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mercoledì 17 ottobre 2018

FATE IL VOSTRO GIOCO - Antonio Manzini


La settimana scorsa è uscito Fate il vostro gioco, il nuovo romanzo di Antonio Manzini con protagonista il vicequestore Rocco Schiavone. Non starò qui a dirvi per l’ennesima volta quanto io ami questo personaggio, quanto attenda con ansia ogni sua nuova avventura e quanto, dopo un inizio non proprio entusiasta, mi sia appassionata anche alla serie tv che ne hanno tratto. Rocco Schiavone è un figo, burbero, stronzo, segnato da un passato che non gli dà tregua e che condiziona tutto il suo presente. Ma è anche tenero, a modo suo, con chi se lo merita (Lupa, più di tutti).

Aspettavo con ansia un nuovo romanzo, vi dicevo, anche perché sono ancora sconvolta da quanto successo da Pulvis et umbra l’anno scorso (per non fare spoiler dico solo: Caterina) ed ero curiosa di vedere come ne sarebbe uscito il mio vicequestore preferito.
Non benissimo, diciamoci la verità, perché Fate il vostro gioco, nonostante non sia un romanzo breve e abbia richiesto comunque un anno per essere scritto, è un po’ sottotono rispetto ai precedenti. E ci sta, ci mancherebbe, in una serie arrivata ora al settimo romanzo, più tutta una serie di racconti; ci sta che uno sia meno riuscito di un altro, soprattutto se arriva dopo due storie in cui la vicenda di Rocco ha forse toccato il suo climax. 

In questo nuovo romanzo, Rocco Schiavone si ritrova a indagare sull’omicidio di Romano Favre, un pensionato del casinò di Saint Vincent, ritrovato cadavere in casa sua con la fiche di un altro casino tra le mani. “Un morto che parla”, lo definisce Rocco, che si sforza per capire che cosa voglia dirgli. C’entra il riciclaggio? C’entrano i prestiti ai poveracci che si rovinano sul tavolo da gioco? O nessuna di queste cose? Rocco indaga con tutta la squadra, anatomopatologo Fumagalli e complottista della scientifica Gambino compresi. Ma nel mentre deve anche stare un po’ dietro a Italo, che sembra avere più di un problema, e, soprattutto, fare i conti con quanto successo nel romanzo precedente: i suoi amici romani che sembrano fidarsi più di lui, Enzo Baiocchi che pare intenzionato a fare grandi rivelazioni alla polizia, Marina che non si fa più sentire, e Caterina, ovviamente. A complicare ulteriormente le cose ci si mettono pure il vicino di casa adolescente Gabriele e sua madre. Riuscirà il nostro vicequestore preferito a risolvere il caso e, una volta per tutte, anche i suoi tormenti?

Lo scopriremo nella prossima puntata. Dico davvero (e prima che mi si accusi di spoiler, lo dice anche la bandella), perché Fate il vostro gioco è un romanzo che non finisce, che lascia in sospeso tante cose per quello a venire. E questo, per quanto mi riguarda, rappresenta un po’ un problema: non mi piacciono i gialli che non sono autoconclusivi; o meglio, mi piace che ci sia una trama parallela che li colleghi tutti, ma l’omicidio che viene affrontato in un romanzo preferisco che in quello finisca.
Al di là di questo, che è sicuramente una questione più personale, trovo che Fate il vostro gioco sia un po’ frettoloso, un po’ abbozzato. Più nella scrittura, forse, che non nella trama vera e propria. E qualcuno mi faceva notare che probabilmente è già pensato per serie tv: è più fatto di scenette, più televisivo. E poi, diciamocela, Rocco senza le sue donne non funziona tanto. E Antonio Manzini stesso sembra esserne reso conto perché poi, verso la fine, corregge un po’ il tiro con una scena in effetti molto commovente.

Fate il vostro gioco non è un brutto romanzo, sia chiaro. E, come si diceva già prima, un libro un po’ sottotono in una serie che inizia a diventare piuttosto lunga ci sta eccome. Però al tempo stesso un po’ mi spiace perché, pur avendolo divorato in un paio di giorni senza riuscire a metterlo giù, mi è mancato qualcosa che negli altri avevo trovato. Che il personaggio di Rocco stia iniziando a esaurirsi? Che stiano finendo tutte le complicazioni (e le rotture di coglioni) che il vicequestore possa affrontare risultando ancora credibile? 
Mi sa che, anche questo, lo scopriremo nella prossima puntata.


Titolo: Fate il vostro gioco
Autore: Antonio Manzini
Pagine: 391
Editore: Sellerio
Anno: 2018
Prezzo: 15€
Acquista su Amazon:
formato cartaceo: Fate il vostro gioco
formato ebook: Fate il vostro gioco (Il vicequestore Rocco Schiavone Vol. 11)

lunedì 9 aprile 2018

ALL'OMBRA DI JULIUS - Elizabeth Jane Howard

«Ti è mancato Julius? Intendo dopo un po' di tempo, passato lo shock.»
Lei sostenne il suo sguardo e ci pensò, seria.
«Mi è mancato ciò che lui rappresentava nella mia vita. Un padre per le bambine. Un uomo nella sua casa. La sicurezza di essere in coppia. Ma nel profondo... no, non mi è mancato. Avrei sofferto meno la solitudine, se lui mi fosse mancato in quel senso. E poi sento come di averlo abbandonato. È la prova che non lo amavo.»
«Non ti seguo». Felix stava pensando al suo senso di colpa per aver abbandonato lei.
«Sono cose che non si provano per chi si ama. Compassione, senso di responsabilità, questo tipo di sentimenti. Se ami una persona, non li provi. È impossibile, ecco.»




Esce oggi in libreria All’ombra di Julius, romanzo del 1965 di Elizabeth Jane Howard, finalmente pubblicato in Italia da Fazi editore, con la traduzione di Manuela Francescon.
Che io adori questa scrittrice inglese credo che ormai si sia capito: mi sono appassionata alle vicende della famiglia Cazalet fin dal primo volume, per poi seguirli con coinvolgimento e un po’ di apprensione fino all’ultimo; ho amato a dismisura Il lungo sguardo, il suo primo romanzo pubblicato in Italia, anche se io l’ho scoperto solo più tardi, che racconta un amore al contrario, partendo dalla fine, da quello che è rimasto, per procedere a ritroso fino al suo inizio.
Aspettavo quindi con ansia la traduzione di una sua nuova opera e sono davvero contenta che finalmente, anche qui in Italia, abbia trovato un editore (e tanti lettori) in grado di attribuirle tutto il riconoscimento che secondo me si merita.

Sono passati vent’anni dalla morte di Julius. Vent’anni da quella mattina in cui ha salutato la moglie Esme, la figlia maggiore Cressy e la minore Emma, per andare a compiere un gesto eroico durante la Seconda Guerra Mondiale, con cui poi tutti i membri della sua famiglia continueranno a fare i conti per tutta la loro vita.
Esme si chiede se si amavano abbastanza, e nel momento in cui se lo chiede sa già qual è la risposta. Stava con lui perché c’erano le figlie, perché gli dava la sicurezza di una famiglia… ma il suo vero grande amore era un altro, un uomo ben più giovane di lei e del marito, che non ha mai smesso di amare.
Cressy in quei vent’anni non ha fatto altro che cercare l’amore, sempre negli uomini sbagliati, a cui si è sempre concessa senza remore pur sapendo il male che si stava facendo. È una donna molto bella, una pianista brava ma non eccezionale, con la singolare abitudine di stare sempre con uomini sposati. Ed è forse diventata incapace di riconoscere l’amore vero.

Cressy sentiva che l’unico obiettivo da perseguire e poi mantenere con tenacia era l’amore; poi però le era stato d’intralcio il fatto di non avere le idee chiare su cosa fosse l’amore, e così si era ostinata a vederlo un po’ dappertutto, tanto per non sbagliare, o per sbagliare a colpo sicuro.

Emma, invece, è convinta che l’uomo della sua vita sia morto in guerra, senza che lei abbia avuto la possibilità di conoscerlo. È ancora giovane, eppure si sente tanto vecchia dentro. Lavora nella casa editrice che era del padre e si prende cura delle sofferenze d’amore della sorella, senza riuscire a capirla ma senza nemmeno mai giudicarla.
Un fine settimana le tre si ritrovano a casa della madre in compagnia di due uomini: il primo è Felix, il grande amore di Esme, che l’aveva abbandonata più o meno gli stessi giorni della morte di Julius e di cui per vent’anni la donna non aveva saputo nulla, serbandone però intatto il ricordo nella sua mente; il secondo è Dan, un poeta pubblicato proprio dalla casa editrice in cui lavora Emma, che la ragazza d’impulso ha invitato prima a pranzo e poi a trascorrere un fine settimana con lei. Anche l’uomo è alla disperata ricerca di un amore, o forse solo di qualcuno in grado di placare il dolore che sente dentro da quando ha perso quella che riteneva la donna della sua vita.
In questi tre giorni, molti nodi, molti non detti, sembrano venire al pettine. A capo c’è sempre lui, Julius, assente fisicamente ma ben presente in ognuna delle tre protagoniste, tutte accomunate da una disperata ricerca d’amore per colmare l’enorme perdita che l’uomo ha lasciato in ognuna di loro.

Una delle cose che amo di più di Elizabeth Jane Howard è la sua incredibile capacità di tratteggiare le dinamiche famigliari, con tutte le loro caratteristiche, le loro contraddizioni e ambiguità, senza però mai giudicare nessuno. Semplicemente racconta i personaggi e le loro debolezze affettive, dando voce alle loro emozioni, per quanto assurde o incomprensibili possano sembrare viste dall’esterno, da chi quelle emozioni non le sta vivendo.

In All’ombra di Julius succede proprio questo. Ci sono tre donne che si conoscono ma spesso si guardano senza capirsi; tre donne che si innamorano troppo o che non si innamorano mai, che amano le persone sbagliate o quelle giuste al momento sbagliato, che non si lasciano andare perché i loro ideali glielo impediscono o che si lasciano andare troppo perché i loro ideali si sono troppo spesso scontrati con la realtà.

Avevo già notato la bravura di questa scrittrice inglese nel raccontare le emozioni in tutti e cinque i volumi della Saga dei Cazalet, ma forse ancor di più in
Il lungo sguardo (che precede All’ombra di Julius di ben dieci anni). In All’ombra di Julius questa abilità diventa ancor più evidente: siamo di fronte a una donna, una scrittrice, che ha avuto lei stessa una vita sentimentale un po’ turbolenta e che, dagli anni ’50, ha descritto l’amore, tutte le sue dinamiche e le sue contraddizioni così, con eleganza e intelligenza, ma senza nascondere nulla, senza farsi bloccare da convenzioni o condizionamenti sociali. Perché l’amore non ha regole, anche se a volte forse se le avesse sarebbe più facile, e può arrivare così, all'improvviso, e si deve essere pronti a tutto per non lasciarselo sfuggire.
Arrivò allo svincolo, lo riconobbe all'ultimo momento. Spense il motore e riaccese la luce. Lei dormiva davvero. Stette a guardarla per alcuni secondi, come a fissarsi nella mente i tratti del suo viso. Aveva una bocca bellissima, non c'erano altri modi per definirla. E poi aveva l'aspetto dolce e arreso di chi ha completamente ceduto al sonno. Eccola, pensava Felix, è qui. È straordinario averla trovata. Immagino che tutti provino questa sensazione a un certo punto della loro vita, e che tutti pensino di essere i primi a sperimentarla. Non voleva toccarla, temeva quasi di farla sparire, di rompere l'incantesimo.

Titolo: All'ombra di Julius
Autore: Elizabeth Jane Howard
Traduttore: Manuela Francescon
Pagine: 327
Anno di pubblicazione: 2018
Editore: Fazi
Prezzo di copertina: 20 €
Acquista su amazon:
formato brossura: All'ombra di Julius
formato ebook: All'ombra di Julius

venerdì 10 novembre 2017

NEGLI OCCHI DI CHI GUARDA - Marco Malvaldi

Margherita si chinò un momento, raccolse un dente di leone da una piccola macchia erbosa vicino al sentiero e soffiò via i petali con un'espressione da bimba concentrata - l'unica espressione adeguata quando si soffia un dente di leone, a noi sembra una cosa da nulla ma se uno pensa ai denti di leone che ha inconsapevolmente contribuito a piantare quando era piccolo si ha quasi la sensazione di servire a qualcosa in questo mondo.

Marco Malvaldi ultimamente dà il meglio di sé quando chiude per ferie il Barlume e si avventura in altri romanzi. Lo dico da appassionata delle vicende dei vecchietti e del barrista Massimo, che mi hanno fatto scoprire questo autore toscano qualche anno fa e portato poi a leggere, di conseguenza, tutti i suoi romanzi. Il mio preferito in assoluto rimane Odore di chiuso, in cui secondo me l’autore ha elevato la sua bravura alla massima potenza, ma in generale quando Malvaldi ha più libertà di azione, con i personaggi, con i luoghi e con le trame, gli riesce qualcosa in più.

È il caso di Negli occhi di chi guarda, il suo ultimo romanzo uscito a ottobre per Sellerio editore.
Siamo sempre in Toscana: questa volta a Poggio alle Ghiande, una tenuta agricola molto antica e molto bella nel comune di Castagneto Carducci. È di proprietà di due fratelli gemelli, Zeno e Alfredo Cavalcati, di indole completamente diversa tra loro nonostante la genetica li abbia voluti identici: Zeno è un collezionista d’arte, che vive da decenni a Poggio alle Ghiande senza mai allontanarsene, al punto da aver creato in casa un museo; Alfredo è un broker, sempre in giro per il mondo e sempre in equilibrio precario tra la ricchezza e la bancarotta. Queste loro diversità li hanno portati, adesso, a non riuscire a prendere una decisione importante: vendere Poggio alle Ghiande a quegli investitori cinesi che vorrebbero farci un resort di lusso o tenerla? Alfredo e i suoi problemi economici propendono per la prima opzione, Zeno e tutti gli altri abitanti di Poggio alle Ghiande per la seconda, ovviamente.
Perché sì, oltre ai due fratelli, c’è tutta una serie di personaggi che da anni o per la prima volta in vita, per motivi diversi, ruota attorno a questa tenuta: c’è Piotr, uomo delle pulizie polacco che crede fermamente nella Santa Vergine di Czestochowa e nel potere della varechina; c’è Raimondo, uscito dal manicomio quando sono stati chiusi per leggere e ora custode della tenuta; c’è Giancarla Bernardeschi, professoressa di chimica in pensione che a Poggio alle Ghiande trascorre sempre le vacanze, distillando qualunque pianta incontri sul suo cammino; c’è Riccardo Maria Torregrossa, che durante l’anno lavora in formula Uno e d’estate cerca il silenzio nelle colline toscane; Anna Maria Marangoni, lasciata dal marito dopo ventisette anni di matrimonio per stare con una ventisettenne; ci sono Enrico Della Rosa e sua moglie Cristina. E poi Margherita e Piergiorgio, i due giovani a Poggio alle Ghiande solo di passaggio: filologa e archivista alla ricerca di un quadro perduto lei, ricercatore desideroso di studiare i gemelli lui.

Poi ovviamente avviene un omicidio, anzi due, e i piani dei due fratelli e di tutti gli altri abitanti di Poggio alle Ghiande vengono completamente stravolti.

Marco Malvaldi dà il meglio di sé quando si allontana dal BarLume, dicevamo all’inizio. E Negli occhi di chi guarda, secondo me, ne è una prova. Leggendo, si percepisce quanto lui si sia divertito a creare la storia e a caratterizzare i vari personaggi, a giocare con la chimica ma anche con l’arte, la storia e, perché no, anche qualche curiosità bizzarra (a un certo punto, durante la lettura, mi sono ritrovata a scrivere nella barra di ricerca di google “Venere di Milo cacca panda”, così, giusto per darvi un’idea).

La cosa bella è che riesce a fare tutto questo scrivendo comunque un romanzo scorrevole e divertente, mai pedante o saccente, anche per chi di chimica, storia, arte (e cacca di panda) non sa assolutamente nulla, perché alla base c’è un giallo appassionante e ben costruito, ci sono personaggi esilaranti (Piotr è il mio preferito in assoluto) accanto ad altri più profondi e c’è quell’ironia tipica malvaldiana, che a volte si coglie al volo altre dopo un attimo, e poi ti fa esclamare “che genio!” (o “che pirla!”, a volte, ma in senso buono).

Negli occhi di chi guarda mi è piaciuto molto anche per altri motivi, abbastanza casuali in realtà. Nella mia prima vacanza da sola con gli amici ho fatto proprio la tratta di treno che fa Piergiorgio per arrivare a Poggio alle Ghiande, per esempio.
Uno degli stati d'animo più belli dell'essere umano è quello del viaggio di andata. Specialmente se uno è in treno.

Eccessi di velocità, colpi di sonno, mancanza di benzina non ti riguardano; del viaggio da un punto di vista tecnico non hai niente di cui preoccuparti, e mentre il treno ti culla tu puoi cullare le tue aspettative.
Se poi sei talmente fortunato che il tuo treno è sulla tratta da Genova a Roma, puoi anche spegnere il cellulare - scusa se ho visto solo ora la chiamata ma sai, con tutte quelle gallerie il segnale non prende mai - e goderti il viaggio senza dover essere costretto ad affrontare la vita che si svolge altrove.
Alle medie, poi, avevo sviluppato una passione per il pittore Ligabue e per i suoi quadri (anche se non riesco a ricordarmi bene perché), e, tra l’altro, mi piacciono da matti le tombe etrusche.

Insomma, Negli occhi di ci guarda è un bel romanzo giallo, ma anche qualcosa di più, che intrattiene e diverte (che è poi l’obiettivo principale di questi romanzi), ma incuriosisce anche, trasmettendoti la voglia di imparare, di scoprire qualcosa in più.


(Anche se sulla Venere di Milo fatta con gli escrementi di panda continuo ad avere qualche perplessità).


Titolo: Negli occhi di chi guarda
Autore: Marco Malvaldi
Pagine: 274
Anno di pubblicazione: 2017
Editore: Sellerio
Acquista su Amazon:
formato brossura: Negli occhi di chi guarda
formato ebook: Negli occhi di chi guarda

venerdì 16 settembre 2016

LA GRAZIA DEL DEMOLITORE - Fabio Bartolomei

«Sono un fallito» le dice.
«Sciocchezze. Chi sei e di cosa sei capace lo dicono i passi che hai avuto il coraggio di fare». Marie chiude gli occhi e inspira profondamente. «Ma non la senti Davide? Non la senti l'aria che si respira qui? C'è passione, eleganza... improvvisazione».
Davide scuote la testa, alza le spalle.
«E a cosa sono servite?» le chiede.
«Se non riesci a esserne orgoglioso a nulla, Davide. Proprio a nulla»



Fabio Bartolomei è tornato. Chi conosce l’autore e ha letto tutti i suoi precedenti romanzi, una volta arrivato alla fine di La grazia del demolitore, da poco pubblicato sempre da edizioni e/o, capirà perfettamente a cosa mi riferisco.

Ho conosciuto Fabio Bartolomei grazie a La banda degli invisibili. Poi ho letto Giulia 1300 e altri miracoli (e visto anche Noi e la Giulia, il bellissimo film che ne ha tratto Edoardo Leo) e We are family. Ed è stato amore. Di quegli amori letterari che ti portano a correre in libreria non appena esce un romanzo nuovo. E così avevo fatto, in effetti, con il quarto libro di quest’autore romano, Lezioni in paradiso. Una delusione pazzesca. L’idea c’era, ma il libro era troppo breve, troppo frettoloso, perché potesse essere sviluppata come si sarebbe meritata.

Ma se si ama così tanto un autore, come io in effetti amo Fabio Bartolomei, gli si danno tutte le possibilità del mondo. Uno scivolone ci sta, un romanzo non propriamente riuscito dopo tre piccoli gioielli può capitare. Basta sapersi rialzare. E con La grazia del demolitore ci è riuscito alla grande.

Protagonista è Davide, figlio di uno dei più importanti costruttori della città e con una carriera spianata proprio in quel campo. Mai un problema da affrontare, mai una responsabilità, tant’è che a trentaquattro anni, pur avendo un'enorme villa tutta sua, Davide vive ancora a casa dei genitori. Il padre, per dargli una sorta di contentino, gli affida i lavori di demolizione e ricostruzione di una vecchia palazzina, proprio dove viveva sua nonna. Un lavoro semplice, in cui nulla può andare storto. Se non fosse che l’ultima inquilina rimasta nel palazzo è una ragazza cieca, Ursula, verso cui Davide prova una forte attrazione e un forte senso di protezione. E quindi decide di cambiare i suoi piani, coinvolgendo i suoi migliori amici e una bizzarra banda di operai, e di sfidare apertamente suo padre e tutto quello che aveva pensato per lui.

Fabio Bartolomei è tornato, dicevo all'inizio. È tornato un po’ alle origini, perché in La grazia del demolitore si ritrova tutta l’atmosfera di Giulia 1300 e altri miracoli, anche se in un contesto differente. C’è un ragazzo che all’improvviso decide di cambiare la sua vita, c’è una sorta di armata Brancaleone piena di saggezza che lo aiuta nell’impresa, una serie di personaggi buffi a fare da contorno e la voglia di sfidare, di contrapporsi alle ingiustizie, con una denuncia abbastanza marcata delle pratiche in voga nel campo dell’edilizia. 
E poi c’è la poesia dell’amore di Davide per Ursula. Un amore dolcissimo e bellissimo, fatto di gesti, di frasi incise sul muro, di piante di rosmarino nei vasi e marciapiedi livellati, di voglia di non arrendersi mai e di costruire strade da percorrere insieme.

E mentre ascolta il brivido del fallimento, quello della distanza incolmabile e quello della sua paziente inesistenza, si chiede se in fondo non sia proprio questo l'amore: una richiesta di salvezza. Da se stesso. Da ciò che era e da ciò che sarebbe senza di lei


La grazia del demolitore mi è piaciuto tantissimo. Ho riso tanto (i personaggi di Massimiliano, che proprio non ce la fa a non essere dipendente da qualcosa, e di Geronimo con la sua cintura sono fenomenali) e mi sono anche commossa, proprio come mi era successo con i primi tre romanzi.
E quindi sì, Fabio Bartolomei è tornato e lo ha fatto davvero in grande stile. Un libro consigliatissimo.


Titolo: La grazia del demolitore
Autore: Fabio Bartolomei
Pagine: 277
Anno di pubblicazione: 2016
Editore: e/o
ISBN: 978-8866327905
Prezzo di copertina: 18 €
Acquista su Amazon:
formato brossura: La grazia del demolitore
formato ebook: La grazia del demolitore

mercoledì 23 marzo 2016

Incontrando... Jonathan Coe alla Scuola Holden di Torino

Ieri nel tardo pomeriggio sono andata a Torino alla Scuola Holden per assistere alla presentazione del nuovo romanzo di Jonathan Coe, Numero Undici, appena uscito per Feltrinelli.
Devo dir la verità, inizialmente non ci volevo andare. Un po’ per pigrizia, un po’ perché “cavolo, devo farmi 40 km in auto da sola ad andare e altrettanti a tornare, e poi è in una zona di Torino che non conosco”, un po’ perché “ma mica ci posso andare da sola”. Poi però ho iniziato a leggere il libro, sabato sera.  Ho iniziato a pensare “quasi quasi”, poi qualcuno mi ha detto che se ci sono i Metallica in zona si devono andare a sentire a prescindere dai km da percorrere (ok, io personalmente i Metallica non so se andrei mai a sentirli, però era per dire…), poi qualcun altro mi ha detto “se non ci vai, sei scema, visto come stai divorando quel romanzo” e, infine, una mia amica mi ha detto che se fossi andata lei sarebbe venuta molto volentieri (grazie Barbara!)… e quindi, insomma, eccomi qui a parlarvi dell’incontro. 


Non ero mai stata alla Scuola Holden prima di ieri, né nella sua sede vecchia né in questa maestosissima sede nuova, in piazza Borgo Dora. Una zona di Torino che, almeno all’apparenza, non è tanto bella, diciamo la verità. Sono scesa dall’auto e in tre mi hanno chiesto dei soldi e uno è andato a fare pipì contro a un cassonetto vicino a dove avevo parcheggiato. 
Poi però ho varcato la porta della Scuola e sono entrata in un altro mondo. Bello il cortile interno, bella la sala dove si è tenuta la presentazione e bella  e molto intellettuale l’aria che si respirava.
Mi sono seduta in seconda fila, tenendo il posto occupato per la mia amica (aaaah i mezzi pubblici torinesi), e subito sono stata abbordata da due buffe signore sedute accanto a me che hanno iniziato a raccontarmi che fanno parte di un gruppo di lettura e che, al termine di ogni libro letto, invitano l’autore a parlare e l’autore solitamente ci va (non so se fossero lì per invitare Coe o per cazziarlo per non esserci andato).
Poi, finalmente (in realtà era puntualissimo), è arrivato Jonathan Coe. 



Durante la presentazione si è parlato principalmente solo dell’ultimo romanzo, Numero Undici appunto. Romanzo che ho terminato ieri in pausa pranzo e di cui vi parlerò nei prossimi giorni. Si è parlato della sua struttura, di questo ricorrere del numero undici che, insieme ad altri elementi, unisce un po’ il tutto (questo è il suo undicesimo romanzo, tra le altre cose), del ritornare di La famiglia Winsham, suo primo romanzo pubblicato in Italia nel 1995, e di come inizialmente lui non avesse pensato a un vero e proprio sequel, ma che poi la scrittura e le intenzioni, ovvero di fare una satira politica e sociale del Regno Unito di oggi, lo abbia riportato in qualche modo lì, a quella famiglia e a quei personaggi. 
Si è parlato di scrittura, ovviamente, e di come la scuola Holden abbia svolto in passato un certo ruolo nella sua scelta di dedicare un intero capitolo del libro a dei personaggi adolescenti (qualche anno fa era stato invitato dalla scuola a tenere una sorta di corso di riscrittura, in cui si doveva prendere una storia per ragazzi classica e trasformarla con un linguaggio moderno… lui aveva scelto I viaggi di Gulliver, uno dei suoi libri preferiti in assoluto), ma anche di serie TV (lui è un fan sfegatato di Downtown Abbey), di ossessioni personali (tema ricorrente nei suoi libri: c’è in Numero Undici, c’era in La famiglia Winsham e c’è in Coe stesso) e del ruolo dei social media nella società moderna («sono utili in alcuni casi, tipo oggi che ho seguito i terribili fatti di Bruxelles tramite twitter, ma sono anche in parte responsabili della perdita di empatia tipica della società moderna»).
Alla fine sì, si è parlato del libro ma a partire da quello e dalle sue tematiche si è parlato anche di tutt’altro. 
E io ho apprezzato tantissimo il suo modo di parlare e il suo fantastico accento inglese, ma anche il suo sense of humor, molto garbato (se non fosse stato per le due buffe signore citate prima che, sentendoci ridere già in lingua originale, ci chiedevano in continuazione di tradurre prima dell’interprete, così potevano ridere prima degli altri anche loro… no, signore, mi spiace, aspettate l’interprete) e il suo prendersi in giro. 

Poi, è arrivato il momento della dedica. 
Allora, io dal vivo sono una persona timidissima con gli sconosciuti. Figuriamoci con uno sconosciuto che parla inglese e che è, tra le altre cose, uno dei miei scrittori preferiti (lo sono anche in italiano con quelli che mi piacciono meno, comunque). Però poi mi sono trovata lì davanti e ho pensato “ma sì, chi se ne frega, io provo a parlargli, alla peggio mi prende per una fan invasata”. Gli ho detto che avevo terminato il libro quel pomeriggio, lui mi ha chiesto se una parte in particolare mi era piaciuta, io gli ho risposto che all'inizio era un po’ strana ma poi quando ho capito sì, lui mi ha detto che era l’effetto che voleva e poi constatato che leggo in fretta. E poi è successo più o meno questo:



«Beh sì, sono una lettrice allenata, perché ho un blog di recensioni e, per quanto possibile, mi piace aggiornarlo di frequente». 
«Davvero hai un blog? E mi segui su twitter?».
«Sì, lei ogni tanto mi mette anche i cuori».
«Ma dai, davvero! Come si chiama?».
«La lettrice rampante».
«Non ho presente al momento, scusami… ma la recensione del mio libro l’hai già scritta?».
«Ci mancherebbe!No, non ancora, l’ho finito oggi e penso la scriverò nei prossimi giorni».
«Dai, bello! Allora mettila in un posto in cui io la possa vedere, che sono curioso».

E alla fine stavo per svenire, ecco.
Poi magari se ne dimenticherà e non la leggerà (non oso immaginare in quanti lo tagghino da tutto il mondo), o ci proverà e non ci capirà niente perché la scriverò in italiano, o boh, qualunque altra cosa. Però chissene frega in realtà…  aver chiacchierato cinque minuti con Jonathan Coe e avergli detto che ho un blog per me è già stato un grandissimo traguardo.

Grazie quindi a chi mi ha convinto ad andarci, a Barbara per la compagnia, le foto e la birra e a Jonathan Coe per essere l'adorabile scrittore che è.

(La recensione di Numero Undici arriverà nei prossimi giorni, poi vi assicuro che dopo quella, fino al prossimo romanzo, questa fase da fan sfegatata e invasata si placherà. Portate pazienza ancora un po’).

martedì 10 novembre 2015

BUCHI NELLA SABBIA - Marco Malvaldi

Il fatto è che l'opera, già di per sé, è una situazione artificiosa, che si regge in piedi per miracolo, e che richiede a noi fanatici del bel canto una dose smisurata di capacità di astrazione. Non è facile commuoversi per un baritono che, una volta ricevuta una coltellata nel petto, intona una romanza a tutta gargana invece di stramazzare sul palco, come farebbe qualsiasi persona beneducata qualora venisse pugnalata nelle reni. E ci vuole una robusta dose di concentrazione sulla musica per non mettersi a ridere di fronte a un tenore settantenne che sta facendo il giovanottino innamorato, decantando la bellezza di un mezzosoprano largo quanto due contrabbassi.


Comincio già con la foto a mettere le mani avanti per farvi capire che questa sarà tutto fuorché una recensione imparziale. È che io adoro Marco Malvaldi, se ancora non si fosse capito dal fatto che ho tutti i suoi libri, dai post di attesa per Buchi nella sabbia che ho condiviso nei giorni precedenti all’uscita o dal fatto che ogni volta che c’è una sua presentazione nei paraggi io mi ci fiondi senza pensarci troppo, sebbene ormai l’abbia visto più e più volte.
Lo adoro, dicevo. Adoro la sua ironia, adoro il suo saper giocare così tanto con le parole, il suo sapere tante, tantissime cose e raccontartele come se foste seduti al bar a parlare del nulla. E poi sì, beh, certo, adoro i suoi romanzi. Soprattutto quelli come Odore di chiuso e, appunto, Buchi nella sabbia. Dei gialli storici, in cui la trama gialla è quasi in più, talmente tante e talmente belle sono le cose che racconta dei vari contesti in cui decide di ambientarli.

Buchi nella sabbia è ambientato a inizio del ‘900 e a Pisa, terra di anarchici, sta per andare in scena la Tosca di Giacomo Puccini, alla presenza del re Vittorio Emanuele III. Il rischio di attentato è alto, così come lo sono le misure di sicurezza. Ma mai nessuno avrebbe potuto pensare che a morire sarebbe stato qualcuno sul palco, fucilato per davvero anziché a salve. Ad indagare sull'omicidio e, per forza di cose, sui personaggi in scena ci sono il carabiniere Gianfilippo Pellerey e il suo diretto superiore Ulrico Dalmasso. Si tratta di una resa dei conti tra attori o di un piano di rivolta anarchica di fronte al re? Ma soprattutto, chi è che ha  permesso a Ernesto Ragazzoni, giornalista e poeta, nonché grande etilista, di prendere parte alle indagini? 

Marco Malvaldi quindi questa volta ci porta all'opera a vedere la Tosca e ci presenta il poeta Ernesto Ragazzoni, forse dai più un po’ dimenticato (io stessa, ammetto, non avevo idea di chi fosse), un poeta popolare, in grado di scrivere componimenti in rima sulle cose più semplici e banali.
Come si diceva in precedenza, in Buchi nella sabbia la trama gialla è quasi superflua, forse a tratti anche un tantino superficiale, ma sono talmente tante, e buffissime, le curiosità sul mondo dell’opera che Malvaldi offre ai lettori e, soprattutto, è talmente bello l’uso che fa dello stile e delle parole, che quasi non importa chi ha ucciso chi e perché. 

Credo però che questo, pur essendo un giallo dalla trama tutto sommato semplice, non sia un libro proprio per tutti, proprio come non lo era Odore di chiuso. Malvaldi approfitta del contesto storico per far vedere quanto è bravo con le parole e i costrutti delle frasi, mettendo un’ironia a volte sottile e non sempre facile da cogliere. Alcune frasi le ho dovute leggere un paio di volte, per essere sicura. Poi, però, una volta capite è stato di nuovo e ancor di più amore. Se cercate un libro scorrevole da leggere senza pensare troppo, meglio che vi buttiate sui romanzi del BarLume, più immediati, meno ricercati. 

Invece, non è fondamentale che conosciate l’opera (io ne ho viste cinque in tutta la mia vita, tra cui la Tosca, e, a parte il Nabucco di Verdi in cui credo di aver dormito per tutta la sua durata, mi hanno divertito un sacco… sarò strana, ma a me vedere uno che mentre muore canta “sto morendo” mi fa tanto ridere), per poter leggere questo libro. Anzi, Malvaldi inserisce talmente tanti aneddoti divertenti (sì, Puccini diceva le parolacce) e talmente tanti intrighi che alla fine avrete quasi voglia di andarci anche se non vi è mai passato per la mente.

Quindi sì, Buchi nella sabbia mi è piaciuto sacco. Per l’ambientazione, sicuramente, e per la possibilità che mi ha dato di scoprire Ernesto Ragazzoni.
Forse non sono imparziale, ma questo libro è assolutamente da leggere.

Titolo: Buchi nella sabbia
Autore: Marco Malvaldi
Pagine: 245
Anno di pubblicazione: 2015
Editore: Sellerio
Acquista su Amazon:
formato brossura: Buchi nella sabbia
formato ebook: Buchi nella sabbia

mercoledì 15 luglio 2015

Due titoli, un solo libro: ma perché? Speciale Harper Lee

Torna in via del tutto eccezionale la rubrica Due titoli, un solo libro: ma perché. Ve la ricordate, vero? Quella rubrica in cui viene fatto un confronto tra il titolo originale di un romanzo e la sua “traduzione” (le virgolette sono d’obbligo) nella nostra lingua. In realtà non ho mai smesso di controllare i titoli, dei libri che ho in casa o di soppiatto, in libreria, semplicemente mi ero resa conto che forse stava diventando un po’ troppo ripetitiva.

Ma oggi torna, vi dicevo, per rendere omaggio all'autrice di uno dei libri che più di tutti hanno subito un cambiamento drastico nel passaggio all'italiano. Un cambiamento drastico, ma più che motivato.
Immagino abbiate già capito di chi sto parlando. Dopo un’attesa di più di cinquantanni, è uscito infatti ieri negli Stati Uniti, pubblicato da HarperCollins Go set a watchman di Harper Lee, l’autrice di To kill a mockingbird, il nostro Il buio oltre la siepe. Un evento talmente tanto atteso che in alcuni paesi americani, tra cui quello di origine di Harper Lee, sono state organizzate delle vere e proprie veglie in attesa della mezzanotte (come succedeva con Harry Potter, ma lì erano ragazzini). 


Se avete letto un po’ di anticipazioni, già sapete che questo nuovo romanzo è una sorta di sequel di Il buio oltre la siepe, anche se è stato in realtà scritto prima. (E se avete letto un po’ di gossip, sapete anche che c’è stata una lunga diatriba su se sia stata davvero Harper Lee, ormai un’anziana signora con diversi problemi di salute, a decidere di pubblicare il libro o se le abbiano fatto firmare un foglio più o meno consapevolmente).

Il buio oltre la siepe è un libro, secondo me, bellissimo. Uno di quei libri imprescindibili (sì, lo so, molti lettori storcono un po’ il naso di fronte al concetto di “libri imprescindibili”, ché nessuno deve dirgli cosa devono leggere, etc, etc… però, ecco, credo che per una formazione e una cultura di base come lettore Il buio oltre la siepe sia fondamentale, e da questa posizione non ho alcuna intenzione di smuovermi), che tutti i lettori appassionati almeno una volta nella loro vita dovrebbero leggere.

E, per quanto sia io preferisca sempre le traduzioni dei titoli originali, il cambiamento da To kill a mocking bird a Il buio oltre la siepe mi ha sempre convinta (per maggiori informazioni vi rimando al post in cui ne avevo parlato).

Ero quindi molto curiosa di sapere che cosa sarebbe successo al titolo di questo secondo romanzo. Avrebbero cercato di tradurre letteralmente? Avrebbero cambiato con qualcosa di altrettanto evocativo come è successo con il primo? Avrebbero cambiato drasticamente e senza alcuna logica?
Anche se il libro in Italia uscirà a novembre, con la traduzione di Vincenzo Mantovani, si sa già che l’editore italiano, sempre Feltrinelli, ha optato questa volta per la traduzione letterale dell’originale. Quindi, Go set a watchman in italiano diventa Va’, metti una sentinella.



Sicuramente il titolo, oltre a essere appunto quello originale, ha un suo senso una volta letto il libro. Quindi è difficile parlarne in anticipo. La prima impressione però è quella di una frase e un'immagine un po' strana, di cui personalmente fatico a comprendere il significato senza avere un contesto.

Voi che ne pensate?

domenica 11 gennaio 2015

FUNNY GIRL - Nick Hornby

Ogni volta che arriva in libreria un nuovo romanzo di Nick Hornby, vengo assalita da un misto di aspettativa e di ansia. L'aspettativa è dovuta al fatto che Nick Hornby è uno dei miei scrittori preferiti. O almeno lo è stato, in passato, con i suoi primi romanzi: Un ragazzo, Come diventare buoni, Alta fedeltà. Libri che ho letto parecchi anni fa, quasi uno in fila all'altro, perché quando scopro un autore che mi piace non riesco più a fare a meno di lui, e che ancora oggi sono tra quelli che consiglio di più quando mi viene chiesta una lettura divertente e allo stesso tempo intelligente. 
All'aspettativa, però, si aggiunge anche l'ansia. E chi è un amante di questo autore inglese non alcun bisogno che spieghi perché. È che a un certo punto Hornby ha iniziato a cambiare. A partire da Tutto per una ragazza e, soprattutto, da Tutta un'altra musica. In questo due romanzi manca la verve dei primi e un alone malinconico ricopre un po' tutta la scrittura. A queste due piccole delusioni, sono poi seguite quelle legate ai suoi racconti, che forse sono da attribuire più alla terribile scelta editoriale di Guanda di pubblicarli sempre come libri a se stanti (a 10€ l'uno circa, per intenderci) e, come conseguenza, di prendere sempre in giro il lettore affezionato.

Anche l'uscita di Funny girl mi ha provocato questi stessi sentimenti. Pensieri come "Hey, è un nuovo romanzo di Hornby!" si alternavano ad altri tipo "Oddio, speriamo non sia come gli ultimi due". La curiosità e l'affetto incondizionato per questo autore mi hanno comunque fatto decidere di leggerlo. Con la dovuta preparazione, con la consapevolezza che forse sarebbe stata una delusione, non potevo non leggerlo.

La prima cosa che voglio dire di Funny girl è che si tratta di un bel romanzo. Non alla Hornby, o almeno non a quelli a cui Hornby ci aveva abituato in passato. Ma un bel romanzo. Scorrevole, divertente e molto piacevole da leggere.
Barbara è una ragazza di provincia con un unico, grande sogno: diventare un'attrice comica. Per farlo, rinuncia al titolo di Miss Blackpool e parte per Londra. Qui cambia nome, da Barbara  a Sophia, si trova un agente e si lancia, sicura che prima o poi riuscirà a sfondare. Ed effettivamente ci riesce, diventando la protagonista di una serie tv della BBC, Barbara (e Jim), che la porterà alla fama e al successo. Il romanzo racconta della nascita di questa serie, dei rapporti tra Barbara/Sophie e gli altri membri della produzione di Barbara (e Jim): il co-protagonista Clive, uomo affascinante e con il passatempo di andare a letto con il maggior numero possibile di attrici; il produttore Dennis, un uomo tranquillo e pacato con una difficile situazione famigliare; gli autori Bill e Tony, coppia quasi quanto quella che mettono sullo schermo.

Il lettore segue Barbara in ogni momento, dagli esordi come Miss al successo della sua situation comedy, dal suoi interagire con i fan e con gli altri membri del cast, al suo, inevitabile, declino finale. E seguendo Barbara e i suoi compagni, il lettore ha un ritratto fedele della Londra degli anni '60 e '70, quando era ancora inconcepibile parlare di divorzio, di figli fuori dal matrimonio, di omosessualità e di donne più impegnate degli uomini.

Il romanzo è molto pacato, molto inglese. Una definizione forse non semplice da comprendere, ma che sono sicura coglierete anche voi se leggerete il libro. E Hornby, seppur diverso da ciò a cui ci aveva abituato, è stato davvero bravo nello scrivere questa storia. Confermo l'idea che già mi ero fatta con i romanzi precedenti, ovvero che Nick sta invecchiando. Eppure, questa volta, non ho percepito questo invecchiamento in senso negativo. Anzi. Credo si stia ridimensionando, che si sia reso conto anche lui che le storie come quella di Un ragazzo non gli riescano più, non siano più ciò che vuole scrivere.
E se i romanzi come Funny girl saranno la sua nuova strada, beh, credo proprio che sarà altrettanto luminosa.
PS: nel caso non riusciate proprio a superare il fatto che Hornby non è più quello di un tempo, vi consiglio di leggere ugualmente questo libro, magari coprendo il nome sulla copertina. Secondo me, ne vale davvero la pena.

Titolo: Funny girl
Autore: Nick Hornby
Traduttore: Silvia Piraccini
Pagine: 373
Editore: Guanda
Anno: 2014
Acquista su Amazon:
formato brossura: Funny girl

martedì 15 luglio 2014

IL NERO E L'ARGENTO - Paolo Giordano

E' cresciuto, Paolo Giordano. E mi verrebbe anche quasi da aggiunger un bel "per fortuna", perché ho sempre considerato La solitudine dei numeri primi, suo romanzo d'esordio e vincitore del Premio Strega, un romanzo leggibile ma anche abbastanza sopravvalutato. Al punto che dal secondo romanzo dell'autore mi sono tenuta ben lontana. E probabilmente non avrei letto nemmeno Il nero e l'argento se non mi fosse capitato quasi casualmente tra le mani. 

La primissima cosa che si nota, ancor prima di iniziare a leggere, è il cambio d'editore (o meglio, di marchio, che il gruppo editoriale è sempre lo stesso). Un cambio che secondo me giova all'autore, non fosse altro per l'elegante copertina con cui questo suo nuovo romanzo è arrivato alle stampe.
Poi, appena si apre il libro, si iniziano a percepire tutti gli altri cambiamenti. Una prosa più matura, meno intricata, più pulita e diretta. E una storia senza troppi fronzoli, fatta di affetto, di amicizia, di dolore, di paura, di morte e d'amore. 

Protagonisti sono il narratore (forse lo stesso Paolo Giordano?), la moglie Nora e la signora A., arrivata in casa come colf e signora delle pulizie e ben presto trasformatasi in ago della bilancia dell'equilibrio dell'intera famiglia. E' stata lei a tener compagnia  a Nora quando era costretta a letto a causa di una gravidanza difficile. E' stata lei a prendersi cura del narratore quando la moglie era via per lavoro. E' stato verso di lei che il bambino ha mosso i suoi primi passi. Ed è lei che adesso si ammala di tumore, gettando la famiglia nello sconforto più totale: per la paura e la sofferenza di perdere una persona cara, ma anche per la paura di non poter più riuscire ad affrontare gli equilibri familiari senza di lei.

La signora A. era la sola vera testimone dell'impresa che compivamo giorno dopo giorno, la sola testimone del legame che ci univa. Senza il suo sguardo ci sentivamo in pericolo
Durante il libro il lettore segue l'evolversi della malattia della donna e di pari passo le reazioni di Nora e di tutti i personaggi coinvolti. Scopriamo quanto forte è stato l'amore che la signora A ha provato per il marito perso anni fa e quanto debole possa sembrare quello di una giovane coppia di fronte alle prime grandi difficoltà.
Avrei voluto forse qualche pagina in più, devo essere sincera. Non perché la trama non risulti completa, ma perché si viene talmente coinvolti e travolti dalla lettura e dalla storia che si vorrebbe non finisse mai. 

Proprio non mi aspetto un romanzo così da Paolo Giordano. Dopo che, nonostante siano passati cinque anni o sei anni da quando ho letto La solitudine dei numeri primi, ancora non riesco a decidere se mi sia piaciuto o meno (e mi ricordi perfettamente ogni dubbio e ogni perplessità che mi aveva lasciato), non mi aspettavo tale prova di maturità. Tale capacità di usare le parole, di portare il lettore dentro una storia che, pensandoci bene, non è poi così originale, anzi è semplice, banale, di quelle che potrebbero capitare un po' a tutti. Non tutti però saprebbero raccontarla così.
Insomma, una lettura che merita.

Titolo: Il nero e l'argento
Autore: Paolo Giordano
Pagine: 118
Anno di pubblicazione: 2014
Editore: Einaudi
ISBN: 978-8806221614
Prezzo di copertina: 15 €
Acquista su amazon:
formato brossura: Il nero e l'argento

venerdì 11 luglio 2014

UNA MUTEVOLE VERITA' - Gianrico Carofiglio

Come si fa a recensire un romanzo giallo-poliziesco di 120 pagine senza fare spoiler?  
E' semplice! E' sufficiente che nel libro in questione non ci sia niente da spoilerare! Inizi a leggerlo e, dopo le prime trenta pagine,  anche se sei un lettore completamente privo di intuito, riuscirai già a capire cosa succederà. Lo so cosa state pensando, che non esistono libri così, che non avrebbe senso pubblicarli e men che meno leggerli. Io anche lo credevo. Finché non mi è arrivato tra le mani questo nuovo romanzo (o racconto lungo, o quel che è) di Gianrico Carofiglio. 
Una delusione dietro l'altra, mi sta dando questo autore. E pensare, caro Gianrico, che io ancora vado in giro a consigliare i tuoi romanzi della serie con l'avvocato Guido Guerrieri, quel grande personaggio, che ti ha dato fama e meriti, e che mi ha convinta a leggere qualsiasi cosa tu pubblicassi.
Certo, non ho tenuto conto che ti facessero pubblicare qualunque cosa, basta che sia scritta un po' bene (e che Carofiglio sappia scrivere non lo metterò mai in dubbio).

E quindi sì, devo davvero recensire un romanzo giallo-poliziesco di 120 pagine senza fare spoiler. Impresa ardua. Perché anche se vi dicessi che non succede assolutamente niente, che non c'è nulla da scoprire e che nessun intuito è richiesto, farei spoiler.
Probabilmente Gianrico Carofiglio non aveva voglia di far fare ai suoi lettori alcuno sforzo, quando ha scritto Una mutevole verità. E nemmeno ai suoi investigatori, il maresciallo Fenoglio, annunciato come un grande nuovo personaggio all'altezza di Guerrieri e che invece risulta essere un po' una macchietta di investigatori più celebri (i siparietti con la moglie mi han fatto pensare al tenente Colombo... ), e la sua allegra combriccola di poliziotti più o meno violenti, che si ritrovano a indagare sul caso di Sabino Freddosio, trovato morto con un taglio alla gola nel suo appartamento. 
Fenoglio indaga, Fenoglio riflette, cita scrittori e suoi maestri di vita, battibecca con la moglie, mangia da solo panini al bar per pensare meglio e annusa odori di signore per la strada. E intanto l'indagine va avanti praticamente da sola e da sola arriva a una conclusione.

Non so davvero cosa pensare. Certo, si legge molto bene, è scorrevolissimo e ho apprezzato molto il cameo di un giovane avvocato Guerrieri alle prime armi. Forse è il momento più bello di tutto il libro. Però ecco, l'impressione che si ha, ancora una volta, proprio come era successo con La casa nel bosco, è che Carofiglio abbia dovuto scrivere un libro per contratto e abbia buttato giù la prima cosa che gli sia venuta in mente, senza pensarci troppo e confidando che il suo stile impeccabile (ma per chi ha letto tutti i suoi romanzi, come me, un pochino troppo prevedibile ormai) compensasse le carenze a livello di trama. Secondo me non ci è riuscito, però.

Ma perché continuo a leggere i suoi romanzi, considerando quante delusioni mi hanno provato ultimamente, vi starete domandando voi (e io stessa me lo domando, eh). Forse perché sono ancora follemente innamorata di Guido Guerrieri, delle sue storie e dell'entusiasmo che ogni romanzo che lo vede come protagonista mi ha fatto provare da sperare di ritrovarle ogni volta. E infatti già lo so che leggerò anche il prossimo, e quello dopo, e quello dopo ancora. 
Però ecco, credo che Carofiglio ai suoi lettori debba qualcosa di più rispetto a questi ultimi libretti che manda in stampa. Di molto, molto di più.

Titolo: Una mutevole verità
Autore: Gianrico Carofiglio
Pagine: 118
Anno di pubblicazione: 2014
Editore: Einaudi
ISBN: 978-8806220525
Prezzo di copertina: 12 €
Acquista su amazon:
formato brossura: Una mutevole verità

giovedì 10 luglio 2014

VOLI ACROBATICI E PATTINI A ROTELLE - Fannie Flagg

Quanto mi era mancata Fannie Flagg. E' una scrittrice che adoro, di cui ho letto tutti i romanzi e che non mi stancherei mai di leggere, rileggere e consigliare. 
Mi era mancata tanto, vi dicevo, sebbene il suo ultimo romanzo, Miss Alabama e la casa dei sogni, sia solo di tre anni fa. Non mi era piaciuto molto, se devo essere onesta, non perché fosse particolarmente brutto ma perché nei confronti di questa scrittrice ho aspettative alte, altissime che non me l'hanno fatto apprezzare come avrei voluto.
All'inizio non mi ero nemmeno accorta fosse uscito questo nuovo romanzo, Voli acrobatici e pattini a rotelle. Ma tempo una settimana da quando l'ho scoperto è finito nella mia libreria e poi in lettura. Mi ha tenuto compagnia in ogni ritaglio di tempo che ho avuto a disposizione negli ultimi tre giorni. E ho cercato di averne tanti, perché è uno di quei romanzi che non riesci mai a smettere di leggere.

La storia si divide in due momenti distinti ma, ovviamente, collegati tra loro. Nel presente seguiamo la vita di Sookie Poole di Point Clear,  che vive in Alabama, ha un marito adorabile, quattro figli, di cui tre sposatesi di recente, una passione per gli uccellini che popolano il suo prato, e, soprattutto, un'anziana madre, Lenore esibizionista, sicura di sé e molto, molto invadente. Una madre che l'ha cresciuta sottolineando ogni giorno l'importanza di essere all'altezza del cognome che porta: i Simmons sono sempre state persone importanti e nessuno in famiglia può essere da meno. Un giorno però Sookie riceve una lettera dalla figlia della ex governante di sua madre, morta di recente, a cui erano stati affidati dei documenti importanti. Sconvolgenti, per la vita di Sookie, che la riporteranno, e riporteranno il lettore indietro nel tempo, negli anni '40, a conoscere e incontrare la fenomenale Fritzi e tutta la sua famiglia di origine polacca, che ha aperto una pompa di benzina, la Wink's Phillips 66, in California, nel Midwest. Fritzi è una ragazza forte, che impara a pilotare aerei e insegna anche alle sue sorelle a farlo. Finché non scoppia la guerra e si ritroveranno prima a gestire la pompa di benzina, che ben presto diventerà la più famosa della zona, e poi ad arruolarsi nelle WASP (le Women Airforce Service Pilots) per dare il loro contributo al secondo conflitto mondiale.

Voli acrobatici e pattini a rotelle, nonostante il titolo un po' farlocco, è un libro bellissimo. Forse il migliore di Fannie Flagg dopo il celebre Pomodori Verdi Fritti al Caffè di Whistle Stop (che, credo che anche Fannie lo sappia, è inarrivabile). L'ho letto con entusiasmo, con passione, affezionandomi a tutte le protagoniste che popolano queste pagine. Protagoniste femminili, come succede quasi sempre nei romanzi di questa autrice, di una forza e un carattere incredibili. Adoro il modo in cui l'autrice le caratterizza, non nascondendo mai nulla, lasciando bene in vista ogni loro stranezza, ogni loro particolarità, senza mai giudicare nessuno (e devo ammettere che Lenore, per quanto alla lunga fastidiosa, è davvero fortissima!).
E adoro anche lo stile, di questa per me grandissima scrittrice, che riesce a raccontare anche le situazioni più complesse e difficili con la giusta dose di ironia e, soprattutto, di speranza.
Sono contenta di aver scoperto delle WASP, di cui non avevo mai nemmeno sentito parlare, e di averlo fatto tramite un romanzo che dà loro tutto il merito che spetta loro.

Insomma, credo che si sia capito che questo libro mi è piaciuto molto, che Fannie Flagg mi piace molto e che dovreste davvero leggere  questo ma anche tutti gli altri romanzi di questa bravissimi autrice.


Titolo: Voli acrobatici e pattini a rotelle
Autore: Fannie Flagg
Traduttore: R. Zuppet
Pagine: 393
Anno di pubblicazione: 2014
Editore: Rizzoli
ISBN: 978-8817075510
Prezzo di copertina: 18,50 €
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