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martedì 15 maggio 2018

Il mio SalTo 2018

La trentunesima edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino si è conclusa ieri sera ed eccomi a tentare di raccontarvi com'è stato. Dico tentare, perché è sempre difficile riuscire a trasmettere all'esterno quello che si vive là dentro.



Pare sia stata, come sempre, un’edizione di successo. L’edizione dei record, la chiamavano già ancor prima che iniziasse, per via di un overbooking che sicuramente fa piacere dal punto di vista della voglia di partecipare ma che ha penalizzato quei poveri editori (paganti) che sono finiti nel Padiglione 4, il tendone surriscaldato creato in extremis per ospitare tutti. 
A parte questo problema, ben evidente a tutti, il Salone è grossomodo sempre uguale. Anche il numero di visitatori, stando al comunicato stampa ufficiale di chiusura, non è poi variato di molto: l’anno scorso erano stati 143.815 i visitatori unici, quest’anno sono stati 144.386. Numeri belli alti, per un paese in cui si dice che i libri non interessano a nessuno... bisogna poi solo capire se agli ingressi corrispondono anche le vendite da parte degli editori, ma dubito che si verrà mai a sapere.

È cambiata un po’ la disposizione degli stand, per fare posto ai grandi editori che, dopo il forfait dell’anno scorso, sono ritornati nei padiglioni del Lingotto. Non sono invece cambiate le code, né quelle per la sicurezza (ingestibili solo i primi giorni, in realtà, perché io il sabato e la domenica sono entrata senza alcun problema e con un’attesa massima di dieci minuti) né quelle per gli eventi (che, almeno nel mio caso, fungono un po’ da selezione naturale e stabiliscono il vero grado di interesse per quell'evento: c’è coda e ho voglia di farla? Quell'evento per me è imperdibile. C’è coda e uff, che palle! Vabbé, faccio altro).

Eppure, pur essendo tutto sommato un’edizione uguale a tutte le altre, devo ammettere che quest’anno ho provato un po’ meno entusiasmo del solito. Forse perché è un periodo che lavoro un po’ troppo e sono un po’ stanca, ma quest’anno l’atmosfera del Salone, anche una volta dentro, passato il primo istante di “finalmente eccoci qui”, l’ho sentita meno. E, in generale, credo che ci fosse un po’ meno vivacità da parte di tutti.

In ogni caso, ho assistito a eventi molto belli (pochi, ma buoni) e soprattutto, e questo sì che mi è piaciuto!, ho chiacchierato, riso, scherzato e abbracciato tante, tantissime persone. Alcune che vedo ogni anno solo al Salone, altre che non vedevo da tanto, altre ancora a cui finalmente sono riuscita a dare un volto dopo tante interazioni virtuali. Mi ripeterò, lo so, ma la cosa più bella del Salone è soprattutto questa: le persone. I saluti e i sorrisi al volo in mezzo ai corridoi, ma anche le chiacchiere in coda o appoggiati devastati a una colonna. Le foto, le battute, le risate, i pettegolezzi, i “come va?”, i “che bello conoscerti!”, i caffè, i barattoli di pesto e i saluti impacciati che però fanno sempre un immenso piacere. 
 E ve lo dico da timida e insicura, da ragazza che prima di trovare il coraggio di avvicinarsi e salutare qualcuno ci deve pensare un po’, a volte troppo al punto che poi quel qualcuno da salutare non c’è più (un esempio tra tutti: sono rimasta dieci minuti buoni allo stand delle edizioni e/o a fissare Eric-Emmanuel Schmitt e cercare il coraggio di avvicinarmi e salutarlo e chiedergli l’autografo. E poi niente, sono scappata).

Ma parliamo un attimo degli eventi a cui ho assistito. Quest’anno l’unico per cui ho deciso che valeva la pena davvero fare la coda è stato Fernando Aramburu. Sarà che ero in buona compagnia (ciao Veronica, è stato un vero piacere!), sarà perché ho amato Patria come era tanto tempo che non amavo un libro… non lo so, però l’ho fatta volentieri e la rifarei ancora adesso. Credo sia stato uno degli incontri più belli a cui abbia mai assistito in tutti questi anni di Salone. Si è parlato di ETA, ovviamente, ma anche del ruolo che la letteratura e gli scrittori in generale dovrebbero avere nel raccontare le storie, soprattutto quando si tratta di fatti reali: secondo Aramburu non devono tanto concentrarsi e interessarsi al “cosa”, perché il cosa si trova in tutti i libri di storia, ma al come, per dare veramente voce a chi un periodo storico l’ha vissuto sulla sua pelle. (Tra l'altro al pomeriggio proprio Aramburu con il suo Patria ha vinto il Premio Strega Europeo)
Paolo di Paolo, Fernando Aramburu e Maria Ida Gaeta. In piedi, l'interprete nella lingua dei segni, una cosa molto bella di questa edizione del Salone. 

Il giorno precedente, il sabato, ho partecipato insieme a un gruppo di adolescenti all'incontro con il fumettista Sio, che da quando scoperto ogni mattina è quasi sempre il fautore della mia prima (e a volte anche unica) risata quotidiana. Lui è esattamente come i suoi fumetti: apparentemente demenziale e assurdo ma in realtà geniale.

Il fumettista Sio che presentava "La Genda sCOMIX"
Sempre il sabato, sono andata a un incontro alla libreria La Luna’s torta durante il quale la casa editrice NN si è presenta e ha raccontato la sua storia. L’evento faceva parte del programma del Salone OFF, gli eventi collaterali al Salone che si tengono ogni anno in giro per Torino proprio negli stessi giorni. E, devo ammettere, non sono ancora così convinta che sia una buona idea. Se sono dentro al Salone devo uscire, spostarmi per la città e poi magari rientrare (e se non si ha il pass, pagare di nuovo il biglietto) se voglio assistere a un altro evento interno al Salone. Mi sembra un metodo un po’ dispersivo, che va a discapito degli eventi OFF, ovviamente.

La domenica, invece, oltre al già citato Aramburu, ho partecipato all’incontro con Tristan Garcia, scrittore francese pubblicato in Italia da NN editore, di cui sta per uscire il nuovo romanzo: 7. Una sala piena, anche in questo caso, pur essendo uno scrittore forse non così conosciuto. Ed è stato bello e interessante.
Poi sono andata alla presentazione di Kaiser di Marco Patrone, edito da Arkadia edizioni, e a quella di Holden & Company. Peripezie di letteratura americana da j.d. Salinger a Kent Haruf di Luca Pantarotto, ovvero mio marito, che è stato presentato in anteprima proprio al Salone ma che ufficialmente uscirà, per aguaplano, il 22 maggio.



Alla fine sono tornata a casa con cinque libri. Sono pochi, mi rendo conto, ma poco è anche al momento il mio tempo per leggere, mentre molto alta è la pila di libri in attesa. Però, insomma, pochi ma direi molto buoni:



E ora non ci resta che aspettare l’edizione dell’anno prossimo che, salvo imprevisti, si terrà dal 9 al 13 maggio.

sabato 5 maggio 2018

SalTo 2018: chi, cosa, quando, dove e perché

Manca ormai meno di una settimana all'inizio della XXXI edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino, che aprirà ufficialmente sempre negli spazi espositivi del Lingotto giovedì 10 maggio. Se quella dell’anno scorso, la prima guidata da Nicola Lagioia, è stata l’edizione dell’orgoglio dei piccoli e medi editori, dopo la spaccatura con l’AIE, quella di quest’anno è sicuramente l’edizione della verità: riuscirà Torino a confermare (e magari superare) i numeri e, soprattutto, l’entusiasmo dell’anno scorso? 

Intanto quest’anno i grandi editori sono tornati. Una scelta commerciale credo quasi obbligata per i colossi editoriali, che però ha portato a qualche problemino di spazio, con overbooking e ricerche di nuovi luoghi espositivi. Ora comunque tutto pare essere stato risolto al meglio.

Tema di quest’anno è Un giorno, tutto questo, accompagnato dal manifesto di Manuele Fior. (ok, lo confesso, di primo impatto ho pensato al "Re Leone", ma poi la sensazione è passata e trovo sia il tema sia il manifesto davvero molto belli).



Quest’anno sarò presente due giorni, sabato 12 e domenica 13, per questioni logistico-famigliari ma soprattutto di programma che, devo dire, quest’anno trovo davvero notevole.
Ecco qui gli eventi che mi interessano di quei due giorni e a cui farò di tutto per partecipare. Segno anche quelli in contemporanea, sia mai che riesca in qualche modo a essere presente in due posti allo stesso tempo.

SABATO 12
H 12 – Incontro con Alice Sebold  – Sala Azzurra
H 13 – Ciaone Salone! Incontro con Sio - Spazio Stock Bookstock Village
H 16 – Lo scrittore e il suo doppio: Fernando Aramburu dialoga con il suo traduttore Bruno Arpaia  –Sala Professionali
H 16 – Sentimento e segreto: incontro con Javier Marías – Sala Azzurra
H 17.30  – Incontro con Auður Ava Ólafsdóttir  – Sala Blu

DOMENICA 13
H 12  – Incontro con Fernando Aramburu  – Sala Azzurra
H 12.30  – La felicità in montagna - Incontro con Franco Faggiani, autore de La manutenzione dei sensi  – Spazio Autori
H 13.30  – Incontro con Eric-Emmanuel Schmitt  – Sala Azzurra
h 15.30  – Una Black Mirror letteraria - Incontro con Tristan Garcia, autore di 7  – Spazio Internazionale
h 17  – I maledetti: Goffredo Fofi legge James Joyce - I morti  – Sala Filadelfia
h 17.30  – Kaiser - Presentazione del libro di Marco Patrone – Sala Avorio
h 18.30  – Holden & Company -presentazione libro di mio marit... ehm Luca Pantarotto  – stand B38/C37 Regione Umbria


A differenza degli altri anni, non ho ancora stilato una lista di libri che vorrei acquistare. Forse perché la pila di quelli ancora da leggere mi fissa minacciosa da diversi mesi e non accenna a diminuire, ma ho deciso che cercherò di contenermi, comprando solo poche cose ma che davvero voglio e affidandomi all'ispirazione del momento.

Voi ci sarete? Quali giorni? Avete già scelto a quali incontri partecipare e quali libri comprare?  Insomma, ci vediamo lì? (Perché lo so che lo dico ogni anno, ma ogni anno si dimostra essere vero, la parte più bella in assoluto del Salone del Libro, ma delle fiere in generale, sono le persone e le chiacchiere che si scambiano in mezzo ai libri.)

venerdì 16 giugno 2017

LA PERFEZIONE NON È DI QUESTO MONDO - Daniela Mattalia

Divagare, distrarsi, divertirsi. Deconcentrarsi.
E come si fa? Si può dimenticare una preoccupazione, un contrattempo, un guaio. Ma dimenticare un'assenza, non percepire il vuoto che ti cammina accanto, non ascoltare il silenzio dove fino a poco tempo fa c'erano parole, una risata, un sospiro.
E come si fa.
Però aveva deciso di provarci.



Adriano è un anziano signore che ha da poco perso l’adorata moglie Giulietta e ora passa le sue giornate chiuso nel suo studio. Esce solo per andare alle Molinette ogni tanto, perché nei corridoi labirintici dell’ospedale torinese ogni tanto riesce ancora a vederla. Anche lei vede lui, però non gli parla mai, intenta com'è a cercare qualcosa che sembra aver perso.

Gemma di anni ne ha ventinove, lavora in una libreria e ha un rapporto di amore – sopportazione con la madre: non le ha mai perdonato il non aver protestato quando il padre ha deciso di lasciarle e anche adesso, che sono passati molti anni, fatica a comprendere quella sua leggerezza, quella sua svariatezza nell'affrontare la vita. Oltre a lavorare in libreria, nel fine settimana Gemma fa la volontaria in un call center per anziani, va a correre al parco e intanto sogna di trovare l’amore.

Fausto l’amore invece ce l’ha: è Susanna ed è perfetta e bellissima. Forse troppo perfetta e troppo bellissima, e tutta una serie di altri troppo, per lui che di mestiere fa il grafico e sta ancora cercando di trovare la sua vera strada nel mondo. L’unica strada che per ora riconosce è quella che lo porta al parco insieme ad Archibald, un bracco giocherellone e, vista la sua mole, goffo.

E poi c’è Olga, che da giovane faceva l’infermiera e ha avuto per anni un grande amore proibito. Ora è anziana, vive con il gatto René e il sabato mattina telefona al call center per anziani, ma così, giusto per fare due chiacchiere, perché lei vecchia non si sente minimamente.

Sono loro quattro i personaggi principali che popolano le pagine di La perfezione non è di questo mondo, romanzo d’esordio di Daniela Mattalia, uscito pochi giorni fa per Feltrinelli editore.

Quattro personaggi all'apparenza senza nulla in comune, se non l’abitare nella stessa città e frequentare lo stesso parco e lo stesso ospedale, le cui vite improvvisamente si intrecciano, grazie anche alle manovre di un solerte tassista. Il legame tra i quattro all'inizio è molto fragile, un semplice sfiorarsi: al telefono, in libreria, in ospedale, al parco (anche se forse essere travolti dall'irruenza di un bracco non si può definire un semplice sfioramento). Man mano però diventa sempre più forte e ognuno scoprirà di poter fare, a volte senza nemmeno rendersene conto, qualcosa di grande e di bello per l’altro.
Ognuno di essi si ritrova a fare i conti con una parte di sé: la perdita e il lasciar andare una persona amata; oppure prendere finalmente in mano la propria vita e decidere cosa fare del proprio futuro; oppure mettere una pietra sopra ai propri rancori; oppure, perché no, innamorarsi ancora una volta, di quell'amore che fa letteralmente esplodere il cuore.

Ricordò il primo bacio che aveva dato a Giulietta, ben poco romantico a dir la verità. Se non smetti di fumare, aveva detto lei serissima, te lo scordi che mi baci ancora. Lui aveva smesso un minuto dopo, il giorno seguente si era lavato i denti ogni due ore, la sera non osava starle vicino per paura di puzzare di fumo. Alla fine lo aveva baciato lei, spazientita.
Era primavera anche allora? Non se lo ricordava più. Ma eravamo belli, Giulietta, quando loro due.

È un libro leggero, questo di Daniela Mattalia, che però riesce a trattare in modo intelligente e mai stucchevole anche temi molto profondi. Quello della perdita, soprattutto, e di come fare a continuare a vivere quando la persona che per tanti anni è stata accanto a noi ora non c’è più. Ma anche il tema della ricerca di se stessi. E poi, be’, dell’amicizia e dell’amore, che possono nascere nei modi più strampalati possibile e, perché no, con persone che forse nemmeno esistono.

Ho amato molto tutta l’atmosfera che pervade le pagine del libro, fin dalla prima pagina: un’atmosfera allegra a volte, malinconica altre, ma sempre, in qualche modo “buona”; così come mi è piaciuta questa idea di “imperfezione” a suo modo perfetta, di lasciarsi guidare un po’ dal fato e un po’ da stessi e scoprire che le cose, anche così, vanno proprio come vogliamo che vadano, anche se fino a un attimo prima nemmeno sapevamo di volerlo.

Si ride e si sorride molto, leggendo La perfezione non è di questo mondo, e qua e là si versa anche qualche lacrimuccia. Ma non c’è tempo per piangere troppo, per disperarsi: almeno non per chi non c’è più, perché in un modo o nell'altro sarà sempre con voi. 

E no, direi che non è il caso di disperarsi nemmeno per Archibald, che è appena saltato sul letto: non vedete quanto è felice?


TITOLO: La perfezione non è di questo mondo
AUTORE:  Daniela Mattalia
PAGINE: 168
EDITORE: Feltrinelli
ANNO: 2017
ACQUISTA SU AMAZON
formato cartaceo: La perfezione non è di questo mondo
formato ebook: La perfezione non è di questo mondo

giovedì 20 aprile 2017

RAGIONE & SENTIMENTO - Stefania Bertola

«Cercate di capire bene una cosa, ragazze. Siamo... -  Eleonora sta per dire povere, ma alla vista di quelle tre facce spaventate decide che con un poco di zucchero la pillola andrà giù meglio. - ... Siamo pronte per una nuova vita».


I romanzi di Stefania Bertola, per me, sono delle pillole di buon umore. Sono quei libri che dovresti leggere quando sei un po’ giù di morale, senza magari un motivo specifico, e hai bisogno di qualcosa di leggero, che ti distragga, ti coinvolga e ti diverta. Si possono leggere anche quando si sta bene e si è di buon umore, per carità, ma secondo me raggiungono davvero il loro scopo in stati d’animo non proprio positivi.
Li ho letti tutti, da quando venivano pubblicato con Salani e Tea fino al passaggio a Einaudi, in cui, come ho più volte ribadito, hanno perso un po’ di bellezza nelle copertine. E tutti, in modo più o meno marcato, più o meno memorabile, mi hanno trasmesso una sensazione di buonumore, di speranza, di consapevolezza di non essere sola in certe mie assurdità e in certi miei patemi.

Lo stesso è successo con Ragione & Sentimento, uscito a gennaio per Einaudi, sebbene all'inizio fossi un po’ bloccata, rispetto ai romanzi precedenti dal fatto che si tratta di una sorta di rivisitazione contemporanea della quasi omonima (la differenza sta nella &) opera di Jane Austen.
Non sono una grande fan della Austen. Ho letto Orgoglio e pregiudizio e mi è bastato (e questo mi impedisce anche di comprendere tutto il clamore da groupie che accompagna da sempre la scrittrice… mio grosso limite, mi rendo conto), e temevo che, non conoscendo l’originale, non mi sarei ritrovata nemmeno nel romanzo della Bertola. Ma non è stato così.

Alla morte dell’avvocato penalista Gianandrea Cerrato, la moglie Maria Cristina e le tre figlie, Eleonora, Marianna e Margherita, si ritrovano all’improvviso senza soldi e senza casa. Perché sì, oltre a essere bravo nello svolgere la professione penale, l’avvocato Cerrato era anche molto portato all’accumulare debiti e a scrivere testamenti sfavorevoli nei confronti di moglie e figlie, lasciandole, con la sua morte, in mezzo a una strada.
Eleonora, figlia maggiore, meno portata al melodramma nonché unica con uno stipendio fisso, prende in mano la situazione e, grazie a uno strampalato cugino, trova una casa per madre e sorelle in centro a Torino. Piano piano, tutte riprendono a vivere la loro vita: Maria Cristina smette di piangere e riprende un po’ di vita mondana; Eleonora inizia una specie di relazione con un uomo dal trascorso (e presente) amoroso alquanto singolare, che la tiene un bel po’ sulle spine e la fa piangere più di quanto è mai stata solita fare; Marianna, da fedele adepta della Turris Eburnea, compie il Sommo Spreco, concedendosi all'uomo sbagliato, e dando vita a un enorme melodramma che avrebbe reso orgoglioso Shakespeare; e Margherita, la più giovane, è combattuta tra l’amore di due uomini che, pur essendo uno lontano e l’altro morto, le fanno comunque battere il cuore.

I lettori dei romanzi della Bertola, già dall'intricato riassunto della trama riconosceranno perfettamente lo stile. In Ragione & Sentimento ci sono storie assurde, intrecci intrecciatissimi, personaggi strampalati, grandi verità che vengono fuori nei momenti meno opportuni ed eroine fragili e a volte un po’ impaturniate, che non si fanno alcun problema a confondere ragione e sentimento, a mischiarli, a usare un po’ l’uno e un po’ l’altro. Perché, sì, l’amore è proprio così, un caos di emozioni e di gite all'Ikea.

Oggi, per lei, è il Giorno della Festa a Palazzo. Quello che per Cenerentola è l'Invito al Ballo del principe, per Anna è stata la proposta di Jimmy di andare insieme all'Ikea. Per adesso lui deve semplicemente comprarsi una scarpiera più grande, in cui riporre l'eccedenza di scarpe da ballerino che funesta il suo minialloggio, ma tutte le ragazze lo sanno, che se un uomo ti propone di andare all'Ikea insieme vuol dire che fa sul serio.

Il non aver letto Ragione e Sentimento di Jane Austen non ha pregiudicato in nessun modo la mia lettura. Mi ha impedito sicuramente di capire se come rivisitazione funziona e mi ha fatto perdere qualche strizzatina d’occhio che la scrittrice torinese fa all’opera austeniana. Però, a parte questo, Ragione & Sentimento è un romanzo che funziona a prescindere e in cui, come si diceva già prima, si ritrovano tutti gli elementi che, da quando ho letto per la prima volta Biscotti e sospetti parecchi anni fa, mi fanno adorare questa autrice.

Qui mi sembra di averla ritrovata, dopo l’entusiasmo un pochino scemato per i suoi ultimi romanzi (Ragazze Mancine, che ho trovato carino, ma non ai livelli dei primi, per esempio), e mi sono , davvero, davvero divertita.



Titolo: Ragione & Sentimento
Autrice: Stefania Bertola
Pagine: 224
Anno: 2017
Editore: Einaudi
Prezzo di copertina: 17,50 €
Acquista su Amazon:
formato cartaceo: Ragione & sentimento

mercoledì 12 ottobre 2016

Come si è arrivati dal Salone internazionale del Libro a Tempo di libri


(Questo mio post è stato pubblicato su Ultima pagina il 6 ottobre 2016)

Non è facile riuscire a fare un riepilogo della questione Salone internazionale del Libro, l’argomento discusso nel mondo dell’editoria da quando, quest’estate, la volontà dell’AIE di cambiare città, da Torino a Milano, alla celebre manifestazione è diventata concreta. Escono continuamente nuove notizie, nuove dichiarazioni più o meno ufficiali, o anche solo qualche supposizione, prontamente rilanciate da giornali e siti web, che alimentano le polemiche e le prese di posizione dei due schieramenti, pro Torino e pro Milano. Sebbene l’ipotesi di di spostare Il Salone internazionale del libro di Torino a Milano fosse rilanciata già da diverso tempo a ogni nuovo scandalo del Salone del Libro (come, per esempio, quello degli ingressi gonfiati o dei gravi problemi di bilancio), il primo segno concreto di rottura è arrivato nel febbraio del 2016, quando Federico Motta, presidente dell’AIE, l’Associazione Italiana Editori, ha deciso di uscire dal Consiglio di Amministrazione della Fondazione per il Libro, la Musica e la Cultura, che controlla e amministra il Salone.
Una scelta che aveva fatto un certo scalpore, lasciando in qualche modo presagire quello che sarebbe successo il 27 luglio, giorno in cui è avvenuta la votazione a favore della proposta dell’amministratore delegato di Fiera Milano, Corrado Peraboni, per organizzare un evento culturale simile anche a Milano. Dei 32 consiglieri su 39 dell’AIE presenti, in 17 hanno votato a favore dello spostamento, 8 si sono astenuti (tra cui la torinese Einaudi) e 7 hanno votato contro. Pur essendo i numeri irrisori, se si pensa a quanti editori ci sono in Italia, e nemmeno tutti iscritti all’Associazione, la maggioranza ha scelto: fine del sostegno al Salone internazionale del libro di Torino, se ne fa uno nuovo.

Una notizia abbastanza sconvolgente, che ha avuto come conseguenza immediata la scelta di alcuni editori medio-piccoli di  inviare una lettera condivisa all’AIE annunciando la loro uscita. In parte per affetto nei confronti di Torino e della sua storia, ma soprattutto per la scarsa considerazione che hanno avuto da parte dell’associazione, che dovrebbe rappresentare un’intera categoria ma che di fatto ha deciso da sola cosa fare. È da questo abbandono dell’AIE che inizia a prospettarsi la possibilità di fare due eventi distinti: quello di Milano, guidato dall’AIE e dalla Fiera di Milano, che il 5 settembre hanno creato la società Fabbrica del Libro SpA, per promuovere questo nuovo evento e tutte le iniziative a esso correlate; e quello di Torino, in cui i piccoli e medi editori usciti dall’associazione sperano di avere un ruolo attivo.

Per discutere della nuova edizione dell’evento torinese, si è tenuta una riunione l’8 settembre al Circolo dei lettori. Un incontro a cui hanno partecipato in 130, tra cui anche alcuni rappresentati di case editrici più grandi (Sellerio, Feltrinelli, Laterza) che ancora non avevano espresso apertamente la loro opinione in merito, e che si è concluso con la votazione sulla creazione di un’associazione, dal nome un po’ da pro loco Gli amici del Salone, che avrebbe il compito di fare da interlocutore tra le istituzioni, la Fondazione per il Libro, la Musica e la Cultura e tutti gli enti pubblici che da sempre si occupano dell’organizzazione della kermesse torinese. Non tutti i presenti, in realtà, si sono trovati d’accordo con questa idea. Tra questi, da segnalare l’intervento di Giuseppe Laterza, che si è interrogato sulla reale necessità di creare una nuova associazione, e quindi una nuova, ulteriore frammentazione, anziché cercare di mediare con l’AIE:

Il problema è che la polemica che si è generata in queste settimane è la spia di una questione assai più generale e profonda: una frattura tra le diverse componenti della filiera del libro, che non nasce oggi e che dipende da molte diverse ragioni. Ed è questa frattura che dovrebbe soprattutto allarmarci perché ha a che fare con la promozione della lettura nel nostro paese. 

Dopo questa riunione, sono iniziati i primi tentativi, forse un po’ maldestri, di mediare. Perché non fare un salone condiviso tra Torino e Milano, lasciando al capoluogo piemontese gli eventi e gli incontri con gli autori e a quello lombardo invece gli stand e la parte più commerciale? Un’idea proposta dal ministro Franceschini e di cui si è discusso in una riunione tenutasi il 20 settembre a cui hanno partecipato anche il ministro Giannini, il sindaco di Torino Appendino, il governatore del Piemonte Chiamparino e il presidente degli editori Federico Motta, e a cui Massimo Gramellini ha dato risalto sulla Stampa, proponendo «la settimana lunga del libro» in cui lascerebbe la parte commerciale ed economica a Milano e quella intellettuale e culturale a Torino. Una soluzione logisticamente abbastanza complessa, questa, che porterebbe a un’ulteriore frammentazione dell’evento, che richiederebbe il dono dell’ubiquità ai suoi visitatori e, soprattutto, implicherebbe un costo di gestione insostenibile per gli editori medio-piccoli. E poi l’AIE era ben decisa a portare avanti il suo appoggio a Milano, nonostante dichiarasse la sua disponibilità a mediare. Torino ha detto no ai diktat di Motta e ogni tentativo di ricucire lo strappo è fallito.

Ci saranno due eventi, dunque, a distanza di un mese e di un centinaio di chilometri l’uno dall’altro. Dal 19 al 23 aprile 2017 negli spazi espositivi di Fiera Milano a Rho, l’AIE e i grandi editori organizzeranno Tempo di libri, la prima edizione di questo nuovo evento letterario, che è stata presentata ufficialmente il 5 ottobre. Dal 18 al 22 maggio 2017, negli spazi espositivi di Torino Lingotto ci sarà la XXX edizione Salone internazionale del libro, organizzato sempre dalla Fondazione – che ha nominato come nuovo presidente l’ex ministro Massimo Bray, a cui spetterà il compito di trovare un modo di differenziarla rispetto a quanto succederà a Milano – con l’aiuto ancora non ben definito dei piccoli editori, il cui ruolo rischia di passare di nuovo in secondo piano, schiacciato dalla burocrazia degli enti organizzativi.

L’AIE, comunque, attraverso le parole rilasciate da Renata Gorgani, nominata presidente di La Fabbrica del Libro Spa, ci tiene a far sapere che gli editori che hanno deciso di uscire dall’associazione, o che proprio non ne fanno parte, potranno partecipare a entrambi i Saloni senza venir penalizzati in alcun modo. La regione Piemonte ci tiene a far sapere, invece, che i piccoli editori piemontesi che hanno intenzione di partecipare a Più Libri Più Liberi, la fiera della Piccola e Media editoria che si tiene tutti gli anni a Roma a dicembre, quest’anno lo dovranno fare senza i finanziamenti e i contributi delle edizioni precedenti.

Sì. Avete letto bene. Visto che la situazione tra Torino e Milano non era abbastanza complessa, si è tirata in mezzo anche la fiera di Roma, la fiera dedicata all’editoria indipendente più conosciuta d’Italia, patrocinata dall’AIE. E quindi, se un piccolo editore piemontese vuole andarci, dovrà farlo di tasca propria. La situazione, al momento, è questa. L’evento milanese sta iniziando ad avere una sua forma (anche se sarà forse penalizzato dal non essere in città, ma nello spazio fieristico di Rho), mentre quello di Torino sembra ancora un po’ in sospeso, come se, al di là delle parole e delle continue, e più o meno giustificate, recriminazioni, mancasse la volontà di organizzare effettivamente qualcosa. E in effetti, dopo quella riunione al Circolo dei lettori, dopo quella votazione per la creazione di una nuova associazione, per ora dal fronte torinese ancora non si è mosso niente.

La volontà da parte dei piccoli editori sicuramente c’è. Ma chi da sempre ha organizzato il Salone internazionale del Libro, finora si è invece perso tra grandi annunci, grandi idee e grandi nomi, senza aver concretizzato nulla. C’è il rischio, in questo temporeggiare, in questo stare distanti dalla macchina organizzativa, dalle decisioni chiave che un evento impone, che non sia Milano a sottrarre il Salone a Torino, ma che Torino lo butti via con le proprie mani.

giovedì 26 maggio 2016

Incontrando... Elizabeth Strout al Circolo dei lettori di Torino

Ieri pomeriggio, presso il Circolo dei lettori di Torino, si è tenuto un incontro con la scrittrice americana Elizabeth Strout, in tour in Italia per presentare il suo ultimo romanzo, Mi chiamo Lucy Barton, da poco uscito per Einaudi.

Sono venuta a conoscenza di quest’incontro qualche settimana fa e già allora sapevo che avrei fatto qualunque cosa per andarci. Chi segue il blog e la pagina, sa quanto io ami questa scrittrice e i suoi romanzi e pensare di averla a soli 50 km di distanza e non andare a incontrarla sarebbe stato folle.
E quindi ieri, in compagnia della mia libraia preferita Stefania, sono andata a Torino. Immaginavo ci sarebbe stata tanta gente a quest’incontro e avevo già scritto al Circolo dei lettori per sapere se ci fosse qualche procedura da seguire. “Vieni almeno un’ora prima” mi è stato solo detto. Noi siamo arrivate là un’ora e mezza prima e, dopo una pausa gelato, ci siamo messe in coda. Sì, in coda. Fa impressione pensare che ci sia coda per una scrittrice che non sia anche un personaggio televisivo o cinematografico. Eppure sì, ieri ad aspettare Elizabeth Strout eravamo davvero in tanti. 


In troppi forse, perché pur arrivando con questo largo anticipo non abbiamo potuto assistere all’evento nella sala in cui si teneva, ma in una attigua, in collegamento video. E non è la stessa cosa, purtroppo. Però dai, la mia scrittrice preferita era nella stanza accanto alla mia... direi che è già una bella soddisfazione. 
A dialogare con lei c’era Susanna Basso, traduttrice dell’ultimo romanzo uscito, che, devo dire, mi ha fatto una tenerezza infinita. Era, credo, talmente tanto emozionata che per le prime domande ha dovuto leggere da un foglio quello che doveva dire. E la capisco, perché trovarsi accanto a quella donna e doverle parlare deve essere qualcosa di incredibile.



L’incontro è iniziato con la lettura di un passo di Mi chiamo Lucy Barton, prima in inglese dalla stessa Elizabeth Strout (che ha un bell’accento americano, ma che si capisce perfettamente quando parla) e poi la traduzione da parte di Susanna Basso.  Da lì si è poi passato a parlare del libro, con alcune domande sulla sua protagonista e sull’ambientazione.
Elizabeth Strout ha scelto di far arrivare la sua protagonista dal Midwest, pur essendo lei del Maine, perché una volta ci è andata e si è accorta di quanto cielo ci fosse, un cielo che quasi si mangiava la terra. Le è sembrato il posto ideale per far crescere una donna in un’infanzia difficile e un posto ideale da amare e odiare al tempo stesso.
Altra particolarità di Lucy Barton è il fatto che sia una scrittrice. La Strout ha detto che nemmeno lei subito voleva credere che lo stava facendo davvero. Però Lucy era una bambina solitaria, che trovava nei libri conforto e calore (un po’ perché li leggeva nella biblioteca della scuola, al caldo, anziché nel garage in cui viveva, un po’ per tutto quello che le hanno dato).

Si è parlato poi anche dei romanzi precedenti, in particolare Olive Kitteridge, che è particolarmente amato in Italia. Elizabeth Strout ha detto di essere contenta che sia piaciuto così tanto e di avere così tanti lettori entusiasti per quel libro e per quel personaggio, ma in realtà cerca di non pensarci troppo e di fare il suo lavoro, di scrivere quello che sente senza pensare troppo a quali saranno le reazioni di chi lo leggerà. Anche perché crede che nessuno possa mai conoscere davvero un altro e che quindi ogni persona nei libri trova qualcosa di diverso. 
Elizabeth Strout ha raccontato del suo amore per Hemingway, dicendo di essere forse l’unica donna americana ad amare lui e la sua scrittura chiara e diretta, e poi dell’importanza per la protagonista del libro ma anche per lei dei gesti degli sconosciuti, quel concetto espresso tanto bene da Tennessee Williams nel suo Un tram che si chiama desiderio.

Dopo qualche altra domanda e qualche intervento dal pubblico (mi dispiace, non ho segnato tutto, ero troppo presa ad ascoltarla e scrivere, su carta o su smartphone, mi avrebbe distratta troppo), ovviamente, è arrivato il momento degli autografi.

Io ho portato con me sia Olive Kitteridge sia Mi chiamo Lucy Barton, ma alla fine ho deciso di farle autografare solo il primo. È senza ombra di dubbio il mio preferito, per questa burbera protagonista che mi ha fatto letteralmente impazzire. E quindi mi sembrava più giusto averlo solo lì (dai, oggi la polemica sul passaggio in Einaudi ve la risparmio).
Inutile dire che ero agitatissima quando è arrivato il mio turno. Però avevo davanti Elizabeth Strout e dovevo assolutamente dirle qualcosa di più di un semplice “Hi!”. Allora le ho detto che era una grande onore conoscerla e che Olive Kitteridge è, appunto, il mio romanzo preferito in assoluto. Lei mi ha stretto la mano con entrambe le sue, in un gesto dolcissimo e tenerissimo, che mi ha emozionata un sacco. Penso faccia così con tutti, e questo forse lo rende ancor più speciale, perché potrebbe limitarsi a una fredda stretta di mano (che sarebbe anche comprensibile, con tutta la gente che incontra ogni giorno).
Sono uscita che mi tremavano un po’ le gambe, ma davvero, davvero felice.



Ringrazio il circolo dei lettori per avermi dato finalmente la possibilità di incontrarla (anche se magari la prossima volta ditemelo che con la tessera avrei potuto prenotare il posto nella sala principale, per la Strout l’avrei fatta senza alcun problema!), e Stefania per la compagnia, le belle chiacchiere, le foto (e il gelato!) di tutto il pomeriggio.

Eh niente, gente, io ho l'autografo di Elizabeth Strout:

lunedì 16 maggio 2016

Il mio bellissimo SalTo 2016

Dopo una domenica di riposo e di riordino di idee (che ho trascorso principalmente mangiando) eccomi qui a cercare di raccontarvi dei due giorni che ho passato quest’anno al Salone Internazionale del Libro di Torino.
Un evento che aspetto ogni anno con ansia e che poi, una volta arrivato, mi stupisco sempre di quanto passi in fretta.


Quest’anno il mio resoconto è particolarmente difficile da scrivere, perché è stato un Salone molto particolare. Un Salone fatto più di incontri con persone tra uno stand e l’altro che non di eventi prettamente letterari e di libri (sì, lo so, la pila di libri che ho comprato sembra smentirmi…).
Temo quindi che questo post sarà più simile a una pagina di diario, piena di emozioni e di sorrisi scemi mentre la scrivo, che non a un racconto serio e professionale.

Il mio primo giorno al Salone è stato venerdì 13. Avevo segnato una lunga lista di eventi a cui partecipare che, alla fine, non ho minimamente seguito. Ho partecipato solo all'incontro all'ora di pranzo con Gianluigi Bodi che ha presentato l’antologia di racconti da lui curata, Teorie e tecniche di (in)dipendenza, insieme ad alcuni degli autori che ne hanno preso parte, e nel pomeriggio al dialogo tra Margherita Oggero e Raffaella Romagnolo, autrice del bellissimo La figlia sbagliata (più passa il tempo da quando l’ho chiuso più mi rendo conto di quanto questo romanzo mi sia davvero piaciuto… a breve ve ne parlerò come si deve anche qui).

Cos'hai fatto per il resto del tempo, vi starete chiedendo voi.
Ho vagato da uno stand all’altro, ho chiacchierato con la mia amica Thais, ho sfogliato la mia ultima traduzione e chiacchierato con Sara e Francesca allo stand Lindau, mi sono seduta sulle comodissime poltrone di NN editore, ho consigliato libri ad amici incontrati quasi per caso (Gianni, grazie mille per la fiducia!), riso, scherzato, incrociato autori nei momenti più imbarazzanti (tipo Andrea Vitali proprio mentre stavo addentando il carissimo panino comprato per pranzo), mandato messaggi d’aiuto dopo incontri non sempre piacevoli, soprattutto per me che sono di una timidezza imbarazzante (e poi sfatiamo anche un po’ questo mito… non è che perché siamo blogger ci dobbiamo volere tutti bene) e fatto foto sceme. 
Tante. Foto. Sceme. 
Con pupazzi rosa giganti, con fantastici gorilla di peluche (viva le ragazze di Gorilla Sapiens edizioni!), e con quel bellissimo Snoopy gigante di fronte allo stand di Baldini e Castoldi, (da sola e con il mio social media manager preferito... foto che però, per rispettare la sua povera dignità ormai perduta, evito di pubblicare anche qui). 


E poi beh, ho comprato libri. Seguendo la lista che mi ero segnata, ma anche lasciandomi guidare un po’ dal momento. Sono entrata là dentro alle 10.30 del mattino e sono uscita verso le 18.30. Stanca morta, sudatissima perché nei padiglioni del Salone fa sempre un caldo folle, e, ovviamente, felicissima.

Sabato 14 sono tornata con il lettore rampante, uomo dotato di una pazienza infinita, e appena entrati ci siamo messi in coda per andare a sentire Antonino Cannavacciuolo presentare il suo libro, Il piatto forte è l’emozione, insieme a Bruno Gambarotta. Un incontro un pochino troppo breve, secondo me, ma con alcuni momenti davvero divertenti (e alcuni un po’ polemici… e completamente fuori luogo). Cannavacciulo dal vivo è ancor più enorme che in tv. Mi sarebbe piaciuto provare (sul lettore rampante) la potenza della sua manata, ma non c’è stata occasione.


Finito quello abbiamo ripreso a girare senza meta, tra uno stand e l'altro. Un girare che ci ha portato a incontrare di nuovo Thais, a incrociare Marco Malvaldi senza avere il coraggio di andare a salutarlo (“io fossi in lui ora come ora non mi vorrei salutare"), a Peppe “il prof” (insieme a Gianni che avevo visto il giorno prima è uno dei partecipanti più fedeli ed entusiasti di Una valigia di libri), a vedere per la prima volta Francesca (è stato un vero piacere!), allo stand di Spartaco edizioni, dove ho scattato questa bellissima foto con un gruppo di autori di cui ho letto e amato i libri.


E poi a conoscere dal vivo per la prima volta Laura del blog La Libridinosa, che era in compagnia di Baba di Desperate Bookswife… con, ovviamente, altra foto di rito.


Dopo aver fatto la coda insieme a Nicola Lagioia per un hot dog ed essere andati a vedere ICub, il robottino dell'Istituto Italiano di Tecnologia, nel pomeriggio abbiamo incrociato Roberto Saviano allo stand della Bao (in cui c’era anche un immancabile Zerocalcare a far disegnini) e assistito alla prima rissa della mia vita all’interno del Salone, allo stand Rizzoli (vi do un piccolo indizio: Matteo Salvini).
Alle 15.30 siamo andati al Bookstock Village, per assistere al laboratorio di Sio, insieme a qualche bambino e a una marea di adulti. Prima che lui arrivasse, c’è stato l’incontro con Marta, una ragazza che segue il mio blog e la mia pagina credo quasi da sempre e che è stato davvero bellissimo vedere per la prima volta dal vivo (per non parlare dell’immediata empatia che si è creata tra il lettore rampante e suo marito).

L’incontro con Sio è stato molto divertente. Lui è un personaggio buffissimo come i fumetti che disegna. 


Finito quello, abbiamo fatto ancora due passi (a salutare Casasirio edizioni e comprare il loro ultimo libro pubblicato, Elementare, cowboy), due foto (di nuovo dalla Baldini e Castoldi, ma questa volta con Lucy!) e qualche acquisto e poi, stanchi morti, siamo usciti, nel bel mezzo del diluvio universale.
Il bottino di libri dei due giorni di Salone è stato molto ricco. Alcuni facevano parte della lista che avevo stilato nei giorni precedenti, altri sono stati regali degli editori (grazie NN e grazie Spartaco!) e altri frutto dell’ispirazione del momento. Tutti insieme fanno decisamente la loro figura:


Ecco, il mio SalTo 2016 è stato questo. Un salone ricco di incontri, di foto e di emozioni. A volte talmente belle che descriverle sarebbe impossibile.

Concludo come sempre ringraziando tutti coloro che hanno contribuito a renderlo così bello (il lettore rampante, ovviamente, ma anche Thais, Laura, Marta, Camilla, Gianni, Peppe, Francesca, Luca… e tutti gli altri) e tutte quelle case editrici, piccole di dimensioni ma grandi in tutto il resto, che davvero mi hanno fatto sentire a casa.

E ora non mi resta che aspettare un anno per la prossima edizione del Salone del Libro!
(Per fortuna per ingannare un po' l'attesa tra due settimane inizia la Grande Invasione a Ivrea)

giovedì 5 maggio 2016

SalTo16... e facciamoci un salto anche quest'anno, dai

Manca una settimana esatta all'inizio del Salone internazionale del libro di Torino. Siete pronti? Siete caldi? 
Il tema di quest'anno è quello delle "Visioni" e io, devo dirvi la verità, come ogni anno non vedo l'ora di varcare quei cancelli ed entrare in quei caldissimi padiglioni.
Nonostante la mancanza di sedie, il caldo, il caos, la fila per andare in bagno, i panini costosissimi, i bambini ovunque e tutti i problemi che vi possano venire in mente, io adoro il Salone del libro. Adoro il clima che si respira, adoro il camminare tra gli stand, adoro il camminare per i corridoi e incrociare scrittori che si fanno i fatti loro, adoro incontrare altri lettori appassionati e assistere alle presentazioni. Quindi penso non sia difficile immaginare il mio stato d'animo ora.

© Mimmo Paladino
Sono anche riuscita in tempi ragionevoli a districarmi tra l'immenso programma e, sebbene ogni tanto qualche nuovo incontro ancora salti fuori, penso di potervi già dire a quali intendo partecipare (dico intendo perché poi là dentro distrarsi è un attimo e tutti i piani degli anni passati sono sempre andati a farsi benedire).
Salvo imprevisti sarò al Salone tutto il venerdì e tutto il sabato. Quindi mi sono focalizzata sugli eventi di quei due giorni, ignorando completamente gli altri... onde evitare tentazioni.

Ed eccoli qui:

VENERDÌ 13
h 13. TEORIE E TECNICHE DI (IN)DIPENDENZAPresentazione dell’antologia di 24 racconti curata da Gianluigi Bodi in SALA ROMANIA

h 14. INTRADUCIBILI: PENSARE L'IMPENSABILE?:  seminario di traduzione a proposito del libro Lost in Translation di E. F. Sanders (Marcos y Marcos) in SALA MADRID

h 15. L'Italia vista dalla Puglia. Nuove visioni cinematografiche. Incontro con Checco Zalone: e non credo serva che vi dica altro. In SALA GIALLA

h 16. Un'ora con... RAFFAELLA ROMAGNOLO. In occasione della pubblicazione del romanzo La figlia sbagliata. Al CAFFE LETTERARIO.


SABATO 14
h. 11 Il piatto forte è l'emozione. Incontro con Antonino Cannavacciuolo. In SALA GIALLA.

h 12 I bastardi di Pizzofalcone. Incontro con Maurizio De Giovanni. In SALA GIALLA

h 15. Impara a fare un fumetto. Incontro con SIO. Al BOOKSTOCK VILLAGE. Questo sarebbe per bambini, ma spero ci facciano entrare comunque...

h 17.30 A quattromani. Incontro con Paco Ignacio Taibo II e Giancarlo de Cataldo. All'ARENA PIEMONTE


Ecco, gli incontri sono questi. Mi rendo conto che ci siano cose che con i libri c'entrano poco o nulla, ma sogno di incontrare Checco Zalone da una vita, Antonino Cannavacciuolo come chef in tv mi fa impazzire e Sio e i suoi fumetti assurdi mi fanno sempre un sacco ridere (lo conoscete Scottex, vero?).
E poi dai, qualche evento letterario c'è!.

Per quanto riguarda gli editori, come al solito eviterò gli stand di quelli grandi perché saranno come sempre troppo affollati e tanto, tanto anonimi, e andrò da quelli più piccolini a cui sono tanto affezionata (marcos y marcos, NN editore, Spartaco, Gorilla Sapiens, Keller, etc etc...) e a conoscerne magari qualcuno di nuovo.

«E cosa comprerai?» vi starete chiedendo poi. Beh, la mia lista è, purtroppo, in continuo allungamento... spero di riuscire poi a darmi una regolata una volta là dentro e di uscire con ancora qualche soldo in tasca (anche se dubito che ci riuscirò).

Voi verrete al Salone? Se sì, quando? Ci vediamo magari per un caffè? Io avrò la borsa ufficiale rampante, mi riconoscerete da quella. (Vi avviso già da ora che dal vivo sono molto meno intelligente e spigliata di quello che forse sembro qui sul blog, quindi se quando mi parlate me ne esco con frasi sceme o divento tutta rossa, portate pazienza).


mercoledì 23 marzo 2016

Incontrando... Jonathan Coe alla Scuola Holden di Torino

Ieri nel tardo pomeriggio sono andata a Torino alla Scuola Holden per assistere alla presentazione del nuovo romanzo di Jonathan Coe, Numero Undici, appena uscito per Feltrinelli.
Devo dir la verità, inizialmente non ci volevo andare. Un po’ per pigrizia, un po’ perché “cavolo, devo farmi 40 km in auto da sola ad andare e altrettanti a tornare, e poi è in una zona di Torino che non conosco”, un po’ perché “ma mica ci posso andare da sola”. Poi però ho iniziato a leggere il libro, sabato sera.  Ho iniziato a pensare “quasi quasi”, poi qualcuno mi ha detto che se ci sono i Metallica in zona si devono andare a sentire a prescindere dai km da percorrere (ok, io personalmente i Metallica non so se andrei mai a sentirli, però era per dire…), poi qualcun altro mi ha detto “se non ci vai, sei scema, visto come stai divorando quel romanzo” e, infine, una mia amica mi ha detto che se fossi andata lei sarebbe venuta molto volentieri (grazie Barbara!)… e quindi, insomma, eccomi qui a parlarvi dell’incontro. 


Non ero mai stata alla Scuola Holden prima di ieri, né nella sua sede vecchia né in questa maestosissima sede nuova, in piazza Borgo Dora. Una zona di Torino che, almeno all’apparenza, non è tanto bella, diciamo la verità. Sono scesa dall’auto e in tre mi hanno chiesto dei soldi e uno è andato a fare pipì contro a un cassonetto vicino a dove avevo parcheggiato. 
Poi però ho varcato la porta della Scuola e sono entrata in un altro mondo. Bello il cortile interno, bella la sala dove si è tenuta la presentazione e bella  e molto intellettuale l’aria che si respirava.
Mi sono seduta in seconda fila, tenendo il posto occupato per la mia amica (aaaah i mezzi pubblici torinesi), e subito sono stata abbordata da due buffe signore sedute accanto a me che hanno iniziato a raccontarmi che fanno parte di un gruppo di lettura e che, al termine di ogni libro letto, invitano l’autore a parlare e l’autore solitamente ci va (non so se fossero lì per invitare Coe o per cazziarlo per non esserci andato).
Poi, finalmente (in realtà era puntualissimo), è arrivato Jonathan Coe. 



Durante la presentazione si è parlato principalmente solo dell’ultimo romanzo, Numero Undici appunto. Romanzo che ho terminato ieri in pausa pranzo e di cui vi parlerò nei prossimi giorni. Si è parlato della sua struttura, di questo ricorrere del numero undici che, insieme ad altri elementi, unisce un po’ il tutto (questo è il suo undicesimo romanzo, tra le altre cose), del ritornare di La famiglia Winsham, suo primo romanzo pubblicato in Italia nel 1995, e di come inizialmente lui non avesse pensato a un vero e proprio sequel, ma che poi la scrittura e le intenzioni, ovvero di fare una satira politica e sociale del Regno Unito di oggi, lo abbia riportato in qualche modo lì, a quella famiglia e a quei personaggi. 
Si è parlato di scrittura, ovviamente, e di come la scuola Holden abbia svolto in passato un certo ruolo nella sua scelta di dedicare un intero capitolo del libro a dei personaggi adolescenti (qualche anno fa era stato invitato dalla scuola a tenere una sorta di corso di riscrittura, in cui si doveva prendere una storia per ragazzi classica e trasformarla con un linguaggio moderno… lui aveva scelto I viaggi di Gulliver, uno dei suoi libri preferiti in assoluto), ma anche di serie TV (lui è un fan sfegatato di Downtown Abbey), di ossessioni personali (tema ricorrente nei suoi libri: c’è in Numero Undici, c’era in La famiglia Winsham e c’è in Coe stesso) e del ruolo dei social media nella società moderna («sono utili in alcuni casi, tipo oggi che ho seguito i terribili fatti di Bruxelles tramite twitter, ma sono anche in parte responsabili della perdita di empatia tipica della società moderna»).
Alla fine sì, si è parlato del libro ma a partire da quello e dalle sue tematiche si è parlato anche di tutt’altro. 
E io ho apprezzato tantissimo il suo modo di parlare e il suo fantastico accento inglese, ma anche il suo sense of humor, molto garbato (se non fosse stato per le due buffe signore citate prima che, sentendoci ridere già in lingua originale, ci chiedevano in continuazione di tradurre prima dell’interprete, così potevano ridere prima degli altri anche loro… no, signore, mi spiace, aspettate l’interprete) e il suo prendersi in giro. 

Poi, è arrivato il momento della dedica. 
Allora, io dal vivo sono una persona timidissima con gli sconosciuti. Figuriamoci con uno sconosciuto che parla inglese e che è, tra le altre cose, uno dei miei scrittori preferiti (lo sono anche in italiano con quelli che mi piacciono meno, comunque). Però poi mi sono trovata lì davanti e ho pensato “ma sì, chi se ne frega, io provo a parlargli, alla peggio mi prende per una fan invasata”. Gli ho detto che avevo terminato il libro quel pomeriggio, lui mi ha chiesto se una parte in particolare mi era piaciuta, io gli ho risposto che all'inizio era un po’ strana ma poi quando ho capito sì, lui mi ha detto che era l’effetto che voleva e poi constatato che leggo in fretta. E poi è successo più o meno questo:



«Beh sì, sono una lettrice allenata, perché ho un blog di recensioni e, per quanto possibile, mi piace aggiornarlo di frequente». 
«Davvero hai un blog? E mi segui su twitter?».
«Sì, lei ogni tanto mi mette anche i cuori».
«Ma dai, davvero! Come si chiama?».
«La lettrice rampante».
«Non ho presente al momento, scusami… ma la recensione del mio libro l’hai già scritta?».
«Ci mancherebbe!No, non ancora, l’ho finito oggi e penso la scriverò nei prossimi giorni».
«Dai, bello! Allora mettila in un posto in cui io la possa vedere, che sono curioso».

E alla fine stavo per svenire, ecco.
Poi magari se ne dimenticherà e non la leggerà (non oso immaginare in quanti lo tagghino da tutto il mondo), o ci proverà e non ci capirà niente perché la scriverò in italiano, o boh, qualunque altra cosa. Però chissene frega in realtà…  aver chiacchierato cinque minuti con Jonathan Coe e avergli detto che ho un blog per me è già stato un grandissimo traguardo.

Grazie quindi a chi mi ha convinto ad andarci, a Barbara per la compagnia, le foto e la birra e a Jonathan Coe per essere l'adorabile scrittore che è.

(La recensione di Numero Undici arriverà nei prossimi giorni, poi vi assicuro che dopo quella, fino al prossimo romanzo, questa fase da fan sfegatata e invasata si placherà. Portate pazienza ancora un po’).

giovedì 15 ottobre 2015

IL POSTO GIUSTO - Simona Garbarini

Il dolore non sempre ha dei connotati precisi. Lo si scorge in un gesto un po’ smanioso, in una smorfia appena accennata, in un’espressione svagata. Lo si scorge in uno sguardo spento, in due occhi grigi che si intravedono da quelle fessure in cui un tempo brillava il ghiaccio, e ora…
Il dolore è la consapevolezza che quando esci di casa ci sono migliaia di ragazzi che prendono il pullman, vanno a scuola, si allenano in un campo di periferia con la speranza di vincere un qualsiasi campionato da nulla, pur sapendo che non diventeranno mai chissà chi.  E invece il tuo è lì, che vive da segregato e altro non ha se non guarda una, due, tre partire di calcio… E sognare. Che cosa poi?


È da quando ho chiuso Il posto giusto, romanzo d’esordio di Simona Garbarini pubblicato da Casasirio, che nella mia testa risuona una canzone di Francesco De Gregori. La leva calcistica del ’68… la conoscete? Quella il cui ritornello dice: Nino non aver paura di tirare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore. Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia…Chissà quanti ne hai visti e quanti ne vedrai, di calciatori che non hanno vinto mai…

Non so bene perché, perché a parte il sogno di giocare a pallone e la nascita in un quartiere e in una famiglia problematici, Nino e Toni, il protagonista di Il posto giusto, almeno all'apparenza, in comune non hanno molto altro. 

Toni viene da una casa famiglia, la madre è morta anni fa e il padre, dopo anni di abusi, è in galera per droga. Toni gioca a calcio in un campo fangoso della Falchera, un quartiere della periferia nord di Torino che negli anni '80, periodo in cui è ambientata la vicenda, era molto degradato.  Gioca in mezzo ad altri bambini come lui e sogna di fare il calciatore, da grande. Un sogno che sembra realizzarsi, quando nella vita di Toni non compare Guido, medico delle giovanili del Toro, che un giorno si ritrova a vedere proprio una partita di Toni, in quel campo sgangherato della Falchera. Da lì alla presa in custodia il passo e breve. E da lì, a farlo giocare nelle giovani del Toro anche. Perché Toni ha talento, tanto talento. Ma ha anche un passato pesante, che torna a fargli visita e compromette, oltre che il rapporto con Guido, anche il suo futuro. Toni sparisce per un po’, e poi quando ritorna deve cominciare tutto da capo, con addosso una fama davvero difficile da cancellare in quell'ambiente. Ma, dicevamo, Toni ha talento, tanto talento. Come il Nino di De Gregori. E anche altruismo e coraggio, che lo portano a un finale inaspettato.

È un bel romanzo, Il posto giusto di Simona Garbarini. Che parla di calcio, sì, ma come espediente per far capire quanto un sogno possa aiutare a rialzarsi e a cambiare la propria vita. Ma parla anche di altro. Di abusi, di case famiglia e di adozioni. Di droga e cattive strade. Di amicizia e di solitudine. E di amore: quello tra padri e figli, che a volte non c’è, che a volte c’è anche se il sangue non è lo stesso, che a volte deve rimanere nascosto ma è più forte che mai.

Forse alcuni temi, tipo quello delle adozioni e della droga, vista la loro importanza, avrebbero dovuto essere approfonditi un po’ di più. Vengono quasi sempre solo sfiorati, quel tanto che basta a farci capire cosa è successo o sta succedendo, senza mai però analizzarli a fondo. Credo che dipenda anche dal fatto che Il posto giusto è fondamentalmente un romanzo per adolescenti, che in certi dettagli potrebbero perdersi. 
A parte questo, comunque, devo dire che il romanzo mi è piaciuto molto. Si legge di un fiato e lascia tanto su cui riflettere.

Non lo so se poi Nino quel calcio di rigore sia riuscito almeno una volta a tirarlo e a non sbagliarlo. So invece che Toni ha fatto molto, molto di più.


Titolo: Il posto giusto
Autore: Simona Garbarini
Pagine: 196
Editore: Casasirio
Acquista su Amazon:
formato brossura: Il posto giusto
formato ebook: Il posto giusto

lunedì 12 ottobre 2015

Ciao, io vado allo stadio a Torino a vedere il Quidditch

Sul numero 3124 di Topolino, quello della settimana scorsa per intenderci, c’è un articolo dedicato al Quidditch per babbani. Cinque Toporeporter (da bambina ho sempre sognato di fare la Toporeporter) hanno partecipato agli allenamenti dei "Meneghins", la squadra milanese di Quidditch.
Non credo serva che vi spieghi che cos’è il Quidditch, il gioco ufficiale del mondo dei maghi inventato da J.K. Rowling. Lì si gioca su scope volanti, con pluffe, bolidi e boccini altrettanto magici.
Avevo già sentito parlare di una versione babbana, nata negli USA nel 2005, ma non mi ero mai informata bene su come potesse funzionare.
Ho poi pubblicato su Facebook la foto del Topolino e tra i fan della pagina ce n’è uno, Saverio, che mi ha detto che non solo lui gioca al Quidditch, ma anche che sabato 10 e domenica 11 a Torino ci sarebbe stato una sorta di torneo dimostrativo in un parco.

Ma tu guarda, proprio il sabato in cui il lettore rampante e io avevamo già intenzione di andare a Torino per Portici di carta. Vuoi mica non fare una piccola deviazione? 
Siamo arrivati in piazza d’Armi, un bellissimo parco torinese vicino allo stadio Olimpico, nel primo pomeriggio con l’intenzione di dare un’occhiata, magari vedere un pezzo di partita, una mezz’oretta e poi via in centro, giusto per farci un’idea di come potesse funzionare la versione babbana di un gioco magico con addosso tutto lo scetticismo possibile. 

Piazza d'Armi e lo stadio Olimpico
Alla fine siamo rimasti quasi due ore, di partite ne abbiamo viste due e ci siamo divertiti parecchio, al punto che la passeggiata sotto i portici del centro è stata quasi in più.
Ma com’è il Quidditch per babbani? Diciamolo subito: i giocatori non hanno scope volanti. E sì, questo sicuramente toglie un po’ del fascino originale, però, ecco, il divertimento c’è comunque.
Le regole sono abbastanza semplici: ci sono sette giocatori per squadra, che non possono essere più di quattro maschi o di quattro femmine (ma, come ci ha spiegato Saverio, in realtà non è una questione di sesso anagrafico ma di come uno si sente. Una cosa che detta così può sembrare strana, ma che se ci si pensa bene è molto bella), divisi nei ruoli tradizionali del Quidditch. Tre cacciatori, identificati con una fascetta bianca legata in fronte; due battitori, con una fascetta nera; un portiere, con fascetta verde e un cercatore con fascetta gialla.

Il campo da Quidditch

In più c’è un giocatore neutrale, che fa da boccino umano: chi gioca in questo ruolo infatti ha un calzino legato in vita che contiene una pallina da tennis, il boccino d’oro. Questo giocatore entra in campo dopo 18 minuti dall’inizio della partita e, insieme a lui, entrano anche i cercatori delle due squadre. Il loro compito è quello di riuscire a prendere calzino e pallina.
Intanto, gli altri giocatori cercano di  far entrare la pluffa (che è una palla da pallavolo) nei tre anelli o di impedire alla squadra avversaria di segnare bombardandoli con i bolidi (che sono tre palloni da dodgeball).
Ogni pluffa andata a segno vale 10 punti, mentre il boccino ne vale 30. La partita finisce quando il boccino viene preso.
Sì, ma le scope, vi starete chiedendo voi? Le scope sono dei semplici bastoni che ogni giocatore deve avere in mezzo alle gambe. Se la scopa cade, il giocatore deve correre a toccare la propria porta prima di poter ricominciare a giocare. E idem se si viene colpiti da un bolide.

In linea di massima le regole sono queste. Sembra un po’ macchinoso, ma in realtà, una volta iniziata la partita il tutto diventa più chiaro. E anche se non lo diventasse, ci si diverte talmente tanto a vederlo, che quasi non importa  se non si capisce niente (avevo provato una sensazione simile quando ero andata a vedere l’hockey… non avevo capito niente, ma mi ero divertita un sacco).
Davvero, da spettatrice scettica (scettica perché io, come molti della mia generazione, sono cresciuta a pane, salame ed Harry Potter), non me lo aspettavo così appassionante. Vedi questi ragazzi (ieri giocavano in squadre miste, con giocatori provenienti da diverse squadre nazionali più una francese, di Lione) che corrono su queste scope, vedi bolidi volare da un giocatore all’altro, pluffe tolte dagli anelli all’ultimo secondo e alla fine non puoi che tifare un po’ per tutti.

I tre anelli e la pluffa in volo
Poi beh, quando entra in campo il boccino la cosa si movimenta ancora di più. Soprattutto nella prima partita che ho visto io, quando a tenere il boccino d’oro era un ragazzo decisamente spesso che doveva difenderlo da due cercatori un po’ mingherlini. Una rissa, insomma…. E senza Madama Chips a curare i feriti (non ce ne sono stati, ci tengo a precisare. Anzi, tutti si è svolto nel massimo fair play possibile, con abbracci e foto collettive finali).

Il boccino d'oro
Non è un gioco per bambini, sicuramente, anche se, come ci ha poi detto Saverio, in realtà il modo di giocare cambia in base all’avversario… nelle partite che abbiamo visto noi i giocatori erano tutti adulti e quindi è normale che ci fosse un po’ più di foga. E poi i bambini hanno una versione a loro dedicata, il Kidditch.
Ho scoperto poi che esistono anche un campionato mondiale, un campionato europeo e, ovviamente, un campionato italiano, in cui giocano una decina di squadre. In Italia, non è ancora una sport riconosciuto a livello agonistico, ma ha una sua federazione e piano piano sempre più adepti (per maggiori informazioni c’è un sito apposito: www.italiaquidditch.com)
Una delle cose più belle del nostro pomeriggio è stata  vedere le persone avvicinarsi al campo, accessibile a tutti perché in mezzo a un parco, e fermarsi a guardare le squadre giocare. C’erano bambini che spiegavano ad altri bambini cosa fosse quel bizzarro gioco e genitori che, per non fare brutte figure con i figli, cercavano su wikipedia cosa fosse il Quidditch promettendo poi di recuperare i libri e i film.

L’unico problema adesso è che il lettore rampante vuole la maglia del Torino Quidditch.