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lunedì 18 settembre 2017

PARADISI MINORI - Megan Mayhew Bergman

Posso spegnere il mio cuore quando voglio, aveva detto.
Per anni le avevo creduto.
Ma ora so qual è la verità. La verità è che siamo pazzi, malati d’amore, tutti quanti.


I primi animali che ho avuto di cui ho memoria sono dei pesci rossi, quando ero bambina. Ce li compravano sempre in coppia, “così si tengono compagnia” ci dicevano i nostri genitori. Poi immancabilmente uno moriva, per qualche strano incidente (un salto fuori dalla vaschetta e giù dal frigorifero; un pesce preso per sbaglio per la coda durante il cambio dell’acqua; troppo cibo) e poco tempo dopo l’altro lo seguiva. Forse da solo si annoiava davvero.
Poi c’è stato un gatto, regalo di alcuni vicini di casa la cui gatta aveva appena partorito. Un gattino grigio, tigrato, con la testa enorme che lontano dalla sua mamma, però, non ci poteva stare. Quindi i vicini se lo sono ripreso.
Qualche anno dopo è arrivato un altro gatto, proprio pochi giorni prima del periodo più brutto della mia famiglia e, per quanto possibile, lo ha alleviato. Era un gatto rosso, buffo da piccolo e molto selvaggio una volta cresciuto: si divertiva a provocare il cane dei vicini, andando avanti e indietro di fronte al suo cancello, e ad attaccare rissa con gli altri gatti della zona. È stato brutto quando se ne è andato.
Poi ci sono stati altri pesciolini rossi (Ettore, sarai sempre nel mio cuore), dei cagnolini e ora un’altra bellissima gatta.

È incredibile quanti animali attraversino la nostra vita, spesso senza che ce ne rendiamo conto.  A volte lasciano un segno profondo, altre sono solo di passaggio e destinati a essere dimenticati. Ed è probabilmente questo che ha pensato Megan Mayhew Bergman quando ha scritto il suo Paradisi minori, una raccolta di racconti da poco pubblicata in Italia da NN editore con la traduzione di Gioia Guerzoni.
Dodici racconti, uno più bello dell’altro, in cui la vita degli animali si mischia a quella degli esseri umani che sono accanto a loro, in modo a volte più netto, altre solo di sfuggita.

C’è una donna che cerca disperatamente il pappagallo di sua madre, per sentire ancora una volta la sua voce. Ce n’è un’altra che sta per avere un figlio e che immagina la sua gravidanza come quella degli animali che suo marito, veterinario, cura.


Raccontami ancora della riproduzione del giaguaro, dissi.
La gestazione dura poco più di novanta giorni. Se allo stato brado le vengono sottratti i cuccioli la madre li cerca per ore, ruggendo di continuo.

Lo farei anch’io, dissi. Te lo giuro.

Ce n’è un’altra che aiuta suo padre a inseguire un sogno, quello di avvistare un picchio dal becco avorio, e intanto si innamora; e ancora una che sa proteggere un lemure in mezzo a una tempesta di neve e di ghiaccio, ma non riesce ad amare e farsi amare da sua figlia.

Voglio esagerare, spiegare, esaltare, espiare. Voglio raccontarle della proscimmia in via d’estinzione che ho nell’armadio. Voglio chiamarla e dirle che le voglio bene. Voglio raccontarle un’altra storia a cui lei non crederà.

Un’altra che si rifugia in un cottage, dopo aver scoperto di essere stata tradita dal marito, e immagina se stessa come un airone azzurro, che una volta era bello ma poi ingrigito dal tempo che passa; una giovane veterinaria che viene mandata ad analizzare lo stato di salute degli animali di una prigione e che ha ancora i segni sulla sua pelle di uno stupido errore del passato che condizionerà per sempre il suo presente; una donna che accoglie ogni tipo di animale ma è incapace di far rimanere con sé un uomo. Ce n'è poi un’altra che coltiva un orto urbano, ma che dentro di sé non riesce a far crescere nulla se non il senso di colpa verso il suo cane; e un’altra ancora che accompagna sua madre che sta per morire e affronta un coyote nella notte per poi rifugiarsi in un abbraccio; per arrivare a quelle balene che oggi cantano con toni più bassi, che spingono i loro piccoli in superficie per farli respirare quando nascono e a quella donna che ha sempre creduto che riprodursi in questo mondo fosse un gesto egoista ma che ora deve fare i conti con la realtà, con l’idea di famiglia e di protezione che ha sempre avuto e con quell'essere che cresce nella sua pancia.

Chiamai a casa. Rispose mio padre. Ciao papà, dissi. Posso parlare con la mamma?
Un attimo, disse. Penso sia fuori con il cane. Come stai tesoro?

Papà era infinitamente affidabile, il padre per antonomasia, mi mandava fiori per il compleanno, mi chiamava spesso, teneva i miei disegni delle elementari incorniciati in ufficio. In quell'istante, sentendo la sua voce, mi venne voglia di avere di nuovo dieci anni, di non sapere nulla del mondo, di sentirmi al sicuro davanti a casa a guardare la mamma che faceva giardinaggio e papà che grigliava hamburger, e a pensare solo ai compiti di ortografia o a prendere l'autobus. Oppure quando andavamo tutti insieme a camminare nei boschi di Camden, dopo il viaggio in macchina sui tornanti della Kancamagus Higway con la radio accesa.

Per poi finire con un cane che ingoia un calzino e salva una famiglia da un orso e una figlia che segue il padre malato mentre, in un futuro quasi apocalittico, va a pesca con la sua innamorata.

Dodici racconti, dodici storie che vedono come protagoniste delle donne in momenti diversi della loro vita: donne tristi, sole, tradite, donne che si ritrovano ad affrontare un imprevisto che mette in discussione tutto quello che sono state finora. Ma anche donne piene di vita, che cercano in ogni modo di raccogliere i pezzi di quello che è rimasto e fare la scelta giusta.
Sono donne molto umane, ma anche molto animali, perché è in essi (un pappagallo, un lemure, una balena, un giaguaro, un cane, un airone azzurro…) che si rispecchiano e, a volte, trovano o ritrovano se stesse.

Fatico un po’ a dire quale sia il mio racconto preferito (se proprio dovessi scegliere, forse direi Le balene di ieri), perché sono tutti molto belli, tutti un condensato di emozioni, dolorose e bellissime. E perché in ognuno di essi ci si può ritrovare qualcosa di sé
Di quei pesci rossi, di quei gatti e di tutti quegli animali che da sempre popolano, in un modo o nell’altro, la nostra vita.

Titolo: Paradisi minori
Autore: Megan Mayhew Bergman
Traduttore: Gioia Guerzoni
Pagine: 240
Editore: NN Editore
Prezzo di copertina: 18,00€
Acquista su Amazon:
formato brossura:Paradisi minori
formato ebook:Paradisi minori

venerdì 20 maggio 2016

LE COSE CHE RESTANO - Jenny Offill

Una falena volò nella stanza e sbatté le ali contro il paralume. Mi chiesi se fosse la stessa che aveva cercato di volare fino a una stella. Ma quella falena era morta, me lo ricordavo, e allora forse era la falena rimasta a casa a volare intorno al lampione, in strada. Mia madre mi aveva raccontato anche quella storia, spiegandomi che la morale era questa: non ci si può fidare delle stelle. Si spostano sempre più lontano man mano che ti avvicini.

Quando hai otto anni il tuo mondo è molto piccolo. I bambini del quartiere in cui vivi, qualche compagno di classe, i parenti se li hai vicino, e soprattutto i tuoi genitori. Sono loro che più di tutti, a quell’età, ti insegnano a guardare il mondo, a cercare di capirlo, e segnano, nel bene o nel male, quello che sarai più avanti. E sono loro che più di tutti cerchi di accontentare, stupire, compiacere.

Grace, la piccola protagonista di Le cose che restano di Jenny Offill, il primo romanzo di questa autrice americana che arriva ora in Italia grazie a NN Edizioni e alla bella traduzione di Gioia Guerzoni, dai suoi genitori cerca di assorbire più che può. Anche perché è una bambina un po’ solitaria, a cui il mondo reale va un po’ stretto, a causa delle mille avventure fantastiche e le mille storie che sua madre Anna le racconta continuamente. Il padre riesce quasi sempre a tenerle entrambe con i piedi per terra: è un uomo di scienza, lui, e le fantasie della moglie e quelle della figlia lo divertono, sì, ma senza esagerare. Eppure questa famiglia sembra funzionare: tra questa madre esuberante, questo padre così legato ai suoi principi, e questa bambina che ama entrambi.
A un certo punto però gli equilibri della famiglia si rompono. Il padre ha una grande opportunità che non si sente di rifiutare, ma Anna non riesce ad accettarlo. E quindi prende l’auto, ci carica dentro tutto quello che c’è in casa, si prende Grace e partono. Per dove, non si sa. Grace la segue, perché della madre si fida. Ma anche se ha solo otto anni e nelle fantasie della donna si è sempre trovata a suo agio, a poco a poco si rende conto che c’è qualcosa che non va, che le storie della madre sono sempre meno fantastiche, più complesse, più difficili per lei da capire. E questo cambia tutto.

Se avete letto e amato Sembrava una felicità, ultimo romanzo in ordine di scrittura di Jenny Offill ma primo a essere tradotto qui in Italia, vi approccerete a questo libro con enorme entusiasmo e, soprattutto, con altissime aspettative, quasi certi di ritrovarci quello stile asciutto eppur così intenso che aveva reso quel libro indimenticabile. Ecco, dimenticatevelo invece. 
Dimenticatevelo e iniziate a leggere Le cose che restano come se non fosse di Jenny Offill, o almeno con la consapevolezza che si tratti di un romanzo di molto precedente (questo è del 1999, Sembrava una felicità del 2014).

Se ci riuscite, e io devo ammettere di avercela fatta solo perché ho letto una bella recensione prima di cimentarmi con la lettura, ve ne innamorerete proprio come avevate fatto con l'altro libro. Adorerete queste due protagoniste femminili: la piccola Grace, una bambina molto sveglia, che ama in egual misura suo padre e sua madre, anche se dalla personalità di quest’ultima si ritrova quasi travolta, senza mai riuscire a capirla a fondo. E Anna, questa donna che racconta storie e che di mestiere salva uccelli in via d’estinzione, è un personaggio complesso, che a volte ti fa tenerezza, altre volte quasi ti disturba, quando non vorresti semplicemente strozzarla. 
L’unico che un po’ ci rimette è il padre, poco caratterizzato in realtà, o forse anche lui completamente schiacciato dalla personalità della moglie, che riesce a gestire solo fino a un certo punto.
Il nonno studiava le metafore, mi spiegò. Voleva capire perché il cervello metteva a confronto le cose. Ogni volta che andavano a fare un giro in macchina, inventava delle canzoni per lei durante il viaggio. La strada è un nastro, cantava. La luna è una torta. La notte prima di morire disse a mamma che mio padre era una lunga passeggiata con le scarpe strette.
Può darsi anche che in mezzo al libro vi perdiate un po’, in questo viaggio all'avventura di madre e figlia e, soprattutto, nei pensieri di Anna, che diventano via via più complessi, più confusi. Ma una volta arrivati alla fine vi ritroverete, in Grace, in suo padre, nell'adorabile Edgar, e in tutti quei personaggi che Anna in un modo o nell'altro ha toccato e stravolto, con la sua personalità.

Jenny Offill parla sempre di famiglie, di famiglie che sembrano felici ma che in realtà stanno in piedi in equilibrio precario che potrebbe rompersi da un momento all'altro. E lo fa con uno stile incredibile, pieno di vita, di sentimenti, di emozioni a volte forti e a volte folli, che trascinano il lettore lungo le pagine, su e giù tra gli stati d'animo dei suoi protagonisti, che alla fine vi lasceranno quasi senza fiato. 
Le cose che restano
 è un bel romanzo d'esordio, che lascia già sottintendere quel che di incredibile farà poi questa scrittrice con il suo libro successivo. Bello, bello davvero.


Titolo: Le cose che restano
Autore: Jenny Offill
Traduttore: Gioia Guerzoni
Pagine: 216
Anno: 2016
Editore: NN editore
Acquista su Amazon:
formato brossura:Le cose che restano
formato ebook: Le cose che restano

martedì 29 marzo 2016

GIRL RUNNER - Carrie Snyder

Ricordo che sussurravo la parola indistruttibile mentre correvo o quando sentivo arrivare un grande dolore, ma lo ripetevo perché sapevo di non esserlo. Non ho mai corso perché ero forte, se capite cosa intendo. Non era la forza che mi rendeva un'atleta, era il desidero di essere forte.
Correvo per coraggio. Lo faccio ancora, anche se è solo nella mia mente.

Non sono mai stata molto sportiva. Mi piace nuotare e pattinare, ma non lo faccio poi così spesso, in realtà. E andare a correre è forse l’attività fisica che odio di più. Ci avevo provato, qualche anno fa, a farlo con una certa costanza, ma non sono mai riuscita ad appassionarmici (troppa fatica, troppo sudore, troppo dolore alle gambe dopo). So che mi farebbe bene, che è uno sport quasi a costo zero e, vivendo in campagna, avrei anche molte strade poco trafficate in cui andare. Ma no, mi spiace, proprio non ci riesco.

Quando mi è stata proposta la lettura di Girl Runner di Carrie Snyder, romanzo da poco uscito per la casa editrice Sonzogno con la traduzione di Gioia Guerzoni, il primo pensiero è stato che qualcuno mi stava facendo uno scherzo. Oppure che volesse provare a convincermi a correre passando tramite l’attività che amo di più, la lettura. Sono stata molto indecisa se leggerlo o meno, devo dire la verità. A convincermi è stata una frase che ho letto a proposito di questo romanzo, scritta in una recensione pubblicata su Star Tribune, che lo paragonava a Olive Kitteridge di Elizabeth Strout. Ok, allora non è solo il libro di una che si mette a correre e corre per 280 pagine. Ci deve essere sicuramente qualcosa di più.

Girl Runner racconta la storia di Aganetha Smart, che nel 1928 conquistò la medaglia d’Oro alle Olimpiadi negli 800 metri. Correva fin da quando era bambina, Aganetha, tra un lavoro di campagna e l’altro, da sola o insieme a tutte le sue sorelle. Poi è cresciuta, e ha continuato a correre, con dei vecchi scarponcini che le rovinavano i piedi e poi via, veloce come il vento, con delle scarpe vere e su una pista vera. E poi ha vinto, è diventata famosa, allontanandosi da quella sua numerosa famiglia e da quasi tutti i problemi che le aveva sempre portato. Ma poi la disciplina è stata abolita e la sua vita è tornata quella di prima. Fino ad aver seppellito tutti i famigliari e con essi tutti i ricordi, gli scandali, le gioie e i dolori. Fino a 104 anni e a quella casa di riposo che non sa che lei correva e che ancora lo fa nella sua mente. Ma forse anche a 104 anni, anche su una sedia rotelle, anche con una voce fioca che a volte non riesce a farsi sentire, c’è ancora tempo per un’ultima corsa.

Girl Runner è stata una lettura inaspettatamente bella. Inaspettatamente, perché come dicevo all’inizio temevo fosse un libro incentrato principalmente sulla corsa. E in parte lo è sicuramente, perché Aganetha (che è un personaggio inventato, anche se fino a che non lo si legge nella nota finale dell’autrice non ce ne si rende conto) corre, corre sempre, nella pista, certo, ma anche nella sua vita. 
Una saga famigliare che in realtà parla di una sola generazione, che parte dai primi anni del Novecento in Canada, quando si moriva ancora di epidemie, o di parto, o di aborto clandestino, o, molto semplicemente, in guerra, e arriva fino a oggi.

Carrie Snyder è stata bravissima a creare questo personaggio e tutta la sua incredibile famiglia di contorno; è stata brava a mettere su carta, oltre alla corsa, alle Olimpiadi e al ruolo e alla considerazione delle donne nello sport di quegli anni, anche altri argomenti difficili da affrontare per l’epoca; è stata brava a saltare tra passato e presente senza generare confusione, ma creando un meccanismo perfetto. Quello che ne è venuto fuori è un libro coinvolgente e bellissimo.

Voglia di andare a correre Girl Runner non me l’ha fatta venire, questo no. E forse è proprio per questo motivo che lo consiglio a tutti, anche ai più pigri, anche a quelli che come me a prima vista, per il titolo (che non poteva comunque essere diverso, secondo me) e per la copertina (con la bella illustrazione di Maria Cecilia Azzali… e non ricordo se vi ho già detto quanto io adori queste nuove copertine Sonzogno), avevano pensato non facesse per loro. Sono sicura che vi stupirà, proprio come ha stupito me.


Titolo: Girl Runner
Autore: Carrie Snyder
Traduttore: Gioia Guerzoni
Pagine: 281
Anno di pubblicazione: 2016
Editore: Sonzogno
Prezzo di copertina: 16,50€
Acquista su Amazon:
formato brossura: Girl runner
formato ebook:Girl runner (Romanzi)