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domenica 25 febbraio 2024

LUCY DAVANTI AL MARE - Elizabeth Strout

 Poi una mattina sono uscita a camminare e ho visto un bel dente di leone giallo sul ciglio del vialetto verso il fondo della discesa. E l'ho fissato; non riuscivo a staccare gli occhi da quel fiore. Mi sono chinata e ho appoggiato le dita sulla corolla soffice. Ho pensato: Oh mio Dio! Da lì ho cominciato a vederne altri, denti di leone, durante le mie passeggiate. Ne crescevano tanti al margine della strada sterrata sulla quale avevo vissuto da bambina, e un giorno, quando ero ancora molto piccola, ne avevo fatto un mazzolino da portare a mia madre, e lei si era infuriata perché i fiori avevano macchiato il corpetto del vestito nuovo che mi aveva fatto da poco. Eppure - dopo tutti quegli anni - vederli continuava ad allargarmi il cuore di meraviglia.



 Io voglio molto bene a Elizabeth Strout. So che può sembrare un assurdo, voler bene a una persona che neanche si conosce se non tramite le pagine dei suoi romanzi, eppure per lei sento di provare proprio questo.

Aspettavo da tempo l'uscita in Italia di Lucy davanti al mare, da poco pubblicato da Einaudi editore con la traduzione di Susanna Basso, dopo quasi un anno e mezzo dall'uscita in lingua originale (per dire, negli Stati Uniti tra pochi mesi ne uscirà già uno nuovo). La aspettavo perché perché i romanzi, le frasi, le parole di Elizabeth Strout mi trasmettono sempre un'incredibile quantità di emozioni

Questa volta Lucy si ritrova a dover fare i conti con la recente morte del marito David e con una strana epidemia, che a lei sembra lontana tanto quanto è sembrata a tutti noi quando iniziavano ad arrivare le notizie dei primi contagi. L'ex marito William riesce a convincerla, con molte insistenze, a lasciare New York per rifugiarsi in una vecchia casa nel Maine, che affaccia proprio sul mare. Ed è proprio davanti al mare che Lucy va sempre a passeggiare, a volte con William, a volte sola, a volte con un'altra vecchia conoscenza dei romanzi di Elizabeth Strout. 

Ed è proprio davanti al mare che riflette sulla sua vita, sul rapporto con David e con William, sule sue figlie che, oltre al Covid, stanno affrontando crisi personali profonde senza cercare in lei nessun appoggio, ma anche su come il mondo sta affrontando qualcosa di inimmaginabile.

Elizabeth Strout non usa parole di troppo, ma descrive comunque dettagli, stati d'animo, sensazioni ed emozioni, a volte belle a volte terribili, con una delicatezza che, almeno io, non ho mai riscontrato in altri autori. La trovo sempre una lettura confortante, anche quando magari in quel che racconta di confortante non c'è nulla. 

E quindi sì, voglio bene a Olive Kitteridge, a Lucy, a tutti i personaggi a cui Elizabeth Strout ha dato voce nei suoi libri. E molto, moltissimo anche a lei.

mercoledì 30 dicembre 2020

Il 2020 in un post

 Fa un certo effetto ritornare a scrivere su questo blog a un anno esatto di distanza dall'ultimo post. Soprattutto se si considera che anno assurdo e difficile è stato questo 2020. Quando ho scritto qui per l'ultima volta la parola lockdown era qualcosa di distante, che sentivamo ogni tanto menzionare al telegiornale ma che mai avremmo pensato avrebbe fatto parte della nostra quotidianità. Non avevo mai indossato una mascherina, se si esclude quella volta in cui con degli amici avevamo dipinto con lo spray un vestito di carnevale, e mai avrei  pensato di doverla tenere addosso ogniqualvolta mettessi piede fuori di casa. Avevo un paio di barattoli di gel igienizzante abbandonati in un cassetto del bagno ed erano anni che qualcuno non mi infilava qualcosa nel naso. 

E poi è arrivato il 2020, è arrivato il Coronavirus, sono arrivati i tristi dati giornalieri su contagi e decessi, sono arrivate le zone rosse, i DPCM, i lockdown, la didattica a distanza, i tamponi (ne ho fatti solo due, uno per lavoro e uno per sicurezza) e quella costante ansia di mettere piede fuori di casa e di ammalarsi o far ammalare qualcuno. Un anno complicato, in cui sicuramente io sono stata molto fortunata: nessuno della mia famiglia si è ammalato, nessuno di noi ha perso il lavoro o ha avuto gravi ripercussioni da questa situazione, se non la difficoltà emotiva e mentale di non poter fare le cose normalmente (che è nulla rispetto a chi si è ammalato, è indubbio, ma che ogni tanto si fa sentire).

E per quanto io non veda l'ora che quest'anno finisca, ci sono alcune cose che devo salvare per forza. Per esempio, ho tradotto tanto e sono uscite tante mie traduzioni. Da un po' di tempo a questa parte mi sto cimentando nella traduzione di libri per bambini e ragazzi e mi sto divertendo tantissimo. Ne approfitto quindi per ringraziare chi mi ha dato questa opportunità, un giorno quasi dal nulla, per avermi fatto scoprire un mondo che ignoravo ma in cui invece ritrovo tutta me stessa (grazie, Lara!). 

Ecco qui quelli usciti quest'anno:


Ma veniamo alle letture di quest'anno, che lo so che è quello che più interessa anche a voi. Non ho letto tantissimo in questo 2020. Nemmeno poco, per carità, ma più ci ripenso più mi accorgo di non aver avuto il solito entusiasmo. Un po' è sicuramente colpa della didattica a distanza, che da marzo mi ha assorbito completamente (mi spiace se voi avete incontrato docenti che in DAD non facevano nulla, tutti nella mia scuola ci hanno dedicato anima e corpo, cercando di fare il più e il meglio possibile per non perdere i ragazzi per strada), un po' dalle letture per lavoro che sono continuate per tutto l'anno e che, per quanto siano sicuramente uno dei lavori dei miei sogni, ti tolgono un po' la voglia di leggere per piacere. E poi credo ci sia stata anche un po' di quella stanchezza fisiologica che ogni tanto colpisce anche i lettori più voraci. 

In compenso però ho scoperto e recuperato tante serie TV bellissime: ho visto tutto Downton Abbey, ho scoperto The Office, mi sono innamorata definitivamente di The Crown, abbiamo riso con Upload e con la seconda stagione di The Umbrella Academy e, proprio negli ultimi giorni, ho fatto una full immersion in Bridgerton (più duca di Hastings per tutti!).

Ma torniamo ai libri. Leggere meno ti fa diventare anche un lettore un po' più attento, o almeno con me è stato così. E quindi tra le letture assolutamente evitabili di quest'anno c'è un libro solo:  Donne che comprano fiori di Vanessa Montfort.
Ci ho messo un mese a leggerlo. Lo prendevo in mano e a ogni pagina volevo lanciarlo fuori dalla finestra talmente mi irritava per la quantità di luoghi comuni sulle donne che contiene. Avrei potuto abbandonarlo, certo, ma per qualche motivo ho preferito trascinarmelo, per vedere se sul finale migliorasse (per me la risposta è: no). 

Le letture belle sono invece state molte, libri che per un motivo o per l'altro mi hanno emozionato o mi hanno tenuto tanta compagnia. Se devo scegliere i migliori in assoluto, direi che sono questi:

UN RAGAZZO NORMALE di Lorenzo Marone, edito da Feltrinelli. È il primo romanzo di Marone che leggo, un autore da cui per qualche inspiegabile motivo mi sono sempre tenuta a distanza, e ho riso e ho pianto tanto leggendo le avventure del piccolo Mimì che nell'estate del 1985 inizia a diventare grande, grazie anche alla sua speciale amicizia con Giancarlo Siani. Una scoperta inaspettata.


LA RAGAZZA CON LA MACCHINA DA SCRIVERE di Desy Icardi, edito da Fazi. Avevo già letto e apprezzato il primo romanzo di questa autrice, L'annusatrice di libri, ma qui con la storia di Dalia e della sua macchina da scrivere Olivetti rossa va oltre, creando un romanzo sui ricordi che trovano sempre il modo di venire a galla.


OLIVE, ANCORA LEI di Elizabeth Strout, edito da Einaudi e tradotto da Susanna Basso. Va be', non credo che ci sia bisogno di dire molto sul ritorno di Olive Kitteridge. Elizabeth Strout ha rischiato nel ridare voce a un personaggio così tanto amato: poteva venir fuori una minestra riscaldata, qualcosa per i lettori appassionati (tipo me, per intenderci) ma che non avesse più nulla da dire. E invece no, Olive Kitteridge è ancora e sempre lei, anche adesso che si fa sempre più stanca e anziana non ha perso la sua forza, né il suo modo, schietto, rude, ma anche molto sincero e profondo di vedere il mondo. 


LA STRADA DI CASA di Kent Haruf, pubblicato da NN editore con la traduzione di Fabio Cremonesi. Bello, bello, bello, forse il migliore di Haruf dopo Benedizione. Dopo otto anni di assenza, durante i quali nessuno ha sentito la sua mancanza, quello stronzo (scusate) di Jack Burdette ritorna a Holt con la sua cadillac rossa e con lui ritornano i ricordi di quello che ha fatto, alla cittadina che si è fidata e alle donne che hanno avuto la sfortuna di innamorarsi di lui. 


Non so cosa ci riserverà questo 2021, anche se a essere meglio del 2020 direi che ci va davvero poco. Spero che si possa presto tornare a fare una vita il più normale possibile, con tutte le accortezze e le attenzioni del caso (dai vaccino, spicciati!). Nel mio piccolo spero che la mia famiglia e i miei amici continuino a stare bene e così come quelle di tutti. Spero di poter tradurre ancora tanto, di leggere altri bei libri e guardare altre serie tv. Spero di poter tornare al cinema e alle mostre, che sono due delle attività che più mi sono mancate quest'anno. E spero che tutti voi possiate ritrovare la serenità se quest'anno l'avete persa o mantenerla se, come me, siete stati tra i fortunati in un anno terribile.

Ah sì, spero anche di tornare a scrivere un po' di più sul blog e non usarlo solo una volta l'anno, visto cos'è successo l'ultima volta che ci ho scritto.

lunedì 23 ottobre 2017

TUTTO È POSSIBILE - Elizabeth Strout

"A star male non si fa mai l'abitudine, checché ne dica la gente. Ora però, per la prima volta, si rese conto - possibile fosse davvero la prima volta che se ne rendeva conto? - che esiste qualcosa di assai più tremendo, e cioè quando uno non riesce più a star male. Lo aveva visto succedere ad altri, era un vuoto negli occhi, l'assenza che li definiva."


È da circa una settimana che dovrei scrivere la recensione di Tutto è possibile, il nuovo romanzo di Elizabeth Strout uscito a inizio settembre per Einaudi, ma, ogni volta che ci provo, mi ritrovo in difficoltà. Soprattutto perché temo di ripetermi, temo di scrivere di questa autrice le stesse cose che ho già scritto dei romanzi precedenti: che lei è una delle mie scrittrici preferite in assoluto; che un romanzo bello come Olive Kitteridge non so se l’ho mai letto (ma che anche tutti i suoi altri romanzi non sono da meno); che adoro il suo stile, il suo garbo e la sua delicatezza nel descrivere anche le situazioni più tragiche e le vite più banali; che preferivo di gran lunga quando pubblicava con Fazi che non ora con Einaudi; e che, insomma, tutti dovrebbero leggere i suoi libri.
Però di Tutto è possibile, tradotto come il precedente Mi chiamo Lucy Barton, di cui è una sorta di seguito, da Susanna Basso, mi piacerebbe poter dire qualcosa di diverso e di riuscire a spiegare perché questi racconti, che messi insieme formano un romanzo, siano così belli.

Siamo ad Amghas, in Illinois, paesino di provincia in cui Lucy Barton è nata e cresciuta e da cui poi è riuscita a fuggire per diventare un’affermata scrittrice. Tutti si ricordano di Lucy da bambina, anche se lei in città non ci viene poi tanto spesso. Quasi mai, in realtà. Sebbene lì abbia ancora un fratello e, soprattutto, da lì abbia preso spunto per il suo ultimo successo: un libro che parla di chi è riuscito a fuggire, ma anche e soprattutto di chi, invece, è rimasto.
Ed è proprio sulle vite di chi è rimasto che si concentra Elizabeth Strout, dando voce, in questi nove racconti, a ognuno di essi, raccontandone il passato e il presente, il disagio dell’infanzia e la capacità, o l’incapacità, di riscattarsi, ma anche le delusioni, le paure per il futuro ma la voglia, in molti casi, di continuare comunque a provarci.

E per un istante Annie rifletté su questo: che suo fratello e sua sorella, brave persone, serie, perbene, equilibrate, non avevano mai conosciuto la passione che porta un uomo a rischiare tutto quello che ha, a mettere a repentaglio ciò che gli è più caro, semplicemente per essere vicino al bagliore accecante del sole che per quell'istante sembra capace di lasciarsi la terra alle spalle.

È un romanzo corale, Tutto è possibile, in cui i vari racconti che lo formano (e che si potrebbero leggere anche come racconti autoconclusivi, se non fosse per quel filo sottile che li lega tra loro) si concentrano su un singolo personaggio raccontandone la storia, che però, unita alle altre, crea una sorta di biografia collettiva, il ritratto di un paese della provincia americana.
È la provincia americana, ancora una volta, la vera protagonista. I romanzi che la raccontano sono ormai diffusissimi: romanzi che danno voce a personaggi e vicende che apparentemente sembrerebbero banali nella loro quasi eccessiva semplicità ma che invece hanno voci e storie molto, molto forti.

Elizabeth Strout ne è forse stata una capostipite con il suo Olive Kitteridge ma anche con tutto il resto della sua produzione (Amy e Isabel, I ragazzi Burgess, Resta con me), e in Tutto è possibile si conferma una maestra nel dare voce a questi personaggi e nel farli sentire vicini a chi legge.

È come se la Strout prendesse per mano il lettore e lo portasse lì, proprio lì, insieme a Pete Burton e a Tommy Guptilli a prendere a martellate una vecchia insegna; insieme a Patty Nickly a lottare contro il suo peso, contro le voci che da sempre la inseguono e contro una ragazzina indisciplinata che forse cerca solo qualcuno che la ascolti; è come se ti facesse andare ospite a casa di Linda e Jay Paterson-Cornell per scoprire le crepe del loro matrimonio che la donna ha sempre finto non ci fossero o ti portasse nella mente di Charlie, quando deve decidere fino a che punto tradire sua moglie. Poi, le parole di Elizabeth Strout accompagnano il lettore in Italia, insieme a Mary, una donna piuttosto anziana, che ha deciso di concedersi una nuova possibilità e un nuovo amore, per poi farlo sedere su una poltrona scomoda insieme a Pete, Lucy e Vicky, a parlare di passato e di famiglia, cercando di non farsi troppo distrarre da quello strano tappeto sul pavimento. E ancora, l'autrice lascia che a servire la colazione a chi la legge sia Dottie nel suo Bed & Breakfast; poi lo porta a scoprire i segreti di un padre che tutti sapevano tranne forse i propri figli, fino ad arrivare, nell'ultimo racconto, a capire insieme ad Abel Blaine, a uno strano Scrooge e a un cavallino dimenticato, che forse, davvero, tutto è possibile.

È un grande romanzo Tutto è possibile di Elizabeth Strout e, anche se forse si sarebbe meritato una cura editoriale migliore da parte del suo editore, conferma esattamente tutte le cose che dicevo all’inizio: Elizabeth Strout è una delle mie scrittrici preferite in assoluto; che un romanzo bello come Olive Kitteridge non so se l’ho mai letto (ma anche che tutti i suoi altri romanzi non sono da meno, Tutto è possibile compreso, ovviamente); che adoro il suo stile, il suo garbo e la sua delicatezza nel descrivere anche le situazioni più tragiche e le vite più banali; che preferivo di gran lunga quando pubblicava con Fazi che non ora con Einaudi.

E che, insomma, tutti dovrebbero leggere i suoi libri.


Titolo: Tutto è possibile
Autore: Elizabeth Strout
Traduttore: Susanna Basso
Pagine: 205
Anno di pubblicazione: 2017
Editore: Einaudi
ISBN:978-8806229696
Prezzo di copertina: 19 €
Acquista su Amazon:
formato cartaceo: Tutto è possibile

martedì 12 settembre 2017

Il mio Festivaletteratura di Mantova 2017

Da mercoledì 6 a domenica 10, a Mantova, si è tenuta la XXI edizione del Festivaletteratura.
Sono stata a questo festival per la prima volta l’anno scorso e, per tutta una serie di motivi (l’atmosfera che si respira per le vie della città; la possibilità di incontrare gli autori non solo durante gli eventi ma anche per strada, mentre si fanno gli affari loro; il cibo e i dolci; e, soprattutto, la prima gita insieme a Luca) me ne ero pazzamente innamorata.
Un amore che si è confermato anche quest’anno, nonostante qualche piccola difficoltà organizzativa iniziale.

Il primo enorme scoglio da superare per andare al Festivaletteratura, infatti, è riuscire destreggiarsi in mezzo al vasto, vastissimo programma e ai luoghi degli eventi. Tanti incontri, in diversi punti della città che di primo impatto non si capisce quanto siano lontani tra loro (in realtà sono tutti raggiungibili in massimo quindici minuti a piedi dal centro), e che richiedono quindi una certa attenzione al momento della selezione.

Subito dopo c’è la questione della prenotazione dei biglietti. Io, per fortuna, avevo il pass stampa, ma abbiamo comunque dovuto prenotare qualche biglietto in anticipo. Alle 9.05 del giorno dell’apertura delle prenotazioni per i non soci, molti eventi online erano già esauriti. Telefonando qualche posto si trovava ancora, però come sistema, effettivamente, è un po’ scoraggiante. Soprattutto quando poi, una volta là, ti rendi conto che a molti eventi si riesce a entrare acquistando il biglietto sul posto (sì, anche quelli dati per esauriti online o in biglietteria), a fronte di code più o meno lunghe (in alcuni casi, arrivi sul posto, lo acquisti ed entri; in altri fai un bel po’ di coda): credo ci sia una ripartizione dei biglietti tra i vari canali di vendita, per fare in modo di accontentare più gente possibile. Un sistema che forse andrebbe comunque rivisto, così come andrebbe aggiunta una sorta di abbonamento a un prezzo ridotto per partecipare a un tot numero di incontri (la media dei biglietti d’ingresso è di 6€, che non sono tanti se si partecipa a uno o due eventi, ma lo diventano se il numero cresce).

Quindi, stilato l’elenco degli incontri a cui partecipare, localizzati sulla mappa i luoghi in cui si svolgeranno e prenotati i biglietti (e anche un luogo dove stare a Mantova, se è previsto un soggiorno di più giorni… noi siamo andati in un bellissimo appartamento a pochi km dalla città, con, tra le altre cose, un divano magnifico), si può partire.
Noi siamo arrivati il giovedì nel tardo pomeriggio, pochi minuti prima che scoppiasse un enorme temporale. Abbiamo aspettato che smettesse (addormentandoci sul suddetto divano) e poi siamo andati in città, poco prima di cena.


Abbiamo fatto un giro di ricognizione alle bancarelle dei libri usati che ogni anno popolano i portici di Palazzo Ducale e poi siamo andati a mangiare (i tortelli di zucca).

Il Festivaletteratura vero e proprio, per noi, è iniziato il venerdì pomeriggio, con l’incontro con lo scrittore americano George Saunders, di cui è appena uscito per Feltrinelli il primo romanzo, Lincoln nel bardo.
A presentarlo, nella cornice di Palazzo San Sebastiano, c’era Marco Malvaldi in pantalocini corti e, soprattutto, un po’ in soggezione.


L’incontro è partito con la domanda di rito su Donald Trump: una domanda banale, forse, ma anche inevitabile considerando l’epoca che stanno vivendo gli Stati Uniti e il fatto che comunque il protagonista di questo primo romanzo di Saunders è proprio un presidente (e poi credo sia abbastanza impensabile separare letteratura e vita politica, in questo momento. Soprattutto se sei uno scrittore di quel calibro). Lui ha risposto: “He is us”, ovvero che Trump fa parte degli americani, che ogni presidente viene dalla storia, nel bene e nel male.
Poi si è passati a parlare di Lincoln nel Bardo, il suo primo romanzo, e del suo significato: Lincoln si ritrova ad affrontare la morte del figlioletto, finito adesso in quel bardo (ovvero una specie di limbo, secondo la filosofia buddista). Ci si trova di fronte a un presidente dolce, intelligente, ma in qualche modo anche sconfitto dalla vita.
La particolarità di questo romanzo sta poi nella tecnica narrativa: George Saunders, attraverso un enorme lavoro di ricerca che lo ha tenuto impegnato per molti anni, utilizza fonti, ritagli, notizie, alcune vere altre inventate da lui per portare avanti la storia. (“Ci si deve sentire proprio dei gran fighi, a scrivere un romanzo così” gli ha fatto notare Marco Malvaldi).
Alla domanda su quali libri, invece, legge, Saunders ha citato i romanzi russi come i suoi preferiti. In particolare Le anime morte di Gogol di cui ha detto: “Sono sicuro che, se Dio pensa a noi, lo fa nel modo in cui Gogol pensa ai suoi personaggi". Ha poi citato anche i Peanuts, nella versione fumetto e nella versione cartone, come suo modello: questi personaggi con la testa enorme, che si muovo su uno sfondo quasi inesistente, e che dimostrano che se si è grandi dentro non importa molto cosa ci sia fuori.
Altre domande di rito, tra cui i rapporti con i social network in cui in qualche modo siamo tutti scrittori e bisognerebbe quindi prestare attenzione a cosa si scrive, e, visto l’argomento del libro, il rapporto tra vita e morte (“è più doloroso per chi se ne va o per chi resta?”).

Finito l’incontro con Saunders, siamo tornati in centro: Luca per andare di nuovo alle bancarelle dei libri usati (“prima si fa un giro di ricognizione, poi si compra senza pietà") e io per partecipare all’incontro Roma-Aosta solo andata con Antonio Manzini e Marco Giallini nel cortile di Piazza Castello.



Non credo serva che vi dica quanto sia stato figo, quest’incontro. Sì, anche se non aveva una scaletta vera e propria ma c’erano due lì che parlavano e dicevano cazzate. Sì, anche se Manzini all’inizio aveva mal di testa e all’inizio sembrava un po’ spento. Ho riso per un’ora, tra i loro aneddoti (e una bellissima dichiarazione d’amicizia di Manzini per Giallini) e le loro battute. Ho scoperto anche che stanno per iniziare a girare la seconda serie di Rocco Schiavone, che sarà formata da quattro puntate, due tratte da 7-7-2007 e due dal nuovo romanzo Pulvis et umbra. Loro due, insieme, sono esattamente come me li ero immaginati: fenomenali (e anche particolarmente gnocch...ehm, piacevoli da guardare).

Dopo cena, siamo invece andati all’incontro L’amore si impossessava di lei, con protagonista Artemis Cooper, la biografa di Elizabeth Jane Howard (sia la biografia sia i romanzi della Howard sono pubblicati da Fazi editore). 



In dialogo con Stefania Bertola, Artemis Cooper ha ripercorso un po’ la vita della scrittrice inglese, raccontando anche aneddoti personali sul loro rapporto (“Jane era una bravissima cuoca”). Quello che è venuto fuori, paradossalmente, è una specie di ritratto di tutta la famiglia Cazalet, che si concentra in un’unica donna: Elizabeth Jane Howard stessa, infatti, ha dichiarato più volte che in tutti i personaggi della sua saga c’è qualcosa di lei (in particolare in Louise, ma anche nelle altre due cugine, Polly e Clary). Si è poi passati a raccontare del suo rapporto con l’ingombrante marito Kingsley Amis, che finché sono rimasti insieme le ha quasi impedito di avere successo (però ora se si va in una libreria inglese di Kingsley Amis si trovano uno o due libri, mentre la Howard occupa pareti intere).
L’incontro con Artemis Cooper è stato davvero bello e avrei voluto che non finisse mai: mancavano giusto i pasticcini e un po’ di tè, per rendere perfetta l’atmosfera che ha creato con le sue parole e i suoi sorrisi. Si è percepito chiaramente quanto tenesse a questa biografia e, soprattutto, alla sua protagonista (che lei ha conosciuto da bambina, perché i suoi genitori erano molto amici di Jane e del marito).

Il primo incontro di sabato mattina è stato con Harry Parker, ex-soldato dell’esercito inglese e autore di Anatomia di un soldato, edito da Sur. Avrebbe dovuto essere in compagnia di Brian Turner, autore di La mia vita è un paese straniero (NN editore), che però è stato fermato dall’uragano Irma. Ed è stato un vero peccato, perché sarebbe venuta fuori una presentazione eccezionale.



È la seconda volta che partecipo a un incontro con Harry Parker ed è la seconda volta che un po’ mi commuovo. Per il suo modo di parlare, per la sua lucidità nel raccontare la guerra e quello che gli è successo, senza mai cadere nel pietismo o nell’autocommiserazione (nonostante il relatore, Carlo Annese, abbia insistito troppo sul fatto che Parker sia senza gambe e che quanto raccontato nel libro sia la sua storia… ma lo scrittore è stato bravo a non cadere nel tranello). Tra le cose che più mi hanno colpita c’è il fatto che lui abbia ribadito più e più volte che mentre era in Afghanistan, oltre a combattere, ha tentato in ogni modo di rendere la presenza dell'esercito il più semplice possibile per i civili, che da questa guerra non si libereranno mai (“noi soldati, dopo sei o sette mesi, torniamo a casa. Loro no, casa loro è la guerra”), così come il suo aver sottolineato che i media e il modo in cui viene fatta la comunicazione in tv oggi trasmette una visione completamente offuscata di come sia effettivamente la guerra in medio oriente.
Dal pubblico, a fine incontro, hanno di nuovo provato a chiedergli come si vive senza gambe e a quale è stato il suo percorso di accettazione di quello che gli è successo. E ancora una volta lui è stato bravissimo a non cascarci, perché “io non sono le mie ferite”.

Usciti dall'incontro con Parker siamo andati a prendere uno spritz al bar con un amico e, mentre eravamo lì seduti ai tavoli, dietro di noi sono passati Marianne Leone, Chris Cooper e Elizabeth Strout (sì, ho visto Elizabeth Strout mentre bevevo uno spritz piuttosto alcolico).

Marianne Leone e Chris Cooper li abbiamo rivisti nel pomeriggio, alla presentazione di Jesse, il libro pubblicato da Nutrimenti edizioni che la donna ha scritto per raccontare la storia di suo figlio, nato con una grave paralisi cerebrale.


Il libro è ricco di momenti tristi (inizia proprio con il racconto della morte del ragazzo, avvenuta quando aveva diciott'anni), ma è anche un enorme inno alla vita, al combattere, al non arrendersi di fronte alle ingiustizie e a una società spesso incapace di accettare il diverso.
Inutile dire che l’incontro è stato molto toccante e molto commovente, ma anche pieno di delicatezza (l’amicizia tra Marianne Leone e Davide Ferrario che l’ha intervistata ha reso l’intervento ancor più prezioso, così come l’incredibile sorriso della donna) e sì, anche di momenti divertenti.
Alla fine non ho avuto il coraggio di andare a farmi autografare il libro: temevo che sarei scoppiata a piangere di fronte a questa donna forte, dal sorriso magico, che sta girando l’Italia per raccontare la storia di suo figlio che oggi non c’è più. Ci è andato Luca per me, ma alla fine sono riuscita a stringerle almeno la mano.

Il nostro Festivaletteratura è finito con questo incontro (e una mangiata subito dopo). Ed è stato proprio bello, come l’anno scorso. Mantova è una città bellissima, che in quei giorni lo diventa ancora di più, per l’atmosfera che si respira e per le persone che la popolano, scrittori e non (“Guarda, c’è Saunders!” credo sia stata la frase che abbiamo ripetuto più spesso in giro per la città). 
Siamo tornati a casa io con una torta sbrisolona e un pass sbiadito, Luca con una decina di libri usati, ed entrambi con la voglia di tornarci anche l’anno prossimo. 


giovedì 26 maggio 2016

Incontrando... Elizabeth Strout al Circolo dei lettori di Torino

Ieri pomeriggio, presso il Circolo dei lettori di Torino, si è tenuto un incontro con la scrittrice americana Elizabeth Strout, in tour in Italia per presentare il suo ultimo romanzo, Mi chiamo Lucy Barton, da poco uscito per Einaudi.

Sono venuta a conoscenza di quest’incontro qualche settimana fa e già allora sapevo che avrei fatto qualunque cosa per andarci. Chi segue il blog e la pagina, sa quanto io ami questa scrittrice e i suoi romanzi e pensare di averla a soli 50 km di distanza e non andare a incontrarla sarebbe stato folle.
E quindi ieri, in compagnia della mia libraia preferita Stefania, sono andata a Torino. Immaginavo ci sarebbe stata tanta gente a quest’incontro e avevo già scritto al Circolo dei lettori per sapere se ci fosse qualche procedura da seguire. “Vieni almeno un’ora prima” mi è stato solo detto. Noi siamo arrivate là un’ora e mezza prima e, dopo una pausa gelato, ci siamo messe in coda. Sì, in coda. Fa impressione pensare che ci sia coda per una scrittrice che non sia anche un personaggio televisivo o cinematografico. Eppure sì, ieri ad aspettare Elizabeth Strout eravamo davvero in tanti. 


In troppi forse, perché pur arrivando con questo largo anticipo non abbiamo potuto assistere all’evento nella sala in cui si teneva, ma in una attigua, in collegamento video. E non è la stessa cosa, purtroppo. Però dai, la mia scrittrice preferita era nella stanza accanto alla mia... direi che è già una bella soddisfazione. 
A dialogare con lei c’era Susanna Basso, traduttrice dell’ultimo romanzo uscito, che, devo dire, mi ha fatto una tenerezza infinita. Era, credo, talmente tanto emozionata che per le prime domande ha dovuto leggere da un foglio quello che doveva dire. E la capisco, perché trovarsi accanto a quella donna e doverle parlare deve essere qualcosa di incredibile.



L’incontro è iniziato con la lettura di un passo di Mi chiamo Lucy Barton, prima in inglese dalla stessa Elizabeth Strout (che ha un bell’accento americano, ma che si capisce perfettamente quando parla) e poi la traduzione da parte di Susanna Basso.  Da lì si è poi passato a parlare del libro, con alcune domande sulla sua protagonista e sull’ambientazione.
Elizabeth Strout ha scelto di far arrivare la sua protagonista dal Midwest, pur essendo lei del Maine, perché una volta ci è andata e si è accorta di quanto cielo ci fosse, un cielo che quasi si mangiava la terra. Le è sembrato il posto ideale per far crescere una donna in un’infanzia difficile e un posto ideale da amare e odiare al tempo stesso.
Altra particolarità di Lucy Barton è il fatto che sia una scrittrice. La Strout ha detto che nemmeno lei subito voleva credere che lo stava facendo davvero. Però Lucy era una bambina solitaria, che trovava nei libri conforto e calore (un po’ perché li leggeva nella biblioteca della scuola, al caldo, anziché nel garage in cui viveva, un po’ per tutto quello che le hanno dato).

Si è parlato poi anche dei romanzi precedenti, in particolare Olive Kitteridge, che è particolarmente amato in Italia. Elizabeth Strout ha detto di essere contenta che sia piaciuto così tanto e di avere così tanti lettori entusiasti per quel libro e per quel personaggio, ma in realtà cerca di non pensarci troppo e di fare il suo lavoro, di scrivere quello che sente senza pensare troppo a quali saranno le reazioni di chi lo leggerà. Anche perché crede che nessuno possa mai conoscere davvero un altro e che quindi ogni persona nei libri trova qualcosa di diverso. 
Elizabeth Strout ha raccontato del suo amore per Hemingway, dicendo di essere forse l’unica donna americana ad amare lui e la sua scrittura chiara e diretta, e poi dell’importanza per la protagonista del libro ma anche per lei dei gesti degli sconosciuti, quel concetto espresso tanto bene da Tennessee Williams nel suo Un tram che si chiama desiderio.

Dopo qualche altra domanda e qualche intervento dal pubblico (mi dispiace, non ho segnato tutto, ero troppo presa ad ascoltarla e scrivere, su carta o su smartphone, mi avrebbe distratta troppo), ovviamente, è arrivato il momento degli autografi.

Io ho portato con me sia Olive Kitteridge sia Mi chiamo Lucy Barton, ma alla fine ho deciso di farle autografare solo il primo. È senza ombra di dubbio il mio preferito, per questa burbera protagonista che mi ha fatto letteralmente impazzire. E quindi mi sembrava più giusto averlo solo lì (dai, oggi la polemica sul passaggio in Einaudi ve la risparmio).
Inutile dire che ero agitatissima quando è arrivato il mio turno. Però avevo davanti Elizabeth Strout e dovevo assolutamente dirle qualcosa di più di un semplice “Hi!”. Allora le ho detto che era una grande onore conoscerla e che Olive Kitteridge è, appunto, il mio romanzo preferito in assoluto. Lei mi ha stretto la mano con entrambe le sue, in un gesto dolcissimo e tenerissimo, che mi ha emozionata un sacco. Penso faccia così con tutti, e questo forse lo rende ancor più speciale, perché potrebbe limitarsi a una fredda stretta di mano (che sarebbe anche comprensibile, con tutta la gente che incontra ogni giorno).
Sono uscita che mi tremavano un po’ le gambe, ma davvero, davvero felice.



Ringrazio il circolo dei lettori per avermi dato finalmente la possibilità di incontrarla (anche se magari la prossima volta ditemelo che con la tessera avrei potuto prenotare il posto nella sala principale, per la Strout l’avrei fatta senza alcun problema!), e Stefania per la compagnia, le belle chiacchiere, le foto (e il gelato!) di tutto il pomeriggio.

Eh niente, gente, io ho l'autografo di Elizabeth Strout:

martedì 10 maggio 2016

MI CHIAMO LUCY BARTON - Elizabeth Strout

Certe volte mi dispiace che Tennessee Williams abbia scritto per Blanche DuBois la battuta in cui dice: «Ho sempre confidato nella gentilezza degli estranei». È capitato spesso a molti di noi di essere salvati dalla gentilezza degli estranei; peccato che a lungo andare la battuta risulti trita, buona per un adesivo da appiccicare sulla macchina. Ed è questo che mi rattrista, che per quanto bella e piena di verità possa essere una frase, a furia di ripeterla si riduca a una battuta da adesivo.

Sono corsa in libreria a comprare Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout il giorno stesso dell'uscita. Sì, anche se questa volta è uscito con Einaudi e non più con Fazi, rovinando la mia bella collezione. Perché Elizabeth Strout, da quando l'ho conosciuta la prima volta con Olive Kitteridge, è diventata per me una grande garanzia. Una delle mie scrittrici preferite, direi, di quelle di cui leggerei anche la lista della spesa, per intenderci.
Tutti e quattro i romanzi precedenti di questa donna mi hanno fatto impazzire. Per il suo stile, per il modo di caratterizzare i personaggi (Olive è per me indimenticabile, e anche il reverendo Tyler di Resta con me) e per le storie famigliari che racconta.
E quindi eccomi qui, a una settimana di distanza dall'uscita, a parlarvi di questo nuovo romanzo.

Protagoniste questa volta sono una madre e una figlia, la Lucy Barton del titolo. È lei la voce narrante del libro, che racconta di quelle tre settimane che ha dovuto passare in ospedale a causa delle complicazioni di una banale operazione. Proprio lì, un giorno, vede spuntare sua madre, che corre da lei per la prima volta dopo anni che non si vedevano. La donna le tiene compagnia raccontandole di vecchie conoscenze del paesino da cui arriva e da cui Lucy è scappata tanto tempo prima, oppure le sta semplicemente accanto, senza quasi mai dormire. Lucy è contenta, ma al tempo stesso arrabbiata, perché da quell'incontro torneranno alla luce tutta una serie di ricordi del passato, della sua vita di bambina e ragazzina che viveva in un garage e che non ha mai avuto niente. Ricordi spesso dolorosi, a tratti nitidi, a tratti confusi, che la madre sembra (o finge di) non ricordare.
Poi dopo cinque giorni la madre se ne va e Lucy si ritrova di nuovo nel presente, a fare i conti con la sua vita di adesso.

Ancora una volta mi ritrovo a dover usare un superlativo per descrivervi un libro. Mi chiamo Lucy Barton è un libro bellissimo. La storia di una madre e di una figlia, che si amano nonostante tutto ma che non possono dirselo apertamente, perché non sono mai state capaci e perché c'è un passato troppo difficile perché possano ammetterlo.
È un libro che parla di forza, quella di una figlia di fuggire da un passato che l'avrebbe distrutta e quella di una madre che prende per la prima volta l'aereo per correre al capezzale della figlia quando sente che ne ha bisogno, nonostante non si sentano e non si vedano da anni, e di fragilità, dovuta a un passato di privazioni e di dolore che poi si è riversato sul presente. 

Ma ci sono anche momenti in cui, all'improvviso, mentre percorro un marciapiede assolato, o guardo la chioma di un albero piegata dal vento, o vedo il cielo di novembre calare sull'East River, mi sento invadere dalla consapevolezza di un buio talmente abissale che potrei urlare, e allora entro nel primo negozio di vestiti e mi metto a chiacchierare con una sconosciuta dei modelli dei maglioni appena arrivati. Deve essere il sistema che adottiamo quasi tutti per muoverci nel mondo, sapendo e non sapendo, infestati dai ricordi che non possono assolutamente essere veri. Eppure, quando vedo gli altri incedere sicuri per la strada, come se non conoscessero per niente la paura, mi accorgo che non so cos'hanno dentro.
Mi chiamo Lucy Barton mi è piaciuto molto, credo si sia capito. Però, prima di mettermi a scrivere questa recensione ho dovuto riflettere un attimo e parlarne a voce con qualcuno, perché c'è anche una piccola nota stonata e fino all'ultimo sono stata indecisa se segnalarla o meno. Alla fine ha vinto il sì, perché è una cosa che la mia lettura un po' l'ha condizionata.
Il problema è che, sparse per tutto il libro, ci sono alcune imperfezioni a livello di italiano. Non voglio assolutamente dire che Susanna Basso, bravissima traduttrice dall'inglese, abbia tradotto male il libro, perché non credo sia lì la questione. La mia sensazione, smentibile e confutabile in qualsiasi momento e da chiunque più esperto di me, è che sia mancata una revisione approfondita del testo una volta tradotto e che ha portato ad avere nel testo frasi come "andò a vomitare in gabinetto" o "D'altronde chiunque utilizzi le proprie competenze per mortificare una persona in quel modo, è giusto un emerito stronzo", per fare due degli esempi più lampanti. Piccolezze, sicuramente, che non condizionano la comprensione del testo, ma che mi hanno un po' distratta nella lettura e un po' infastidita, oltre ad aver rovinato lo stile dell'autrice.

In ogni caso, siamo di nuovo di fronte a un grande, grandissimo libro di Elizabeth Strout. Il grosso problema è che l'ho comprato e letto appena uscito, quindi ora mi toccherà di nuovo aspettare con ansia un sacco di tempo per l'uscita di quello nuovo.

Titolo: Mi chiamo Lucy Barton
Autore: Elizabeth Strout
Traduttore: Susanna Basso
Pagine: 158
Anno di pubblicazione: 2016
Editore: Einaudi
ISBN: 9978-8806229689
Prezzo di copertina: 17,50 €
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formato brossura:Mi chiamo Lucy Barton

lunedì 20 luglio 2015

Piccoli traumi da lettore: quando un autore cambia editore.

Qualche giorno fa è uscito su La Repubblica un trafiletto che annunciava che a febbraio del 2016 uscirà in Italia il nuovo romanzo di Elizabeth Strout, la scrittrice statunitense autrice tra gli altri di quel capolavoro di Olive Kitteridge. E annunciava che non sarà più pubblicato da Fazi ma da Einaudi. Bella la notizia dell’uscita del nuovo romanzo, sconcertante, almeno per me, quella del cambio di editore.

Non so se avete presente quanto belle siano le edizioni Fazi dei libri di Elizabeth Strout. Sì, quelle con i quadri di Hopper. Ne adoro la grafica, la scelta del carattere, l’oggetto libro in sé insomma, e il modo in cui stanno bene uno accanto all'altro sullo scaffale, con le diverse sfumature di colore che te li rendono riconoscibili anche a distanza. 


E mi volete dire che adesso quello nuovo uscirà con il classico dorso giallo Einaudi? O in quel formato cartonato con gli angoli tondi, solitamente con un prezzo esorbitante? Ecco, da lettrice, tutto questo un po’ mi sconcerta.
Non ho nulla contro Einaudi, sia chiaro, pur non amando molto le loro copertine. Ho tantissimi libri pubblicati da loro (in ogni formato possibile, tra l’altro, dai tascabili ai supertascabili, agli Stile libero all'altra collana che non so come si chiama) e pubblicano davvero dei grandi autori. Però, boh, una delle cose belle dei libri della Strout era anche il formato, la forma con cui venivano pubblicati (e tanto di cappello alla Fazi per il grande lavoro che ha fatto per portare questa scrittrice da noi).

Ho presupposto che la motivazione sia prettamente economica. Einaudi ha offerto di più per i diritti dei libri e la Strout o la sua agente ha accettato, incurante di cosa questo cambiamento possa significare per i suoi lettori. Le motivazioni, però, potrebbero essere anche altre. Tipo che per quanto bello fosse il "prodotto finale" Fazi, l'autrice con loro non ci si trovava,  o hanno avuto qualche discussione, etc etc... In ogni caso, la motivazione è sì importante, ma non ai fini di questo mio post. (Comunque se qualcuno sa qualcosa in più e vuole condividere, ben venga!)

E sorvolo sull'implicazione più profonda che questo cambiamento ha, ovvero che i grandi editori e i grandi gruppi editoriali appena possibile si "mangiano" quelli piccoli. È un fenomeno forse normale: faccio rischiare un piccolo, aspetto di vedere se il suo rischio ha ripagato o meno, e poi entro in gioco io con il mio portafoglio rigonfio. 
E’ il mondo dell’editoria di oggi, e c’è davvero poco da fare.

Ma veniamo a noi lettori, mio vero ambito di “competenza”. Le motivazioni dietro a questi cambiamenti ai lettori importano poco. Magari si fanno qualche domanda, un po' di curiosità nasce, ma poi finisce lì e il pensiero vola subito alla propria libreria.
Sì, lo sappiamo, un libro è un libro e poco dovrebbe importare in che formato ci arriva. Però chi dice di non notare le stonature tra un edizione e l’altra, o di non provare un lieve (o enorme, a seconda) nervosismo quando libri dello stesso autore arrivano in formati o editori diversi, secondo me un pochino mente. (O magari no, magari è una fisima tutta mia, nel caso, sopportate). 
Tra i primi esempi simili a questo che mi vengono in mente ci sono Carofiglio e il suo avvocato Guerrieri che hanno esordito con Sellerio e poi sono passati a Einaudi; Stefania Bertola, pubblicata da Salani e Tea, e poi arrivata a Einaudi; Carver, portato in Italia da minimumfax e ora ripubblicato interamente da Einaudi. (Riuscita a farmi venire in mente qualche altro esempio che non termini con “ e ora passato/pubblicato/arrivato a Einaudi”?)

Ecco, a me questi cambiamenti un pochino irritano: non li puoi mettere vicini sulla libreria (dipende da come l’hai suddivisa, certo, nella mia, che è suddivisa per case editrici, per esempio non posso), non ritrovi più quella famigliarità con la grafica, con l’impaginazione, con lo stile, quell'uniformità nelle copertine che te li rende riconoscibili anche a distanza. Sono cavolate, lo so. E sicuramente comprerò lo stesso il nuovo romanzo della Strout (così come i Carver che mi mancano, e i libri della Bertola… con Carofiglio ho un po’ lasciato perdere invece), però lo faccio con un po’ di disappunto e, negli anni, o almeno fino a che quelli pubblicati con il secondo editore non superano quelli pubblicati con il primo, penserò sempre un po’ “peccato che abbia cambiato”. 
(Questo non vuol dire necessariamente che il secondo editore farà peggio del primo. Ci mancherebbe. È più che altro una difficoltà innata, mia ma forse anche di altri, di adattarmi a certi cambiamenti che non mi sembrano del tutto necessari. Mi rendo conto che ad esempio le nuove copertine di Carver di Einaudi con il progetto grafico di Fabrizio Farina siano bellissime, ma per me Carver rimarrà minimumfax ancora per un po’).


A giugno a Ivrea c’è stata la Grande Invasione. Gli ospiti presenti erano perlopiù autori che hanno pubblicato con piccoli editori. E tutti hanno sottolineato quanto è stato bello lavorare ed essere pubblicato con uno di loro. Quello più significativo è stato forse Bjorn Larsson, pubblicato in Italia da Iperborea, che ha detto che, sebbene lui abbia ricevuto molte altre offerte, anche più cospicue, da altri editori molto più grossi, lui non ha nessuna intenzione di abbandonare la sua casa editrice. Si sente come a casa, lì (e si vedeva, nel dialogo con la sua editrice durante la presentazione) e non ha nessun motivo di cambiarla.

Non so, onestamente. Credo che questi cambiamenti, qualunque sia la motivazione che li spinge, debbano essere ben ponderati da parte dell'autore/agente (o chi per esso). Perché comunque secondo me il rapporto con i lettori, il modo in cui il libro arriva loro, un po' dipende anche dalle sue vicissitudini, dalla sua storia, e da questi cambiamenti. O almeno, dipende un po' per quei lettori, come me, che un occhio alla casa editrice che li pubblica lo butta sempre, nel bene e nel male.
Per cui probabilmente quando uscirà il nuovo romanzo di Elizabeth Strout cercherò un altro quadro di Hopper e stamperò una sovracopertina.