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sabato 2 febbraio 2019

Leggendo a gennaio: Korn, Manzini, Backman, Saramago... per tacer di Tom Gauld

Gennaio è stato un mese lunghissimo. I sei giorni di ferie con cui è iniziato sono diventati un ricordo già dal primo giorno di rientro al lavoro e, adesso che finalmente il mese e finito e ne è iniziato uno nuovo, se mi guardo indietro mi sembra che siano passati secoli da quando il 2019 è iniziato.
Eppure no, è durato solo trentuno giorni, come sempre e come fanno tanti altri mesi dell’anno. E ne sono passati poco più di quindici dall’ultima volta in cui ho pubblicato un post qui sul blog. Mi ero ripromessa che nel nuovo anno avrei tentato di aggiornarlo più spesso ma, come potete ben vedere, mi sa che il mio intento è già miseramente fallito.
E mi dispiace molto, soprattutto perché in questo mese ho letto tanto e tante cose belle. Per questo ho deciso di fare un post cumulativo, per raccontare in breve le letture che mi hanno accompagnato in questi lunghissimi trentun giorni appena trascorsi e a cui non sono purtroppo riuscita a dedicare un post singolo (quindi no, qui non ribadirò quanto poco mi abbia convinto La misura dell’uomo di Marco Malvaldi, perché lui si è meritato una recensione tutta sua).
Eccoli qua:


Partiamo con quella meraviglia di Figlie di una nuova era di Carmen Korn, primo volume di una trilogia portato qui in Italia da Fazi editore e tradotto da Manuela Francescon e Stefano Jorio. Protagoniste sono quattro donne, di origini e classi diverse, che vivono ad Amburgo nella prima metà del ‘900 e i cui destini si incroceranno con l’arrivo della guerra e delle varie vicende personali che si ritroveranno a vivere. Henny e Kathe sono amiche da sempre e ora, insieme, stanno studiando per diventare ostetriche; Ida è la rampolla di una buona famiglia, abituata agli agi e ai lussi e disposta a tutto pur di averli, forse anche a sacrificare l’amore; Lina è sopravvissuta alla Prima guerra mondiale insieme al fratello grazie ai genitori, morti di fame per permettere a loro due di sopravvivere. Mentre le loro vicende personali proseguono, tra amori clandestini, desiderio d’indipendenza, impegno politico e tante decisioni sbagliate (Henny, porca miseria!), sullo sfondo scorre la storia del ‘900, con l’avvento del nazismo e tutto ciò che porterà con sé. Era da tanto che un libro non mi prendeva così tanto, che non mi ritrovavo tanto immersa in una storia e nei suoi intrecci. Non vedo l’ora che esca il secondo volume, perché una volta girata l’ultima pagina, queste donne di Amburgo già mi mancavano parecchio.
Henny tese l'orecchio. Le sembrava di aver sentito salire dal cortile, fino al secondo piano, un suono venuto dal passato, come un rintocco di campana o il verso di un merlo. Le vennero in mente i sabati della sua infanzia. Sabati estivi. L'acqua che scintillava nella cisterna. Il ribes bianco che le lasciavano cogliere dai rovi addossati al muro di cinta, il profumo della torta che sua madre aveva già messo in forno per la domenica. Suo padre, appena tornato dall'ufficio, che fischiettava mentre si liberava della cravatta e si sbottonava il colletto della camicia.
Henny andò alla finestra, l'aprì e stette ad ascoltare il suono che aveva risvegliato in lei quella serie di immagini. Il cigolio della vecchia altalena.
Era ottobre quando è uscito Fate il vostro gioco di Antonio Manzini. Ne avevo parlato come un romanzo di transizione, dopo due libri carichi di emozioni e tensioni. Mi era sembrato quasi un libro sospeso, finito un po’ troppo bruscamente... ed ecco svelato l’arcano: il 10 gennaio, infatti, è uscito Rien ne va plus, un’altra avventura del vicequestore Rocco Schiavone. No, Manzini non ha scritto un romanzo in tre mesi. Semplicemente Fate il vostro gioco e Rien ne va plus sono lo stesso libro, diviso in due per questioni verosimilmente di lunghezza, ma anche (e soprattutto, forse) per far contenti i fan, non costretti ad attendere il solito anno tra una puntata e l’altra. In Rien ne va plus tutte le cose che mi avevano lasciato perplessa di Fate il vostro gioco un po’ si chiariscono: da un lato continuano le vicende personali di Rocco, tra il rimpianto per Caterina e le rivelazioni sempre più pericolose di Baiocchi, che rischiano di mettere il nostro vicequestore preferito in una posizione terribile; dall’altro c’è un portavalori del casinò di Saint Vincent che misteriosamente sparisce e Rocco capisce subito che c’è un collegamento con la morte del ragionier Favre; ma soprattutto che c’è qualcosa di molto, molto più grande dietro. Intanto si consolida il rapporto con Gabriele, Lupa è sempre più coccolosa e Rocco (che sì, ora ha inevitabilmente la faccia di Marco Giallini, ma va benissimo così) ha ancora tanti fantasmi a perseguitarlo. Non vedo l’ora che esca il prossimo.

Ho scoperto Fredrik Backman qualche anno fa con il suo romanzo d’esordio, L’uomo che metteva in ordine il mondo. Me ne ero follemente innamorata: avevo adorato il modo in cui tratteggiava i suoi personaggi e il suo stile, con quella capacità che non tutti hanno di raccontare anche le cose più tristi nel modo più buffo e dolce possibile (il dolore resta sempre, ma diventa più affrontabile). L’amore si è poi consolidato con Mia nonna saluta e chiede scusa, dove compare per la prima volta il personaggio di Britt-Marie, che si è poi meritata un romanzo tutto suo: Britt-Marie è stata qui (pubblicato da Mondadori con la traduzione di Andrea Stringhetti).
Britt-Marie è una donna un po’ scontrosa, incapace di uscire dalla gabbia delle imposizioni sociali e del “chissà cosa direbbero gli altri”. Ha sempre vissuto per il marito e per i figli di lui, tenendo la casa impeccabile e sacrificando se stessa, ricevendo in cambio solo recriminazioni e prese in giro.

Alla fine desiderava solo un balcone e un marito che non camminasse sul parquet con le scarpe da golf, che qualche volta mettesse la camicia nel cesto della biancheria senza bisogno di ricordarglielo e che ogni tanto dicesse che la cena era buona senza bisogno di chiederglielo. Una casa. Figli non suoi ma che vengono lo stesso a Natale. O almeno cerchino di far finta di avere un motivo per non venire. Un cassetto delle posate sistemato in modo corretto. Finestre da cui si possa vedere il mondo. Qualcuno che si accorga che si è sistemata i capelli con particolare cura. O che almeno faccia finta di accorgersene. O che almeno le permetta di continuare a fingere. 
Qualcuno che una volta ogni tanto torni in una casa con il pavimento pulito e la cena calda in tavola e veda i suoi sforzi. Perché le persone sono come le cene. Devono avere un senso. "Che bella pettinatura". È una frase che ha senso.

Forse un cuore si spezza solo quando si esce da una stanza d'ospedale con camicie che puzzano di pizza e di profumo, ma tutto si spezza più facilmente se prima si sono formate delle crepe.

Però quando il tradimento del marito, che lei già conosceva, diventa di dominio pubblico decide che non può più sopportare e se ne va di casa. Alla ricerca disperata e ossessiva di un lavoro, accetta uno strano incarico a Borg, una comunità sperduta su cui la crisi ha picchiato molto duro. Tutti i negozi e le attività che ancora non sono chiuse chiuderanno a breve e il paesino sembra destinato a morire. Britt-Marie, con le sue fobie, la sua smania per le pulizie e la sua mentalità ingenua, riesce in qualche modo a far breccia nei pochi abitanti rimasti. Senza nemmeno capire come, si ritrova addirittura ad allenare la squadra di calcio dei ragazzi del paese e a prendersi cura di loro a modo suo. Sembra esserci una speranza per Borg, nonostante tutte le tragedie e le difficoltà che sta vivendo, e sembra esserci anche per Britt-Marie.
Nella caratterizzazione di questo personaggio forse Fredrik Backman ha calcato un po’ troppo la mano, perché nella prima parte è talmente insopportabile e talmente incredibile nelle sue ingenuità che vien quasi voglia di chiudere il libro. Una voglia che però poi passa, man mano che si procede con la lettura e si assiste al cambiamento di Britt-Marie e di tutte le persone attorno a lei. È un libro pieno di buoni sentimenti, di quelli che scaldano il cuore e fanno bene, perché, ancora una volta, mostra come anche nelle tragedie, nelle difficoltà e nei momenti brutti si possa (e si debba!) trovare qualcosa per cui vale la pena sorridere.

L’ultimo libro di gennaio è Le piccole memorie di José Saramago, tradotto da Rita Desti. Un libriccino comprato un po’ per caso (insieme a Diario di scuola di Pennac per prendere la coperta del lettore di Alice nel paese delle meraviglie) e che mi ha fatto ricordare ancora una volta quanto io voglia bene a José Saramago. In questo piccolo memoir, lo scrittore portoghese racconta alcuni aneddoti della sua infanzia: i rapporti con i genitori e con i nonni, gli anni di scuola e le amicizie nate tra i banchi, i personaggi bislacchi che ha incontrato nella sua infanzia e adolescenza, i ricordi del fratellino morto a tre anni... tante piccole cose, che forse alla produzione di Saramago non aggiungono nulla, ma che per chi già lo conosce e lo ha sempre adorato sono molto preziose. (Nel caso voleste iniziare a conoscerlo: consiglio Cecità, L’uomo duplicato e Lucernario... tenetevi Il Vangelo secondo Gesù Cristo e Caino per quando avrete preso più in confidenza con il suo stile).

Ho raccontato altrove come e perché mi chiamo Saramago. Che quel Saramago non era un cognome per parte paterna, bensì il soprannome con cui era conosciuta la mia famiglia nel paese. Che quando mio padre andò a dichiarare all'Anagrafe di Galeğa la nascita del suo secondo figlio, capitò che l'impiegato (si chiamava Silvino) fosse ubriaco (indignato, di questo lo avrebbe sempre accusato mio padre) e che, nei fumi dell'alcol e senza che nessuno si accorgesse dell'onomastico frode, decidesse, a suo rischio e pericolo, di aggiungere Saramago al laconico José de Sousa che mio padre voleva che fossi. E che, in questo modo, infine, grazie a un intervento a tutte le evidenze divino, mi riferisco, è chiaro, a Bacco, dio del vino e di coloro che eccedono nel berlo, non ho avuto bisogno di inventare uno pseudonimo, caso mai ci fosse stato un futuro, per firmare i miei libri.

Tra un romanzo e l’altro, a gennaio c’è stato tempo anche per i fumetti di Tom Gauld, in particolare di Baking with Kafka (esiste anche la versione italiana, In cucina con Kafka, pubblicata da Mondadori... ma se sapete l’inglese vi consiglio l’originale). Tutti gli appassionati di libri e di letteratura dovrebbero conoscere e leggere le vignette di Gauld: fanno ridere e fanno riflettere, ma soprattutto dimostrano quanto si possa amare il mondo dei libri senza prendersi mai troppo sul serio, perché gli scrittori famosi ma anche i personaggi dei libri sono prima di tutto esseri umani.

Source: https://bit.ly/2S8aIID


martedì 30 ottobre 2018

ASIMMETRIA - Lisa Halliday

La terza domenica l'uomo comprò due coni da Mister Softee e ne offrì uno ad Alice. Lei lo accettò, come aveva fatto con la cioccolata, anche perché già gocciolava. E comunque uno che ha vinto più di una volta il Premio Pulitzer non va in giro ad avvelenare la gente.


Lo so, lo so. Quella fascetta avrebbe dovuto mettermi in guardia. Le parole “caso editoriale” e “un libro imperdibile” per lanciare un romanzo sono ormai talmente tanto abusate che ogni anno abbiamo almeno duecento libri dell’anno, quattrocento casi editoriali e mille libri imperdibili. Ma si sa, tutte le fascette tendono a essere un po’ roboanti, a lanciare ogni singolo libro come se fosse il capolavoro che tutti dovrebbero leggere, sperando così di emergere un po’ dalla massa. E se non leggessi tutti i libri che hanno un lancio simile, probabilmente mi limiterei a cinque o sei testi all’anno.
Certo, poi sono usciti anche commenti molto entusiastici, forse un po’ troppo, che avrebbero proprio dovuto farmi stare lontana da questo libro. Ma sono curiosa, non ci posso fare niente. E poi non volevo rischiare che un mio preconcetto, spesso totalmente infondato, rischiasse di farmi perdere qualcosa che invece mi sarebbe piaciuto.

E quindi sì, ho letto Asimmetria di Lisa Halliday, tradotto da Federica Aceto per Feltrinelli editore. E un po’ me ne sono pentita.
Intanto, Asimmetria è un romanzo per modo di dire. Si compone di tre parti. La prima e l’ultima sono in qualche modo collegate tra loro, mentre quella intermedia sembra del tutto avulsa dal resto.

Si parte con Follia: protagonisti sono Alice, una ragazza di venticinque anni che lavora come redattrice in una casa editrice ma sogna di scrivere, e Ezra Blazer, scrittore di fama internazionale, vincitore del Premio Pulitzer e di tutta una serie di altri riconoscimenti, tranne il Nobel... vi suona famigliare, eh? L’autrice stessa non ne ha fatto mistero: Ezra è Philip Roth e Alice è lei. E quindi sì, anche la relazione che racconta è reale. Ezra è un signore anziano, con un certo fascino; Alice una ragazza che ancora deve trovare la sua strada. I due vanno a letto insieme, poi, quando lo stato di salute di Ezra peggiore, si frequentano come due innamorati. Lui sta scrivendo e intanto attende che gli arrivi quel tanto agognato premio che aspetta con ansia e che ancora gli manca; lei sta cercando la sua strada nel mondo e, a un certo punto, capisce che forse avere accanto un signore così anziano, con così tanti bisogni e necessità, non sia poi una buona idea.
“Mary-Alice,” le disse lui con tenerezza dopo qualche istante. “Io lo so cos’è che fai.”
“Cosa?”
“So cosa fai quando sei da sola.”
“Cosa?”
“Scrivi. Non è così?”
Alice si strinse nelle spalle. “Un po’.”
Nella seconda parte, Pazzia, la storia cambia completamente. Ci ritroviamo in aeroporto a Heathrow con Amar, un economista iracheno-americano che fa scalo lì nel suo viaggio verso l’Iraq per andare a trovare il fratello. Ha due giorni liberi prima del volo successivo e vorrebbe trascorrerli a Londra con un amico, ma la polizia aeroportuale non vuole farlo uscire: la sua storia e il suo passato sembrano essere troppo complicati per poterlo lasciar andare liberamente in giro per la città. Amar, nell’attesa di capire quale sarà il suo destino in terra inglese, ripensa alla sua vita, alla sua infanzia, al suo rapporto con i genitori e il fratello, a tutto ciò che lo ha portato a essere lì, in quella sala d’attesa, in quel momento.

La terza parte, Desert Island Discs con Ezra Blazer, è invece un’intervista radiofonica, che ha come protagonista proprio Ezra, chiamato a elencare quali dischi poterebbe con sé su un’isola deserta. Fresco fresco di Nobel, lo scrittore parla della musica che ha influenzato la sua vita e la sua scrittura, mentre ci prova spudoratamente con la sua intervistatrice.

Qualcosa in Asimmetria deve essermi sfuggito, perché io l’ho trovato solo molto lento e molto noioso, soprattutto nella parte che, almeno sulla carta, avrebbe dovuto interessarmi di più: ovvero la storia tra lo scrittore Ezra e Alice. Come penso sia stato per molti, ad avermi spinto alla lettura è stato proprio il sapere che Lisa Halliday qui racconta la storia sua e di Philip Roth, filtrata attraverso due alter ego che non so quanto effettivamente siano somiglianti alla realtà (spero poco, perché io Alice l’ho trovata davvero antipatica).  Non ho trovato tenera la storia d’amore tra Ezra e Alice, anzi, a volte per me è stata al limite dell’irrispettoso nei confronti di colui che è stato un grande scrittore, ma anche, a un certo punto e inevitabilmente, un anziano con problemi di salute. 
La seconda parte, secondo me, è quella riuscita meglio, la più interessante, sia per la storia del passato di Amar, sia per le difficoltà al limite del grottesco che sta vivendo in quel momento in aeroporto solo perché ha un doppio passato. Però non ho davvero capito il collegamento né con la precedente né con la successiva (sì, c’è qualche piccolissimo riferimento, ma proprio proprio minimo), al punto che ammetto di aver pensato che sia stata inserita più che altro per dar spessore al libro, altrimenti troppo breve. Oppure è possibile che sia io a non saper cogliere il senso di questa “narrazione asimmetrica” che riflette in qualche modo “le asimmetrie della vita”... insomma, per me sarebbe stato meglio dire semplicemente che si trattava di una raccolta di tre racconti.

In generale, da Asimmetria mi aspettavo molto, molto di più. E non solo per via di una fascetta altisonante e dei commenti positivi letti ovunque (a cui, bisogna dare atto, hanno poi fatto seguito anche altri decisamente meno entusiastici). Mi aspettavo di più perché una storia come quella che ha vissuto Lisa Halliday con Philip Roth per me si merita una trasposizione diversa (oppure non sbandierare in anticipo che si tratta di voi due e lasciare al lettore la possibilità di coglierci quello che vuole). E si merita più spazio anche la storia di Amar e di tutte le persone come lui che, ogni giorno, devono affrontare il controllo passaporti, portandosi dietro un passato che non si sono scelti.
Però si tratta anche di un libro (scusate, proprio non riesco a chiamarlo romanzo) d’esordio e sicuramente Lisa Halliday ha molto potenziale e tanto tempo per affinarlo. Magari seguendo anche i consigli di Philip Roth.


Titolo: Asimmetria
Autore: Lisa Halliday
Traduttore: Federica Aceto
Pagine: 285
Editore: Feltrinelli
Prezzo di copertina: 17,00€
Acquista su Amazon:
formato cartaceo: Asimmetria
formato ebook: Asimmetria

mercoledì 19 settembre 2018

L'AMORE - Maurizio Maggiani

Il fatto è che ci ho messo un bel po' a imparare a dire ti amo. Ci sono stati degli allenamenti, lunghi e penosi allenamenti in verità. Ti amo, provare un po' a dirlo ad alta voce se ti viene subito, così. Ti amo ti amo ti amo.


L’amore, da poco uscito per Feltrinelli editore, è il primo romanzo che leggo di Maurizio Maggiani e credo che sarà anche l’ultimo. E dire che l’avevo iniziato con le migliori intenzioni, incuriosita e in qualche modo anche affascinata dall'idea di raccontare attraverso gli amori passati come si è arrivati a quello “definitivo”. 

Ed è questo che succede nel libro. Ci sono uno sposo e una sposa, non più giovanissimi, che si amano. Lui, tutte le sere prima che lei si addormenti, le racconta una storia, un “fattarello”, che di solito riguarda i suoi amori passati. Le piace ascoltarli, le piace scoprire cosa ha portato suo marito a essere quello che è adesso. E lui glieli racconta volentieri, rimboccandole le coperte. Poi, al mattino, la sposa esce per andare al lavoro e lo sposo, che lavora invece da casa, continua a rimuginare su sui suoi racconti e sui suoi ricordi, sulle donne e gli amori che ha avuto, sulla loro intensità, più o meno forte e più o meno corrisposta, e soprattutto non smette mai di domandarsi quando e come ha imparato a dire “ti amo”.

Un’idea che trovo davvero molto bella e il mio entusiasmo, infatti, è rimasto alto per una buona metà del libro. Poi, a poco a poco, ha iniziato a scemare. Forse per via dello stile di Maggiani, che ho trovato sì poetico ma in modo estremamente forzato, poco convincente per me e la mia sensibilità. Forse perché mi sono persa nei pensieri e nei ricordi dello Sposo, come ci si perde quando si ascolta parlare a lungo qualcuno che, a parte qualche aneddoto o qualche battuta, proprio non riesce a tenere desta la tua attenzione. Ogni tanto si sorride (come quando racconta della loro abitudine di leggere insieme; oppure, quando all'inizio descrive la Sposa addormentata e spiega che ogni sera, se lei si dimentica, lo Sposo va e le mette il bite contro il digrignamento notturno dei denti... forse perché soffro dello stesso problema da anni ed è la prima volta che lo ritrovo in un libro), ogni tanto si annuisce e, per lo più, si pensa ai fatti propri (alla prima volta che io e mio marito ci siamo detti “ti amo”, per esempio, e al modo buffo in cui ci siamo arrivati, prima al plurale, perché anche quella era una cosa che dovevamo fare insieme; oppure a qualche tragico amore adolescenziale talmente intenso da non ricordami nemmeno più il nome dell’amato).
Non si è creata empatia, insomma, con il racconto dello Sposo. Non mi ha suscitato particolari emozioni, e anzi, a un certo punto, ho iniziato ad annoiarmi. E quando si tratta d’amore se l’emozione predominante è la noia, sappiamo tutti che si ha un grosso, grosso problema.

Eppure non mi sento di dire che L’amore sia un brutto libro. Alcune volte, soprattutto nelle descrizioni del sentimento attuale, quello tra lo Sposo e la Sposa, mi ha fatto sorridere e intenerire, come sempre mi fanno intenerire l'amore e le sue dimostrazioni quotidiane. Credo che semplicemente non sia un libro per me; che, nonostante le premesse iniziali, non sia scoccata la scintilla (portate pazienza, se un libro si intitola l’amore e parla di quello, è davvero facile usare questo linguaggio simbolico). E se Maurizio Maggiani scrive e racconta sempre così, direi che no, non siamo proprio fatti l'uno per l'altra.

Titolo: L'amore
Autore: Maurizio Maggiani
Pagine: 197
Anno di pubblicazione: 2018
Editore: Feltrinelli editore
Prezzo di copertina: 16,00 €
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formato cartaceo: L'amore
formato ebook: L'amore

martedì 23 gennaio 2018

LE ASSAGGIATRICI - Rosella Postorino

Quando il tempo opaco e smisurato della nostra digestione fece rientrare l'allarme, le guardie svegliarono Leni e ci misero in fila verso il pulmino che ci avrebbe riportate a casa. Il mio stomaco non ribolliva più: si era lasciato occupare. Il mio corpo aveva assorbito il cibo del Führer, il cibo del Führer mi circolava nel sangue. Hitler era salvo. Io avevo di nuovo fame.


Ogni anno, nel mese di gennaio, vengono pubblicati moltissimi romanzi che parlano dell’olocausto, della Shoah e, in più in generale, dell’epoca nazista. È un modo per celebrare la Giornata della memoria, che cade il 27 gennaio, e la necessità di non dimenticare il periodo più buio, tragico e terribile della storia mondiale. Ovviamente, come sempre succede quando si abbinano i libri alle ricorrenze, la cosa sfugge un po’ di mano e ci si ritrova quasi sommersi da titoli, che spesso quasi si scimmiottano a vicenda, e, soprattutto destinati a essere dimenticati non appena finito il periodo del ricordo. 

Sono pochi, i libri su questo tema che rimangono nel tempo. E credo di poter affermare con una certa sicurezza che Le assaggiatrici di Rosella Postorino, da poco pubblicato da Feltrinelli, sarà uno di questi.
Intanto perché parla sì di Hitler, di nazismo, Seconda guerra mondiale e persone partite e mai più tornate, ma lo fa da un punto di vista un po’ diverso, quello di una donna tedesca. E poi, indubbiamente, per lo stile dell’autrice.

Partendo dalla storia di Margot Wölk, una donna tedesca che poco prima di morire ha rivelato di aver fatto da giovane l’assaggiatrice di Hitler, Rosella Postorino racconta la storia di Rosa e delle altre donne che, durante la guerra, avevano il compito di assaggiare il cibo prima che venisse servito al Führer, così da accertarsi in tempo che non fosse avvelenato. È l’autunno del ’43, la guerra sta iniziando a prendere una piega inaspettata per la Germania, e Rosa è costretta a lasciare Berlino, dopo che sua madre è morta durante un bombardamento e suo marito è partito per andare a combattere. Si rifugia dai suoceri, a Gross- Partsch, un villaggio vicino alla Tana del Lupo, il quartier generale dove Hitler si nasconde, ad aspettare che la guerra finisca e il marito ritorni. Lei e altre nove donne del paese vengono scelte per questo compito: da un lato hanno la sicurezza di avere cibo in abbondanza ogni giorno, dall’altro il pericolo che ogni pasto sia il loro ultimo pasto. Alcune svolgono questo compito con entusiasmo, onorate di avere un ruolo così fondamentale per la loro patria e la loro guida, altre invece lo fanno perché sanno di non avere altra scelta. A poco a poco Rosa stringe inevitabilmente dei legami con alcune di esse: legami dettati dalla paura, dalla fragilità, ma anche dal desiderio di ribellarsi, di non arrendersi all’ingiustizia che stanno vivendo. Loro sono tedesche, è vero. Loro hanno cibo ogni giorno, è vero. Ma hanno anche delle SS che le guardano a vista e che, con l’arrivo del tenente Ziegler, instaurano un vero e proprio regime di terrore e poi, se qualcosa va male, le chiudono in una stanza e le lasciano al loro destino, perché il loro destino è proprio quello di morire al posto di qualcun altro.

Le assaggiatrici è davvero un bel libro, che racconta un altro punto di vista del dominio nazista, quello di chi l’ha vissuto in patria ignorando cosa succedesse all’esterno, che ha visto morire genitori, mariti, figli in nome di un’ideale in cui all’inizio quasi tutti credevano, quello del riscatto dell’orgoglio nazionale ferito, ma che poi a poco a poco, quando ormai non era più possibile evitarlo o fermarlo, si è rivelato per quello che era.  Ma soprattutto racconta la storia di un gruppo di donne, i loro pensieri, le loro pulsioni, i loro dubbi e le loro paure, ponendo spesso la domanda di cosa, per un singolo individuo in un determinato momento, sia lecito fare e accettare e cosa invece no per riuscire a sopravvivere.
"Perché hai smesso di cantare?"
"Non lo so."
"Che hai?"
"Questa canzone mi rattrista."
"Puoi cantarne un'altra. Oppure no, se non ti va. Possiamo stare zitti e guardarci al buio: sappiamo farlo."

La forza del romanzo sta proprio qui, nella bravura di Rosella Postorino a raccontare questi sentimenti, queste ambiguità, rimanendo sempre in bilico tra il giusto e lo sbagliato, tra la consapevolezza del male e del dolore che una persona può infliggere in un momento e quella del bene che, invece, può fare in un altro. Ed è stata brava a dare voce a queste donne, ai loro diversi punti di vista, alle loro fragilità, anche ai loro tradimenti, perché fornisce un ritratto molto fedele delle complessità umane dell’epoca.
Quella di Le assaggiatrici è una lettura intensa e non semplice da affrontare, ma che vale sicuramente la pena di fare. 

TITOLO: Le assaggiatrici
AUTORE: Rosella Postorino
PAGINE: 288
EDITORE: Feltrinelli
ANNO: 2018
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formato cartaceo: Le assaggiatrici
formato ebook: Le assaggiatrici

giovedì 21 settembre 2017

LINCOLN NEL BARDO - George Saunders

«Ci siamo voluti tanto bene, caro Willie, ma ora, per motivi che non possiamo comprendere, quel legame è stato spezzato. Ma il nostro legame non potrà mai essere spezzato. Tu sarai sempre con me, figliolo, finché vivrò.»

George Saunders è conosciuto, sia negli Stati Uniti sia in Italia, per le sue raccolte di racconti.  Pastoralia, Bengodi e Dieci dicembre sono i titoli che lo hanno fatto conoscere al pubblico italiano, grazie alla casa editrice minimum fax.
Poi qualche tempo fa, è arrivato l’annuncio: George Saunders sta scrivendo un romanzo. La prima domanda che sorge spontanea, o almeno che è sorta a me e che mi pongo ogni volta che sento di autori che fanno questo percorso, è: perché. Perché un autore famoso (ma soprattutto bravissimo) nello scrivere short stories decide di compiere questo passo?  
La seconda, di uguale importanza, è: sarà in grado?

A questa seconda domanda rispondo subito. E avrei potuto già farlo dopo le prime dieci pagine di Lincoln nel Bardo, pubblicato da Feltrinelli e tradotto, come i racconti, da Cristiana Mennella. Sì, è assolutamente in grado.

Anche se Lincoln nel Bardo non è un vero e proprio romanzo. Ed è una cosa fondamentale da sapere, prima di iniziare a leggerlo, perché altrimenti si rischia di perdersi tra le pagine, di confondersi tra le mille voci che la popolano e tutte le fonti, vere o inventate, che George Saunders utilizza per far andare avanti la storia.

Il libro ha come protagonista il presidente Abraham  Lincoln e il suo figlioletto Willie, morto a soli dieci anni per le conseguenze di quello che all’inizio sembrava un banale raffreddore. È il 1862, e Lincoln, un uomo visto sempre come solido e implacabile, si trova ad affrontare al tempo stesso una grande tragedia personale e un grave problema nazionale, ovvero l’esacerbarsi della Guerra Civile iniziata l’anno precedente.
Lincoln proprio non riesce ad accettare la morte del figlio e, per questo, poche ore dopo averlo sepolto, torna al cimitero, per stare ancora un po’ con lui. Per cercare di lasciarlo andare. Una situazione inedita, mai vista dagli abitanti del Bardo, quella specie di limbo della tradizione buddista in cui le anime dei morti sono di passaggio prima di passare alla loro vita eterna. 
Non tutte le anime che popolano questo spazio sanno del futuro che le attende: pensano di essere solo malate e hanno scelto di rimanere lì in attesa di qualcosa.. Credono, infatti, che ci sia ancora una possibilità, nonostante in ogni momento qualcuno di loro se ne vada definitivamente. Ma sanno anche che quello non è il posto adatto per un bambino e quando arriva il piccolo Willie, in tre (Hans Vollman, che gira per il Bardo con un pene enorme, ancora in attesa di consumare il suo matrimonio; Roger Bevins, suicidatosi perché omosessuale ma ancora convinto di essersi salvato; e il reverendo Everly Thomas, che di anime in passato ha già cercato di salvarne, invano) cercano in ogni modo di salvarlo, di farlo andare via da lì presto, prima che sia troppo tardi.

Lincoln nel Bardo ha alcune scene di una forza e di uno strazio inaudite. Dolorosissime e bellissime, per le loro implicazioni. Perché accettare la morte di una persona cara è una cosa difficile, quando questa persona è un bambino lo diventa ancora di più. Anche se sei un presidente degli Stati Uniti.

Ma, al tempo stesso, ci sono anche momenti divertenti, in questo bardo popolato dalle anime più disparate che raccontano la loro storia (si sente un’eco molto forte dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters) e vivono, se così si può dire, il loro presente senza alcuna inibizione di sorta, per poi ritrovare di colpo tutta la loro consapevolezza.
Non mi restava altro che andare.
Anche se le cose del mondo erano ancora con me.
Come, per esempio: un branco di bambini che arrancano sotto una spruzzata obliqua di neve decembrina; un cerino spartito amichevolmente sotto un lampione storto da una collisione; l'orologio ghiacciato di un campanile visitato dagli uccelli; l'acqua fresca da una brocca d'alluminio; asciugare la camicia bagnata dopo un temporale di giugno.
Perle, stracci, bottoni, la frangia di un tappeto, la schiuma di birra.
Qualcuno che ti manda gli auguri; qualcuno che si ricorda di scriverti; qualcuno che si accorge che non sei per nulla a tuo agio.
Il rosso micidiale di un piatto d'arrosto sanguinolento; il palmo che sfiora una siepe mentre corri in ritardo in una scuola che sa di gessetti e legna accesa.
Anatre in alto, trifoglio in basso, il rumore di quando ti manca il fiato.
Una gocciolina nell'occhio che offusca un campo di stelle; la spalla che ti duole dove ci hai appoggiato lo slittino; scrivere il nome del tuo amore sulla brina di una finestra con il dito guantato.
Allacciarsi una scarpa; fare il fiocco a un pacchetto; una bocca sulla tua; una mano sulla tua; il giorno che finisce; il giorno che comincia; la sensazione che ci sarà sempre un altro giorno.
Addio, ora devo dire addio a tutto quanto.

Lincoln nel Bardo è un libro molto difficile da leggere, così come credo sia stato difficile da scrivere. Richiede uno sforzo enorme nel lettore, ancor più se conosceva già Saunders per i suoi racconti, di cui qui non ritroverà nulla. Al tempo stesso, però, è un libro geniale e sono pochi, pochissimi, gli scrittori in grado di scrivere una cosa del genere: mille voci da gestire, mille storie che si intersecano, mille fonti da creare ad hoc (sono vere? Sono inventate?) e riuscire, in tutto questo, a mettere una carica emotiva così forte, che raggiunge il suo apice nella figura di questo presidente e nel suo rapporto con il piccolo Willie.

Dopo forse trenta minuti l'uomo trasandato lasciò la casa di pietra bianca e si allontanò nel buio barcollando.
Entrai e trovai il bambino seduto in un angolo.
Mio padre, disse.
Sì, dissi.
Ha detto che tornerà. L'ha promesso.
Fui preso da una commozione immensa e inspiegabile.
È un miracolo, dissi.
il reverendo everly thomas

Forse sul finale l’effetto si perde un po’, o forse semplicemente ci sono arrivata io un po’ troppo affaticata, dopo tutte queste pagine, queste altalene di momenti strazianti e momenti grotteschi, di voci e di storie. 
Ma Lincoln nel Bardo è sicuramente un grande, grandissimo libro.


Titolo: Lincoln nel Bardo
Autore: George Saunders
Traduttore: Cristiana Mennella
Pagine: 347
Anno di pubblicazione: 2017
Editore: Feltrinelli
Prezzo di copertina: 18,50€
Acquista su Amazon:
formato brossura: Lincoln nel Bardo
formato ebook: Lincoln nel Bardo

mercoledì 23 agosto 2017

IL CASO MALAUSSÈNE. Mi hanno mentito - Daniel Pennac

La mia sorellina minore Verdun è nata che già urlava ne "La fata carabina", mio nipote È Un Angelo è nato orfano ne "La prosivendola", mio figlio Signor Malaussène è nato da due madri nel romanzo che porta il suo nome e mia nipote Maracuja è nata da due padri ne "La passione secondo Thérèse". E ora li ritroviamo adulti in un mondo che più esplosivo non si può, dove si mitraglia a tutto andare, dove qualcuno rapisce l'uomo d'affari Georges Lapietà, dove Polizia e Giustizia procedono mano nella mano senza perdere un'occasione per farsi lo sgambetto, dove la Regina Zabo, editrice accorta, regna sul suo gregge di scrittori fissati con la verità vera proprio quando tutti mentono a tutti. Tutti tranne me, ovviamente. Io, tanto per cambiare, mi becco le solite mazzate.



Ho letto i romanzi del ciclo di Malaussène di Daniel Pennac una decina di anni fa. Li ho letti tutti in fila, dopo essere rimasta folgorata dalle avventure del capro espiatorio Benjamin in Il paradiso degli orchi e, soprattutto, dopo essermi appassionata allo stile scanzonato, e a tratti un po’ folle, di questo scrittore francese.

Quando ho saputo che dopo vent’anni dall’ultima avventura (La passione secondo Thérèse), Pennac aveva deciso di ritornare a raccontare della famiglia Malaussène e di Benjamin, la mia prima reazione è stata di rifiuto. Vent'anni sono tanti, per riprendere in mano un personaggio così conosciuto e così amato, e il rischio di rovinarne il ricordo con una nuova avventura era molto, molto forte. 
E poi, confesso, temevo fosse più un’operazione commerciale, un riscaldare una minestra che in passato è stata apprezzata e sperare di riuscire a riprodurne il gusto.

Per questo motivo non ho acquistato subito Il caso Malaussène – Mi hanno mentito, in Italia sempre pubblicato da Feltrinelli e tradotto da Yasmina Melaouah. Ci ho girato attorno un po’; ho aspettato di leggere qualche recensione e qualche commento, per capire se questo nuovo romanzo fosse all'altezza dei precedenti o se invece Pennac si fosse lasciato andare a una triste operazione nostalgia che avrebbe deluso anche i suoi fan più accaniti. In tal senso, però, mi sono scontrata con pareri contrastanti, molto contrastanti: a qualcuno è piaciuto tantissimo, per qualcun altro sarebbe stato meglio se non l’avesse scritto, qualcuno non ci ha capito nulla, qualcun altro lo reputa un gran bel libro. 
Insomma, per capire davvero cosa fosse questo libro, lo dovevo leggere.

In mio soccorso è arrivata una bancarella di libri usati e un fine settimana di tedio, in cui non avevo romanzi in lettura e niente in casa che mi andasse in quel momento. E quindi ho acquistato Il caso Malaussène- Mi hanno mentito, sono arrivata a casa e ho iniziato subito a leggerlo. Per poi non riuscire a fermarmi prima di essere arrivata alla fine.

La trama è un po’ intricata, come in tutti i romanzi di questa saga: da un lato abbiamo Benjamin, che lavora per una casa editrice che si sta specializzando in autori che pubblicano romanzi con la “verità vera”, ovvero 

Argomento: sputtanamento dell'intera famiglia - padre, madre, fratelli e sorelle - in nome della verità vera. Risultato: faccia gonfiata di pugni, vertebre incrinate e una gamba rotta...

Benjamin organizza per questi personaggi un servizio di scorta, per evitare le ritorsioni dei parenti, e ora si trova nell'altopiano del Vercors, lontano da Parigi, a fare da balia a Alceste, l’ultima grande scoperta del suo editore. Lo tiene nascosto in un capanno, affinché termini il suo secondo libro senza essere ucciso. Benjamin ci sta bene, lì in montagna, al punto che cerca disperatamente di ignorare ogni singola notizia che arriva dalla città. Le notizie, però, sembrano proprio non voler ignorare lui, e così viene a sapere del rapimento di Georges Lapietà, un uomo balzato agli onori della cronaca per aver accompagnato l’azienda LAVA nel fallimento ed essersi beccato un paracadute d’oro al termine dei suoi servizi, a discapito di tutte le persone che l’azienda invece ha dovuto licenziare. Il caso viene affidato alla sorella Verdun, il giudice più brutto del mondo, che ben presto scopre che in questo rapimento la sua famiglia è più implicata di quanto si possa pensare. Meglio non dirlo a Benjamin, però, perché se no poi si agita. O peggio, sarebbe capace suo malgrado di fare in modo che si sospettasse di lui. Ma anche dopo vent’anni Benjamin Malaussène è sempre Benjamin Malaussène e un suo coinvolgimento è praticamente inevitabile.

Il caso Malaussène – Mi hanno mentito in realtà è il primo volume di una nuova serie e quindi, quando si arriva alla fine, si scopre che il romanzo non finisce. E quel “continua” in ultima pagina è stata la cosa più irritante di tutto il romanzo.  
E adesso? Quanto devo aspettare per sapere come si risolve la storia di Lapietà e qualhe pasticcio combinerà il mio Malaussène preferito (sì, di tutta la famiglia, Benjamin rimane il mio prediletto, anche se dopo questa lettura anche Verdun fa un bel balzo avanti)? 
La domanda principale che ci si pone alla fine, però, è un'altra: come diamine ha fatto Pennac a riportare in vita dopo vent’anni questa famiglia e riuscire a ricreare la stessa atmosfera, un po’ caotica, un po’ nonsense e parecchio geniale, e a scrivere esattamente con lo stesso stile (che si odia o si ama, temo) di allora?

Il caso Malaussène – Mi hanno mentito mi ha divertito tantissimo e, al tempo stesso, fatto riflettere. I temi che tratta, infatti, sono importanti: è giusto che un uomo che faccia chiudere un’azienda e licenziare tanti dipendenti si becchi una buonuscita così alta? È giusto dare in pasto al pubblico la propria vita famigliare per fare successo? È giusto inventare storie per rendere la realtà meno tragica di quello che invece è? 

Ma, soprattutto, è possibile che sia sempre colpa di Benjamin Malaussène?

Questa nuova avventura della famiglia Malaussène mi è piaciuta molto. C’è un passaggio generazionale tra genitori e figli, che si rispecchia nel diverso approccio alla tecnologia (internet e i "socials" che sono arrivati così, all'improvviso, dalla sera alla mattina) e alle ingiustizie del mondo, e che mette anche in luce, ancora una volta, il forte legame che lega tutti i membri (i giovani cercano di proteggere i vecchi, che a loro volta cercano di proteggere i giovani... poi tutti insieme cercano di proteggere il povero Benjamin, senza che lui abbia la più pallida idea di cosa stia succedendo).

Non so se sia all'altezza dei primi romanzi della serie, Il paradiso degli orchi e La fata carabina (secondo me i più belli in assoluto); però Pennac è riuscito a non cadere nella trappola della nostalgia e non trasformare i personaggi nelle macchiette del loro ricordo. E quindi, secondo me, è una lettura che, se si è amata fin da subito questa famiglia, vale la pena di intraprendere.


Titolo: Il caso Malaussène. Mi hanno mentito
Autore: Daniel Pennac
Traduttore: Yasmina Melaouah
Pagine: 274
Anno di pubblicazione: 2017
Editore: Feltrinelli
Prezzo di copertina: 18,50 €
Acquista su amazon:
formato brossura: Il caso Malaussène. Mi hanno mentito
formato ebook: Il caso Malaussène: Mi hanno mentito (Il ciclo di Malaussène)

giovedì 20 luglio 2017

Ritornare a Macondo: ovvero leggere e rileggere Cent'anni di solitudine di Gabriel García Márquez

Sul finire del maggio del 1967, la casa editrice argentina Editorial Sudamericana pubblicò per la prima volta Cien años de soledad dello scrittore colombiano Gabriel García Márquez.
Lo scrittore, che aveva iniziato la sua carriera come giornalista, carriera che non abbandonò mai per tutto il corso della sua vita, aveva già pubblicato tre romanzi (La hojarasca, El coronel no tiene quien le escriba e La mala hora, ovvero Foglie morte, Nessuno scrive al colonnello e La mala ora, tradotti in italiano però solo più tardi), ma la sua consacrazione, soprattutto a livello internazionale, arrivò proprio con la storia della famiglia Buendía

Da allora sono passati cinquant'anni. Il libro è stato letto da milioni di persone, è stato tradotto in più di trenta lingue, è considerato da molti uno dei capolavori letterari del XX secolo e ha svolto un ruolo fondamentale per l'assegnazione a Gabriel García Márquez del premio Nobel per la letteratura del 1982.

La prima traduzione italiana di Cent'anni di solitudine risale all'anno successivo all'uscita, il 1968. A portare il libro in Italia è stato l’editore Feltrinelli e, soprattutto, il traduttore Enrico Cicogna, molto attivo in quegli anni nella scoperta di alcuni autori sudamericani (oltre a García Márquez, Mario Vargas Llosa e Manuel Puig).

Quarantanove anni per una traduzione sono indubbiamente tanti e la necessità di una revisione abbastanza evidente. Oltre all'evoluzione della lingua e di alcune regole grammaticali e ortografiche, spesso in traduzioni così vecchie si trovano anche fraintendimenti di significato e veri e propri errori (non bisogna dimenticare che i mezzi a disposizione dei traduttori un tempo erano molto limitati).
Per festeggiare questo cinquantesimo compleanno, quindi, Mondadori (nuovo editore dei romanzi di Garcí Márquez a partire dall’inizio degli anni ‘80) ha deciso di regalare a Cent’anni di solitudine e a tutta la famiglia Buendía una nuova traduzione, a opera di Ilide Carmignani.



Questa nuova traduzione, come la stessa traduttrice spiega nella nota finale al libro, si basa sull'edizione commemorativa data alle stampe dalla Real Academia Española e dalla Asociación de Academias de Lengua Española nel 2007, in occasione degli ottant'anni dello scrittore. Una versione considerata “definitiva”, che scioglieva alcuni dubbi interpretativi e sistemava errori, su cui aveva lavorato lo stesso García Márquez:
“Nel 2007, in occasione dell’ottantesimo compleanno di Gabriel García Márquez e dei quarant’anni dalla prima pubblicazione, la Real Academia Española e dalla Asociación de Academias de Lengua Española hanno dato alle stampe un’edizione commemorativa che fissa definitivamente il testo: attraverso un minuzioso lavoro di collazione delle edizioni precedenti, realizzato con la supervisione dell’autore, sono state risolte espressioni dubbie ed emendati errori; l’autore stesso ha poi effettuato interventi di natura stilistica relativi al lessico, alla costruzione sintattica e alla punteggiatura. È su questa edizione rivista e corretta che è stata realizzata la presente traduzione”.
Nella stessa nota, ma anche in un bell'articolo di confronto scritto da Ida Bozzi e pubblicato su laLettura del 25 giugno 2017, Ilide Carmignani spiega l’approccio seguito da Cicogna durante la traduzione e quali modifiche ha apportato invece lei affrontando di nuovo questo testo, alla luce anche dei nuovi mezzi a disposizione.
In quasi cinquant’anni la lingua è italiana è molto cambiata, così come sono cambiate le strategie di mediazione linguistico-culturale, oggi più rispettose dell’alterità dei testi. Per aiutare i lettori, che all’epoca viaggiavano ben poco, si usava ad esempio addomesticare i culturemi, e infatti la traduzione di Cicogna trasforma il sanchoco, piatto tipico colombiano a base di verdure locali, in un generico stufato. […] Strettamente legata allo “specchio dei tempi” è infine la tendenza esotizzante della traduzione di Cicogna, che esalta con forza la componente magica a scapito di quella realistica: sinonimi rari e desueti si sovrappongono al traducente naturale italiano, per cui medanos, secche, viene reso con sirti, oppure al contrario si scelgono soluzioni iperletterali ricalcando il suo dei termini spagnolo a detrimento del senso.

Nel corso della mia vita, ho letto questo romanzo diverse volte, in tre edizioni differenti:


La prima volta nella traduzione di Enrico Cicogna in un vecchio volume dalle pagine ingiallite e la rilegatura ormai distrutta, dopo essere passato tra le mani di mio padre, mia sorella e mio fratello (un libro poi sostituito da un’edizione più recente, nella collana dei Grandi Classici del '900 in edicola con Repubblica qualche anno fa, che però, per forza di cose, non aveva lo stesso fascino).

All’inizio, come mi è già capitato più volte di raccontare, io Cent’anni di solitudine non lo volevo leggere. Tutti in casa mi dicevano che avrei dovuto, che era un libro bellissimo, che mi sarebbe piaciuto tanto. Ma visto com'ero da adolescente, dirmi quelle cose non era una spinta ma un ostacolo.
Poi nell'estate tra la prima e la seconda liceo (o tra la seconda e la terza, non ricordo più bene… avrò avuto quindici anni comunque), Cent’anni di solitudine compariva insieme a una ventina di altri libri nella lista tra cui scegliere le letture per le vacanze. C’era anche L’amore ai tempi del colera, primo romanzo scritto da García Márquez dopo aver vinto il premio Nobel, e, per non dare ai miei quella soddisfazione, lessi prima quello. E mi innamorai perdutamente della storia di Florentino Ariza e Fermina Daza. Capii così che era arrivato il momento anche per Cent’anni di solitudine.

Così ho conosciuto Aureliano Buendía, il colonnello che "ha preso parte a trentadue rivoluzioni e trentadue rivoluzioni le ha perdute", che ha avuto altrettanti figli e che è riuscito a sopravvivere persino davanti a un plotone di esecuzione.
“Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito”.
Ho conosciuto Úrsula e José Arcadio Buendía, Amaranta e Rebeca e le loro passioni amorose, Melquiades e la bella Remedios, e pian piano tutte le generazioni di Buendía che hanno popolato Macondo, questo paese della Colombia caraibica fondato proprio da loro.

Temevo che mi sarei persa in questo fiume di personaggi che si susseguono (gli alberi genealogici che si trovano di solito a inizio o fine volume in quasi tutte le edizioni aiutano molto), in questo paesino dove realtà e magia si mescolano con naturalezza (non per niente questo libro viene considerato uno dei capostipiti del “realismo magico”) e anche le cose più assurde vengono considerate normali.
E invece no, non mi sono persa. O forse sì, ma è stato un perdersi bello, un perdere il contatto con la realtà e immergersi per le strade di Macondo seguendo le sue avventure, il suo fiorire e la sua successiva decadenza nel corso degli anni.

So che può sembrare retorico, ma da allora quel romanzo è diventato una parte di me. Sono andata avanti per mesi (e ogni tanto lo faccio ancora adesso) ad ascoltare l’album Terra e Libertà dei Modena City Rambles, al cui interno ci sono alcune canzoni che ispirate proprio ai personaggi di Cent’anni di solitudine (tipo questa). A lungo sono rimasta convinta che avrei chiamato mia figlia Remedios (anche Amaranta, in realtà, non mi dispiaceva) e che magari, chissà, un giorno mi sarei trovata circondata da farfalle dorate o sarei volata via insieme alle lenzuola.
“Ti senti male?” le chiese.
Remedios la bella, che teneva stretto il lenzuolo all’altro capo, fece un sorriso di compatimento.
"Macché,” disse, “non mi sono mai sentita così bene.”
Aveva appena finito di dirlo, quando Fernanda sentì che un delicato vento di luce le strappava le lenzuola dalle mani e le spiegava in tutta la loro ampiezza. Amaranta sentì un tremito misterioso nei pizzi delle sue sottane e cercò di aggrapparsi al lenzuolo per non cadere, nell’istante in cui Remedios cominciava a sollevarsi. Ursula, già quasi cieca, fu l’unica che ebbe tanta serenità da riconoscere la natura di quel vento ineluttabile, e lasciò le lenzuola alla mercé della luce, e vide Remedios la bella che la salutava con la mano, tra l’abbagliante palpitare delle lenzuola che salivano con lei, che uscivano con lei dall’aria degli scarabei e delle dalie, e con lei attraversavano l’aria in cui si spegnevano le quattro del pomeriggio, e con lei si perdevano per sempre nelle alte arie dove non potevano raggiungerla nemmeno i più alti uccelli della memoria.
Poi, in parte proprio per questo libro, ho scelto di studiare spagnolo all'Università, perché volevo leggerlo in lingua originale. Ho aspettato circa un anno, per avere almeno le basi dello spagnolo (lingua da cui partito proprio da zero) prima di cimentarmi in quest’impresa. Poi me ne è stata regalata una copia, edita da Catedra e con un buffo colonnello Aureliano in copertina.





Ricordo di aver aperto il libro per la prima volta con un po’ timore riguardo alla difficoltà della lingua e alla mia comprensione. Poi ho letto l’incipit e mi sono ritrovata ancora una volta persa per Macondo, a forgiare pesciolini d’argento e a temere che il prossimo figlio nascesse con la coda di maiale.
Muchos años después, frente al pelotón de fusilamiento, el coronel Aureliano Buendía había de recordar aquella tarde remota en que su padre lo llevó a conocer el hielo. Macondo era entonces una aldea de veinte casas de barro y cañabrava construidas a la orilla de un río de aguas diáfanas que se precipitaban por un lecho de piedras pulidas, blancas y enormes como huevos prehistóricos. El mundo era tan reciente, que muchas cosas carecían de nombre, y para mencionarlas había que señalarlas con el dedo
Da allora mi è capitato di rileggere Cien años de soledad un altro paio di volte, sempre in lingua originale, per rendere ancor più forti e vividi l’incanto e la magia come solo le letture in lingua riescono a fare. Io non sono una grande amante delle riletture, devo dir la verità, più per una questione di tempo e di quantità di libri nuovi da leggere. Ma ci sono alcuni romanzi a cui a volte sento il bisogno di tornare. E Cent’anni di solitudine è appunto uno di questi (un altro è 1984 di Orwell).

Dalla mia ultima gita a Macondo, però, erano passati diversi anni e anche per questo, quando è stata annunciata questa nuova traduzione, ho deciso di ricomprarla. In parte attratta dalla bellissima copertina con le illustrazioni di Velia de Iuliis, in parte per la curiosità di scoprire che cosa è cambiato. 

Non avevo però intenzione di fare un confronto vero e proprio: mi interessa di più l’impressione generale di coinvolgimento nella lettura, della percezione di differenze o di cose in qualche modo stonate (che in realtà era abbastanza improbabile ci fossero, perché questa nuova versione ha ripristinato parti originali che Enrico Cicogna invece aveva cambiato).
E quindi via, ho letto anche questa nuova versione di Cent’anni di solitudine.
Molti anni dopo, davanti al plotone di esecuzione, il colonnello aureliano Buendía avrebbe ricordato quel pomeriggio remoto in cui suo padre l’aveva portato a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di fango e canne costruite sulla riva di un fiume dalle acque diafane che si precipitavano su un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente che molte cose erano senza nome, e per menzionarle bisognava indicarle con un dito.
E proprio come la prima volta, con la traduzione di Enrico Cicogna, e come la seconda, quando l’ho letto in lingua originale, mi sono di nuovo ritrovata dentro Macondo, seduta al tavolo di Ursula a mangiare insieme ad altri avventori sconosciuti, a soffrire con Amaranta per le sue pene d’amore, a seguire Aureliano Segundo nelle sue peregrinazioni tra moglie e amante, a tifare per Meme e il suo amore clandestino, e sì, ancora una volta, a immaginarmi circondata di farfalle dorate o in volo insieme a delle lenzuola.


«Ti senti male?» le domandò.
Remedios la bella, che teneva l’altro capo del lenzuolo, fece un sorriso di compatimento.
«Al contrario,» disse «Non sono mai stata meglio».
Appena ebbe finito di dirlo, Fernanda sentì che un delicato vento di luce le strappava le lenzuola di mano e le spiegava in tutta la loro ampiezza. Amaranta sentì un fremito misterioso nei pizzi delle sottogonne e cercò di afferrarsi al lenzuolo per non cadere nell’istante in cui Remedios la bella cominciava a sollevarsi. Úrsula, già quasi cieca, fu l’unica abbastanza lucida da capire la natura di quel vento irreparabile, e lasciò il lenzuolo alla mercé della luce, e vide Remedios la bella che le diceva addio con la mano, nell’abbagliante aleggiare delle lenzuola che salivano con lei, che abbandonavano con lei l’aria degli scarabei e delle dalie, e attraversavano con lei l’aria dove finivano le quattro di pomeriggio, e si perdevano per sempre con lei nelle arie alte, dove non potevano raggiungerla nemmeno i più alti uccelli della memoria.


In questa nuova edizione, ho trovato tutto quello che Ilide Carmignani ha detto nella sua nota di traduzione (che, ammetto, ho letto prima del libro, per avere un'idea generale di cosa aspettarmi) e nelle varie interviste, senza trovare praticamente mai nulla di stonato né di incomprensibile, nemmeno nei localismi lasciati in lingua originale. Si nota, anche, il ripristino degli accenti in tutti i nomi propri spagnoli (Cicogna, per esempio, non accentava "Úrsula").
Solo in alcuni punti ho sentito la necessità (forse più curiosità, in realtà) di fare un confronto tra la vecchia versione di Enrico Cicogna e quella nuova di Ilide Carmignani. Ma per parole singole, per frasi forse un po’ troppo moderne che mi sembravano un po’ fuori contesto (un “cavolo”al posto di un “accidenti”… cose così). 



Da appassionata di Cent’anni di Solitudine e di Gabriel García Márquez sono convinta che questa nuova traduzione fosse necessaria. Io ho scoperto questo libro e me ne sono innamorata con la prima traduzione, è vero, e come me molti altri. Però altrettanti l’hanno trovato un po’ respingente, e la lingua utilizzata da Cicogna, perché invecchiata, perché a volte eccessivamente esotica, può avere una sua colpa (e ve ne renderete conto ancor di più se riuscirete a leggerlo in lingua originale).
Quindi se siete tra chi l’ha già letto e l’ha amato, anche in questa nuova traduzione continuerete ad amarlo. Se ci avete provato in passato ma qualcosa non ha funzionato, o se non vi ci siete mai approcciati per paura, ecco, forse questa nuova edizione può essere la spinta necessaria a dare a Cent’anni di solitudine un'altra possibilità.

Poi fatemi sapere. Io intanto vado a mettere due mollette in più alle lenzuola stese, sia mai che qualcuno decida di portarsele via.

venerdì 16 giugno 2017

LA PERFEZIONE NON È DI QUESTO MONDO - Daniela Mattalia

Divagare, distrarsi, divertirsi. Deconcentrarsi.
E come si fa? Si può dimenticare una preoccupazione, un contrattempo, un guaio. Ma dimenticare un'assenza, non percepire il vuoto che ti cammina accanto, non ascoltare il silenzio dove fino a poco tempo fa c'erano parole, una risata, un sospiro.
E come si fa.
Però aveva deciso di provarci.



Adriano è un anziano signore che ha da poco perso l’adorata moglie Giulietta e ora passa le sue giornate chiuso nel suo studio. Esce solo per andare alle Molinette ogni tanto, perché nei corridoi labirintici dell’ospedale torinese ogni tanto riesce ancora a vederla. Anche lei vede lui, però non gli parla mai, intenta com'è a cercare qualcosa che sembra aver perso.

Gemma di anni ne ha ventinove, lavora in una libreria e ha un rapporto di amore – sopportazione con la madre: non le ha mai perdonato il non aver protestato quando il padre ha deciso di lasciarle e anche adesso, che sono passati molti anni, fatica a comprendere quella sua leggerezza, quella sua svariatezza nell'affrontare la vita. Oltre a lavorare in libreria, nel fine settimana Gemma fa la volontaria in un call center per anziani, va a correre al parco e intanto sogna di trovare l’amore.

Fausto l’amore invece ce l’ha: è Susanna ed è perfetta e bellissima. Forse troppo perfetta e troppo bellissima, e tutta una serie di altri troppo, per lui che di mestiere fa il grafico e sta ancora cercando di trovare la sua vera strada nel mondo. L’unica strada che per ora riconosce è quella che lo porta al parco insieme ad Archibald, un bracco giocherellone e, vista la sua mole, goffo.

E poi c’è Olga, che da giovane faceva l’infermiera e ha avuto per anni un grande amore proibito. Ora è anziana, vive con il gatto René e il sabato mattina telefona al call center per anziani, ma così, giusto per fare due chiacchiere, perché lei vecchia non si sente minimamente.

Sono loro quattro i personaggi principali che popolano le pagine di La perfezione non è di questo mondo, romanzo d’esordio di Daniela Mattalia, uscito pochi giorni fa per Feltrinelli editore.

Quattro personaggi all'apparenza senza nulla in comune, se non l’abitare nella stessa città e frequentare lo stesso parco e lo stesso ospedale, le cui vite improvvisamente si intrecciano, grazie anche alle manovre di un solerte tassista. Il legame tra i quattro all'inizio è molto fragile, un semplice sfiorarsi: al telefono, in libreria, in ospedale, al parco (anche se forse essere travolti dall'irruenza di un bracco non si può definire un semplice sfioramento). Man mano però diventa sempre più forte e ognuno scoprirà di poter fare, a volte senza nemmeno rendersene conto, qualcosa di grande e di bello per l’altro.
Ognuno di essi si ritrova a fare i conti con una parte di sé: la perdita e il lasciar andare una persona amata; oppure prendere finalmente in mano la propria vita e decidere cosa fare del proprio futuro; oppure mettere una pietra sopra ai propri rancori; oppure, perché no, innamorarsi ancora una volta, di quell'amore che fa letteralmente esplodere il cuore.

Ricordò il primo bacio che aveva dato a Giulietta, ben poco romantico a dir la verità. Se non smetti di fumare, aveva detto lei serissima, te lo scordi che mi baci ancora. Lui aveva smesso un minuto dopo, il giorno seguente si era lavato i denti ogni due ore, la sera non osava starle vicino per paura di puzzare di fumo. Alla fine lo aveva baciato lei, spazientita.
Era primavera anche allora? Non se lo ricordava più. Ma eravamo belli, Giulietta, quando loro due.

È un libro leggero, questo di Daniela Mattalia, che però riesce a trattare in modo intelligente e mai stucchevole anche temi molto profondi. Quello della perdita, soprattutto, e di come fare a continuare a vivere quando la persona che per tanti anni è stata accanto a noi ora non c’è più. Ma anche il tema della ricerca di se stessi. E poi, be’, dell’amicizia e dell’amore, che possono nascere nei modi più strampalati possibile e, perché no, con persone che forse nemmeno esistono.

Ho amato molto tutta l’atmosfera che pervade le pagine del libro, fin dalla prima pagina: un’atmosfera allegra a volte, malinconica altre, ma sempre, in qualche modo “buona”; così come mi è piaciuta questa idea di “imperfezione” a suo modo perfetta, di lasciarsi guidare un po’ dal fato e un po’ da stessi e scoprire che le cose, anche così, vanno proprio come vogliamo che vadano, anche se fino a un attimo prima nemmeno sapevamo di volerlo.

Si ride e si sorride molto, leggendo La perfezione non è di questo mondo, e qua e là si versa anche qualche lacrimuccia. Ma non c’è tempo per piangere troppo, per disperarsi: almeno non per chi non c’è più, perché in un modo o nell'altro sarà sempre con voi. 

E no, direi che non è il caso di disperarsi nemmeno per Archibald, che è appena saltato sul letto: non vedete quanto è felice?


TITOLO: La perfezione non è di questo mondo
AUTORE:  Daniela Mattalia
PAGINE: 168
EDITORE: Feltrinelli
ANNO: 2017
ACQUISTA SU AMAZON
formato cartaceo: La perfezione non è di questo mondo
formato ebook: La perfezione non è di questo mondo

giovedì 19 gennaio 2017

NON SCRIVERE DI ME - Livia Manera Sambuy

Ha senso raccontare tutto questo? Non lo so, non credo stia a me dirlo. So solo che è la mia vita, la vita di una persona che ha fatto del leggere il proprio mestiere, e che nel corso del tempo ha coltivato la convinzione che abbiamo bisogno di storie perché le storie ci aiutano a vivere.


Di letteratura anglo-americana io non so praticamente niente. Non è un granché, come inizio di una recensione di un libro che parla di scrittori americani, me ne rendo conto, ma credo sia giusto essere onesti fin da subito. Certo, qualche autore lo conosco e qualcuno l'ho anche amato tantissimo: penso a Philip Roth, a Paul Auster, a Williams, a Saunders, a Carver, a Franzen e alla Strout, giusto per citare i primi che mi vengono in mente. Uh sì, e ci sono anche Hemingway, Capote, Fitzgerald e Salinger. 
Però, ecco, mi limito a conoscerne qualche romanzo o qualche racconta di racconti, senza avere ben chiaro, se non a semplice logica, quale sia il loro ruolo nel panorama letterario americano. E mi va bene così, se devo dire la verità, perché per quanto bella e affascinante sia indubbiamente la letteratura americana, mi sembrerebbe un po’ un peccato concentrarmi esclusivamente su quella e quasi ignorare tutte le altre.
Forse è per questo motivo che a Non scrivere di me di Livia Manera Sambuy, pubblicato da Feltrinelli nel 2015, ci sono arrivata così tardi. E quasi per caso, aggiungerei, perché il libro mi è stato messo in mano durante una discussione riguardo alle copertine Feltrinelli e al fatto che non sempre siano così ben riuscite. Questa, che riporta un’illustrazione di Adrian Tomine, le cui illustrazioni hanno fatto spesso da copertina al The New Yorker, è forse la più bella degli ultimi anni.

© Adrian Tomine (fonte: http://bit.ly/2iMHDMx)

Ma veniamo a Non scrivere di me, una raccolta degli incontri fatti dalla stessa Livia Manera Sambuy, giornalista specializzata in letteratura ango-americana che scrive sul Corriere della Sera, con alcuni grandi scrittori e grandi scrittrici americani nel corso degli anni.
E così il lettore si ritrova a Parigi, a casa di Mavis Gallant, scrittrice amatissima in America ma poco conosciuta in Europa, che Livia Manera Sambuy incontra ormai da anziana, un po’ intimorita per quella fama di donna dal brutto carattere che la accompagna, dopo che i suoi racconti le hanno tenuto compagnia da giovane, quando se ne è andata dall’Italia in cerca di una nuova vita.

Si chiamava Mavis Gallant, ed era una ragazza di ventotto anni – parliamo del 1950- indipendente, coraggiosa, senza un soldo e senza amicizie, ma così ricca di immaginazione narrativa, senso dell’umorismo e intelligenza, da scrivere una cosa che mi ha sempre divertita. E cioè che a Parigi le storie d’amore e i matrimoni finiscono tra le sette e le otto di sera, l’ora della pioggia e dei taxi introvabili, quando in tutta la città ci sono coppie che si separano per sempre, lasciando lungo i marciapiedi rottami di cene al ristorante annullate, biglietti per il balletto inutilizzati e brandelli di orgoglio.

Poi, il lettore va a New York, seduto al tavolo di un ristorante con l’autrice, Philip Roth e Judith Thurman, la grande biografa di Karen Blixen e poi di Colette, che rivela quanto possa essere difficile andare d’accordo con i personaggi di cui si racconta la vita.

Da New York si passa a uno sperduto McDonald’s in una stazione di servizio, tra Chicago e Bloomington, a incontrare David Foster Wallace. Lo scrittore è già un mito, per i suoi libri ma anche per il suo modo schivo di rapportarsi con gli altri. 
Poi si torna a New York, per conoscere Joe Mitchell, e poi a incontrare Richard Ford, famoso per il suo grande legame con Carver e per la sua suscettibilità di fronte alle recensioni negative, come per esempio quella della scrittrice Alice Hoffman apparsa sul New York Times.

Quando gli chiedo com'è andata, dice che veramente è stata sua moglie, Kristina, a prendere un libro di Alice Hoffman, portarlo in giardino, prendere la mira e piantargli dentro una pallottola. Lui ha sparato solo per secondo, dice. Poi ha messo il libro in una busta e lo ha spedito all'autrice. Quando vede che non riesco al trattenermi dal ridere di complicità - siamo amici- si schermisce: "Francamente, non ho mai capito perché questa storia abbia fatto tanto rumore. Ho sparato al libro, mica a lei".

Poi si va da James Purdy e Paula Fox, per finire con l’incontro con Philip Roth, con cui negli anni Livia Manera Sambuy ha instaurato un vero e proprio rapporto di amicizia, che ha portato al documentario “Philip Roth: Unmasked”.
Il grande legame con Philip Roth, in realtà, traspare in quasi tutti i racconti dell’autrice. È stato lui a presentarle Judith Thurman, per esempio, e lui a fare una bellissima disamina sull'importanza dei McDonald’s.

Ma a New York, nella zona di Broadway all'altezza della Novantesima Strada, Philip Roth mi aveva insegnato che è un errore snobbare i McDonald's. Diceva che svolgono una funzione sociale importante, accolgono gente povera e famiglie intere che possono starci ore spendendo poco e usufruendo di bagni puliti. Una sera, passando davanti alle vetrine di uno di questi fast food dell'Upper West Side mentre facevamo una passeggiata notturna, mi aveva fatto notare che seduti a quei tavoli c'erano anziani che vivevano soli nelle case d'affitto vicine, e passavano lì le serate per vedere un po' di gente e rifornirsi di tovagliolini e carta igienica. "Ci vanno i vecchi, bianchi e neri, ci vanno le famiglie con tanti bambini - dove altro potrebbero permettersi di sfamarli?" mi aveva detto aprendomi gli occhi su un aspetto dell'America che non avevo mai preso in considerazione. "Di notte ci vanno i poliziotti, i travestiti, le prostitute, i teenager, e qualche volta ci vado anche io, a sorseggiare una Coca e a vedere che aria tira".

È un libro molto bello, questo Non scrivere di me. Un libro che ti fa provare un po’ di invidia per Livia Manera Sambuy e per le possibilità che ha avuto di conoscere questi grandi nomi e, spesso, di diventarne amica. Certo, alcuni autori, onestamente, proprio non li conoscevo e il racconto dell’autrice, la sua famigliarità,  mi hanno fatto sentire un po’ ignorante. Ma non importa, perché questi ritratti di scrittori sono, in realtà, ritratti di esseri umani, con il loro caratteraccio, le loro manie, le loro fragilità, la loro ironia e i loro ricordi. A volte fanno sorridere, a volte riflettere, e sì, ogni tanto anche un po' commuovere. Bello, bello davvero.


Titolo: Non scrivere di me
Autore: Livia Manera Sambuy
Pagine: 206
Anno di pubblicazione: 2015
Editore: Feltrinelli editore
Prezzo di copertina: 16 €
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formato cartaceo: Non scrivere di me
formato ebook: Non scrivere di me

lunedì 2 gennaio 2017

LE ENTUSIASMANTI AVVENTURE DI MAX MIDDLESTONE E DEL SUO CANE ALTO TRECENTO METRI - Tito Faraci & Sio


Non ricordo esattamente quando mi sono imbattuta per la prima volta in Scottecs, il fumetto nato dalla penna di Sio. So però che è solo da un anno a questa parte che le sue strisce mattutine sono diventate un appuntamento quotidiano. Entro in Facebook al mattino e tra le prime cose che cerco ci sono i suoi buffi e stilizzatissimi personaggi e, soprattutto, le sue vignette nonsense. Le adoro. 
Adoro la loro totale assenza di logica e il modo in cui questa assenza le rende così divertenti. Mi è capitato di stare a fissarle per qualche minuto prima di riuscire a capirle del tutto, per poi concludere con “non so se questo sia un pirla o un genio”. Ma ridere, be’, ho sempre riso un sacco.

Quando ho saputo che Sio avrebbe pubblicato per Feltrinelli un libro insieme a Tito Faraci, uno degli sceneggiatori storici di Topolino, la curiosità è stata tanta, tantissima, unita però a un po’ di scetticismo. Si tratta di un fumetto? Di un romanzo? Di una storia completamente priva di senso? Ci avrei capito qualcosa? E, soprattutto, mi avrebbe fatto ridere come le vignette quotidiane?
Quando ho aperto per la prima volta Le entusiasmanti avventure di Max Middlestone e del suo cane alto trecento metri e ho letto la grandissima citazione di Jonathan Coe riportata nell'esergo, in effetti, ho riso. Tantissimo. E ho continuato a ridere fino all’ultima pagina.
La grandissima citazione di Jonathan Coe in esergo al libro

Il libro inizia con una piccola lezione su come interpretare correttamente la sceneggiatura di un fumetto. Nella pagina di sinistra ci sono le spiegazioni di Tito Faraci, in quella di destra i disegni esplicativi di Sio (o meglio, interpretati “alla Sio”). 
Una volta capita la differenza tra “primo piano”, “piano americano”, “figura intera”, “mezzo busto”, “campo lungo”, “campo lunghissimo” e tutte le altre nozioni di sceneggiatura, si passa alla storia vera e propria: protagonista è Gregory Rosboff, un contadino del Wisconsin che parte in cerca delle radici della sua famiglia e si ritrova non si sa bene come in Russia, nel bel mezzo di un complotto per rovesciare lo zar. In questa sua avventura farà la conoscenza di tutta una serie di buffi personaggi, alcuni gentilissimi, altri cattivissimi, e una santa. E, a rendere ancor più strane le cose, c’è un libro dal titolo strano, che spunta spesso nei momenti più impensabili.

Le entusiasmanti avventure di Max Middlestone e del suo cane alto trecento metri è un libro non semplicissimo da leggere, per questa alternanza tra testo scritto e sua rappresentazione, che bisogna confrontare immediatamente (leggete le parole di Tito Faraci, poi guardate le vignette di Sio, quasi riga per riga), ma, una volta che si è capito il meccanismo, è davvero divertente. Io ho riso davvero tanto, a volte di gusto, a volte con un attimo di ritardo, quasi sempre pensando “non so se questo sia un pirla o un genio”.

Certo, per apprezzarlo dovete essere amanti del nonsense e dell’assenza di logica, ed essere persone che, come me, si divertono con le cose un po’ sceme. Se lo siete, be’, questo libro vi piacerà sicuramente.


Titolo: Le entusiasmanti avventure di Max Middlestone e del suo cane alto trecento metri 
Autore: Tito Faraci & Sio
Pagine: 116
Editore: Feltrinelli
Prezzo di copertina: 14€
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