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lunedì 29 luglio 2019

DOPO LE FIAMME - Fernando Aramburu

Camminando senza parlare, i due amici arrivarono davanti al portone di Zubillaga. Sulla facciata dell'edificio, la pittura ancora fresca, si poteva leggere: ZUBILLAGA SPIA, con il noto bersaglio sopra il nome. L'amico affrettò il passo come colto da una fretta improvvisa. Dopo pochi metri si girò e, con il volto alterato e i modi nervosi, sussurrò a Zubilaga: cancellalo prima che lo vedano i tuoi vicini. Cancellalo, accidenti, che con queste cose non si scherza.


Dopo le fiamme di Fernando Aramburu, da poco pubblicato da Guanda editore con la traduzione di Elisa Tramontin, è una raccolta di racconti che porta il lettore esattamente negli stessi luoghi, i Paesi Baschi, e nella stessa atmosfera, l’ETA e come viene vissuto tra la gente, di Patria, il grande romanzo di questo scrittore basco che nel 2018 ha vinto il Premio Strega Europeo.

Questa raccolta, in realtà, in Italia era già uscita nel 2007 per la casa editrice La nuova frontiera. Anche la traduzione era la stessa, cambiava però il titolo: in quella prima edizione, infatti, era stato mantenuto il titolo originale, nonché titolo del racconto in apertura, I pesci dell’amarezza.
Guanda lo ripubblica quindi dodici anni dopo, scegliendo questa volta come titolo dell’intera raccolta quello dell’ultimo racconto: Dopo le fiamme, appunto.

Un’informazione importante, questa. Perché, complice una fascetta volutamente generica (“Dopo Patria, ma ancora dentro Patria, il nuovo libro di un autore che è il grande caso editoriale di questi anni”) se non si sa che questi racconti sono stati scritti molto prima del romanzo si rischia di non apprezzarli come si meriterebbero.

I dieci racconti di Dopo le fiamme, infatti, sembrano una sorta di antipasto, di anticipazione di quel che Aramburu metterà poi dentro Patria, sviluppandolo all'ennesima potenza. Le tematiche sono le stesse, si diceva: siamo nei Paesi Baschi e l’ETA è nel pieno della sua attività. Manifestazioni, intimidazioni, attentati che colpiscono obiettivi precisi (chi non simpatizza per la causa basca) ma anche persone che passavano lì per caso, che ancora dovevano nascere, che volevano solo vivere tranquille e che invece ora si ritrovano segnati a vita.
Sono tutti racconti molto belli, perché Aramburu è bravissimo a raccontare la quotidianità, le reazioni estremamente umane, la paura, la rassegnazione, gli amici che diventano nemici perché non vedono alternative, ma anche la voglia di non arrendersi. È bravo a raccontare il clima, da un lato e dall'altro, che si respirava nelle vie, nelle piazze, nei quartieri ma anche all'interno di ogni singola famiglia.

Tra questi dieci racconti i miei preferiti in assoluto sono tre. Il primo è I pesci dell’amarezza, proprio in apertura. Qui conosciamo una figlia, “i giornali l’avrebbero descritta come una donna di ventinove anni che passava casualmente per il luogo dell’esplosione”, attraverso gli occhi del padre che la va a prendere in ospedale dove è stata ricoverata a lungo e che ora deve imparare a vivere senza l’uso di una gamba. Riprendere a vivere è molto difficile, triste. Affrontare il dolore di una figlia altrettanto difficile, triste. Ma in qualche modo ce la si deve fare, magari fermandosi a guardare il mare o diventando amici di un pesce in un acquario.
Il secondo è Relazione da Creta, in cui una donna racconta la sua storia con Santi, attraverso un diario che scrive per la psicologa mentre è in viaggio di nozze. Santi è un uomo strano, molto timido, che si ferma sempre un po’ di più al lavoro e che odia andare al cinema. Con lei a poco a poco sembra aprirsi e, grazie anche all’incontro con la madre, lei capisce che c’è un trauma, una ferita profonda dietro ai suoi comportamenti bislacchi. Decide quindi di aiutarlo, di tentare di tirarlo fuori da quell’abisso in cui da tanti anni è caduto: da quando hanno ammazzato suo padre.

Il terzo è Il figlio di tutti i morti ed è la storia di Iñigo, un figlio cresciuto senza padre. Un giorno, dopo aver assistito alla finestra a una manifestazione pro Euskera, il nonno gli racconta la verità, gli racconta di essere uno dei tanti bambini cresciuti senza padre per decisione di qualcun altro.
La madre si alzò dal letto, svestì il figlio e lo aiutò a mettersi il pigiama. Iñigo la lasciava fare. Una volta messo a letto, sua madre gli rimboccò le coperte e, al momento di augurargli la buonanotte, spostandogli la frangetta, gli diede due baci sulla fronte.
«Uno, due» sussurrò come al solito.
«Senti, ama, perché mi dai sempre due baci e li conti?»
«Uno è mio, l'altro è di chi non ti ha mai potuto baciare.»

Questi sono i miei tre preferiti, ma in tutti e dieci Fernando Aramburu riesce a trasmettere qualcosa di forte, di potente, che racconta di una società e un periodo storico di cui noi forse, qui a distanza, abbiamo saputo e compreso troppo poco.
Se avete amato Patria, ma anche quell'altra meraviglia che è Anni lenti, amerete tantissimo anche Dopo le fiamme. Vi ritroverete negli stessi luoghi, nelle stesse atmosfere, nella stessa impotenza e nello stesso dolore.  

Tutti dovevano vederlo: il suo dolore imperterrito, il suo dolore alto come un lampione in mezzo alla strada. Lo dovevano vedere anche quelli incapaci di provare compassione, quelli che se ne rallegravano di nascosto o apertamente e quelli che in quell'istante lo stavano festeggiando come una vittoria. Toñi pensava che il suo dolore dovesse costringere anche quelli, specialmente quelli, a deviare un po' il percorso per non sbatterci contro.Mentre attraversava i portici di una vecchia piazza si fermò davanti a una vetrina. Nei propri occhi vide più rabbia che tristezza. Continuò ad andare dove la portavano i piedi. Senza prestare attenzione a niente e nessuno arrivò al frangiflutti del molo, dove si fermò a guardare le onde e il cielo grigio e i pescherecci che uscivano a pescare. Passò molto tempo a parlare da sola. Al ritorno, quando arrivò al primo semaforo, vide arrivare a velocità sostenuta una betoniera. «Mi butto?» si domandò. Ma aveva tre figli e bisognava vivere.

Titolo: Dopo le fiamme
Autore: Fernando Aramburu
Traduttore: Elisa Tramontin
Pagine: 251
Editore: Guanda
Anno: 2019
Prezzo: 17,00€
Acquista su Amazon:
formato cartaceo: Dopo le fiamme
formato ebook: Dopo le fiamme

domenica 14 ottobre 2018

RICOMINCIARE... in compagnia di Bill Bryson

Come forse avrete notato, da qualche tempo qui sul blog sono un po’ latitante. Non pubblico niente dal 28 settembre e anche nei mesi precedenti i post sono stati molto risicati. I motivi sono tanti, più o meno importanti e più o meno validi, e altrettanto è il dispiacere per non riuscire più a trovare l’entusiasmo e la passione di un tempo nel mettermi qui a parlare di libri.

©Allissa Chan
Il primo motivo è sicuramente il lavoro. Gli ultimi mesi, fortunatamente, sono stati piuttosto pieni: due grosse traduzioni, una marea di schede di lettura per i vari editori con cui collaboro, qualche editing... e, insomma, non credo sia poi così difficile capire perché, nel tempo libero, la voglia di mettermi a leggere e a scrivere di libri scarseggiasse un po’.

Poi c’è inevitabilmente anche un po’ di stanchezza. La lettrice rampante sta per compiere nove anni (il primo post è del 24 ottobre 2009) e nel mondo dei blog sono davvero tanti. Molte, moltissime cose sono cambiate da allora nel modo di parlare di libri in rete. Intanto, i blog sono aumentati in modo esponenziale e poi, a poco a poco, sono di nuovo diminuiti. Altri mezzi di comunicazione (Facebook prima, Youtube e Instagram adesso) hanno preso il sopravvento, rendendo siti come il mio forse un po’ obsoleti e meno immediati e fruibili, più per gli irriducibili romantici (o per logorroici come me, che proprio non riescono a parlare di un libro tramite una semplice foto o una stories di trenta secondi). Inoltre, i blog e i blogger sono spesso vittima di attacchi più o meno giustificati da più fronti (altri giornalisti, scrittori, etc etc...) che a lungo andare fanno passare un po’ la voglia: “i blogger sono al soldo degli editori”, “tutti i blogger fanno marchette”, “i blogger non fanno mai stroncature per non perdere i favori di chi gli manda i libri, “i blogger copiano semplicemente le quarte di copertina e non leggono davvero i libri”, "i blogger sono brutti e non ci considerano", “e allora i blogger?” (scusate, questa non c’entra, ma non ho resistito), e così via...  credo sia abbastanza facile capire quanto fastidioso possa essere ritrovarsi inclusi in queste generalizzazioni quando non se ne ha mai fatto parte. In linea di massima, passata l’incazzatura iniziale nel leggere costantemente queste cose, me ne sono sempre fregata e ho continuato per la mia strada (e come me, moltissimi altri blogger che le marchette non le fanno), ma sicuramente mi ha dato di che riflettere.

E poi be’, il motivo più grande che sta condizionando tutta la mia vita negli ultimi mesi, e quindi inevitabilmente anche la voglia di sedermi a un pc e scrivere, è che sto ancora cercando di capire come riprendermi da un duro colpo emotivo, che mi ha completamente svuotata. A giugno è improvvisamente mancata mia madre. Nonostante siano passati quasi quattro mesi, dirlo e scriverlo mi riesce ancora parecchio difficile. Forse perché non ho ancora realizzato del tutto. Forse perché l’ho realizzato fin troppo e ce l’ho così costantemente in testa in ogni secondo della mia giornata che almeno ogni tanto vorrei provare a non pensarci (a non pensare che a trentatré anni non ho più i genitori, a non pensare a tutta la sfiga che ha colpito la mia famiglia e alla spada di Damocle che sembra pendere su noi figli rimasti, a non pensare a tutto quello che abbiamo fatto e non faremo più e a quello che non abbiamo avuto il tempo di fare). E un po' anche perché per carattere non sono solita parlare pubblicamente delle mie emozioni, anche perché so che tutti hanno le proprie tragedie più o meno grandi da affrontare.

Insomma, i motivi della mia incostanza sono diversi e, tutti insieme, negli ultimi tempi mi hanno portato spesso a riflettere se abbia ancora senso continuare. È vero che il blog non è un obbligo, che non ho scadenze, che è una cosa che faccio per passione e quindi se pubblico due post a settimana o uno al mese non cambia di nulla, ma vederlo così abbandonato a se stesso mi dispiace molto. Ma dispiacerebbe anche scrivere post solo per non lasciarlo vuoto, senza l’entusiasmo e la cura che ci ho messo negli anni (si vede, secondo me, quando si scrive tanto per farlo, e mi ha sempre messo una certa tristezza.
Al netto di tutte le riflessioni, però, non credo che riuscirei a stare senza La lettrice rampante. È una parte di me. È una parte che mi ha accompagnata per tanti anni, che mi ha dato grandi soddisfazioni, che mi ha permesso di esprimermi per iscritto dove dal vivo per timidezza non sono mai riuscita ad arrivare. Mi fa fatto trovare diversi lavori e mi ha fatto conoscere un sacco di persone, vicine e lontane, che probabilmente non avrei mai conosciuto e con cui si è creato un bel legame.
Quindi no, non sono ancora pronta ad abbandonare questo blog al suo destino. E anche se non credo ce ne sia bisogno vi chiedo pazienza (non credo ce ne sia bisogno, perché immagino che voi non stiate lì a chiedervi ogni giorno “sì, ma quando esce un nuovo post della lettrice rampante? Che cavolo!”) e io proverò a far tornare questo blog un po’ più attivo, per parlare e sproloquiare di nuovo di libri per voi e soprattutto con voi.

E per non far sembrare questo post come un mero elenco di lamentele e piagnistei, ricomincio subito, consigliandovi un libro che mi ha tenuto compagnia nelle ultime settimane, di un autore a cui ricorro spesso quando ho il blocco del lettore e mi sembra di non aver voglia di leggere niente: Notizie da un grande paese di Bill Bryson.


Il libro, pubblicato in Italia da Guanda nel 2017 con la traduzione di Isabella C. Blum, raccoglie gli articoli che il buon vecchio troll Bill ha scritto sul supplemento Night & Day del giornale Mail on Sunday, tra l’ottobre del 1996 e il maggio del 1998. 
Sono brevi articoli di costume sulla vita e la società americana, viste da un uomo che ritorna nel suo paese dopo aver vissuto per anni all'estero. Bill (lo chiamo per nome perché in qualche modo lo considero un amico) si ritrova quindi ad affrontare tutte le differenze tra USA e Regno Unito, ma anche una serie di stranezze, peculiarità e abitudini tipicamente americane, che lui spesso trova incomprensibili e che quindi lo fanno tanto ridere.

In Gran Bretagna, per esempio, la pubblicità di una capsula per il raffreddore prometteva soltanto di farvi sentire un po' meglio. Avrete ancora il naso rosso e ve ne starete ancora in vestaglia, ma tornerete a sorridere, benché mestamente.
In America, la pubblicità dello stesso prodotto garantiva un sollievo totale e istantaneo. Dopo aver assunto il miracoloso composto, l'americano non solo gettava la vestaglia e tornava immediatamente al lavoro, ma si sentiva meglio di come si sentisse da anni, e concludeva la sua giornata alla grande, in una sala da bowling.

Pur percependosi chiaramente che si tratta di articoli vecchi, ambientati in un'epoca diversa dalla nostra (vent'anni sembrano pochi, ma in realtà per l'evoluzione di una società non lo sono per nulla) questi articoli fanno tanto ridere anche il lettore, grazie soprattutto a fantastico spirito di osservazione dell'autore. 
E poi la copertina italiana è davvero stupenda. Quindi, leggete Bill Bryson!


Titolo: Notizie da un grande paese
Autore: Bill Bryson
Traduttore: Isabella C. Blum
Pagine: 361
Editore: Guanda
Prezzo di copertina: 19,00€
Acquista su Amazon:
formato cartaceo: Notizie da un grande paese
formato ebook: Notizie da un grande paese

venerdì 16 febbraio 2018

PATRIA - Fernando Aramburu

«E se avevi tutte queste preoccupazioni, perché non sei venuto prima?»
«Perché sapevo dov'eri e dove hai passato le ultime notti. Lo sa tutto il paese.»
«Cosa sanno di me?»
«Sanno che scendi dall'autobus alla fermata della zona industriale e che poi vai a casa cercando di non incrociare nessuno. Me l'ha raccontato in ospedale qualcuno che ti ha visto. Per questo non mi sono allarmato. E può darsi che Nerea abbia fatto diversi tentativi di parlare con te. Non ti chiederò che intenzioni hai. È il tuo paese, la tua casa. Ma in caso tu voglia far rivivere storie del passato, ti sarei grato se mi tenessi al corrente.»
«Sono cose mie.»
Xabier ripose i suoi strumenti e il campione di sangue nella valigetta.
«Io faccio parte di questa storia.»


La prima parola che mi viene in mente per descrivere Patria, l’ultimo romanzo di Fernando Aramburu pubblicato in Italia da Guanda con la traduzione di Bruno Arpaia, è: monumentale. Poi, pensandoci, mi rendo conto che non sarebbe la parola più giusta perché, insieme alla mole abbastanza consistente del libro, potrebbe in qualche modo spaventare i lettori, rischiando di tenerli lontani.
La seconda parola sarebbe "bellissimo", perché effettivamente lo è, ma anche in questo caso sarebbe un po’ riduttivo per descrivere appieno tutte le sensazioni che la lettura di questo libro mi ha suscitato. 
Mi ci sono avvicinata con curiosità, un po’ di tempo dopo la sua uscita, dopo averne sentito parlare sempre e solo con toni entusiastici. Non ho sentito nessun “è un’opera commerciale”, un “piace a tutti solo perché”… insomma, tutte quelle frasi che di solito arrivano di pari passo con quei libri che in molti considerano belli e che quindi bisogna per forza criticare. Patria di Aramburu è piaciuto a tutti quello che lo hanno letto. E non fatico minimamente a capirne il perché.

Il romanzo parla dell’ETA, l’ex organizzazione armata basco- nazionalista separatista dei Paesi Baschi che, dal 1959, anno in cui è stata creata, fino al 2011 lottava per l’indipendenza basca del resto della Spagna attraverso la lotta armata e gli attentati. E lo fa raccontando la storia di due famiglie, il cui destino è stato intrecciato per tutta la loro vita. Da una parte c’è la famiglia di Joxian, sposato con Miren e padre di due figli maschi e una femmina. Dall’altro c’è lo Txato, con sua moglie Bittori e due figli, un maschio e una femmina. Sono molto amici Joxian e Txato: sono cresciuti insieme in un piccolo paesino alle porte di San Sebastián, vanno insieme in bicicletta tutte le domeniche e da sempre si aiutano come possono. Altrettanto amiche sono Miren e Bittori, nonostante le loro differenze caratteriali che riescono ad appianare. 
Bittori era più da fette di pane tostato con la marmellata e decaffeinato da bar; Miren da cioccolata con churros. Ma quanto fanno ingrassare! Non le importava. Andavano d'accordo? Moltissimo, erano intime. Un sabato andavano tutte e due in un caffè dell'Avenida, quello dopo in una churrería della Città Vecchia. Sempre a San Sebastián. Dicevano San Sebastián, in castigliano, oppure Donostia, in basco. Non erano rigide. San Sebastián? Allora San Sebastián. Donostia? Allora Donostia. Iniziavano a chiacchierare in euskera, passavano al castigliano, di nuovo all'euskera e così per tutto il pomeriggio.
E ovviamente crescono insieme anche i figli, compagni di giochi e di avventure, nonostante le età differenti, come sempre succede quando si è ragazzi.
All’improvviso però qualcosa tra di loro cambia. Per le vie del paese iniziano a comparire scritte minacciose nei confronti del Txato, reo di essersi rifiutato di pagare, o di aver pagato troppo poco, i soldi richiestigli dall’ETA. In quel momento, tutto il paese si allontana dalla famiglia del Txato, perché tutti sanno che non bisogna rimanere vicini a chi è vittima delle minacce dell’ETA per non rischiare. Anche il legame tra il Txato e Joxian si allenta, con un po’ di delusione e di dispiacere da parte di entrambi. Ma Joxian purtroppo non può farne a meno, combattuto tra l’affetto per il suo migliore amico e la sua famiglia, forse molto più coinvolta di quanto non sembri all’apparenza.

Poi succede quello che tutti pensavano sarebbe successo, ma nessuno si aspettava veramente. E Bittori decide di non andare avanti, di non superare la cosa, di non avere pace finché qualcuno non si scuserà con lei.

Oltre che nella storia, la bellezza di Patria sta nel modo in cui il tutto viene raccontato: Aramburu salta continuamente tra passato e presente, da un personaggio all’altro, raccontando quello che ha vissuto all’epoca, come ha reagito a quanto successo (chi non ha avuto il coraggio di tornare, chi non ha quello di andarsene) e quello che sta vivendo ora. Incastri perfetti tra una storia e l’altra, susseguirsi di eventi e di emozioni che, in un modo o nell’altro, ritornano sempre a quell’evento terribile che ha segnato la vita di tutti. Il risultato è un romanzo intenso, che coinvolge il lettore fin dalla prima pagina e non gli permette di andarsene finché non è arrivato alla fine. Durante la lettura, si pensa al libro sempre, anche quando non lo si sta leggendo. Ci si arrabbia, si affibbiano colpe e si arriva quasi a odiare certi personaggi, anche se poi nella pagina dopo magari un po’ li si capisce anche, così come si prova tenerezza e dolcezza per dei piccoli gesti: un geranio sul balcone, un pugno alzato e un sorriso stentato, un braccialetto, un abbraccio.

Anche io ho motivi in abbondanza per essere a pezzi. Però, guarda, a Londra, la sera stessa in cui mi sono accordata con Quique per vivere separati per un periodo, ho fatto un giro sulla riva del fiume. Mi sono detta: che faccio? Mi butto in acqua e ciao, o cerco una via d'uscita dal labirinto in cui mi trovo da molto, troppo tempo? E ho visto la corrente torbida, e i riflessi della città nell'acqua, e poi ho visto la gente, e ho sentito della musica da qualche posto lì vicino, avevo il vento sulla faccia e ho concluso: che cazzo, Nerea, solleva quella faccia, non rassegnarti, vivi, sì, vivi, ragazza, anche se sei a pezzi, muoviti, combatti, cerca.

Fernando Aramburu in Patria ha raccontato una parte della storia della Spagna che nei libri, almeno qui in Italia, non compare così spesso. Forse perché le azioni dell’ETA sono ancora così vivide nella memoria di chi le ha vissute, o forse perché le dinamiche sono troppo complesse per riuscirne a parlare. Questo libro lo fa magistralmente, fornendo il ritratto di un paese, di una comunità, ma soprattutto di vite umane che, da una parte e dall’altra, devono trovare un modo fare i conti con quanto successo e per andare avanti, o potersi finalmente lasciar andare.

Titolo: Patria
Autore: Fernando Aramburu
Traduttore: Bruno Arpaia
Pagine: 632
Anno di pubblicazione: 2017
Editore: Guanda
Prezzo di copertina: 19,00 €
Acquista su Amazon:
formato cartaceo:Patria
formato ebook: Patria

giovedì 7 dicembre 2017

VESTIVAMO DA SUPERMAN - Bill Bryson

Non so come ci fossero riusciti, ma i responsabili degli anni Cinquanta avevano creato un mondo in cui ti faceva bene quasi tutto.  Gli aperitivi? Più ne bevevi meglio era! Il fumo? Ma certo! A giudicare dalle pubblicità, le sigarette ti facevano sentire addirittura meglio: calmavano i nervi tesi e rinvigorivano la mente stanca. «Proprio quelle che ha prescritto il dottore!» recitavano le pubblicità delle sigarette L&M anche sulle pagine del «Journal of the American Association», dove sarebbero state accettate fino agli anni Sessanta. I raggi X erano così benigni che i negozi di scarpe avevano installato macchine speciali che li usavano per prenderti le misure, spedendo raggi penetranti che ti entravano dalla pianta dei piedi e ti uscivano dalla testa.


“Nel dubbio, Bill Bryson”.
Potrebbe diventare il mio motto di vita, questo. O almeno di vita da lettrice, perché ho scoperto che non c’è nessuno scrittore che riesca a sbloccarmi nei momenti di crisi da “non ho voglia di leggere” come ci riesce lui.
È la seconda volta che mi succede, quest’anno, di non riuscire a trovare il libro giusto. Di aprire e chiudere dopo poche righe un romanzo perché “no, non mi va”, per poi farmi prendere dallo sconforto.  La prima crisi, avvenuta quest’estate, l’avevo superata con Una città o l’altra, libro in cui il buon vecchio Bill racconta dei suoi viaggi in Europa e che mi aveva divertito molto.
Ai primi accenni di seconda crisi, quindi, sapevo già come avrei potuto superarla: facendomi accompagnare da qualche parte da Bill Bryson.

Questa volta è stato un viaggio nel tempo, negli anni della sua infanzia, l’America degli anni ’50. In Vestivamo da superman, tradotto da Stefano Bortolussi e edito da Guanda editore, lo scrittore americano, infatti, ci racconta di come è stato nascere e crescere negli Stati Uniti del boom economico del secondo dopoguerra.

Crescere era facile. Non richiedeva alcun pensiero o sforzo da parte mia. Sarebbe accaduto comunque… Eppure quello è stato di gran lunga il periodo più spaventoso, emozionante, interessante, istruttivo, sbalorditivo, libidinoso, entusiasta, problematico, spensierato, confuso, sereno e snervante della mia vita. E guarda caso, lo è stato anche per l’America.

Nato nel 1951, Bill ha trascorso la sua infanzia e la sua adolescenza a Des Moines, la capitale dello stato dell’Iowa, persa nelle grandi pianure del Midwest. Una città tranquilla, da cui l’autore osserva e vive sulla propria pelle l’evoluzione dell’America, senza mai dimenticarsi, però, di essere un bambino. E quindi racconta degli esperimenti nucleari degli anni ’50, ma anche dei giochi per strada (a volte si veniva cacciati di casa al mattino e non si veniva riammessi fino a sera) con un milione di altri bambini e dell'arrivo della televisione; del fumo e del fatto che niente sembrava facesse male alla salute in quegli anni, ma anche dei dispetti ai negozianti e ai parenti; delle questioni razziali, ancora ben presenti in alcune parti degli Stati Uniti, ma anche di come lui e gli altri bambini  e adolescenti non vedessero alcuna differenza, se non quelle sportive.

Fortunatamente eravamo indistruttibili. Non si vedeva la necessità di cinture di sicurezza, di airbag, di dispositivi antifumo, di acqua in bottiglia o di manovre di Heimlich. I medicinali non dovevano avere chiusure di sicurezza per i bambini. Non avevamo bisogno di casco quando andavamo in moto o di ginocchiere e gomitiere quando pattinavamo. Sapevamo senza che ci fosse bisogno di scriverlo che la candeggina non era una bevanda rinfrescante e che la benzina, se accostata a un fiammifero, tendeva a prendere fuoco. Non dovevamo preoccuparci di quello che mangiavamo perché quasi tutti i cibi ci facevano bene: lo zucchero ci riempiva di energia, la carne rossa ci rendeva forti, il gelato ci dava ossa sane, il caffè ci teneva svegli, ronzanti e produttivi.

Il tutto, ovviamente, sempre con lo stile ironico, scanzonato, ma anche molto intelligente, che caratterizza tutte le opere di Bill Bryson (e di cui qui potete vedere un assaggio a inizio di ogni capitolo, nei buffi ritagli di giornale che l’autore ha scelto di inserire per introdurre l’argomento di cui sta per parlare).

Sprinfield, Illinois (AP) - Ieri il Senato dell'Illinois ha sciolto la Commissione efficienza ed economica «per motivi di efficienza ed economia».
Des Moines Tribune, 6 febbraio 1955

Quello che ne viene fuori è un ritratto fedele dell’America del periodo e di quello che gli anni ’50 e ’60 hanno rappresentato per il sogno americano. Ma è anche il ritratto di un bambino che adora mangiare schifezze e ha paura del dentista, che vorrebbe andare a Disney World e che sogna di riuscire finalmente a vedere una donna nuda.

Vestivamo da superman è un libro che tutti gli amanti degli Stati Uniti e della letteratura americana dovrebbero leggere, perché descrive benissimo il contesto di quegli anni e tutte le sue contraddizioni. Ed è un libro che, se state vivendo un blocco di lettura, dovreste procurarvi e lasciare che Bill, con i suoi superpoteri da Ragazzo Folgore, vi aiuti a superarlo.


TITOLO: Vestivamo da superman
AUTORE: Bill Bryson
TRADUTTORE: Stefano Bortolussi
PAGINE:315
EDITORE: Guanda /TEA
ACQUISTA SU AMAZON
formato cartaceo:Vestivamo da Superman
formato ebook: Vestivamo da superman

martedì 8 agosto 2017

LEGGERE AL MARE: sei giorni, quattro libri e tanti spritz.

È passato un po’ di tempo dall’ultima volta che ho aggiornato il blog e la ragione è molto semplice: sono stata in vacanza. Non per due settimane, ahimè, ma solo per sei giorni, in Liguria a Sestri Levante. Ho preferito comunque staccare del tutto anche da qui. Certo, forse avrei dovuto avvisare, pubblicando come ogni anno il post con l’elenco dei libri che avevo intenzione di portare con me. Ma li ho decisi un po’ all’ultimo minuto, complice anche la solita stanchezza da lettura che mi prende in questo periodo, e non mi andava di presentare libri che poi magari nemmeno avrei letto.
Ma ora le vacanze sono finite da qualche giorno (anche se la mancanza del mare e degli spritz al tramonto durerà ancora un po’), posso finalmente raccontare che cosa ho letto. Ovvero, questi:



Ah no, scusate, ho sbagliato la foto. Portate pazienza, come vi dicevo la mancanza di mare e di spritz si sta facendo sentire. Comunque, i quattro romanzi che ho letto al mare sono questi:



Sono partita con ELISIR D’AMORE – VELENO D’AMORE di Eric-Emmanuel Schmitt, un libricino pubblicato da edizioni e/o che racchiude due racconti lunghi dello scrittore francese. Tradotti entrambi da Alberto Bracci Testasecca, in Elisir d’amore assistiamo allo scambio epistolare di una coppia di ex fidanzati: Adam e Louise. Dopo la fine della loro storia, Adam è rimasto a Parigi, mentre Louise si è trasferita per lavoro in Canada. È evidente che tra i due c’è ancora qualcosa in sospeso: si cercano, si stuzzicano, cercando di fingere un rapporto d’amicizia che, però, non può esserci. Una lettura intelligente, sicuramente, ma forse un po’ troppo rapida: qualche scambio di lettera in più avrebbe aiutato a delineare ancor meglio i personaggi e il loro rapporto. In Veleno d’amore protagoniste sono invece quattro ragazze adolescenti alle prese con i primi problemi d’amore. Problemi in realtà molto semplici che però degenerano in una vera e propria tragedia shakesperiana, quando si scopre che queste amiche forse proprio amiche non sono. La storia è raccontata tramite le pagine dei diari delle quattro ragazze e qualche scambio di SMS. E alla fine si rimane senza parole, per il culmine della storia, ma anche per il modo incredibile con cui Eric-Emmanuel Schmitt l’ha sviluppata.



Subito dopo è toccato a LA PRIMAVERA DEI BARBARI di Jonas Lüscher, pubblicato in Italia da Keller edizioni e tradotto da Roberta Gado. Un libricino che avevo acquistato tempo fa al Libraccio, attratta più dalla bella copertina (ho un debole per le copertine colorate di questo editore) che non dalla trama in sé, si è rivelato invece una bella lettura, divertente e agghiacciante al tempo stesso. Protagonista è Preising, un ricco industriale che si ritrova a partecipare a un lussuoso banchetto di nozze di una giovane coppia di broker inglesi in una lussuosa oasi tunisina. Proprio la notte del banchetto, però, la Gran Bretagna fallisce e questi ragazzi che fino a un secondo prima erano ricchissimi si ritrovano ora sul lastrico. Con il degenero barbaro (da cui il titolo) che ne consegue. Il romanzo fa ridere per il modo in cui Preising racconta, per i personaggi ancor più bislacchi di lui che incontra e per la descrizione che viene fatta dei ricchi inglesi, ma terrorizza nella seconda parte, quando questi ricchi inglesi si ritrovano senza niente.



La terza lettura è stata TUTTO IL TEMPO CHE VUOI di Francesco Gungui, edito da Giunti editore. Un romanzo leggero, leggero, leggero (mettete tutti i “leggero” che volete), ma che riesce perfettamente nel suo scopo di “lettura da spiaggia non troppo scema”. Protagonista è Franz, un trentaseienne milanese che lavora come editor per una grande casa editrice e che sta cercando di avere un figlio con la sua compagna Lucia. Un figlio che, però, non ne vuole sapere di arrivare: un’attesa snervante, che logora la coppia fino a un’inevitabile decisione. Come se questo non bastasse, un romanzo erotico che Franz ha rifiutato di pubblicare viene comprato da un altro editore e si trasforma in un best seller. Franz deve ora cercare di reinventarsi, di scoprire qual è il suo piano B, se mai ne ha avuto uno, e metterlo in pratica. E lo fa, trasformando la sua passione per la cucina in una professione, con l’aiuto della bella Camilla. Tutto il tempo che vuoi non è un romanzo molto originale, in realtà (e Gungui ha sicuramente letto sia i romanzi di Nick Hornby, sia qualcosa di Fabio Bartolomei, secondo me), ma pone alcuni spunti di riflessione importanti sul mondo del lavoro, sulla famiglia e la paternità, e sulla capacità di affrontare gli imprevisti. E poi è leggero, leggero, leggero…



L’ultimo libro che ho letto al mare (e finito una volta arrivata a casa) è UNA CITTÀ O L’ALTRA di Bill Bryson (edito da Guanda e tradotto da Silvia Cosimini, Sonia Pendola e Giorgio Rinaldi). Una lettura che non avevo preventivato di fare, anche perché il libro lo abbiamo acquistato proprio in vacanza, ma che mi ha in qualche modo salvata. Avevo portato con me un altro romanzo, che dopo poche pagine però si è rivelato poco adatto al momento. Quindi, ho deciso di metterlo da parte e di seguire Bill nel suo viaggio in solitaria per alcuni paesi europei: insieme a lui sono andata in nord Europa e a Parigi, ho visitato la Germania, l’Olanda, la Svizzera fino all’Europa dell’est. Ci siamo spostati in treno, in aereo, in autobus e qualche volta persino a piedi o su auto un po’ scassate. Insieme a lui ho conosciuto personaggi bislacchi e usi e costumi locali alquanto singolari, e ho avuto la possibilità di vedere un’istantanea della società e della cultura europea al momento dei suoi viaggi (a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90). Ma soprattutto mi sono lasciata conquistare dal suo stile e dalla sua incredibile ironia nel raccontare aneddoti ed esperienze. Ora piano piano cercherò di recuperare tutto quello che ha scritto.



Direi che come bottino di letture di questa vacanza non mi posso proprio lamentare. Ho avuto la conferma di Eric-Emmanuel Schmitt e la scoperta di Jonas Lüscher, ho staccato dalle letture impegnative con Francesco Gungui e mi sono perdutamente innamorata di Bill Bryson e del suo stile.

E poi ho bevuto tanti spritz e fatto tanti bagni in un posto bellissimo.


lunedì 26 ottobre 2015

MI CHIAMAVANO PICCOLO FALLIMENTO - Gary Shteyngart

Mi laureai con lode e questo migliorò il mio status agli occhi di Mama e Papa, ma quando parlavo con loro si dava per scontato che ero comunque una delusione. Siccome da bambino (come da adulto) mi ammalavo spesso e mi gocciolava il naso, mio padre mi chiamava Sopljak, Moccioso. Mia madre stava elaborando un'interessante fusione di inglese e russo e, di sua iniziativa, aveva coniato il termine Failurča, ovvero Piccolo Fallimento

Per parlarvi di Mi chiamavano piccolo fallimento di Gary Shteyngart, pubblicato in Italia di Guanda con la traduzione di Katia Bagnoli, devo iniziare da Jonathan Franzen.
Un giorno ho visto un intervista fatta a Jonathan Franzen in occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo, Purity. In quel video, lo scrittore, dai più considerato misantropo e antipatico, mi è sembrato semplicemente un orsacchiotto goffissimo e timidissimo, simpatico a modo suo, ma non sempre in grado, come succede a tutti i timidi d'altronde, di trasmettere questa sua simpatia agli altri. Mi sono poi messa a chiacchierare di questa mia impressione con Holden & Company e lui mi ha girato un video, in cui c’è un cameo di Jonathan Franzen. Quel video era, ovviamente, il book trailer di Mi chiamavano piccolo fallimento.




Inutile dire che, dopo averlo visto, oltre a provare ancor più simpatica per Johnny, ho deciso che avrei dovuto leggere quel libro.

Mi chiamavano piccolo fallimento è l’autobiografia di Gary Shteyngart, scrittore nato a Leningrado e trasferitosi con i genitori a New York quando aveva sette anni. Gary è un bambino malaticcio, che soffre di continue crisi d’asma, e che, all'inizio, mal si adatta alla sua vita americana. È figlio di migranti, che pur iniziando a lavorare e a farsi una vita in America, proprio non ne vogliono sapere di abbandonare la lingua e le tradizione del loro paese natio. Gary va a scuola ed è un emarginato, ha pochi amici, figuriamoci ragazze, e si accanisce contro chi è ancor più debole di lui. Ma è anche un ragazzino ricco di talento per la scrittura, che diventerà fin da subito la sua forma di riscatto. Poi Gary cresce, le cose un po’ cambiano, si fa amici, si innamora e si scrive a un’università umanistica, perché la scrittura rimane la sua strada. Beve un po’ troppo, fuma un po’ troppo, segue una strada non proprio buona, tra mentori che da lui vorrebbero qualcosa di più e donne pazze, pronte a prendere chiunque a martellate, e soprattutto sempre più lontano dai genitori, che forse non lo capiscono o che forse è lui a non capire. Finché non arriva la pubblicazione del suo primo romanzo e, soprattutto, il suo ritorno in patria dopo anni e anni di assenza. Dove tutto è cominciato.

La prima cosa che ho apprezzato di Gary Shteyngart è stata la sua incredibile ironia e autoironia, anche nei momenti più difficili. Soprattutto quando era bambino, un bambino malaticcio che soffre di vertigini e che con la sua faccia da ebreo fatica ad ambientarsi in un posto così grande come New York. Vuole risalire la scala sociale e diventare un vero americano, perché sa che solo così riuscirà a farsi accettare da tutti, ma al tempo stesso non può e non vuole dimenticare le sue origini, che ne hanno fatto quello che è ora.

La storia è quella di un migrante come ce ne sono tanti, con le difficoltà ad ambientarsi e la voglia di farlo, con un po’ di vergogna verso i proprio genitori, ma al tempo stesso orgoglio per quello che sono riusciti a fare, a cui si aggiunge però la storia, diciamo, editoriale di Gary, di quando ha iniziato a scrivere (e tutti gli scrittori dovrebbero avere una nonna come la sua!) e di come la scrittura, almeno in parte, l’abbia salvato dal vero fallimento.
Permettetemi di ripeterlo: non so fare niente. Non so friggere un uovo, non so preparare un caffè, non so guidare, né fare l’assistente di un avvocato o pareggiare i conti, non so saldare un pannello madre a un pannello maschio, né tenere al caldo e al sicuro un bambino durante la notte. Ma non ho mai avuto il cosiddetto blocco dello scrittore. La mia mente corre alla velocità dell’insonnia. Le parole si mettono nei ranghi come i soldati all'adunata. Mettetemi davanti a una tastiera e riempirò uno schermo.
Eppure, nonostante l’ironia e lo stile dell’autore, Mi chiamavano piccolo fallimento è stata una lettura a tratti faticosa. Credo per colpa mia, perché non conoscevo Gary Shteyngart, non ho letto nessuno dei suoi romanzi precedenti, e, di conseguenza, mi sono persa molti dei suoi riferimenti. Forse le autobiografie degli scrittori andrebbero lette quando gli scrittori si conoscono già, per non rischiare, appunto, di perdersi qualcosa per strada, di non capire e di non apprezzare tutto come invece meriterebbe. Bella la sua storia, bella la sua vita, bello il suo modo di raccontare il suo strano rapporto con i genitori. Ma mi è mancato qualcosa.

Per fortuna posso ancora ancora rimediare. E sicuramente lo farò perché secondo me questo Gary Shteyngart se lo merita proprio.


Titolo: Mi chiamavano piccolo fallimento
Autore: Gary Shteyngart
Traduttore: Katia Bagnoli
Pagine: 390
Editore: Guanda
Acquista su Amazon:

martedì 22 settembre 2015

Ci vedo, e se non ci vedessi metterei gli occhiali... ovvero piccola invettiva contro i libri scritti a carattere 18 per farli sembrare più lunghi.

Ieri, mentre ero in coda dal medico, tra un pettegolezzo di una vecchina e un informatore saccente, ho letto Miracolo in libreria di Stefano Piedimonte.

Sul merito del libro entrerò in seguito, perché il fastidio provato per l’edizione, l’impaginazione e l’aspetto grafico in generale hanno preso un po’ il sopravvento sulla mia percezione del libro. Al punto che forse dovrò addirittura rileggerlo.
Miracolo in libreria è un racconto, che sono riusciti a spalmare su 77 pagine con espedienti differenti: l’aggiunta di qualche capito di un libro citato nel racconto sul fondo, un carattere enorme, un’impaginazione bislacca che fa sembrare il testo una lunga colonna. Prezzo di copertina: 7€. Che ci sta anche, perché se si pensa ai costi della copertina, della stampa, etc etc, tutto sommato non è una cifra così elevata.

È che a me, queste cose fanno un po’ arrabbiare. Visto che se lo impaginate normalmente e lo scrivete con un carattere normale, il racconto sarebbe venuto si e no di 20 pagine, non si poteva o aspettare che l’autore ne scrivesse un altro o aggiungerlo in calce a un romanzo, come contenuto extra?
La risposta, ovviamente, è no, perché loro ci guadagnano meno.


Il caso più clamoroso che io ricordi è sempre della Guanda, quando ha fatto uscire Tutti mi danno del bastardo di Hornby in un volumetto a 9€, quando in lingua originale era uscito solo in ebook a 0,99€. Mi ero arrabbiata anche se lo avevo comprato in originale e in ebook, perché capisco che Hornby è un nome che attrae e che quindi in molti lo avrebbero comprato, ma al tempo stesso viene mancare, secondo me, il rapporto di fiducia con i lettori che un po’ si sentono presi in giro. (Anche perché quel racconto funzionava solo come ebook  o dentro a una raccolta, da solo no).
Guanda comunque non è l’unica a fare questi giochetti. Mi viene in mente Rizzoli e il libro dei Carofiglio brothers, che per compensare avevano aggiunto in fondo delle ricette di cucina,  e/o con un Carlotto , per citare solo i casi in cui io ci sono cascata come una pera. Ma penso che tutti gli editori almeno una volta lo abbiano fatto.

Io, da lettrice, lo trovo irritante. È non è solo una questione economica. Cioè, anche sì, sarebbe inutile negarlo. Ma è il concetto in sé che trovo sbagliato. Devi fare cassa? Ok, ma dato che il lettore è chi ti permette di farla, magari dagli qualcosa in più di un libro scritto a carattere 18 e con margini enormi. Perché di fronte a una presa in giro tanto evidente, secondo me, ne rimette anche il contenuto del libro. Può essere un capolavoro, può essere riconosciuto come tale dal lettore meno irritabile come me, ma un pochino di amaro in bocca, pensando ai caratteri giganti o ai margini, rimarrà anche di fronte al libro più bello.

Lo so, in parte è anche colpa mia e, più in generale, di chi lo compra. Perché vuol dire che comunque, per quanto sia una presa in giro, funziona. Soprattutto con i  nomi che attirano, di cui magari si aspetta per anni un libro (ed è il caso di Hornby, ad esempio) o verso i quali si ha una certa curiosità o entrambe le cose (tipo il libro dei fratelli Carofiglio… ormai di Gianrico si venderebbe anche la lista della spesa).

(© Paweł Jońca)
Considerando anche le difficoltà del mondo dell’editoria e, soprattutto, di quello dei lettori, sempre più in calo (poi una volta o l’altra parleremo anche di nuovo di #ioleggoperché, eh…) secondo me espedienti del genere non andrebbero utilizzati, perché rischiano di allontanare ancora di più.

La cosa buffa è che io sono una grandissima amante dei racconti. Leggo tantissime raccolte, soprattutto monoautore, ma mi è capitato anche antologie. Quindi questa mia avversione non è assolutamente per il genere, ma per il modo in cui spesso viene presentato. E in parte secondo me l’avversione per questo genere è dovuta anche al fatto che spesso i singoli racconti vengono venduti e presentati da soli, come libri a se stanti, per cui si crea un effetto di aspettative-delusione, perché troppo corto, perché mi aspettavo più approfondimento da un libro singolo, etc etc…

Mi spiace davvero per Miracolo in libreria di Stefano Piedimonte, per essere stata l’origine (o forse la goccia…) di questo post. Anche perché tra un irritazione e l’altra, la storia in sé non mi è dispiaciuta per niente. Sicuramente lo rileggerò, anche perché ci vanno meno di venti minuti.


Mi rendo conto che questo post è in realtà una polemica molto personale, perché se io detesto questi libricini c’è magari chi invece li adora e quindi lo troverà completamente inutile. Però, ecco, volevo comunque condividere questo mio disagio.

venerdì 22 maggio 2015

L'ASSASSINO NON SA SCRIVERE - Stefano Piedimonte

Vi capita mai di prendere in mano il nuovo libro di un autore di cui avete già letto altri romanzi, convinti di trovarci dentro qualcosa e ritrovarvi invece di fronte a qualcosa d'altro? Ma così tanto diverso da chiedervi se non vi siete confusi o se non si tratta, magari, di un caso di omonimia?
Ecco, la primissima reazione dopo poche pagine di L’assassino non sa scrivere di Stefano Piedimonte è stata questa. Avevo letto e adorato il suo romanzo d’esordio, Nel nome dello zio. Letto e apprezzato un po’ meno il seguito, Voglio solo ammazzarti, pur avendoci trovato  tutta l’ironia e la verve del precedente; quindi quando è uscito quest’ultimo romanzo e ne ho letto la quarta, ero sicura che al suo interno avrei ritrovato lo stesso stile ironico e geniale, la stessa critica violenta attraverso l’esasperazione e la presa in giro dei protagonisti (se avete letto i due romanzi precedenti capite di cosa sto parlando), lo stesso ritmo narrativo e  lo stesso numero di risate.  

Ma non è stato così. Ci ho trovato qualcosa di diverso, qualcosa di meno, ma anche qualcosa di più. 

L’assassino non sa scrivere è ambientato a Fancuno, un paesino sperduto popolato da pochi abitanti che si conoscono tutti tra loro. In passato arrivava anche qualche villeggiante, per il gusto di poter dire “quest’estate me ne vado a Fancuno”, ma con gli anni si sono affievoliti. Finché in paese non compare all’improvviso un serial killer che ha due particolarità ben precise: sembra ammazzare quasi a caso, senza metodi e senza logica, e, soprattutto, non sa scrivere, come si evince dai bigliettini che lascia sulle sue vittime firmati Sirial Ciller.  Il paese, un po’ innervosito dagli omicidi e soprattutto dall’ignoranza di chi li compie, si trova così sommerso di giornalisti e curiosi. Intanto, oltre alla polizia, ad indagare ci sono un gruppo di amici del bar di Siusy, tra cui il narratore stesso che è un giornalista vicino alla pensione,  che piano piano, tra ricordi del passato e piccoli indizi nel presente, arrivano a collegare quello che sta succedendo con la leggenda del paese, quella del bosco che uccide o fa del male a chiunque ci entri, a meno che non sia protetto. Che l’assassino voglia vendicarsi per qualcosa che il bosco gli ha tolto? 

La lettura di L’assassino non sa scrivere non è stata come quella dei romanzi precedenti, vi dicevo. Diversa nel bene e diversa nel male.
Il libro mi è piaciuto, anche se forse in alcuni punti si perde un po’ e soprattutto nel finale manca qualche dovuta spiegazione. Così come mi è piaciuto molto lo stile di Stefano Piedimonte, che sa scrivere indubbiamente bene, anche quando decide di cambiare ambientazione e allontanarsi dai suoi romanzi precedenti . C’è della poesia in questo romanzo che nei precedenti non c’era, della nostalgia, dei legami con il passato e le proprie tradizioni che nei precedenti non c’erano. E so già che alcune delle frasi che ha piazzato qua e là rimarranno con me a lungo.

Odiare una persona che non c'è vuol dire disperdere il proprio odio in giro per il mondo, distribuirlo senza un criterio, fare del male a chi non lo merita. Lo so, è impossibile pensare che non ci sia nessuno con cui prendersela. Lo so benissimo. Ma non è giusto che questo «nessuno» diventi «tutti».
Al tempo stesso, però, c’è qualcosa che non mi ha convinta del tutto. Mi è sembrata una scrittura più matura  e più profonda sicuramente, ma al tempo stesso l’impressione è che Piedimonte non abbia avuto il coraggio di abbandonare completamente quello che è stato in passato (forse per paura di deludere le aspettative dei lettori?), dosando in modo non sempre perfetto il racconto ironico e la parte drammatica della sua storia. Così come anche le critiche, questa volta dirette ai giornalisti e a chi lucra sui fatti di cronaca nera, ci sono e non ci sono, come se avesse voluto farle ma non avesse osato andare fino in fondo.

Probabilmente chi non ha letto i romanzi precedenti non si accorgerebbe di queste cose. Noterebbe solo la bellezza e la tristezza della storia di Siusy, ammirerebbe il cane fosforescente, riderebbe per alcune delle vicissitudini di alcuni degli abitanti di Fancuno  e proverebbe un po’ di nostalgia per quel legame che si crea tra chi vive sempre e da sempre nello stesso posto, oltre ovviamente ad appassionarsi a questo serial killer e alle indagini per scovarlo.
Ed è su queste cose che mi voglio concentrare, perché alla fine è giusto, e ovvio, che uno scrittore cambi, maturi e tenti ogni tanto strade diverse da quelle che ha sempre percorso. E, per quanto spesso inevitabile, non è giusto valutare un nuovo libro, soprattutto se così diverso, in base ai precedenti.

Per cui sì, L’assassino non sa scrivere mi è piaciuto, con solo qualche piccola riserva, e mi sento di consigliarlo a tutti, che conosciate già Stefano Piedimonte o no.

Titolo: L'assassino non sa scrivere
Autore: Stefano Piedimonte
Pagine: 248
Editore: Guanda
Anno: 2014
Acquista su Amazon:
formato brossura: L'assassino non sa scrivere

domenica 11 gennaio 2015

FUNNY GIRL - Nick Hornby

Ogni volta che arriva in libreria un nuovo romanzo di Nick Hornby, vengo assalita da un misto di aspettativa e di ansia. L'aspettativa è dovuta al fatto che Nick Hornby è uno dei miei scrittori preferiti. O almeno lo è stato, in passato, con i suoi primi romanzi: Un ragazzo, Come diventare buoni, Alta fedeltà. Libri che ho letto parecchi anni fa, quasi uno in fila all'altro, perché quando scopro un autore che mi piace non riesco più a fare a meno di lui, e che ancora oggi sono tra quelli che consiglio di più quando mi viene chiesta una lettura divertente e allo stesso tempo intelligente. 
All'aspettativa, però, si aggiunge anche l'ansia. E chi è un amante di questo autore inglese non alcun bisogno che spieghi perché. È che a un certo punto Hornby ha iniziato a cambiare. A partire da Tutto per una ragazza e, soprattutto, da Tutta un'altra musica. In questo due romanzi manca la verve dei primi e un alone malinconico ricopre un po' tutta la scrittura. A queste due piccole delusioni, sono poi seguite quelle legate ai suoi racconti, che forse sono da attribuire più alla terribile scelta editoriale di Guanda di pubblicarli sempre come libri a se stanti (a 10€ l'uno circa, per intenderci) e, come conseguenza, di prendere sempre in giro il lettore affezionato.

Anche l'uscita di Funny girl mi ha provocato questi stessi sentimenti. Pensieri come "Hey, è un nuovo romanzo di Hornby!" si alternavano ad altri tipo "Oddio, speriamo non sia come gli ultimi due". La curiosità e l'affetto incondizionato per questo autore mi hanno comunque fatto decidere di leggerlo. Con la dovuta preparazione, con la consapevolezza che forse sarebbe stata una delusione, non potevo non leggerlo.

La prima cosa che voglio dire di Funny girl è che si tratta di un bel romanzo. Non alla Hornby, o almeno non a quelli a cui Hornby ci aveva abituato in passato. Ma un bel romanzo. Scorrevole, divertente e molto piacevole da leggere.
Barbara è una ragazza di provincia con un unico, grande sogno: diventare un'attrice comica. Per farlo, rinuncia al titolo di Miss Blackpool e parte per Londra. Qui cambia nome, da Barbara  a Sophia, si trova un agente e si lancia, sicura che prima o poi riuscirà a sfondare. Ed effettivamente ci riesce, diventando la protagonista di una serie tv della BBC, Barbara (e Jim), che la porterà alla fama e al successo. Il romanzo racconta della nascita di questa serie, dei rapporti tra Barbara/Sophie e gli altri membri della produzione di Barbara (e Jim): il co-protagonista Clive, uomo affascinante e con il passatempo di andare a letto con il maggior numero possibile di attrici; il produttore Dennis, un uomo tranquillo e pacato con una difficile situazione famigliare; gli autori Bill e Tony, coppia quasi quanto quella che mettono sullo schermo.

Il lettore segue Barbara in ogni momento, dagli esordi come Miss al successo della sua situation comedy, dal suoi interagire con i fan e con gli altri membri del cast, al suo, inevitabile, declino finale. E seguendo Barbara e i suoi compagni, il lettore ha un ritratto fedele della Londra degli anni '60 e '70, quando era ancora inconcepibile parlare di divorzio, di figli fuori dal matrimonio, di omosessualità e di donne più impegnate degli uomini.

Il romanzo è molto pacato, molto inglese. Una definizione forse non semplice da comprendere, ma che sono sicura coglierete anche voi se leggerete il libro. E Hornby, seppur diverso da ciò a cui ci aveva abituato, è stato davvero bravo nello scrivere questa storia. Confermo l'idea che già mi ero fatta con i romanzi precedenti, ovvero che Nick sta invecchiando. Eppure, questa volta, non ho percepito questo invecchiamento in senso negativo. Anzi. Credo si stia ridimensionando, che si sia reso conto anche lui che le storie come quella di Un ragazzo non gli riescano più, non siano più ciò che vuole scrivere.
E se i romanzi come Funny girl saranno la sua nuova strada, beh, credo proprio che sarà altrettanto luminosa.
PS: nel caso non riusciate proprio a superare il fatto che Hornby non è più quello di un tempo, vi consiglio di leggere ugualmente questo libro, magari coprendo il nome sulla copertina. Secondo me, ne vale davvero la pena.

Titolo: Funny girl
Autore: Nick Hornby
Traduttore: Silvia Piraccini
Pagine: 373
Editore: Guanda
Anno: 2014
Acquista su Amazon:
formato brossura: Funny girl

venerdì 31 ottobre 2014

BREVE STORIA DI (QUASI) TUTTO - Bill Bryson

Io ho frequentato un liceo scientifico. Mio padre avrebbe tanto voluto che uno dei suoi figli facesse il classico (e io, essendo l'ultima, ero la sua ultima speranza), ma per fortuna non ha insistito più di tanto. Non so nemmeno io perché non volessi fare il classico. Forse avevo un po' paura del greco, forse a quattordici anni, quando è stato il momento di scegliere, ero ancora nella fase "da grande farò l'astronauta!" e lo scientifico mi è sembrata la scelta migliore. La scienza mi ha sempre affascinata e mi affascina ancora oggi, sebbene poi mi sia lanciata nell'ambito umanistico.Tutto quello che è intorno a noi, il modo in cui è fatto, il modo in cui è nato, il modo in cui funziona mi lascia stupita ogni volta che provo anche per un secondo a pensarci. Al punto che mi chiedo perché andiamo disperatamente in cerca di altri mondi quando è ancora così poco quello che sappiamo del nostro.

Breve storia di (quasi) tutto di Bill Bryson, che innanzitutto ci tengo a precisare proprio breve non è, racconta parte della storia del mondo, gli studi che sono stati fatti, i protagonisti delle principali scoperte e il modo in cui vennero accolte quando sono state annunciate per la prima volta. Parla di dinosauri e di estinzione, di crosta terrestre, terremoti e vulcani (uno dei miei sogni è sempre stato quello di andare a Yellowstone, ma ammetto di avere un po' di paura adesso), di origine della specie e di teorie genetiche (i piselli di Mendel!), di elementi chimici, di atomi, molecole, cellule e dna. E parla poi di noi uomini, ovviamente, di come siamo composti, di come siamo nati e delle grandi conoscenze che abbiamo acquisito negli anni, ma anche di come abbiamo il potere di distruggere tutto.

Breve storia di (quasi) tutto è stata sicuramente una lettura molto interessante, che mi ha rinfrescato un po' la memoria su cose che avevo studiato in passato e che mi avevano appassionata, oltre a farmi scoprire tante piccole curiosità degli uomini e delle donne, a volte dimenticati, che ci hanno permesso di arrivare a sapere quello che sappiamo. Certo, alla fine ho un po' faticato, forse perché avrei dovuto leggerlo in più tempo, magari un capitolo al giorno, usarlo più come un libro di consultazione che non una lettura di intrattenimento, perché per quanto scritto in modo semplice e scorrevole (e Bill Bryson è davvero bravo a rendere ogni cosa alla portata di tutti), sono comunque quasi 500 pagine di saggio scientifico, che credo proverebbero chiunque.
Credo mi sarebbe piaciuto leggere questo libro quando ero a scuola, accanto al classico libro da studiare. Avrebbe forse facilitato un po' lo studio, addolcendo un po' l'aspetto puramente nozionistico che inevitabilmente queste materie hanno quando vengono affrontate nelle scuole.

Insomma, se siete appassionati di scienza questo libro vale sicuramente la lettura. E la vale anche se non lo siete, in realtà, perché vi renderete conto di quanto complesso ma fantastico sia il nostro mondo.


Titolo: Breve storia di (quasi) tutto
Autore: Bill Bryson
Traduttore: M. Fillioley
Pagine: 580
Editore: Guanda - Tea
Acquista su Amazon:

mercoledì 8 ottobre 2014

Due titoli, un solo libro: ma perché? #94

Cliente:«Buongiorno»
Libraio: «Buongiorno a lei, mi dica»
Cliente: «Stavo cercando un libro, mi può aiutare?»
Libraio: «Ci proviamo, certo»
Cliente: «Dunque, non mi ricordo l'autore purtroppo e del titolo conosco solo una parte, ma è talmente particolare che sono sicuro non avrà problemi. Si tratta di "Istruzioni per rendersi... " qualcosa...».
Librario: «Guardi, può scegliere tra "felici" e "infelici"»
Cliente: «Come prego?»
Libraio: « Eh... "Istruzioni per rendersi infelici" di Paul Watzlawick, uscito nel 1997, e "Istruzioni per rendersi felici" di Armando Massarenti, uscito qualche giorno fa».
Cliente: « E io come faccio a scegliere?»
Libraio: «Non saprei... si sente più felice e vuole buttarsi un po' giù, o più triste e vuole tirarsi un po' su?»
Cliente: «Oddio, in realtà mi sento un po' confuso».
Libraio:« Guardi, se li compra entrambi, le regalano sei mesi d'analisi»
Cliente: «A chi ha scelto il titolo del libro uscito per secondo dovrebbero regalarli».


Ovviamente si tratta di una conversazione inventata (ammetto di aver avuto la tentazione di andare in libreria a chiedere, ma non volevo mettere in difficoltà il libraio o la libraia di turno con la mia follia). Credo però sia anche una conversazione abbastanza credibile, vista l'esistenza di questi due libri.

Lo so, questa volta in realtà si tratta di due libri diversi con un titolo ciascuno, però sono talmente tanto simili tra loro che non ho potuto fare a meno di dedicar loro una puntata della rubrica di confronto.
Ho provato a cercare qualche informazione per capire se il libro di Armando Massarenti, edito da Guanda, sia in qualche modo un omaggio al ben più conosciuto e vecchio di Paul Watzlawick (edito da Feltrinelli, con traduzione di Franco Fusaro). Nella quarta di copertina e nella descrizione sul sito nil nome di Watzlawick però non compare. Visto il titolo, forse almeno in quarta lo avrei scritto. Mi auguro per Massarenti comunque che all'interno del libro, questa similitudine venga più volte spiegata e ribadita. D'altronde anche nell'opera di Watzlawick si cerca in qualche modo di insegnare ad essere felici, usando la strategia contraria, ovvero dando motivi futili per essere tristi.
Personalmente, a meno che all'interno non venga citato il primo libro in ogni capitolo, trovo questa somiglianza abbastanza fastidiosa.

Ci sono milioni di parole che possono essere combinate tra loro per creare il titolo di un libro, possibile che non ci sia abbastanza fantasia da trovare un titolo diverso? 

venerdì 8 agosto 2014

LA MOGLIE - Jhumpa Lahiri

Non so bene perché, ma ci metto sempre un po' di tempo prima di decidermi a leggere romanzi che sono ambientati in Oriente. E' una cultura che conosco poco e che non mi ha mai attirato più di tanto. Credo sia sempre la solita questione di predisposizione mentale, che ci porta a preferire una cultura rispetto a un'altra. 
Mi rendo conto però che questa mia predisposizione mi porta a perdermi qualcosa, qualcosa che potrebbe anche piacermi, qualcosa di bello, da cui mi tengo stupidamente lontana.

Questo libro di Jhumpa Lahiri è una di quelle cose belle che stavo per perdermi. Per fortuna poi mi sono lasciata convincere a superare le mie rimostranze, oltre che da una copertina che trovo bellissima nella sua semplicità, da un numero impressionante di commenti positivi. A questo poi aggiungiamo che l'autrice ha vinto il Pulitzer per la narrativa, con una raccolta di racconti,  e che io ultimamente sto adorando tutti i premi Pulitzer.

La moglie è principalmente un romanzo d'amore: l'amore che lega due fratelli, Subhash e Udayan, nati a pochi mesi di distanza in un sobborgo di Calcutta, cresciuti insieme e poi separatisi, quando il destino ha preso per ognuno di loro una piega diversa. L'amore che c'è tra Udayan e Guari, nato sui banchi dell'Università e vissuto nel pieno della rivolta maoista alla fine degli anni '70, in cui Udayan crede fortemente e a cui Guari si associa per amore di quest'ultimo. L'amore che viene poi dopo la tragedia, un amore che non regge, ma che in un modo o nell'altro genera altro amore.
Sullo sfondo ci sono l'India e l'America, con le loro forti differenze e le loro contraddizioni, con la voglia di restare e la voglia di andarsene dall'una e dall'altra.

E' un libro molto intenso, La moglie. Un libro che analizza diversi aspetti ed emozioni della vita dei suoi protagonisti: gli ideali per cui siamo disposti a tutto, l'egoismo che spesso questi generano, l'amore che vacilla e l'impossibilità di dimenticare e di andare avanti. I personaggi sono molto ben caratterizzati. Soprattutto Gauri, la moglie del titolo, che ammetto di aver odiato con tutta me stessa, e Subhash, che invece ho amato, fin da subito, per il suo modo di farsi carico di tutto, senza mai venire realmente riconosciuto.

Questo romanzo mi ha fatto conoscere aspetti storici che non conoscevo, ma anche aspetti umani, sentimenti e reazioni quasi assurde che possono nascere nelle persone e che, in qualche modo si possono capire, se non approvare.
Insomma, è un romanzo che, per la storia che racconta e per il modo in cui la racconta, merita assolutamente la lettura anche se, come me, non siete particolarmente affascinati dall'India e dall'Oriente in generale. Un romanzo che non vi dovete perdere.


Titolo: La moglie
Autore: Jhumpa Lahiri
Traduttore: F. Oddera
Pagine: 426
Anno di pubblicazione: 2013
Editore: Guanda
ISBN: 978-8860880413
Prezzo di copertina: 18€
Acquista su Amazon:
formato brossura: La moglie

mercoledì 12 febbraio 2014

BORGO PROPIZIO - Loredana Limone

Sono sempre più convinta che certi libri entrino nella nostra vita solo ed esclusivamente al momento giusto, quando sanno che abbiamo in qualche modo bisogno di loro.
Prendete Borgo Propizio di Loredana Limone, ad esempio. Un romanzo che volevo leggere da quando è uscito, un paio di anni fa, ma che non riuscivo mai a reperire. Un po' per tirchieria, sicuramente, che comprarlo in edizione Guanda quando sapevo che sarebbe poi uscita la più economica TEA un po' mi spiaceva (anche perché adoro le edizioni TEA), un po' perché ogni volta che provavo a chiederlo in libreria mi dicevano che era esaurito, non era arrivato, era sparito tra gli scaffali. Non c'è stato verso, insomma, di poterlo leggere prima che fosse il suo momento.
Poi l'altro giorno ho ordinato su amazon un ferro da stiro e, d'impulso, ho inserito nell'ordine anche il libro. E' arrivato nella casa nuova, in mezzo a mille scatoloni e mille cose da sistemare. Ed è come se mi avesse sussurrato: "Eccomi, questo è il momento giusto, ora puoi leggermi".

Borgo Propizio è un romanzo che parla di un piccolo paesino e dei suoi caratteristici abitanti. Di quelli che ci vivono, che sanno tutto di tutti e che cercano in ogni momento di impicciarsi, e di quelli che invece ci si stanno trasferendo. C'è Belinda, ad esempio, che sta per coronare il sogno della sua vita e aprire una latteria tutta sua. Ci sono le sorelle Mariolina e Marietta, vergini zitelle ultra quarantacinquenni che hanno sempre vissuto insieme, dopo l'abbandono del padre e la morte della madre, e che non osano immaginare una vita separata. C'è Ruggero, muratore dongiovanni e della sua voglia di sistemarsi una volta per tutte, non fosse altro per lasciare a casa la badante che accudisce i suoi anziani genitori. C'è Ornella e del suo burrascoso e violento matrimonio. Ci sono Cesare e Claudia, genitori di Belinda, che stanno attraversando una crisi coniugale. E c'è zia Letizia, la fantastica zia Letizia con la sua passione per Gianni Morandi.
Le vite di tutti questi personaggi si mischiano tra loro tra le vie di questo paese: si incontrano, si scontrano, si lasciano e si innamorano. Ognuno di  questi protagonisti sta vivendo un piccolo grande cambiamento personale, che li attrae ma allo stesso tempo li spaventa: Belinda e la sua latteria, Mariolina e Marietta si allontanano dopo tanti anni, emozionate e impaurite, Ruggero si innamora, Claudia e Cesare si perdono e non sanno se riusciranno a ritrovarsi, amori e amicizie che nascono e altre che rifioriscono, e un mistero del passato che forse, finalmente, si risolve.

E' un libro buffissimo, questo Borgo Propizio, grazie soprattutto a questi suoi personaggi. Un libro piacevole e molto divertente da leggere, che scorre veloce veloce e ti lascia addosso un forte buon umore, un senso di positività (facilmente immaginabile, visto il nome) e di ottimismo. Perché anche le cose che all'apparenza ci sembrano più terribili si possono risolvere.
E in questo momento, bello, bellissimo ma anche un po' terrorizzante, in cui le tue abitudini devono cambiare e devi imparare a convivere con un'altra persona, avevo proprio bisogno proprio di un romanzo così.

Consiglio questo romanzo un po' a tutti. A chi sta affrontando dei cambiamenti e ne ha un po' paura; a chi si sente solo e triste; a chi ha bisogno di un po' di ottimismo e di finali lieti, e a chi invece già sta bene con se stesso ma ha voglia di leggere un libro simpatico, carino e allegro, per trascorrere qualche ora spensierata. 
Magari bevendo un bel tazzone di latte fumante. Se in casa non ne avete, fatevi mandare dalla mamma a prenderlo...

Titolo:  Borgo Propizio
Autore: Loredana Limone
Pagine: 289
Anno di pubblicazione: 2013
Editore: TEA
ISBN: 978-8850232680
Prezzo di copertina: 9 €
Acquista su Amazon:
formato brossura: Borgo Propizio

sabato 4 gennaio 2014

VOGLIO SOLO AMMAZZARTI - Stefano Piedimonte

Non sono mai stata una grande amante dei seguiti. Mi piace che un libro finisca con l'ultima pagina. Mi piace immaginare nella mia mente quello che succederà dopo, dare libero sfogo alla mia fantasia sulla sorte dei personaggi. Sarà forse per questo che non amo molto le serie e che non ne leggo quindi mai (se si esclude Harry Potter, ovviamente, e qualche altro caso isolato). Perché la maggior parte delle volte in cui mi è capitato di leggere un seguito ho provato una grande, grandissima delusione.

E quindi, quando ho saputo che stava per uscire il nuovo romanzo di Stefano Piedimonte, a più o meno un anno di distanza da Nel nome dello zio, e che si sarebbe trattato appunto di un seguito, il primo pensiero è stato: perché? Perché non inventarsi qualcos'altro? Perché non lasciare in pace lo Zio, Gennaro Spic e Span, il poliziotto Woody Alien e tutti gli altri personaggi e ricominciare da capo, a parlare sempre di camorra in modo comico, ma con un'altra storia?

Poi però, nonostante tutti questi miei interrogativi e nonostante la mia avversione per i seguiti, ho iniziato a leggerlo. E, fin dalle prime pagine, mi sono accorta che lo Zio un po' mi mancava. Mi mancava lui e mi mancavano tutti i personaggi strampalati da cui è circondato, in carcere con il compagno di cella Marelier (di professione venditore di acqua di mare ai pescivendoli) e fuori da esso, una volta evaso, con la sua strana banda di camorristi.
Ha un conto in sospeso lo Zio, il boss camorrista appassionato di Grande Fratello. Ha un conto in sospeso con Gessica, la sua donna, sua moglie, la madre di suo figlio, che nel libro precedente l'ha tradito, l'ha venduto alla polizia, facendolo finire nel carcere di Poggi Poggi (Poggioreale). E lui ora vuole vendicarsi. Per farlo deve evadere, scoprire dove la donna viene tenuta nascosta dal programma di protezione testimoni, raggiungerla, spararle un colpo in testa e portarsi via il bambino. Difficile per tutti, tranne che per lo Zio. Poi le cose in qualche modo si complicano, le carte si mescolano e lo Zio non riesce più a capire chi ha venduto chi, chi sa cosa e chi è dalla parte di chi. 

Rispetto a Nel nome dello Zio, forse Piedimonte ha perso un po' di verve. O forse a mancare è, necessariamente, l'effetto novità che il primo aveva provocato. Parlare della camorra in questo modo, metterla alla berlina così, con tutti i suoi difetti, le sue debolezze e le sue grandi paure, è sicuramente un modo per combatterla, o almeno per provare a esorcizzarla. Però secondo me, soprattutto nella seconda parte, il libro va troppo sul personale e si trasforma in un romanzo qualsiasi in cui c'è un uomo che vuole vendicarsi di qualcuno. Non c'è più la stessa denuncia che si ritrovava nelle pagine del precedente. O se c'è (vedi ad esempio il discorso di questi personaggi che si vendono continuamente l'uno all'altro, così come le vendette anche a distanza di tempo, la corruzione della polizia e la presenza anche al nord della camorra) è molto più blanda, meno diretta, meno spietata.
Fa sempre ridere, un sacco. E Piedimonte è sempre bravo nello scrivere, nell'inventare nomi strampalati e situazioni altrettanto bislacche. Ma, non so, ho sentito la mancanza di qualcosa.

E' un libro che chi ha adorato Nel nome dello zio deve comunque leggere, per vedere l'evoluzione, il cambiamento del personaggio e farsi ancora due risate insieme e su di lui. Chi non l'ha letto, invece, capirà sicuramente la storia, ma sarà difficile che lo apprezzi o che comprenda a pieno il coraggio e la bravura che questo autore aveva dimostrato con il suo primo romanzo.

Sono molto curiosa di leggere il prossimo romanzo, con altri personaggi però.
Titolo: Voglio solo ammazzarti
Autore: Stefano Piedimonte
Pagine: 251
Anno di pubblicazione: 2013
Editore: Guanda
ISBN: 9788823501270
Prezzo di copertina: 16,00€
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formato brossura: Voglio solo ammazzarti