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lunedì 29 luglio 2019

DOPO LE FIAMME - Fernando Aramburu

Camminando senza parlare, i due amici arrivarono davanti al portone di Zubillaga. Sulla facciata dell'edificio, la pittura ancora fresca, si poteva leggere: ZUBILLAGA SPIA, con il noto bersaglio sopra il nome. L'amico affrettò il passo come colto da una fretta improvvisa. Dopo pochi metri si girò e, con il volto alterato e i modi nervosi, sussurrò a Zubilaga: cancellalo prima che lo vedano i tuoi vicini. Cancellalo, accidenti, che con queste cose non si scherza.


Dopo le fiamme di Fernando Aramburu, da poco pubblicato da Guanda editore con la traduzione di Elisa Tramontin, è una raccolta di racconti che porta il lettore esattamente negli stessi luoghi, i Paesi Baschi, e nella stessa atmosfera, l’ETA e come viene vissuto tra la gente, di Patria, il grande romanzo di questo scrittore basco che nel 2018 ha vinto il Premio Strega Europeo.

Questa raccolta, in realtà, in Italia era già uscita nel 2007 per la casa editrice La nuova frontiera. Anche la traduzione era la stessa, cambiava però il titolo: in quella prima edizione, infatti, era stato mantenuto il titolo originale, nonché titolo del racconto in apertura, I pesci dell’amarezza.
Guanda lo ripubblica quindi dodici anni dopo, scegliendo questa volta come titolo dell’intera raccolta quello dell’ultimo racconto: Dopo le fiamme, appunto.

Un’informazione importante, questa. Perché, complice una fascetta volutamente generica (“Dopo Patria, ma ancora dentro Patria, il nuovo libro di un autore che è il grande caso editoriale di questi anni”) se non si sa che questi racconti sono stati scritti molto prima del romanzo si rischia di non apprezzarli come si meriterebbero.

I dieci racconti di Dopo le fiamme, infatti, sembrano una sorta di antipasto, di anticipazione di quel che Aramburu metterà poi dentro Patria, sviluppandolo all'ennesima potenza. Le tematiche sono le stesse, si diceva: siamo nei Paesi Baschi e l’ETA è nel pieno della sua attività. Manifestazioni, intimidazioni, attentati che colpiscono obiettivi precisi (chi non simpatizza per la causa basca) ma anche persone che passavano lì per caso, che ancora dovevano nascere, che volevano solo vivere tranquille e che invece ora si ritrovano segnati a vita.
Sono tutti racconti molto belli, perché Aramburu è bravissimo a raccontare la quotidianità, le reazioni estremamente umane, la paura, la rassegnazione, gli amici che diventano nemici perché non vedono alternative, ma anche la voglia di non arrendersi. È bravo a raccontare il clima, da un lato e dall'altro, che si respirava nelle vie, nelle piazze, nei quartieri ma anche all'interno di ogni singola famiglia.

Tra questi dieci racconti i miei preferiti in assoluto sono tre. Il primo è I pesci dell’amarezza, proprio in apertura. Qui conosciamo una figlia, “i giornali l’avrebbero descritta come una donna di ventinove anni che passava casualmente per il luogo dell’esplosione”, attraverso gli occhi del padre che la va a prendere in ospedale dove è stata ricoverata a lungo e che ora deve imparare a vivere senza l’uso di una gamba. Riprendere a vivere è molto difficile, triste. Affrontare il dolore di una figlia altrettanto difficile, triste. Ma in qualche modo ce la si deve fare, magari fermandosi a guardare il mare o diventando amici di un pesce in un acquario.
Il secondo è Relazione da Creta, in cui una donna racconta la sua storia con Santi, attraverso un diario che scrive per la psicologa mentre è in viaggio di nozze. Santi è un uomo strano, molto timido, che si ferma sempre un po’ di più al lavoro e che odia andare al cinema. Con lei a poco a poco sembra aprirsi e, grazie anche all’incontro con la madre, lei capisce che c’è un trauma, una ferita profonda dietro ai suoi comportamenti bislacchi. Decide quindi di aiutarlo, di tentare di tirarlo fuori da quell’abisso in cui da tanti anni è caduto: da quando hanno ammazzato suo padre.

Il terzo è Il figlio di tutti i morti ed è la storia di Iñigo, un figlio cresciuto senza padre. Un giorno, dopo aver assistito alla finestra a una manifestazione pro Euskera, il nonno gli racconta la verità, gli racconta di essere uno dei tanti bambini cresciuti senza padre per decisione di qualcun altro.
La madre si alzò dal letto, svestì il figlio e lo aiutò a mettersi il pigiama. Iñigo la lasciava fare. Una volta messo a letto, sua madre gli rimboccò le coperte e, al momento di augurargli la buonanotte, spostandogli la frangetta, gli diede due baci sulla fronte.
«Uno, due» sussurrò come al solito.
«Senti, ama, perché mi dai sempre due baci e li conti?»
«Uno è mio, l'altro è di chi non ti ha mai potuto baciare.»

Questi sono i miei tre preferiti, ma in tutti e dieci Fernando Aramburu riesce a trasmettere qualcosa di forte, di potente, che racconta di una società e un periodo storico di cui noi forse, qui a distanza, abbiamo saputo e compreso troppo poco.
Se avete amato Patria, ma anche quell'altra meraviglia che è Anni lenti, amerete tantissimo anche Dopo le fiamme. Vi ritroverete negli stessi luoghi, nelle stesse atmosfere, nella stessa impotenza e nello stesso dolore.  

Tutti dovevano vederlo: il suo dolore imperterrito, il suo dolore alto come un lampione in mezzo alla strada. Lo dovevano vedere anche quelli incapaci di provare compassione, quelli che se ne rallegravano di nascosto o apertamente e quelli che in quell'istante lo stavano festeggiando come una vittoria. Toñi pensava che il suo dolore dovesse costringere anche quelli, specialmente quelli, a deviare un po' il percorso per non sbatterci contro.Mentre attraversava i portici di una vecchia piazza si fermò davanti a una vetrina. Nei propri occhi vide più rabbia che tristezza. Continuò ad andare dove la portavano i piedi. Senza prestare attenzione a niente e nessuno arrivò al frangiflutti del molo, dove si fermò a guardare le onde e il cielo grigio e i pescherecci che uscivano a pescare. Passò molto tempo a parlare da sola. Al ritorno, quando arrivò al primo semaforo, vide arrivare a velocità sostenuta una betoniera. «Mi butto?» si domandò. Ma aveva tre figli e bisognava vivere.

Titolo: Dopo le fiamme
Autore: Fernando Aramburu
Traduttore: Elisa Tramontin
Pagine: 251
Editore: Guanda
Anno: 2019
Prezzo: 17,00€
Acquista su Amazon:
formato cartaceo: Dopo le fiamme
formato ebook: Dopo le fiamme

lunedì 18 settembre 2017

PARADISI MINORI - Megan Mayhew Bergman

Posso spegnere il mio cuore quando voglio, aveva detto.
Per anni le avevo creduto.
Ma ora so qual è la verità. La verità è che siamo pazzi, malati d’amore, tutti quanti.


I primi animali che ho avuto di cui ho memoria sono dei pesci rossi, quando ero bambina. Ce li compravano sempre in coppia, “così si tengono compagnia” ci dicevano i nostri genitori. Poi immancabilmente uno moriva, per qualche strano incidente (un salto fuori dalla vaschetta e giù dal frigorifero; un pesce preso per sbaglio per la coda durante il cambio dell’acqua; troppo cibo) e poco tempo dopo l’altro lo seguiva. Forse da solo si annoiava davvero.
Poi c’è stato un gatto, regalo di alcuni vicini di casa la cui gatta aveva appena partorito. Un gattino grigio, tigrato, con la testa enorme che lontano dalla sua mamma, però, non ci poteva stare. Quindi i vicini se lo sono ripreso.
Qualche anno dopo è arrivato un altro gatto, proprio pochi giorni prima del periodo più brutto della mia famiglia e, per quanto possibile, lo ha alleviato. Era un gatto rosso, buffo da piccolo e molto selvaggio una volta cresciuto: si divertiva a provocare il cane dei vicini, andando avanti e indietro di fronte al suo cancello, e ad attaccare rissa con gli altri gatti della zona. È stato brutto quando se ne è andato.
Poi ci sono stati altri pesciolini rossi (Ettore, sarai sempre nel mio cuore), dei cagnolini e ora un’altra bellissima gatta.

È incredibile quanti animali attraversino la nostra vita, spesso senza che ce ne rendiamo conto.  A volte lasciano un segno profondo, altre sono solo di passaggio e destinati a essere dimenticati. Ed è probabilmente questo che ha pensato Megan Mayhew Bergman quando ha scritto il suo Paradisi minori, una raccolta di racconti da poco pubblicata in Italia da NN editore con la traduzione di Gioia Guerzoni.
Dodici racconti, uno più bello dell’altro, in cui la vita degli animali si mischia a quella degli esseri umani che sono accanto a loro, in modo a volte più netto, altre solo di sfuggita.

C’è una donna che cerca disperatamente il pappagallo di sua madre, per sentire ancora una volta la sua voce. Ce n’è un’altra che sta per avere un figlio e che immagina la sua gravidanza come quella degli animali che suo marito, veterinario, cura.


Raccontami ancora della riproduzione del giaguaro, dissi.
La gestazione dura poco più di novanta giorni. Se allo stato brado le vengono sottratti i cuccioli la madre li cerca per ore, ruggendo di continuo.

Lo farei anch’io, dissi. Te lo giuro.

Ce n’è un’altra che aiuta suo padre a inseguire un sogno, quello di avvistare un picchio dal becco avorio, e intanto si innamora; e ancora una che sa proteggere un lemure in mezzo a una tempesta di neve e di ghiaccio, ma non riesce ad amare e farsi amare da sua figlia.

Voglio esagerare, spiegare, esaltare, espiare. Voglio raccontarle della proscimmia in via d’estinzione che ho nell’armadio. Voglio chiamarla e dirle che le voglio bene. Voglio raccontarle un’altra storia a cui lei non crederà.

Un’altra che si rifugia in un cottage, dopo aver scoperto di essere stata tradita dal marito, e immagina se stessa come un airone azzurro, che una volta era bello ma poi ingrigito dal tempo che passa; una giovane veterinaria che viene mandata ad analizzare lo stato di salute degli animali di una prigione e che ha ancora i segni sulla sua pelle di uno stupido errore del passato che condizionerà per sempre il suo presente; una donna che accoglie ogni tipo di animale ma è incapace di far rimanere con sé un uomo. Ce n'è poi un’altra che coltiva un orto urbano, ma che dentro di sé non riesce a far crescere nulla se non il senso di colpa verso il suo cane; e un’altra ancora che accompagna sua madre che sta per morire e affronta un coyote nella notte per poi rifugiarsi in un abbraccio; per arrivare a quelle balene che oggi cantano con toni più bassi, che spingono i loro piccoli in superficie per farli respirare quando nascono e a quella donna che ha sempre creduto che riprodursi in questo mondo fosse un gesto egoista ma che ora deve fare i conti con la realtà, con l’idea di famiglia e di protezione che ha sempre avuto e con quell'essere che cresce nella sua pancia.

Chiamai a casa. Rispose mio padre. Ciao papà, dissi. Posso parlare con la mamma?
Un attimo, disse. Penso sia fuori con il cane. Come stai tesoro?

Papà era infinitamente affidabile, il padre per antonomasia, mi mandava fiori per il compleanno, mi chiamava spesso, teneva i miei disegni delle elementari incorniciati in ufficio. In quell'istante, sentendo la sua voce, mi venne voglia di avere di nuovo dieci anni, di non sapere nulla del mondo, di sentirmi al sicuro davanti a casa a guardare la mamma che faceva giardinaggio e papà che grigliava hamburger, e a pensare solo ai compiti di ortografia o a prendere l'autobus. Oppure quando andavamo tutti insieme a camminare nei boschi di Camden, dopo il viaggio in macchina sui tornanti della Kancamagus Higway con la radio accesa.

Per poi finire con un cane che ingoia un calzino e salva una famiglia da un orso e una figlia che segue il padre malato mentre, in un futuro quasi apocalittico, va a pesca con la sua innamorata.

Dodici racconti, dodici storie che vedono come protagoniste delle donne in momenti diversi della loro vita: donne tristi, sole, tradite, donne che si ritrovano ad affrontare un imprevisto che mette in discussione tutto quello che sono state finora. Ma anche donne piene di vita, che cercano in ogni modo di raccogliere i pezzi di quello che è rimasto e fare la scelta giusta.
Sono donne molto umane, ma anche molto animali, perché è in essi (un pappagallo, un lemure, una balena, un giaguaro, un cane, un airone azzurro…) che si rispecchiano e, a volte, trovano o ritrovano se stesse.

Fatico un po’ a dire quale sia il mio racconto preferito (se proprio dovessi scegliere, forse direi Le balene di ieri), perché sono tutti molto belli, tutti un condensato di emozioni, dolorose e bellissime. E perché in ognuno di essi ci si può ritrovare qualcosa di sé
Di quei pesci rossi, di quei gatti e di tutti quegli animali che da sempre popolano, in un modo o nell’altro, la nostra vita.

Titolo: Paradisi minori
Autore: Megan Mayhew Bergman
Traduttore: Gioia Guerzoni
Pagine: 240
Editore: NN Editore
Prezzo di copertina: 18,00€
Acquista su Amazon:
formato brossura:Paradisi minori
formato ebook:Paradisi minori

venerdì 3 febbraio 2017

UN TEBBIRILE INTANCHESIMO E ALTRI RATTONCHI - Carlo Sperduti

Morale: se entrate in un locale e vedere elementi d'arrendo Ikea, trattateli con garbo. Sono molto sensibili.


Ogni volta che mi capita di dover recensire un libro pubblicato da Gorilla Sapiens edizioni, mi ritrovo a fissare per parecchi minuti la pagina bianca del post nel tentativo di riuscire a scrivere qualcosa. Colpa della mia coscienza che mi impedisce di ricorrere all'inflazionatissimo (seppur molto efficace): “fidatevi e leggetelo”.
Ovviamente mi sta succedendo la stessa cosa anche adesso. Dovrei parlarvi di Un tebbirile intanchesimo e altri rattonchi di Carlo Sperduti e trovare il modo di farvi capire che è un libro da leggere, ma non ho proprio idea di come fare.

Anche perché io mi sono convinta a leggerlo in un modo un po’ particolare. Non grazie alle recensioni di altri, ma ascoltando l’autore stesso leggere dal vivo il racconto che dà il titolo all'intera raccolta.
Protagonista è una strega cattiva e dislessica, anzi una sgreta tacchiva e dislessica, che, per vendicarsi della sua condizione ha gettato un tebbirile intanchesimo su tutti gli abitanti del regno, rendendoli a loro volta dislessici. Il rattonco, pardon… il racconto è tutto scritto così, in modo dislessico, e la lettura è stata talmente tanto folgorante che, appena terminata, mi sono alzata e sono andata a comprare il libro.

Tutti i brevi racconti che contiene sono all’altezza di quello che mi ha spinto ad acquistarlo. In ognuno di essi, Carlo Sperduti dimostra la sua incredibile, e non comune, capacità di giocare con le parole, con i loro doppi sensi e i loro significati (ma quanto mi ha fatta ridere “Voce dei verbi”, quanto? E dopo aver letto "Bertil" come farò a non provare un po' di compassione per i mobili Ikea spaiati?), dando vita a virtuosismi narrativi che rendono quasi inutile la presenza di una storia (e infatti di storie articolate in questi racconti non ce ne sono… e, quando ci sono, sono pervase da una nota di nonsense che le rende, per me, semplicemente fantastiche… anche quando non le capisco).

Ok, direi che qualcosa su Un tebbirile intanchesimo e altri rattonchi sono riuscita a scriverlo. Sperando che si sia capito quanto mi è piaciuto e, soprattutto, che Carlo Sperduti non legga questa recensione e ne faccia una recensione, dando vita a un "Non sono d'accordo con quello che scrivo 2.0".

In ogni caso, secondo me rimane valido quello che dicevo all'inizio, e che vale un po' per tutti i libri Gorilla Sapiens edizioni: fidatevi e leggeteli.


Titolo: Un tebbirile intanchesimo e altri rattonchi
Autore: Carlo Sperduti
Pagine: 127
Editore: Gorilla sapiens edizioni
Anno: 2013
Acquista su Amazon:
formato cartaceo: Un tebbirile intanchesimo e altri rattonchi

lunedì 16 gennaio 2017

NON È IL MIO GENERE! E invece (forse) sì! - Racconti

Sabato 14 gennaio si è tenuto il secondo incontro di Non è il mio genere! E invece (forse) sì, il ciclo di appuntamenti organizzato da me, Claudia di Il giro del mondo attraverso i libri e Stefania della libreria Sulla parola di Caluso.

Dopo il primo appuntamento, dedicato ai romanzi gialli e thriller, protagonisti questa volta sono stati i racconti. Un genere un pochino bistrattato, di solito ignorato dai più ma che ora sta riuscendo, piano piano, a ritagliarsi il suo spazio e la considerazione che si merita.
Credo che ormai sia quasi inutile ripetere quanto io adori questi pomeriggi: le sedie erano, di nuovo, tutte piene, e alle presentazioni dei libri si sono alternate come sempre chiacchiere, risate, gossip letterari (e non).

Inutile non è, invece, ringraziare ancora una volta tutti i partecipanti: Claudia e Stefania, che insieme a me hanno messo in piedi questi incontri, e tutte le altre persone che hanno deciso di trascorrere con noi il loro sabato pomeriggio.

©Il giro del mondo attraverso i libri

Ma veniamo ora alle raccolte di racconti consigliate. Mentre se ne parlava, molto spesso per definirle sono state usate parole come "strano", "particolare". Forse che gli scrittori di racconti, in poco spazio, se la sentano di osare un po' di più con le stranezze? O magari siamo noi che in un racconto cerchiamo il particolare, qualcosa che in un romanzo quasi sempre non si trova? Una domanda che ci siamo posti, durante l'incontro, e che ora giro anche a voi.

Intanto che ci pensate, ecco qui l'elenco dei consigli arrivati. Come sempre, nel caso il libro sia stato consigliato e recensito su uno dei nostri blog, trovate il link nel titolo.


Anna - Niccolò Ammaniti (Einaudi)

La sognatrice di Ostenda - Eric-Emmanuel Schmidt (e/o)

Dieci dicembre - George Saunders (minimum fax)

Dodici racconti raminghi - Gabriel García Márquez (Mondadori)

Incubi e deliri - Stephen King (Mondadori)

Moby Dick e altri racconti brevi - Alessandro Sesto (Gorilla Sapiens editori)

Undici solitudini - Richard Yates (minimum fax)

Bugiardi e innamorati - Richard Yates (minimum fax)

Scusate il disordine - Luciano Ligabue (Einaudi)

Non ho ancora finito di guardare il mondo - David Thomas (marcos y marcos)

La pazienza dei bufali sotto la pioggia - David Thomas (marcos y marcos)

Il pappagallo che prevedeva il futuro - Luciano Lamberti (gran via)

Sono il guardiano del faro - Eric Faye (Racconti edizioni)

Alla conquista della luna - Emilio Salgari (Cliquot)

Tra cielo e colline - Antonella Saracco (Araba Fenice) 

Nessuno accendeva le lampade - Felisberto Hernández (la Nuova frontiera)

Il viaggiatore - Stieg Dageman (Iperborea)

Il vento distante - Emilio Pacheco (SUR)

Ottaedro - Julio Cortázar (Einaudi) 

Sessanta racconti - Dino Buzzati (Mondadori)

Il prossimo incontro si terrà sabato 18 febbraio e, vista la vicinanza con San Valentino, sarà dedicata ai ROMANZI ROSA. Sempre alle 16, sempre alla libreria Sulla parola di Caluso.
Preparate i consigli... e i fazzoletti.

mercoledì 9 novembre 2016

LA SOGNATRICE DI OSTENDA - Eric-Emmanuel Schmitt

«Mi sto consolando piuttosto in fretta dal mio cruccio parigino. Ciò vuol dire che non ho poi perduto granché troncando quella storia. Ricorda cosa mi ha detto? Che è possibile rimettersi solo dalle cose poco importanti. E che da un amore totale non ci si riprende mai».
«Una volta ho visto un fulmine colpire un albero, e mi sono sentita molto vicina a quell'albero. Arriva un momento in cui bruciamo, ed è intenso, meraviglioso. Dopo, non resta che cenere».
Si girò verso il mare.
«Non si è mai visto un ceppo, anche vivo, ridare corpo a un albero intero».

Ogni volta che sento qualcuno dire “no, io non leggo i racconti, perché non mi coinvolgono tanto quanto i romanzi”, mi viene da pensare sempre che non abbiano mai letto i racconti giusti. Certo, poi è anche una questione di gusti, di percezione della lettura legata alla lunghezza del testo. Però, ecco, in generale, secondo me è perché non hanno mai letto un racconto ben fatto.

Come lo sono, per esempio, quelli dello scrittore francese Eric-Emmanuel Schmitt, le cui opere, divise tra romanzi e raccolte di racconti, sono pubblicate in Italia da edizioni e/o. 
Ho scoperto questo autore quasi per caso, acquistando a scatola chiusa Concerto in memoria di un angelo. Me ne sono poi follemente innamorata leggendo Odette Toulemonde e ho mantenuto viva questa passione con L’amore invisibile. Tre raccolte di racconti, tra cui fatico a scegliere la mia preferita.

Anche perché adesso si è inserito anche La sognatrice di Ostenda. Di nuovo una raccolta di racconti, di nuovo cinque storie raccontate in non più di settanta pagine ciascuna (la più lunga, quella che dà il titolo alla raccolta, ma le altre molte meno) che sono riuscite, ancora una volta, a conquistarmi totalmente.

C’è questa donna, La sognatrice di Ostenda appunto, che, ormai anziana e su una sedia a rotelle, racconta a un visitatore il grande amore della sua vita, sebbene tutti, in famiglia, siano convinti che lei non abbia amato mai. 
Ce n’è un’altra, in Delitto perfetto, che decide di liberarsi del marito, perché convinta che l’enorme amore che lui riversa su di lei sia troppo grande, troppo bello per essere vero, ed è stanca di essere presa in giro.
Ce n’è una terza, in La guarigione, che di mestiere fa l’infermiera e che non è mai stata capace di amare se stessa e il suo aspetto. Finché non arriva un paziente, cieco e in fin di vita, che l’aiuta a capire quanto sia bella.
Poi si arriva al quarto racconto, Cattive letture, che in realtà io ho letto per primo, una sera prima di dormire mentre cercavo qualcosa di non troppo lungo da leggere. Qui il protagonista è uomo di lettere, che però legge solo saggi, perché i romanzi e le opere di fantasia non sono che una perdita di tempo. Finché si ritrova a leggerne uno e a lasciarsi coinvolgere talmente tanto da non distinguere più la realtà.
La raccolta si chiude con la storia di un’altra donna, La donna con il bouquet, che tutti i giorni, da quindici anni, va alla stazione con un mazzo di fiori per aspettare l’arrivo di qualcuno.

« Ti giuro che è vero. Ogni giorno, da tre lustri. Forse anche di più, visto che ognuno, prima di notare la sua presenza, impiega degli anni. Di conseguenza anche il primo... Tu, per esempio, sono tre anni che vieni a Zurigo e me ne parli solo oggi. Come niente, sta qui da venti o trent'anni... Qualcuno ha provato a chiederle cosa aspetti, ma lei non ha mai dato risposta».
«E ha fatto bene» osservai. «D'altronde, chi può rispondere a una domanda del genere?».

Di Eric-Emmanuel Schmitt adoro lo stile, la poesia che impiega nel narrare le storie che racconta, anche quelle più disparate o più macabre, ma, soprattutto, il modo in cui descrive e delinea i personaggi, con le loro fragilità, le loro debolezze, la loro incredibile umanità.
Per non parlare della facilità con cui questo autore riesce a passare dal parlare d'amore (soprattutto in La sognatrice di Ostenda, che è davvero un racconto molto dolce, ma anche in La donna del bouquet) agli omicidi... che è una cosa che pochissimi scrittori sono in grado di fare.

Insomma, se non avete mai letto racconti o ci avete provato e non vi sono piaciuti, vi suggerisco di ritentare con una delle raccolte di Eric-Emmanuel Schmitt. E La sognatrice di Ostenda è decisamente un buon punto di inizio, per imparare a conoscere questo scrittore francese, ma anche per iniziare ad amare i racconti.

Titolo: La sognatrice di Ostenda
Autore: Eric-Emmanuel Schmitt
Traduttore: Alberto Bracci Testasecca
Pagine: 209
Editore: e/o
Anno: 2008
Acquista su Amazon:
formato brossura: La sognatrice di Ostenda

mercoledì 13 luglio 2016

HO SEMPRE AMATO QUESTO POSTO - Annie Proulx

Una giovinezza, la sua, senza rumori, eccetto il suono naturale del vento, lo scalpiccio degli zoccoli, lo schiocco delle vecchie travi che si incrinavano nel gelo dell'inverno, le strida degli aironi che scendevano lungo il fiume. A quel tempo uomini e donne stavano in silenzio, affidandosi alla loro capacità di osservazione. Certi giorni, vedendo muoversi qualche baffo di nuvola, gli sembrava di sentirne il rumore, come quello di una piuma trascinata lungo un cavo. Poi il vento portava via tutto, e il cielo rimaneva solo.


Ho dovuto cercare una mappa degli Stati Uniti per riuscire a localizzare precisamente dove si trovi il Wyoming. È uno di quegli stati che sai che esiste, che qualche volta hai sentito nominare, ma di cui fatichi a ricordare la giusta posizione geografica.
Anche perché è nel mezzo, un po’ a nord, lontano dalle coste e dalle grandi città turistiche. Vaste pianure circondate da alte montagne, dove di inverno si muore di freddo e d’estate ci si scioglie dal caldo.

È lì che sono ambientati tutti i racconti di Ho sempre amato questo posto, raccolta di Annie Proulx pubblicata in Italia da Mondadori con la traduzione di Silvia Pareschi. È lì che i personaggi di queste storie vivono la loro vita, quasi tutti con il sogno di possedere un ranch, di lavorare la terra, di fare i cowboy e quasi tutti costretti poi a fare i conti con la realtà, che spesso non lascia scampo.

E quindi è lì che troviamo un anziano in una casa di riposo che racconta a sua nipote il giorno della morte del padre e la scoperta di una terribile quanto incredibile verità (Un padre di famiglia). È lì che conosciamo Archie e Rose e il loro sogno d’amore, infranto dalla ricerca del lavoro e da un terribile inverno di solitudine (Quelle vecchie canzoni d’amore). È lì che cresce il Bambino di Artemisia, una pianta curata come se fosse un figlio da una coppia che di bambini non ne può avere (Il bambino di Artemisia). È lì che Hi e Helen cercano di farsi una vita che nel corso degli anni diventa sempre più difficile, soprattutto se si ha una tempra morale come quella di Hi (Il Great Divide). E ancora, è sempre in quel Wyoming sperduto che ci viene raccontata la vecchia abitudine della caccia ai bisonti (Grande- Ciotola-Unta- con Sangue) e dove Caitlin cresce come donna emancipata e robusta, che non litiga mai con il suo Marc, fino al giorno in cui si riversano contro tutto quello che per anni non si sono detti (Il testamento dell’asino). Ed è ancora lì che Dakotah vive la sua vita da figlia abbandonata e non voluta, e dove poi fa ritorno dalla guerra (A gambe all’aria nel fosso).

A questi racconti, tutti incredibilmente belli, a livello di stile, per la lucidità e la crudezza delle immagini e delle situazioni che Annie Proulx riesce a creare, e a livello di trama, se ne aggiungono due che hanno come protagonista il diavolo, che su questo Wyoming butta spesso il suo occhio. Due racconti, Ho sempre amato questo posto e Lo scherzetto della palude, che devo ammettere sembrano piazzati qui un po’ a sproposito, rovinando lo stile e l’atmosfera di tutti gli altri.
Nel complesso, comunque, Ho sempre amato questo posto è un gran bel libro, una gran bella raccolta di racconti che riesce a portare il lettore proprio là, tra quelle montagne e quelle terre desolate, in quel vecchio West che, dal punto di vista di chi lo vive e non ha soldi per sopravvivere, non ha niente di mitico e di leggendario. È solo vita e lotta per sopravvivere, per realizzare i propri sogni, o anche solo per non permettere che il mondo li infranga troppo.
Un libro consigliatissimo.


Titolo: Ho sempre amato questo posto
Autore: Annie Proulx
Traduttore: Silvia Pareschi
Pagine: 220
Editore: Mondadori
Prezzo di copertina: 18€
Acquista su Amazon:

martedì 3 maggio 2016

NON HO ANCORA FINITO DI GUARDARE IL MONDO - David Thomas

HO PAURA DI TUTTO. Dei cani, dei topi, dei serpenti e del temporale. Di essere in ritardo, malata, sfinita, sola, bloccata in ascensore o sorpresa. Ho paura degli altri, ho paura di dovermi giustificare, di dovermi spiegare, ho paura di essere mal giudicata, di deludere o di infastidire. Ho paura della folla, dell’isolamento, degli ictus, dei germi e di essere cacciata dal lavoro.
Solo tu non mi fai paura, e non sono sicura che sia un buon segno.

(Questa mia recensione è stata pubblicata su Ultima pagina il 26 aprile)


A tre anni dal suo primo libro pubblicato in Italia, La pazienza dei bufali sotto la pioggia, lo scrittore francese David Thomas è da poco tornato in libreria, sempre con Marcos y Marcos, con una nuova raccolta di piccole storie di quotidianità. Non ho ancora finito di guardare il mondo, tradotto dagli allievi della scuola di specializzazione per traduttori tuttoEuropa di Torino, con la supervisione di Maurizia Balmelli, non è altro che questo: una collezione di frammenti di vita, di storie di uomini e di donne che si trovano ad affrontare le piccole e grandi problematiche che il mondo mette loro davanti.
David Thomas deve essere un cultore delle cose di ogni giorno. Di quei piccoli istanti di felicità o di tristezza, di noia o di euforia, di vita insomma, che tutti affrontano nella loro quotidianità. Ed è per questo che per i suoi microracconti, che non superano mai le quattro pagine e che più sono brevi più sono efficaci, sceglie sempre la narrazione in prima, o al massimo in seconda, persona. Perché quello che succede a questi uomini e a queste donne potrebbe succedere a tutti. Anzi, già lo fa.

Tutti noi proviamo una soddisfazione incredibile a fare qualcosa di nascosto, come l’ascoltatore del primo racconto, Fare l’amore, che adora tenere la finestra aperta per sentire le urla di piacere dei vicini e sentirsi felice e in pace con il mondo. Tutti noi abbiamo qualcuno di cui odiamo le abitudini ma a cui alla fine non sapremmo mai rinunciare, come il protagonista di Caverna, che detesta sua moglie come solo chi ama davvero può fare, o quello di Urli, che cerca un po’ di pace ma poi nel silenzio proprio non riesce a stare. Tutti noi abbiamo amiche o amici che proprio non capiscono che cosa possiamo provare per qualcuno, perché fisicamente non proprio appetibile, come in Brutta, o semplicemente perché stronzo, in Niente di più semplice. Ma, soprattutto, tutti noi abbiamo rimpianti o rimorsi per il tempo perso, come la protagonista di Sette anni, che riesce a raccontare in poche righe il nascere, il crescere, il deteriorarsi e il finire di un amore, o per qualcosa che è stato e ora non è più e di cui forse non si è goduto abbastanza (provate a chiedere al povero Pugnetto).

La differenza è che forse non tutti saremmo in grado di affrontare le cose che la vita ci mette davanti ogni giorno come le affrontano i protagonisti dei racconti di Non ho ancora finito di guardare il mondo. Con amarezza, sì, con un’estrema coscienza di sé, dei propri limiti e delle proprie debolezze, soprattutto quando si parla d’amore, ma anche con ironia e autoironia. Come se David Thomas e i suoi personaggi, che a volte potrebbero sembrare un po’ folli ma che non sono altro che estremamente umani, sapessero che non c’è altro modo per sopravvivere alla realtà.

Sono anni che mi dico che dovrei cambiare macchina, lavoro, quartiere, donna e anche identità. Ma non so perché, non faccio niente per cambiare le cose. È deciso, domani mi cambio le mutande, queste sarà una settimana che ce le ho addosso. Sono sicuro che mi darà la carica per cambiare tutto il resto.

Non ho ancora finito di guardare il mondo di David Thomas è un libro da tenere vicino a sé e sfogliare di tanto in tanto, quando ci succede qualcosa di imprevedibile e non sappiamo come reagire, ma anche semplicemente quando la vita di ogni giorno ha il sopravvento su di noi, quando tante piccole cose si mettono insieme per farne una grande che ci sembra di non poter affrontare. Basta aprire questo libro in una pagina a caso e leggere uno dei settanta brevi racconti che lo compongono, per sentirsi un po’ meno soli, un po’ meno strani e, soprattutto, molto, molto più umani.


Titolo: Non ho ancora finito di guardare il mondo
Autore: David Thomas
Traduttore: Allievi della Scuola di specializzazione per traduttori editoriali, a cura di Maurizia Balmelli
Pagine: 192
Anno di pubblicazione: 2016
Editore: Marcos y Marcos
ISBN:978-8871686585
Prezzo di copertina: 16,00 €
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martedì 26 gennaio 2016

BENGODI e altri racconti - George Saunders

Se solo riuscissi a smettere di sperare. Se solo riuscissi a dire al mio cuore: arrenditi. Resta solo finché campi. In fondo c'è sempre l'opera lirica. Ci sono sempre il pane degli angeli e i canti di Natale dei bambini del quartiere, le foglie d'autunno sui tetti umidi. Invece niente. Il mio cuore è come uno sciocco sughero da pesca



È da più di un'ora che sono qui a fissare questa pagina bianca indecisa su come fare a parlarvi di Bengodi e altri racconti di George Saunders. Sono un po' in difficoltà, devo dir la verità. E la cosa strana è che già mentre leggevo questa raccolta di racconto sapevo che poi, al momento di recensire, avrei avuto dei problemi.

Ho conosciuto George Saunders grazie a Dieci Dicembre, la sua ultima raccolta di racconti, pubblicata come Bengodi da minimum fax con la traduzione di Cristiana Mennella, e me ne sono innamorata. Poi ho letto anche Pastoralia, altra raccolta di racconti, e la prima bella impressione era stata confermata e ribadita.

E allora perché, vi chiederete voi, ora ha delle difficoltà a recensire Bengodi? È perché è bello che toglie le parole o è perché non le è piaciuto? 

Bengodi è la prima raccolta di racconti pubblicata da George Saunders nel 1996. In Italia era già uscita per Einaudi qualche anno fa, e ora per fortuna recuperata da minimum fax, con l'aggiunta di una bellissima nota dell'autore che già da sola varrebbe tutto il libro. In questa nota racconta il percorso compiuto per arrivare alla scrittura di questi otto racconti. I suoi primi tentativi e lo sconforto della moglie di fronte alla sua scrittura, i suoi scrittori di riferimento, talmente di riferimento da volerli imitare a tutti i costi, fino alle prime piccole soddisfazioni, accompagnate dalle rimostranze dei vicini di casa. Un racconto divertente, che mostra fin da subito l'incredibile capacità stilistica di Saunders. 

Sì, ma i racconti?

I racconti che compongono Bengodi sono tutti molto belli. Tristi e disperati, grotteschi e a volte spaventosi. Protagonisti in quasi tutti sono delle persone ai margini, dei Difettosi, se usiamo la definizione che viene data loro proprio in Bengodi, il lungo racconto che da il titolo all'intera opera. Degli emarginati, per problemi fisici o economici, o semplicemente non adatti a vivere in questo mondo un po' utopico, pieno di gente cattiva e sicura di sé, che Saunders usa come metafora di quel che sta diventando la società di oggi.
Si sorride, ci si indigna, ci si commuove, e ogni tanto si prova anche un po' di orrore leggendo queste storie, fatte di personaggi che a volte vorrebbero arrendersi ma non possono, a volte sognano un riscatto che invece non arrivare, che vorrebbero semplicemente vivere la loro vita.

Ok, ma allora dove sta il problema?

Il problema è che, ahimè, non sono sicura di averli capiti appieno tutti. Ho colto la poeticità stilistica di Saunders e mi sono appassionata alle storie di tutti questi suoi personaggi e alle loro vite misere. Ma qualcosa mi è sfuggito. Non so se per lo stile ancora un po' acerbo di Saunders, per il fatto della lontananza spaziale e temporale (l'America del 1996 è ben diversa da quella di oggi... che comunque conosco solo tramite i libri e qualche film), o semplicemente per  qualche limite mio (che, sebbene forse non mi faccia molto onore, devo ammettere di avere) che mi ha impedito di comprendere appieno il reale significato di queste storie.

Magari Bengodi ha un tempo di maturazione più lungo delle due raccolte di Saunders che ho letto in precedenza. Magari tra cinque, dieci, cinquanta giorni finalmente avrò davvero compreso appieno quello che questo autore davvero voleva dirmi. Per ora mi rimane la consapevolezza di aver letto un autore con uno stile unico, e una bellissima introduzione al suo lavoro di scrittore.
E questo, senza alcun dubbio, per me è già sufficiente per consigliarvi la lettura di questo libro.

Titolo: Bengodi
Autore: George Saunders
Traduttore: Cristiana Mennella
Pagine: 213
Anno di pubblicazione: 2015
Editore: minimum fax
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formato brossura: Bengodi e altri racconti
formato ebook: Bengodi e altri racconti

lunedì 2 novembre 2015

LA MORTE DEI CAPRIOLI BELLI - Ota Pavel

L’anno seguente vennero con le reti per pescare i pesci del laghetto inferiore di Buštěhrad. In mezzo ai pescatori balenavano le uniformi della Wehrmacht, le carpe sarebbero state confiscate dalle forze armate tedesche.
Stavo sull’argine in mezzo ai ragazzi e aspettavo come sarebbe andata a finire.
L’inizio fu in grande stile, la banda militare suonava sulla diga e tutto prometteva bene. Ma nel laghetto non c’era nulla e nessuno riusciva  a spiegarselo. E io quella volta pensai che quella musica in realtà suonava solo in onore del mio papà che, con la stessa di David sul cappotto, aveva vuotato il laghetto ai tedeschi.


Di romanzi ambientati al tempo della Seconda Guerra Mondiale ce ne sono tantissimi e ancora continuano a uscirne. Forse perché c’è ancora tanto da dire, forse perché è un modo per essere sicuri di non dimenticare quanta sofferenza e quante atrocità sono state compiute. Non tutti, ovviamente, riescono nel loro intento di raccontare quell’epoca e a volte l’impressione che l’autore o l’autrice in questione stia semplicemente cavalcando un’onda è molto forte. 
Per questo ultimamente ne leggo pochi di libri ambientati in quell’epoca. Forse perché i più importanti, Primo Levi o Il diario di Anna Frank o Il partigiano Johnny, per citarne solo qualcuno, li ho già letti in passato. Forse perché a volte, anche in silenzio, si può ricordare.
Però quando mi hanno parlato per la prima volta di La morte dei caprioli belli di Ota Pavel, pubblicato in Italia da Keller editore con la traduzione di Barbara Zane, ho saputo subito che sarebbe stato qualcosa di diverso e che avrei dovuto leggerlo.

La morte dei caprioli belli è una raccolta di racconti di vita della famiglia di Ota Pavel. Una madre cattolica, un padre ebreo, famoso per le sue abilità di venditore e per l’incredibile passione per la pesca. Ota Pavel ci racconta la sua infanzia e la sua adolescenza, che hanno coinciso con l’inizio e la fine della Seconda Guerra Mondiale. Ma non lo fa parlando di battaglie, di vita nei campi di concentramento, di fucilazioni o di povertà. No, lui racconta la vita quotidiana della sua famiglia, le buffe peripezie del padre, che riesce a vendere aspirapolveri anche a chi ancora non ha la corrente elettrica, che ha una passione per le belle donne ma anche per sua moglie, che è disposto a tutto pur di concedere ai figli in partenza per il campo di concentramento un ultimo pasto decente e che proprio non ne vuole sapere di lasciare le sue carpe in mano ai tedeschi.  Attraverso i nove racconti che compongo la raccolta, si vede la crescita di Ota e l’evoluzione del padre, vero fulcro di tutte le avventure famigliari, nonché pilastro della vita dell’autore.

È una lettura divertente e commuovente al tempo stesso. È la storia di una famiglia che è riuscita a rimanere unita nonostante tutto: nonostante la guerra, che ha tentato di portarsi via qualche componente senza per fortuna riuscirci, ma anche nonostante le bizzarrie di un capo famiglia sempre alla ricerca di un sogno che non riesce mai a realizzare, ma che non gli impedisce di continuare a provarci e a prendersi le sue piccole soddisfazioni.

Dallo stile di Ota Pavel si sente il legame, il forte affetto che ha provato per tutta la sua famiglia. E questo si capisce anche dal fatto che questi racconti sono stati scritti dopo il suo primo ricovero per la malattia psichiatrica che poi lo porterà alla morte. Cercava forse un rifugio, in quel qualcosa di bello che è riuscito ad avere nonostante la situazione politica e sociale pareva rendere la felicità impossibile. 

Non so se mentre suo padre passava da un commercio all’altro, mentre inseguiva caprioli belli, comprava laghetti pieni di carpe o allevava conigli e maiali, Ota Pavel era felice. Perché forse sono di quelle felicità di cui ci accorgiamo solo quando ormai non le abbiamo più. Al lettore, però, questa felicità arriva e lo conquista completamente.

Insomma, La morte dei caprioli belli è davvero una piccola perla, assolutamente da leggere.


Titolo: La morte dei caprioli belli
Autore: Ota Pavel
Traduttore: Barbara Zane
Pagine: 159
Editore: Keller
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formato brossura:La morte dei caprioli belli

lunedì 28 settembre 2015

QUELLO CHE HAI AMATO - a cura di Violetta Bellocchio

Per cominciare a conoscere qualcuno, devo vedere cosa gli provoca una reazione forte. Il modo più semplice è fare una domanda. Che cosa ami?
Scelgo questa domanda perché non ho idea di quale risposta sto per ricevere. L’amore, in concreto, prende forme  strane e specifiche, e l’amore come concetto si può intendere in migliaia di modi. Che cosa ti piace? Che cosa ti muove? A cosa scegli di dare importanza? Che cosa ti spinge a cambiare, o a stabilire una tregua con una parte di te.


Violetta Bellocchio, scrittrice e curatrice della rivista online “Abbiamo le prove” (che se ancora non conoscete vi consiglio caldamente di visitare), ha posto questa domanda ha undici scrittrici italiane, compresa se stessa. Undici donne, a cui è stato chiesto di raccontare undici storie vere della loro vita che parlano d’amore. Da queste risposte, da questi racconti, Violetta Bellocchio ha fatto nascere Quello che hai amato, pubblicato da Utet.

Si parla d’amore, si diceva, ma non nel senso più comune che gli viene attribuito. Si parla d’amore per le cose, per gli oggetti, per le situazioni, per le città, per i luoghi, per gli altri, per se stessi. Sono storie di vita vissuta che in qualche modo hanno segnato la vita di chi le racconta. Possono sembrare all'apparenza banali, tipo la storia d’amore di Nadia Terranova per la vecchia panda di sua mamma, piazzato proprio in apertura alla raccolta. Possono sembrarci folli, come quell'amore smisurato per il cibo nella storia che ci racconta Mari Accardi. Tristi e nostalgici per un passato d’amore e un presente che non riesce mai a esserne all’altezza, se ascoltiamo le parole di Giusi Marchetta. Dolorosi, quando una persona che si ama smette d’improvviso di essere se stessa, con Carolina Crespi. Possono essere amori per una grande e caotica città, Napoli per Raffaella R. Ferré e New York per Claudia Durastanti, che a volte però racchiude in sé piccoli paesi, che crescendo si perdono e si abbandonano, come per Giuliana Altamura. Poi sì, nel racconto di Flavia Gasparetti c’è anche l’amore inteso come relazione amorosa tra due persone, ma è un amore fatto di abitudini, di imperfezioni, di incongruenze, di sofferente. E si ritorna poi all’amore per il proprio paese di origine, che assomiglia un po’ a un telefim e che diventa odio quando vacilla la certezza di potersene andare, nel racconto di Chiara Papaccio. L’amore per la lettura che mette insieme persone completamente diverse tra loro e porta a grandi riflessioni sulla propria vita e su quel grasso, quella Sugna, che deve far parte di ogni cosa che facciamo, per Serena Braida. Per poi arrivare alla fine, con il racconto di Violetta Bellocchio, che parla di scrittura e tornare a sorridere.

Nadia Terranova, Mari Accardi, Giusi Marchetta, Carolina Crespi, Raffaella R. Ferré, Claudia Durastanti, Giuliana Altamura, Flavia Gasparetti, Chiara Papaccio, Serena Braida e Violetta Ballocchio, con i loro racconti, hanno raccontato loro stesse, il loro modo di essere, di pensare, di amarsi e di amare, arrivando a creare qualcosa, secondo me, di incredibile. Per la forza narrativa, sicuramente, ma anche per tutte le sfaccettature che con i loro racconti, le loro storie, così diverse tra loro eppure che rispondono tutte alla stessa domanda iniziale, sono riuscite a dare.

Come succede con tutte le raccolte di racconti, alcuni li ho preferiti ad altri (il mio preferito in assoluto è Gioia e Fosco di Flavia Gasparetti, forse perché mi ricorda una mia storia passata, forse perché quello che racconta è ciò che più mi spaventa in una relazione), con alcuni stili ho faticato un po’ di più e forse uno o due racconti non li ho nemmeno capiti del tutto. Ma è normale, succede anche fuori dalle pagine di andare più d’accordo con qualcuno rispetto a qualcun altro.

Quello che hai amato è  stata per me davvero una grande lettura. Per il progetto in sé, di mettere tutte insieme queste scrittrici italiane e fare in modo che si raccontino, che poi è quello che succede quotidianamente su Abbiamo le prove. Ma anche per il coraggio, per la voglia di raccontare e raccontarsi, che queste scrittrici hanno avuto (parlare di sé non è più semplice che inventare, secondo me).

A chi dice che la narrativa italiana contemporanea non esiste, men che meno quella femminile, consiglio caldamente di leggere questo libro, che è solo un assaggio di quello che queste scrittrici sanno fare. E ovviamente lo consiglio anche a tutti gli altri, perché è davvero una gran bella lettura.

Titolo: Quello che hai amato
Autore: Nadia Terranova, Mari Accardi, Giusi Marchetta, Carolina Crespi, Raffaella R. Ferré, Claudia Durastanti, Giuliana Altamura, Flavia Gasparetti, Chiara Papaccio, Serena Braida e Violetta Ballocchio
Pagine :203
Editore: Utet
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formato brossura: Quello che hai amato. Undici donne. Undici storie vere
formato ebook: Quello che hai amato: Undici donne. Undici storie vere

martedì 22 settembre 2015

Ci vedo, e se non ci vedessi metterei gli occhiali... ovvero piccola invettiva contro i libri scritti a carattere 18 per farli sembrare più lunghi.

Ieri, mentre ero in coda dal medico, tra un pettegolezzo di una vecchina e un informatore saccente, ho letto Miracolo in libreria di Stefano Piedimonte.

Sul merito del libro entrerò in seguito, perché il fastidio provato per l’edizione, l’impaginazione e l’aspetto grafico in generale hanno preso un po’ il sopravvento sulla mia percezione del libro. Al punto che forse dovrò addirittura rileggerlo.
Miracolo in libreria è un racconto, che sono riusciti a spalmare su 77 pagine con espedienti differenti: l’aggiunta di qualche capito di un libro citato nel racconto sul fondo, un carattere enorme, un’impaginazione bislacca che fa sembrare il testo una lunga colonna. Prezzo di copertina: 7€. Che ci sta anche, perché se si pensa ai costi della copertina, della stampa, etc etc, tutto sommato non è una cifra così elevata.

È che a me, queste cose fanno un po’ arrabbiare. Visto che se lo impaginate normalmente e lo scrivete con un carattere normale, il racconto sarebbe venuto si e no di 20 pagine, non si poteva o aspettare che l’autore ne scrivesse un altro o aggiungerlo in calce a un romanzo, come contenuto extra?
La risposta, ovviamente, è no, perché loro ci guadagnano meno.


Il caso più clamoroso che io ricordi è sempre della Guanda, quando ha fatto uscire Tutti mi danno del bastardo di Hornby in un volumetto a 9€, quando in lingua originale era uscito solo in ebook a 0,99€. Mi ero arrabbiata anche se lo avevo comprato in originale e in ebook, perché capisco che Hornby è un nome che attrae e che quindi in molti lo avrebbero comprato, ma al tempo stesso viene mancare, secondo me, il rapporto di fiducia con i lettori che un po’ si sentono presi in giro. (Anche perché quel racconto funzionava solo come ebook  o dentro a una raccolta, da solo no).
Guanda comunque non è l’unica a fare questi giochetti. Mi viene in mente Rizzoli e il libro dei Carofiglio brothers, che per compensare avevano aggiunto in fondo delle ricette di cucina,  e/o con un Carlotto , per citare solo i casi in cui io ci sono cascata come una pera. Ma penso che tutti gli editori almeno una volta lo abbiano fatto.

Io, da lettrice, lo trovo irritante. È non è solo una questione economica. Cioè, anche sì, sarebbe inutile negarlo. Ma è il concetto in sé che trovo sbagliato. Devi fare cassa? Ok, ma dato che il lettore è chi ti permette di farla, magari dagli qualcosa in più di un libro scritto a carattere 18 e con margini enormi. Perché di fronte a una presa in giro tanto evidente, secondo me, ne rimette anche il contenuto del libro. Può essere un capolavoro, può essere riconosciuto come tale dal lettore meno irritabile come me, ma un pochino di amaro in bocca, pensando ai caratteri giganti o ai margini, rimarrà anche di fronte al libro più bello.

Lo so, in parte è anche colpa mia e, più in generale, di chi lo compra. Perché vuol dire che comunque, per quanto sia una presa in giro, funziona. Soprattutto con i  nomi che attirano, di cui magari si aspetta per anni un libro (ed è il caso di Hornby, ad esempio) o verso i quali si ha una certa curiosità o entrambe le cose (tipo il libro dei fratelli Carofiglio… ormai di Gianrico si venderebbe anche la lista della spesa).

(© Paweł Jońca)
Considerando anche le difficoltà del mondo dell’editoria e, soprattutto, di quello dei lettori, sempre più in calo (poi una volta o l’altra parleremo anche di nuovo di #ioleggoperché, eh…) secondo me espedienti del genere non andrebbero utilizzati, perché rischiano di allontanare ancora di più.

La cosa buffa è che io sono una grandissima amante dei racconti. Leggo tantissime raccolte, soprattutto monoautore, ma mi è capitato anche antologie. Quindi questa mia avversione non è assolutamente per il genere, ma per il modo in cui spesso viene presentato. E in parte secondo me l’avversione per questo genere è dovuta anche al fatto che spesso i singoli racconti vengono venduti e presentati da soli, come libri a se stanti, per cui si crea un effetto di aspettative-delusione, perché troppo corto, perché mi aspettavo più approfondimento da un libro singolo, etc etc…

Mi spiace davvero per Miracolo in libreria di Stefano Piedimonte, per essere stata l’origine (o forse la goccia…) di questo post. Anche perché tra un irritazione e l’altra, la storia in sé non mi è dispiaciuta per niente. Sicuramente lo rileggerò, anche perché ci vanno meno di venti minuti.


Mi rendo conto che questo post è in realtà una polemica molto personale, perché se io detesto questi libricini c’è magari chi invece li adora e quindi lo troverà completamente inutile. Però, ecco, volevo comunque condividere questo mio disagio.

lunedì 27 luglio 2015

PRENDI LA DELOREAN E SCAPPA - a cura di Andrea Malabaila



Quando è uscito il primo film della saga di Ritorno al futuro di Robert Zemeckis io ero appena nata. Già, ho la stessa età della DeLorean, di Doc e di Marty McFly.
Non mi ricordo esattamente quando ho visto il film per la prima volta. Avevamo una cassetta, registrata dalla tv come si usava tantissimo fare negli anni ’90, e ricordo me e mio fratello bambini che d’estate lo guardavamo a ripetizione, insieme al secondo e al terzo e a tutta una serie di altri film che sono diventati cult per una generazione (ET, Indiana Jones, Guerre Stellari… accompagnati da altri che probabilmente guardavamo solo noi, come Altrimenti ci arrabbiamo e tutti i film di Adriano Celentano). Ora che siamo cresciuti, entrambi abbiamo in casa il cofanetto con l’intera trilogia in bluray, un anno gli ho regalato la DeLorean di Lego che vedete nella foto e credo che ci ricordiamo ancora quasi tutte le battute a memoria (“Scappa Marty!I terroristi! I libbbbbbici” detto con più b possibile).

Quando la Las Vegas edizioni ha pubblicato Prendi la DeLorean e scappa, una raccolta di diciotto racconti curata da Andrea Malabaila, per festeggiare il trentennale del film il primo pensiero è stato “Cavolo, già trent’anni?”, il secondo “questi saranno pazzi come noi” e il terzo “devo assolutamente avere quel libro”.
E sì, a lettura conclusa, confermo che è un libro che tutti gli appassionati di Ritorno al futuro dovrebbero leggere.
Premesso che tutti sono scritti molto bene, come sempre succede nelle raccolte di racconti, che siano di uno stesso autore o di autori diversi, ce ne sono alcuni che mi sono piaciuti più di altri, forse perché costruiti proprio intorno al film o molto vicino ad esso che non una sua rielaborazione.
I miei preferiti in assoluto sono: Mutando di Daniele Vecchiotti, piazzato proprio in apertura e fonte di una grande rivelazione per chi non ha mai visto il film in lingua originale (mi ricordo il momento in cui ho fatto questa incredibile scoperta per la prima volta…); Il futuro non è ancora scritto di Gianluca Morozzi, in cui il protagonista trova un modo molto intelligente per far fruttare l’invenzione della macchina del tempo; Carlo Biffa e il banco formaggi del Bennet di San Martino Siccomario (PV) di Roberto Gagnor e Michela Cantarella, perché mi fa impazzire il titolo e perché mi ha dato molto, moltissimo di cui pensare; e  L’ultimo lettore di Christian Mascheroni e dal titolo non credo serva che vi spieghi perché.

Ma tutti i racconti di questa raccolta sono belli. Più o meno divertenti, più o meno intensi, tutti centrati sul tema dei viaggi nel tempo, argomento su cui il film aveva dato e ancora da’ molto da discutere.

Bella davvero l’idea di questo tributo letterario a un film che ha fatto la storia e che è una presenza fondamentale per alcune generazioni (quella precedente la mia, che l’ha visto al cinema appena uscito, la mia, che lo ha scoperto qualche anno dopo, e, spero, anche qualcuna dopo, sebbene le repliche in tv del film scarseggino un po’). Assolutamente da leggere!

Titolo: Prendi la DeLorean e scappa
Autore: Davide Bacchilega, Marco Candida, Eva Clesis, Vito Ferro, Roberto Gagnor e Michela Cantarella, Enzo Gaiotto, Manuela Giacchetta, Elia Gonella, Andrea Malabaila, Christian Mascheroni, Gianluca Mercadante, Claudio Morandini, Gianluca Morozzi, Daniele Pasquini, Giorgio Pirazzini, Giuseppe Sofo, Daniele Vecchiotti, Paolo Zardi.
Pagine: 170
Editore: Las vegas edizioni
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formato brossura: Prendi la DeLorean e scappa

mercoledì 11 marzo 2015

NOVE RACCONTI - J.D. Salinger

Ho dovuto riflettere molto prima di scrivere questo post. Non che normalmente io scriva post senza pensarci, però ecco i pensieri dopo aver terminato Nove racconti di J.D. Salinger sono stati molti e riuscire a decidere quali valga la pena di condividere è stato abbastanza complesso.

Che io ami i racconti credo si sappia già. Raymond Carver, Alice Munro, Agota Kristof, il nostrano Paolo Cognetti e la mia ultima lettura Eric-Emmanuel Schmitt, solo per citarne qualcuno (e ci aggiungerei anche Verga, da cui forse questa mia passione per i racconti inconsciamente è partita parecchi anni fa). Eppure non avevo mai letto dei racconti di Salinger, sebbene sia considerato uno dei capisaldi del genere da chi questo genere lo scrive. Non so dirvi perché, onestamente. Forse il fatto che questo autore viene citato quasi sempre solo per Il giovane Holden, libro che ho letto, sì, che mi è piaciuto, sì, ma che non mi è entrato nel cuore. Forse semplicemente perché nessuno mi aveva mai consigliato tanto caldamente di leggerli.
Poi è arrivato A pesca nellepozze più profonde di Paolo Cognetti, in cui racconta la sua scrittura tramite le opere di chi in qualche modo l’ha formato. Tra i vari racconti da lui citati, ricorreva spesso Per Esmé: con amore e squallore, un titolo che conoscevo solo “di fama” (e che trovo bellissimo). Cognetti è riuscito a incuriosirmi, a farmi venire voglia di leggere questo racconto ed è così che sono arrivata a Nove racconti, la raccolta che tra gli altri contiene appunto Esmé.

L’impatto iniziale con i racconti di Salinger, devo ammettere, non è stato dei migliori. Ho dovuto leggerli tutti due volte, prima di riuscire a comprenderne il (o parte del) senso. Un po’ è sicuramente colpa della traduzione di Carlo Fruttero, che poteva essere una grande traduzione quando è uscita ma che ora è decisamente troppo invecchiata. Una traduzione così, fatta da un grande tra l’altro, può far parte del fascino del libro, certo, ma nel mio caso ha reso la lettura davvero faticosa. Un po’ è che forse, per qualche inspiegabile motivo, la mia mente non era concentrata abbastanza sulla lettura (che avevo già rimandato una volta, dopo poche pagine) e quindi si è incagliata in punti in cui normalmente non l’avrebbe fatto.  Ci sono poi le aspettative, che erano molto alte,  e quasi sicuramente limite mio (che non posso negare) che mi ha impedito di apprezzare tutti questi racconti tanto quanto avrei voluto.

Sì, ho adorato il racconto in apertura, Un giorno ideale per i pescibanana. Mi sono piaciuti Alla vigilia della guerra contro gli Esquimesi, Il periodo blu di De Daumier-Smith e il dialogo finale di Teddy, oltre ovviamente allo stupendo Per Esmé: con amore e squallore, che era il vero obiettivo di questa lettura.  Però, ecco, ho l’impressione di essermi persa qualcosa. Di non aver capito qualcosa che avrebbe dovuto essermi chiaro. Di non aver colto l’intensità delle storie e, in alcuni casi, come dicevo anche prima, il loro reale significato.
E questa cosa mi fa arrabbiare, perché ero convinta che mi sarei innamorata di Salinger e dei suoi racconti, ma anche pensare al fatto che come lettrice ho (e avrò sempre) dei limiti che scoprirò nei momenti più impensabili.

Mi rendo conto che questa non è una recensione. Non può esserlo, perché per parlare bene o male di un libro del genere bisogna essere pienamente sicuri di sé, di quello che si è capito, di quello che è rimasto. E io, lo dico con tutta la sincerità del mondo, non sono sicura di nessuna di queste cose.

Continueranno a piacermi i racconti? Certo. Darò un’altra possibilità a Salinger? Ma sì, ovvio, che magari è solo una questione di momenti giusti. Vi consiglio i suoi Nove racconti? E di nuovo sì, ma preparatevi alla possibilità (magari remota, nel vostro caso) di scoprire che avete anche voi qualche limite.

Titolo: Nove racconti
Autore: J.D. Salinger
Traduttore: Carlo Fruttero
Pagine: 230
Editore: Einaudi
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formato brossura: Nove racconti

domenica 8 febbraio 2015

LE PERSONE, SOLTANTO LE PERSONE - Christian Raimo

Devo ammetterlo, sono un po' in difficoltà. Non so bene da dove partire per parlarvi di Le persone, soltanto le persone di Christian Raimo. 
Non so bene nemmeno se sono davvero in grado di parlarvi di questo libro,  di esprimere cose sensate che vi possano spingere in qualche modo a leggerlo.
Perché non mi aspettavo proprio che questa raccolta di racconti mi piacesse così tanto. Che non riuscissi a smettere di leggere e che arrivata alla fine sentissi questo vuoto.

Ecco, sono di nuovo frasi fatte, parole già sentite e che forse ripeto un po' troppo spesso quando mi ritrovo a parlare dei libri che mi sono piaciuti. E questo libro, le sensazioni, strane, che mi ha lasciato addosso, non se le merita tanto le frasi fatte. Forse perché Raimo non le usa mai. Non ricorre mai a cose già sentite, a fatti preconfezionati, ma racconta la vita e la sua reale assurdità, racconta le tensioni, la fragilità, la difficoltà e racconta di chi questa vita, queste assurdità, queste tensioni, queste fragilità e difficoltà le vive, le affronta, le subisce. Le persone, soltanto le persone, che possono fare di tutto e in qualche modo giustificare quello che fanno. Un titolo che trovo bellissimo e che in ogni racconto, che parli di un uomo che si innamora di tante Daniela, di  due amici che si allontano e poi si ritrovano e sembra quasi che non sia cambiato nulla, di un Calvino che proprio non sopporta Pasolini o di un Christian Raimo che si ritrova in un romanzo che sta leggendo, trova un suo senso, un suo sviluppo, al punto che potrebbe essere il titolo azzeccatissimo di ognuno di questi racconti.


Questa raccolta parla di tutti noi. I protagonisti dei vari racconti potremmo essere (o essere già stati) noi. Fragili a volte, disperati altre, innamorati, depressi, tristi, soli. Come lo sono tutti, almeno una volta nella vita. E nessuno sa come davvero andrà a finire... e per questo ho amato i finali aperti di questi racconti, a volte poetici, spesso quasi incongruenti e lontani da quel che ogni singolo racconto narra. Perché è la vita ad essere così.

Mi sa che ho iniziato a parlare a vanvera. E me ne scuso. Ma, come dicevo all'inizio, davvero non so cosa dire su questa raccolta per potervela consigliare in modo ragionato. Non so spiegare nemmeno a me stessa perché mi abbia colpito così tanto (considerando soprattutto che la prima raccolta di Christian Raimo, Latte, mi aveva lasciata un po' tiepida, come se non avessi capito cosa l'autore volesse dirmi).

E quindi mi fermo qui. Magari non avete capito niente di quello che ho detto. Magari quello che ho detto non ha alcun senso. Ma anche io sono una persona, soltanto una persona, che sta cercando un modo per consigliarvi un libro, per lei, bellissimo.


Titolo: Le persone, soltanto le persone
Autore: Christian Raimo
Pagine: 210
Editore: minimum fax
Anno: 2014
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formato brossura: Le persone, soltanto le persone

venerdì 19 dicembre 2014

A PESCA NELLE POZZE PIU' PROFONDE - Paolo Cognetti


Ogni volta che leggo un racconto, un libro di racconti o un libro che parla di racconti... insomma, ogni volta che leggo qualcosa che ha a che fare con i racconti, non posso fare a meno di chiedermi perché, in Italia, il genere sia così tanto bistrattato. Ultimamente le cose stanno un po' migliorando, in parte forse grazie anche al Nobel vinto da Alice Munro nel 2013, in parte al grande lavoro fatto da certi editori che sebbene il genere non venda continuano comunque a pubblicare (o ripubblicare) raccolte di racconti.
Ovviamente intendo i racconti con la R maiuscola. Quelli di Alice Munro, ma anche di Carver, Saunders e, ovviamente, Hemingway, giusto per citarne qualcuno.

Di italiani il primo che mi viene in mente è Paolo Cognetti. Da Sofia si veste sempre di nero, romanzo in forma di racconti che me l'ha fatto conoscere un paio di anni fa, alle raccolte Manuale per ragazze di successo e Una cosa piccola che sta per esplodere, che me ne hanno fatto definitivamente innamorare, credo che Cognetti sia uno dei migliori scrittori italiani contemporanei.

E questo suo nuovo libro, A pesca nelle pozze più profonde, me ne ha dato ulteriore conferma.

Non è un romanzo, non è un raccolta di racconti, non è nemmeno un saggio. È Paolo Cognetti che parla dei più grandi scrittori di racconti mondiali e dell'influenza che hanno avuto su di lui, del perché li ama tanto. Parla di Salinger e di Hemingway, di Carver e della Munro, di Flannery O'Connor e di David Foster Wallace. Tramite le loro storie, i loro racconti, Cognetti spiega la sua visione di questo genere, il modo in cui lui li scrive, li pensa, li immagina, mettendo spesso in luce le differenze con i romanzi. Lo fa da scrittore, sicuramente, ma anche da lettore, raccontando (sì, per quanto un po' ripetitiva, è la parola migliore) cosa ha trovato lui in ogni storia che ha letto.

Leggendo posiamo la mano sulla mano di uno scrittore, e se lo scrittore è bravo, e noi siamo fortunati, mentre la mano scrive riusciamo a vedere ciò che ha visto lui.

Cognetti ti fa innamorare persino dei libri che non hai letto. Ti fa venire voglia di cercarli e di buttarti subito tra le loro pagine (a me sta succedendo con i Nove Racconti di Salinger, che devo assolutamente trovare).

E poi c'è il suo stile, il suo modo di raccontare, semplice eppure profondo. La sua capacità, forse tipica di chi scrive racconti, di soffermarsi su un dettaglio e renderlo importante al punto da costruirci una storia.

Il libro si conclude con quattro raccontini su Sofia, la protagonista di Sofia si veste sempre di nero, che anche dopo la pubblicazione del libro l'autore non è riuscito a lasciare andare. Dice che ogni tanto sente il bisogno di tornare da lei. Non so se li avrei messi alla fine di questo libro, onestamente. Due mi sono piaciuti molto, due non sono così sicura di averli capiti in realtà, ma a prescindere da questo, qui avrei lasciato tutto lo spazio agli altri scrittori, al grande grandissimo omaggio che questo libro vuol fare loro.

In ogni caso, A pesca nelle pozze più profonde è un libro bello, sul valore letterario dei racconti e su quanto lavoro ci sia dietro per poter scrivere il racconto perfetto. E quindi è un libro che dovrebbe essere letto da chi, come me, ama i racconti e da chi invece li considera un genere in qualche modo inferiore rispetto al romanzo. Sono sicura che cambierebbe idea.


Titolo: A pesca nelle pozze più profonde
Autore: Paolo Cognetti
Pagine:130
Editore: minimum fax
Anno: 2014
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