire a tenere il lettore sempre lì, immerso nelle pagine come Anna lo è nel mare del porto nel suo scafandro. 

E forse sì, forse Manhattan Beach è un romanzo più “classico”, diverso dalle opere precedenti dell’autrice e dallo sperimentalismo che da sempre si associa allo stile e alla scrittura della Egan. Ma questo non vuol dire che non possa essere altrettanto bello. 


Titolo: Manhattan Beach
Autore: Jennifer Egan
Traduttore: Giovanna Granato
Pagine: 510
Anno di pubblicazione: 2018
Editore: Mondadori
Prezzo di copertina: 22€
Acquista su amazon:
formato brossura:Manhattan beach
formato ebook: Manhattan Beach (versione italiana)

martedì 6 febbraio 2018

UN RAGAZZO D'ORO - Eli Gottlieb

Volevo essere su quel treno. Ho sentito arrivare sulla faccia il mio sorriso speciale. Andava sempre più veloce. Sentivi il futuro che gradualmente premeva per entrare nel tuo corpo mentre il treno continuava ad accelerare lasciandosi alle spalle il tempo in cui tutto restava uguale. Volevo che il treno abbandonasse i binari e si lanciasse in quel futuro. Volevo che sconfiggesse la gravità e gradualmente diventasse senza peso mentre volava dritto verso il sole. Ho stretto fortissimo i pugni e ho piegato la testa sulle ginocchia. Magari sarebbe successo proprio stavolta. Magari potevo andare via e non tornare mai più.



Un ragazzo d’oro di Eli Gottlieb, uscito a gennaio per minimum fax con la traduzione di Assunta Martinese, è uno di quei libri di cui, per parlarvene al meglio e farvi capire quanto io lo abbia amato, sarebbe sufficiente riportare un paio delle tante belle citazioni che ho segnato durante la lettura. Frasi e pensieri apparentemente semplici, come si pensa lo siano quelli delle persone con un grave deficit cognitivo congenito come quello di Todd Aaron, il protagonista del romanzo.
Ha undici anni quando sua madre lo porta in una comunità di cura per bambini autistici. È una giornata di pioggia, lui ha paura ma al tempo stesso si fida di sua madre, sa che non gli farebbe mai del male e sa che presto ritornerà a casa.
La pioggia che cadde quel giorno adesso ha quarantun anni ma ogni volta che piove è come se un po' di quella pioggia stesse ancora cadendo, cade ancora.
Sono passati più di quarant'anni e Todd a casa non è mai tornato. I genitori sono morti, il fratello vive ancora dove vivevano da ragazzini, dall'altra parte del paese rispetto al Payton LivingCenter dove ora lui vive e, in qualche modo, si è fatto una sua vita. Legge l’enciclopedia britannica, ascolta la musica nelle cuffie, partecipa alla vita della comunità, svolge con attenzione tutti i lavoretti che gli vengono assegnati e tutte le mattine prende le pillole che nel corso degli anni gli sono state prescritte per aiutarlo ad affrontare le sue crisi, i suoi volt improvvisi. Todd a suo modo è felice e sereno, anche se il ricordo di sua madre è sempre presente in lui, così come la voglia di tornare a casa. Anche di suo padre si ricorda, e di tutte le botte e le violenze che gli ha inferto, incapace di accettare la sua diversità. Della sua famiglia è rimasto solo il fratello, che ogni tanto gli telefona, gli rinfaccia gli enormi sacrifici che sta facendo per lui e gli dice sempre che no, a casa non può tornare. Lui sembra essersi dimenticato di quello che faceva passare a Todd da bambino, forse convinto che Todd stesso non se ne ricordi.
L’equilibrio di Todd al Payton si spezza quando, quasi contemporaneamente, arrivano due nuove persone. Il primo è Mike Hilton, un nuovo operatore, che fin dalla prima volta che lo vede, lo terrorizza perché gli ricorda suo padre. La direzione del centro crede che sia fondamentale per i due andare d’accordo e quindi li mette a lavorare insieme. La seconda è Martine, una ragazza “ad alto funzionamento”, già cacciata da diversi istituti per la sua insubordinazione, verso cui Todd prova una forte attrazione, al punto da lasciarsi convincere a smettere di essere quel ragazzo d’oro che fin da bambino sua madre gli ha detto di essere.
Nel 1177 Lancillotto pensava che su Ginevra splendesse sempre il sole. Pensava che lei fosse pura come la neve. Pensava che fosse una persona perfetta. Pensava che forse non era mai esistito nessuno più perfetto di lei in tutta la storia del mondo.
Lancillotto ne era davvero convinto.
Quello era amore.
Un ragazzo d’oro è un libro sorprendente. Dolcissimo e terribile al tempo stesso, con un protagonista semplicemente indimenticabile. Ho amato Todd fin dalla prima pagina, per la sua tenerezza e la sua ingenuità, per la sua visione del mondo semplice eppure molto più profonda di quello che all'apparenza potrebbe sembrare, per i suoi ricordi, per la sua voglia di tornare a casa e per il suo amore per sua madre, mai messo in dubbio, nemmeno dopo quarant'anni e dopo un apparente abbandono.
Le cose finiscono, bimbo mio. Finiscono le persone e finiscono le case e finiscono le famiglie e finisce tutto tranne una cosa, che è l'amore. L'amore tra le persone e specialmente quello tra una madre e i suoi figli non finisce, non finisce mai. Mi hai capito? L'amore non finisce. Scorre come un fiume attraverso il mondo. Chiudi gli occhi e sentirai montare la piena.
Eli Gottlieb narra dell’autismo in prima persona, mettendone in evidenza ogni aspetto, senza edulcorazioni né pietismi, e raccontando le realtà di queste comunità, con tutte le difficoltà e il duro lavoro di chi questi luoghi li gestisce per dare un equilibrio a chi ci vive. Ma parla anche dei pericoli, delle cattiverie di chi pensa che, avendo queste persone dei problemi neurologici, sia possibile manipolare e usare a proprio piacimento, incuranti del dolore che si possa provocare.

Fin da quando ho letto per la prima volta la trama di questo romanzo sapevo che mi sarebbe piaciuto. Ma non immaginavo così tanto. Mi sono ritrovata a fare il tifo per Todd e per la sua serenità. A sperare che riuscisse davvero a tornare a casa, ma soprattutto che non gli succedesse mai più niente di male, che potesse essere sereno e felice tra le pagine della sua Enciclopedia Brittanica, in mezzo agli altri abitanti del centro e, soprattutto, ai suoi ricordi belli. Nonostante tutto.


Titolo: Un ragazzo d'oro
Autore: Eli Gottlieb
Traduttore: Assunta Martinese
Pagine: 274
Anno di pubblicazione: 2018
Editore: minimum fax
Prezzo di copertina: 17,50 €
Acquista su Amazon:
formato cartaceo:Un ragazzo d'oro
formato ebook: Un ragazzo d'oro

venerdì 15 dicembre 2017

SOGNANDO LA LUNA - Michael Chabon

"Anch'io voglio andare sulla Luna" disse la nonna. "Mi porti con lei."
"Ma certo" rispose il nonno. "Un modo lo trovo."

Purtroppo, non ho avuto la fortuna di conoscere i miei nonni. Solo uno, il mio nonno paterno, era ancora vivo quando sono nata, ma è mancato pochi anni dopo. Di lui ho qualche ricordo confuso, qualche immagine: lui che fa la maionese a mano, lui che si toglie la dentiera sul muretto di fronte a casa, lui che monta la panna e poi ci sparge sopra il cacao, lui seduto sulla poltrona con la flebo al braccio negli ultimi mesi di malattia e poi lui la mattina in cui è mancato. So poi qualche cosa che mi è stata raccontata, su di lui e sugli altri tre nonni, ma ne ho sempre sentito un po’ la mancanza. Mi sarebbe piaciuto che mi raccontassero la loro storia (mio nonno materno, per esempio, durante la Seconda guerra mondiale è tornato dalla Russia attaccato a un camion) e la loro vita: come si sono conosciuti, come si sono innamorati, quanto è stato difficile vivere in tempo di guerra e dopoguerra, cose così. Sono rimpianti inutili e senza soluzione, mi rendo conto, però ogni tanto mi capita di pensarci. Così come mi capita di pensare che i miei futuri ipotetici figli non potranno conoscere mio padre e già mi dispiace per loro.

Per questo, libri come Sognando la luna di Michael Chabon, pubblicato da Rizzoli con la traduzione di Matteo Colombo, mi piacciono molto, ma al tempo stesso mi intristiscono anche un po’.

Il romanzo, infatti, è la storia del nonno e della nonna di Chabon, che lo scrittore ha ascoltato direttamente da suo nonno, quando è andato a fargli visita a casa della madre, dove l’uomo si trovava per trascorrere gli ultimi istanti della sua vita. I potenti antidolorifici che il medico gli ha prescritto lo hanno reso molto loquace e si ritrova quindi, in una settimana, a raccontare al nipote tutta la sua vita affinché la scriva.

«E comunque è una gran bella storia» dissi. «Devi ammetterlo.»«Sì?» Appallottolò il kleenex, cancellata la lacrima solitaria.«E allora prenditela. Te la regalo. Quando non ci sarò più scrivi tutto. Spiega. Trova un significato. Usa tante belle metafore come piace a te. Metti tutto in un bell’ordine cronologico, senza mescolarlo a casaccio come faccio io. Parti dalla sera che sono nato. 2 maggio 1915. Quella notte ci fu un’eclissi lunare, lo sai cos’è?»«Quando la Terra proietta la sua ombra sulla Luna.»«Molto significativo. Di sicuro è la metafora perfetta di qualcosa. Comincia da quella.»

Una vita travagliata, quasi picaresca, dai tempi della guerra fino alla conoscenza con sua nonna, ragazza madre che non è mai riuscita a liberarsi dei traumi del suo passato da donna ebrea; ma anche il racconto della vita dopo la morte della moglie nel residence per anziani in cui si è rifugiato, dei suoi mesi in guerra e di quelli trascorsi poi in galera, senza mai dimenticare il suo sogno di una vita di conquistare la luna.

Quello che ne viene fuori è un memoir romanzato, in cui realtà e finzione sono mescolati non si sa esattamente in quale misura, che racconta settant'anni di storia d’America, dalla guerra e i suoi strascichi alle missioni spaziali; ma soprattutto una storia d’amore, che ha resistito e superato grandi avversità.
"Secondo te sono mai stati felici?"
"Assolutamente" risposi.
"Assolutamente?"
"Senza dubbio."
"Lei ha dato di matto. A lui è fallita l'azienda. Figli loro non sono riusciti ad averne. Lui è finito in galera. A lei la terapia ormonale ha fatto venire il cancro. Io ho sparato a suo fratello in un occhio e sposato l'uomo che gli è costato l'azienda. Quand'è che sono stati felici?"
"Tra una cosa e l'altra" dissi.
"Tra una cosa e l'altra"
"Sì."


Sognando la luna è un libro davvero molto bello, che alterna momenti commoventi e drammatici (la storia del passato della nonna e dei fantasmi che l’hanno perseguitata per tutta la vita è qualcosa di davvero duro), ad altri divertenti. E il nonno di Chabon doveva essere un vero fenomeno, che non ha mai abbandonato i suoi sogni, ma al tempo stesso ha saputo metterli da parte quando si è trovato di fronte a cose per lui più importanti, come il bene di sua moglie e sua figlia, ma anche quello di un gatto. 

Non conoscevo Michael Chabon prima di questo romanzo. Sì, lo so, è uno scrittore americano molto conosciuto e molto stimato, che nel 2001 ha vinto il premio Pulitzer con Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay, eppure non aveva ancora incrociato il mio cammino di lettrice. Lo ha fatto ora, con un libro dolce e intenso, drammatico e divertente, e molto, molto commovente, da cui traspare tutto l’amore dell’autore per la scrittura e le parole come mezzo per raccontare storie e vite, ma anche, e soprattutto, quello di un nipote per suo nonno.


TITOLO: Sognando la luna
AUTORE: Michael Chabon
TRADUTTORE: Matteo Colombo
PAGINE: 526
EDITORE: Rizzoli
ACQUISTA SU AMAZON
formato cartaceo:Sognando la luna
formato ebook: Sognando la luna

giovedì 7 dicembre 2017

VESTIVAMO DA SUPERMAN - Bill Bryson

Non so come ci fossero riusciti, ma i responsabili degli anni Cinquanta avevano creato un mondo in cui ti faceva bene quasi tutto.  Gli aperitivi? Più ne bevevi meglio era! Il fumo? Ma certo! A giudicare dalle pubblicità, le sigarette ti facevano sentire addirittura meglio: calmavano i nervi tesi e rinvigorivano la mente stanca. «Proprio quelle che ha prescritto il dottore!» recitavano le pubblicità delle sigarette L&M anche sulle pagine del «Journal of the American Association», dove sarebbero state accettate fino agli anni Sessanta. I raggi X erano così benigni che i negozi di scarpe avevano installato macchine speciali che li usavano per prenderti le misure, spedendo raggi penetranti che ti entravano dalla pianta dei piedi e ti uscivano dalla testa.


“Nel dubbio, Bill Bryson”.
Potrebbe diventare il mio motto di vita, questo. O almeno di vita da lettrice, perché ho scoperto che non c’è nessuno scrittore che riesca a sbloccarmi nei momenti di crisi da “non ho voglia di leggere” come ci riesce lui.
È la seconda volta che mi succede, quest’anno, di non riuscire a trovare il libro giusto. Di aprire e chiudere dopo poche righe un romanzo perché “no, non mi va”, per poi farmi prendere dallo sconforto.  La prima crisi, avvenuta quest’estate, l’avevo superata con Una città o l’altra, libro in cui il buon vecchio Bill racconta dei suoi viaggi in Europa e che mi aveva divertito molto.
Ai primi accenni di seconda crisi, quindi, sapevo già come avrei potuto superarla: facendomi accompagnare da qualche parte da Bill Bryson.

Questa volta è stato un viaggio nel tempo, negli anni della sua infanzia, l’America degli anni ’50. In Vestivamo da superman, tradotto da Stefano Bortolussi e edito da Guanda editore, lo scrittore americano, infatti, ci racconta di come è stato nascere e crescere negli Stati Uniti del boom economico del secondo dopoguerra.

Crescere era facile. Non richiedeva alcun pensiero o sforzo da parte mia. Sarebbe accaduto comunque… Eppure quello è stato di gran lunga il periodo più spaventoso, emozionante, interessante, istruttivo, sbalorditivo, libidinoso, entusiasta, problematico, spensierato, confuso, sereno e snervante della mia vita. E guarda caso, lo è stato anche per l’America.

Nato nel 1951, Bill ha trascorso la sua infanzia e la sua adolescenza a Des Moines, la capitale dello stato dell’Iowa, persa nelle grandi pianure del Midwest. Una città tranquilla, da cui l’autore osserva e vive sulla propria pelle l’evoluzione dell’America, senza mai dimenticarsi, però, di essere un bambino. E quindi racconta degli esperimenti nucleari degli anni ’50, ma anche dei giochi per strada (a volte si veniva cacciati di casa al mattino e non si veniva riammessi fino a sera) con un milione di altri bambini e dell'arrivo della televisione; del fumo e del fatto che niente sembrava facesse male alla salute in quegli anni, ma anche dei dispetti ai negozianti e ai parenti; delle questioni razziali, ancora ben presenti in alcune parti degli Stati Uniti, ma anche di come lui e gli altri bambini  e adolescenti non vedessero alcuna differenza, se non quelle sportive.

Fortunatamente eravamo indistruttibili. Non si vedeva la necessità di cinture di sicurezza, di airbag, di dispositivi antifumo, di acqua in bottiglia o di manovre di Heimlich. I medicinali non dovevano avere chiusure di sicurezza per i bambini. Non avevamo bisogno di casco quando andavamo in moto o di ginocchiere e gomitiere quando pattinavamo. Sapevamo senza che ci fosse bisogno di scriverlo che la candeggina non era una bevanda rinfrescante e che la benzina, se accostata a un fiammifero, tendeva a prendere fuoco. Non dovevamo preoccuparci di quello che mangiavamo perché quasi tutti i cibi ci facevano bene: lo zucchero ci riempiva di energia, la carne rossa ci rendeva forti, il gelato ci dava ossa sane, il caffè ci teneva svegli, ronzanti e produttivi.

Il tutto, ovviamente, sempre con lo stile ironico, scanzonato, ma anche molto intelligente, che caratterizza tutte le opere di Bill Bryson (e di cui qui potete vedere un assaggio a inizio di ogni capitolo, nei buffi ritagli di giornale che l’autore ha scelto di inserire per introdurre l’argomento di cui sta per parlare).

Sprinfield, Illinois (AP) - Ieri il Senato dell'Illinois ha sciolto la Commissione efficienza ed economica «per motivi di efficienza ed economia».
Des Moines Tribune, 6 febbraio 1955

Quello che ne viene fuori è un ritratto fedele dell’America del periodo e di quello che gli anni ’50 e ’60 hanno rappresentato per il sogno americano. Ma è anche il ritratto di un bambino che adora mangiare schifezze e ha paura del dentista, che vorrebbe andare a Disney World e che sogna di riuscire finalmente a vedere una donna nuda.

Vestivamo da superman è un libro che tutti gli amanti degli Stati Uniti e della letteratura americana dovrebbero leggere, perché descrive benissimo il contesto di quegli anni e tutte le sue contraddizioni. Ed è un libro che, se state vivendo un blocco di lettura, dovreste procurarvi e lasciare che Bill, con i suoi superpoteri da Ragazzo Folgore, vi aiuti a superarlo.


TITOLO: Vestivamo da superman
AUTORE: Bill Bryson
TRADUTTORE: Stefano Bortolussi
PAGINE:315
EDITORE: Guanda /TEA
ACQUISTA SU AMAZON
formato cartaceo:Vestivamo da Superman
formato ebook: Vestivamo da superman

lunedì 27 novembre 2017

LA RAGAZZA CHE DORMÌ CON DIO - Val Brelinski

Era davvero possibile conoscere una persona? Conoscerla veramente, in profondità, al punto di non dover mai dubitare dei suoi pensieri, delle sue intenzioni? Forse era solo una domanda retorica. Suo padre una volta le aveva detto che gran parte delle persone che fanno domande non vogliono avere informazioni ma conferme.


Mi ci è voluto del tempo per riuscire a scrivere la recensione di La donna che dormì con Dio, romanzo d’esordio di Val Brelinski, tradotto da Sandro Ristori per Nutrimenti. 
Mi serviva del tempo per rielaborare quanto avevo letto, per riflettere sui personaggi e le loro vite e su quello che mi avevano suscitato durante la lettura. E anche, forse, per rendermi davvero conto di quanto straordinario sia questo libro.

Protagonista è Jory Quanbeck, una ragazzina di quattordici anni che vive ad Arco, un paesino sperduto dello Idaho, negli anni ’70. La sua è una famiglia molto religiosa, che segue alla lettera ogni dettame della sua chiesa di appartenenza e che è contraria a qualunque forma di intrattenimento che non sia leggere la Bibbia o seguire le attività organizzate dalla comunità.


Funzionava così.
Non ci si poteva fare il bagno insieme ai maschi, non si poteva andare al circo o al bowling, non si giocava né a biliardo né a carte (a parte Uno), non si ballava. Niente cinema, niente trucco, niente buchi alle orecchie o gioielli vistosi, o vestiario immodesto di qualsiasi tipo. Gli uomini dovevano portare i capelli corti, le donne lunghi. E il concetto di GIOIA era riassunto nella formula: Gesù In Ogni Istante Amerò.

A capo della famiglia c’è il padre, un astronomo laureato a Harvard, il cui unico svago è correre di notte attorno alla casa con le stesse scarpe che indossa al lavoro, e molto protettivo nei confronti della famiglia e delle figlie. Accanto a lui c’è la moglie, una donna fragile, lasciatasi completamente andare dopo il matrimonio perché Dio è contrario a qualunque frivolezza, che non è in grado di affrontare nessuno dei problemi della vita. E poi ci sono le due sorelle di Jory: Grace, la maggiore, si sente una specie di messia scena in Terra, una santa destinata a grandi cose, talmente è legata alla religione e alle sue regole; Frances, invece, è ancora troppo piccola per capire tutto quello che le succede attorno.

Suo padre era solo suo padre: tutti lo chiamavano Dottore, era andato a Harvard e aveva scoperto nuove lune, inforcava la sua vecchia bici nera per andare a insegnare e faceva il giro del giardino di corsa, venti volte ogni notte, sempre con le scarpe che indossava anche al lavoro. E sua madre era solo sua madre: non lavorava e non guidava, non parlava con nessuno e non andava da nessuna parte, a parte in chiesa e in biblioteca, dove si recava due volte alla settimana per prendere in prestito tutti i libri che potevano darle e per richiedere nuovi volumi che il personale non aveva avuto la lungimiranza di ordinare. Era così che andavano le cose, da sempre e per sempre. Loro cinque erano come Polaris, la stella che indicava sempre il nord: suo padre, sua madre, e Grace e poi Jory e Frances. I Quanbeck. Jory poteva andare e girare e correre qua e là e inventarsi mille cose, ma alla fine stavano sempre lì, immobili, come il resto delle stelle e dei pianeti che scorrevano sotto l'attento sguardo dell'occhio luminoso di Dio.

Qualcosa però in questa famiglia all'apparenza perfetta va storto. Grace torna a casa da una missione in Messico incinta. Di Dio, dice lei. Nessuno in famiglia però le crede e, per fare in modo che la vergogna non ricada su tutta la famiglia, il padre decide di portare lei e Jory in una casetta fuori città e lasciarle lì finché non si deciderà cosa fare. Grace accetta di buon grado questo suo destino, convinta che anche questo sia il volere di Dio. Jory, invece, inizia un po’ a ribellarsi, combattuta tra il bene che vuole a suo padre e quella che, però, le sembra un’ingiustizia. A vivacizzare le loro giornate ci pensa Grip, che guida un furgoncino dei gelati e sembra comparire sempre dal nulla quando più se ne ha bisogno. Il ragazzo stringe amicizia con Jory prima che si trasferisca, per poi andarla a cercare subito dopo e conoscere così anche Grace. Jory, intanto, inizia a sfruttare questa insperata libertà che la punizione del padre le ha concesso: con l’aiuto della vicina di casa inizia a vivere quasi come una normale adolescente, andando alle feste e ai balli e persino ubriacandosi, senza però mai dimenticarsi da dove viene e, soprattutto, perché sta vivendo quella vita.
Finché la vita di Jory e di Grace non precipita del tutto e quasi improvvisamente, e quella che sembrava solo una punizione e un'attesa per cercare di sistemare le cose diventa qualcos'altro, qualcosa di impossibile da gestire per tutti,  e che farà crollare definitivamente le già vacillanti certezze di tutta la famiglia.

La donna che dormì con Dio è forse il romanzo più bello che ho letto quest’anno. Sia per il modo il modo in cui è scritto, sia per la storia che racconta, sia, soprattutto, per tutto quello che fa provare a lettore durante la lettura.
È un romanzo che a volte fa sorridere, altre commuovere e altre incazzare (il verbo “arrabbiare” è troppo poco). Un romanzo che a ogni pagina porta il lettore a mettere in discussione la propria opinione su quello che sta leggendo, su chi sia vittima e chi carnefice, su cosa sia giusto e cosa sbagliato, se davvero c’è qualcosa di giusto e di sbagliato quando si tratta di famiglia, di legami e sentimenti.

«Non ci avevo mai pensato, ma immagino che noi vediamo solo questo lato della luna, non è vero? Il lato con la faccia del vecchio triste».
«Non sappiamo com’è l’altro lato, il lato oscuro. Sappiamo che c’è, ma non lo vediamo mai».
«Proprio come certe persone». Grip mosse su e giù le palpebre e poi abbassò il tono della voce. «Con i loro lati oscuri ben nascosti».

Jory, poi, è un personaggio indimenticabile. È una ragazzina di quattordici anni, che lotta ogni giorno tra quello che le è stato insegnato e quello che realmente vorrebbe fare: si interroga su quanto sia giusto basare tutta la propria esistenza su Dio e sulla religione, ma al tempo stesso si trova in difficoltà quando si rende conto che la sua famiglia, che su quello si è sempre basata, non riesce più a stare in piedi e lei invece vorrebbe solo che ritornasse quella di prima. È una ragazzina che si arrabbia, che vorrebbe essere ascoltata, che non vorrebbe avere una sorella così santa e un padre che con il suo troppo amore quasi la opprime. E vorrebbe essere amata, essere lei, per una volta, al centro del mondo di qualcuno.

Val Brelinski esordisce con un romanzo incredibile. Fa quasi effetto pensare che sia un’opera d’esordio, vista la maturità e la complessità dei temi trattati. La ragazza che dormì con Dio è davvero un romanzo che tutti dovrebbero leggere.

E poi, be’, la copertina con l'illustrazione di Alessandro Gottardo è semplicemente stupenda.


TITOLO: La ragazza che dormì con Dio
AUTORE: Val Brelinski
TRADUTTORE: Sandro Ristori
PAGINE:415
EDITORE: Nutrimenti
ANNO: 2017
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