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martedì 18 luglio 2017

Metti una domenica a COLLISIONI - Il Festival Agrirock 2017

Domenica 16 luglio, in compagnia di Luca, sono andata per la prima volta a Collisioni, il festival agrirock che si tiene nel mese di luglio a Barolo, un paesino in provincia di Cuneo, dal 2009.
Non so perché non ci fossi mai andata prima. Forse perché credevo fosse lontano, forse perché non ho mai trovato nessuno che volesse accompagnarmici o non c’è mai stato nei programmi degli anni passati (davvero molto ricchi, in realtà) un autore o un’autrice che mi spingesse ad andarci anche da sola. Male. Molto, molto male. Perché, dopo una giornata trascorsa tra la piazza Blu e la piazza Rosa di questo paesino, mi sono resa conto di quanto mi sia persa negli anni passati.

A spingerci quest’anno ad andare sono stati due autori: Jeffrey Eugenides e Joyce Carol Oates. A cui si è poi aggiunto Jonathan Coe, che io avevo già sentito un paio di volte ma che merita sempre.
E quindi ci siamo svegliati, abbiamo preso l’auto (Barolo è raggiungibile solo così, con l’auto propria o approfittando di alcuni bus che partono da Torino, Milano, Genova e Cuneo durante i giorni del festival) e in un’oretta circa siamo arrivati a Barolo. Ero un po’ preoccupata della logistica, tra parcheggi, navette per arrivare in paese e code all'ingresso, ma devo dire che ci è andato tutto bene. Noi non avevamo prenotato nulla,  quindi abbiamo lasciato l’auto nel parcheggio più lontano, ma la navetta è arrivata pochi minuti dopo di noi. Lo stesso alle casse: dopo i controlli iniziali, abbiamo acquistato senza problemi i biglietti d’ingresso direttamente sul posto, beccandoci anche di sottofondo il soundcheck dei Placebo che avrebbero suonato la sera.
E poi siamo entrati in paese:



Il primo appuntamento della giornata è stato con lo scrittore inglese Jonathan Coe, in dialogo con Carlo Lucarelli in piazza Blu. I due hanno parlato, ovviamente, dei libri e della carriera letteraria di Coe, ma anche del rapporto tra il mondo dei social (che Coe frequenta… poco dopo la fine del suo incontro mi sono ritrovata un suo cuore su twitter, nel tweet in cui aspettavo l’evento) e quello dei libri, che lui consiglia di tener ben separati. Si è parlato di scrittura e di prossimi romanzi: l’ultimo è stato Numero undici, uscito l’anno scorso per Feltrinelli, e durante l’incontro Coe ha annunciato di aver iniziato a lavorare al prossimo, seguendo la sua abitudine di scrittore di pensare un libro per due anni e poi metterci meno di un anno a scriverlo. In chiusura, tra le domande del pubblico, qualcuno ovviamente ha chiesto anche della Brexit, e Coe, oltre ad aver dichiarato di aver votato contro, ha concluso il suo discorso con un bel “Fuck Brexit!”, che vale più di mille parole. 
Le ultimissime parole dette da Coe sono state la risposta alla domanda di una giovane aspirante scrittrice che gli chiedeva qualche consiglio: e lui, a differenza di molti altri autori che spesso rispondono con “non lo so” o eludendo la domanda, le ha semplicemente detto di farlo, di provarci, che se il suo sogno è quello magari riuscirà a realizzarlo, magari avrà la fortuna di essere pubblicata o per lo meno ci avrà provato. 

Jonathan Coe con Carlo Lucarelli e l'interprete Paolo Maria Noseda

Dopo l’incontro con Coe (che già adoravo e ora adoro ancora di più), abbiamo fatto due passi in paese, nell'attesa che arrivassero le 15.30 per l’incontro con Jeffrey Eugenides. Siamo andati a fare un giro nelle altre due piazze del festival e poi ci siamo fermati in un locale per un bicchiere di vino. Sì, perché a Barolo, oltre ad assistere a incontri con scrittori, cantanti e mille altri personaggi, si mangia e si beve. (No, noi non abbiamo bevuto il Barolo, perché, anche se il caldo era sopportabile, non credo che avremmo retto del vino rosso così, di primo pomeriggio).

Due bicchieri di Arneis, prima di essere bevuti.

Una volta arrivate le 15.30, siamo tornati in piazza Blu per l’incontro con lo scrittore americano Jeffrey Eugenides. A dialogare con lui questa volta c’era Luca Briasco, il cui entusiasmo era ben visibile ed è riuscito a trasmetterlo anche al pubblico (che bello quando gli intervistatori sono così contenti di presentare gli scrittori... capisci quanto amino quello che stanno facendo e uniscono alla loro competenza il fanatismo da lettori).

Jeffrey Eugenides con Luca Briasco e l'interprete Paolo Maria Noseda
Non avevo bene idea di cosa aspettarmi da Jeffrey Eugenides e, in realtà, non avevo nemmeno ben presente il suo viso. Lui è salito sul palco con un cappello in testa e un bel sorriso entusiasta. Nel corso della presentazione si è parlato dei suoi tre romanzi già pubblicati (Le vergini suicide, Middlesex e La trama del matrimonio) e della raccolta di racconti che uscirà questo autunno. Lui si definisce uno scrittore lento, come la sua produzione in qualche modo dimostra, e più adatto al romanzo che non al racconto, anche se effettivamente la sua prossima opera sarà proprio una raccolta.
Come per Coe era impossibile non parlare di Brexit, con Jeffrey Eugenides non si poteva non citare Donald Trump, ancor più considerando che Detroit e il Michigan in generale hanno svolto un ruolo fondamentale nella sua elezione. Pur essendo ovviamente contro Trump, Eugenides riesce a dare una spiegazione convincente e anche molto comprensibile del perché di questo voto nella sua città: Detroit si è in qualche modo sentita tradita dal partito democratico, che aveva promesso lavoro e sostegni a una città quasi in rovina. Lavoro e sostegni che invece non sono arrivati. Nel momento di scegliere il nuovo presidente, la maggior parte degli elettori si è divisa tra il non votare o il votare quello che a loro, vista la loro esperienza passata, è sembrato il meno peggio.

 L’incontro si è poi concluso con una domanda dal pubblico riguardo a un personaggio di Middlesex, “l’oscuro oggetto”, a cui è seguita la buffa spiegazione dell’autore sulla sua origine, che deriva dagli anni dell’università: è così, infatti, che lui e un suo compagno erano soliti chiamare una loro misteriosa compagna, che vedevano ovunque ma con cui non parlavano mai. (Sempre riguardo ai personaggi, nel corso della presentazione Eugenides ci ha tenuto a ribadire che il personaggio di Leonard in La trama del matrimonio, nonostante la bandana in testa, non è ispirato a David Foster Wallace).

Appena finito l’incontro con Eugenides (non siamo nemmeno riusciti a farci fare gli autografi, per mancanza di tempo... forse unica pecca di questo festival: gli incontri troppo ravvicinati), ci siamo spostati in Piazza Rosa per conoscere Joyce Carol Oates, il motivo principale della nostra gita a Collisioni.

Joyce Carol Oates con Luca Briasco e l'interprete Paolo Maria Noseda
Insieme a lei sul palco c’era nuovamente Luca Briasco, sempre entusiasta ed emozionato di essere lì (non oso immaginare che cosa abbia provato quando gli hanno chiesto di presentare in un solo pomeriggio due scrittori americani di questo calibro). 
Joyce Carol Oates è esattamente come me l’ero immaginata dopo averla vista in foto, dopo aver letto Sorella, mio unico amore e Una famiglia americana, e soprattutto seguendola su twitter. Una donnina minuta, molto magra, che non si è mai tolta il suo cappello nero dalla testa e che ha risposto a tutte le domande in modo pacato, senza mai usare una parola di troppo ma nemmeno senza sembrare sgarbata, lasciandosi andare ogni tanto a qualche risatina molto composta.

La presentazione si è incentrata soprattutto su I paesaggi perduti, il suo secondo memoir da poco pubblicato da Mondadori con la traduzione di Katia Bagnoli. Un libro che racconta della sua famiglia e di lei adolescente, un periodo che l’ha formata e l’ha aiutata sicuramente a diventare la grande scrittrice che è oggi. Ovviamente anche a lei è stato chiesto di Trump, anzi T***p come lo chiama lei su twitter (se già non lo fate, vi consiglio di seguirla, merita). Un primo riferimento lo ha fatto lei stessa, parlando del primo libro che ha letto: Alice nel paese delle meraviglie. Spiegando che cosa le ha trasmesso quel libro, ha detto che non bisogna mai stupirsi di fronte a certe assurdità che leggiamo nei libri, perché non saranno mai come quelle che ci capitano nella vita vera… tipo le ultime elezioni.

Finita la presentazione, Luca si è messo in coda per farsi fare l’autografo (io, ahimè, non possiedo i libri suoi che ho letto in passato), ed è stato proprio bello vederlo lì, un po’ emozionato, davanti a lei. (Un’altra cosa che mi è piaciuta molto di questo incontro è stata la presenza di Jonathan Coe tra il pubblico... anche lui lì per sentire una grandissima scrittrice nordamericana. A volte ci dimentichiamo che gli scrittori sono per prima cosa anche loro lettori  che vogliono incontrare altri scrittori. Tra l'altro sia Coe sia la Oates erano anche da Eugenides).

Luca con Joyce Carol Oates

La nostra giornata a Collisioni si è conclusa con questo incontro. Siamo poi tornati alla fermata delle navette e, anche questa volta, non abbiamo dovuto aspettare. Iniziava a esserci un po’ di calca per il concerto serale dei Placebo, ma mai confusione insopportabile.

Collisioni mi è piaciuto tantissimo, forse è il più bel festival a cui io sia mai andata. Merito degli ospiti e dei loro intervistatori (un plauso anche all’interprete Paolo Maria Noseda, che ha seguito tutti gli scrittori di lingua inglese) sicuramente, del tempo che è stato particolarmente clemente (temevo il caldo torrido, prima cosa su cui siamo stati messi all'erta quando abbiamo detto che saremmo andati a Barolo e invece si stava bene), ma ho amato molto anche l’atmosfera. Forse perché, a differenza delle fiere e dei festival letterari in generale, qui non si percepiva tanto la presenza degli addetti ai lavori. Tutti (o quasi) facevano semplicemente parte del pubblico in visita a un festival, giunti lì per sentire un ospite o per mangiare e bere.

E poi, be’, mi è piaciuto anche il vino.

venerdì 25 marzo 2016

NUMERO UNDICI - Jonathan Coe



Sebbene io abbia finito Numero undici di Jonathan Coe, pubblicato sempre da Feltrinelli con la traduzione di Mariagiulia Castagnone, già qualche giorno fa, ho preferito far passare un po' di tempo prima di mettermi a scriverne la recensione. Il perché, se avete seguito blog e pagina in questi giorni, credo si sia capito. Adoro questo scrittore. Di lui comprerei anche la lista della spesa. Lo adoro come scrittore e come persona, per quel poco che ho avuto modo di conoscerlo attraverso i suoi tweet e i suoi articoli. Quindi, ho voluto aspettare per fare in modo che questa recensione sia il meno possibile influenzata dall'entusiasmo di averlo incontrato qualche giorno fa. Ma ora credo che il momento giusto sia arrivato.

La prima cosa da dire a proposito di Numero undici di Jonathan Coe è che il Jonathan Coe che tutti noi che abbiamo amato La casa del sonno, Circolo chiuso e La famiglia Winshaw, è tornato. Davvero. Chi, come me, ha letto tutti i suoi libri sa perfettamente cosa vuol dire: dopo il drastico cambiamento di stile in I terribili segreti di Maxwell Sim e, soprattutto, la delusione di Expo 58, tutti stavamo aspettando con ansia un nuovo romanzo di quest'autore che ritornasse al suo stile passato.
E Numero undici lo fa, con una critica feroce della società moderna e delle sue assurdità, attraverso uno stile che unisce il comico e il tragico, con qualche punta anche gotica, come solo Jonathan Coe sa fare.

Il romanzo si compone in realtà di cinque racconti, legati da diversi fili conduttori (tra cui, appunto, il ricorrere del numero undici), ma che potrebbero tranquillamente esistere anche da soli. In ognuno di essi, Jonathan Coe affronta diversi argomenti della società moderna: si parte con la storia di un'estate di due ragazzine, Rachel e Allison, che non capiscono la reazione dei nonni di fronte al suicidio di David Kelly, lo scienziato britannico che aveva smascherato le bugie di Tony Blair sulla guerra in Iraq. Una perdita dell'innocenza che subito dalle due non viene nemmeno capito, in quanto sono troppo prese dal mistero di quella strana donna che abita la villa vicino al bosco. Il secondo racconto, che è quello che più in assoluto ho preferito, parla della madre di Alison, astro ormai decaduto della musica britannica che, per riscattarsi ma soprattutto per bisogno di soldi, decide di partecipare a un reality show, in cui verrà sottoposta alle prove fisiche più dure ma soprattutto a una grande corrente d'odio, come solo i social network sanno creare. Poi si passa al tema delle ossessioni che possono condizionare la vita, nella storia della professoressa di Rachel e di suo marito. Il penultimo racconto è quello in cui torna effettivamente la famiglia Winshaw, la protagonista del primo romanzo dell'autore, che già veniva citata nelle storie precedenti, e che parla di premi, di raccomandazioni e di giornalismo. La raccolta si conclude con un racconto un po' gotico, forse il più destabilizzante dei cinque, tra datori di lavoro ricchissimi, enormi ville che si sviluppano sottoterra e strani passi che si odono nella notte.

Numero undici è una raccolta di racconti che messi insieme formano un romanzo. Un grande romanzo, in cui prende alcuni degli elementi propri della nostra società e li distrugge. Come? Semplicemente mettendoli su carta, descrivendoli per quello che sono, facendo così aprire gli occhi al lettore.
Questo libro mi è piaciuto, mi è piaciuto tanto. E sono abbastanza sicura (per non dire sicurissima) che il mio amore incondizionato per Coe non c'entri niente con questo giudizio positivo. C'entrano la sua scrittura, il suo stile, il suo modo di criticare senza fare sconti a nessuno, risultando in un ritratto fedelissimo del mondo di oggi.

Insomma, Numero undici di Jonathan Coe è un libro da leggere. Che amiate Coe oppure no.


Titolo: Numero undici. Storie che testimoniano la follia.
Autore: Jonathan Coe
Traduttore: Mariagiulia Castagnone
Pagine: 382
Anno di pubblicazione: 2016
Editore: Feltrinelli
ISBN: 978-8807030550
Prezzo di copertina: 19€
Acquista su Amazon:
formato brossura: Numero undici

mercoledì 23 marzo 2016

Incontrando... Jonathan Coe alla Scuola Holden di Torino

Ieri nel tardo pomeriggio sono andata a Torino alla Scuola Holden per assistere alla presentazione del nuovo romanzo di Jonathan Coe, Numero Undici, appena uscito per Feltrinelli.
Devo dir la verità, inizialmente non ci volevo andare. Un po’ per pigrizia, un po’ perché “cavolo, devo farmi 40 km in auto da sola ad andare e altrettanti a tornare, e poi è in una zona di Torino che non conosco”, un po’ perché “ma mica ci posso andare da sola”. Poi però ho iniziato a leggere il libro, sabato sera.  Ho iniziato a pensare “quasi quasi”, poi qualcuno mi ha detto che se ci sono i Metallica in zona si devono andare a sentire a prescindere dai km da percorrere (ok, io personalmente i Metallica non so se andrei mai a sentirli, però era per dire…), poi qualcun altro mi ha detto “se non ci vai, sei scema, visto come stai divorando quel romanzo” e, infine, una mia amica mi ha detto che se fossi andata lei sarebbe venuta molto volentieri (grazie Barbara!)… e quindi, insomma, eccomi qui a parlarvi dell’incontro. 


Non ero mai stata alla Scuola Holden prima di ieri, né nella sua sede vecchia né in questa maestosissima sede nuova, in piazza Borgo Dora. Una zona di Torino che, almeno all’apparenza, non è tanto bella, diciamo la verità. Sono scesa dall’auto e in tre mi hanno chiesto dei soldi e uno è andato a fare pipì contro a un cassonetto vicino a dove avevo parcheggiato. 
Poi però ho varcato la porta della Scuola e sono entrata in un altro mondo. Bello il cortile interno, bella la sala dove si è tenuta la presentazione e bella  e molto intellettuale l’aria che si respirava.
Mi sono seduta in seconda fila, tenendo il posto occupato per la mia amica (aaaah i mezzi pubblici torinesi), e subito sono stata abbordata da due buffe signore sedute accanto a me che hanno iniziato a raccontarmi che fanno parte di un gruppo di lettura e che, al termine di ogni libro letto, invitano l’autore a parlare e l’autore solitamente ci va (non so se fossero lì per invitare Coe o per cazziarlo per non esserci andato).
Poi, finalmente (in realtà era puntualissimo), è arrivato Jonathan Coe. 



Durante la presentazione si è parlato principalmente solo dell’ultimo romanzo, Numero Undici appunto. Romanzo che ho terminato ieri in pausa pranzo e di cui vi parlerò nei prossimi giorni. Si è parlato della sua struttura, di questo ricorrere del numero undici che, insieme ad altri elementi, unisce un po’ il tutto (questo è il suo undicesimo romanzo, tra le altre cose), del ritornare di La famiglia Winsham, suo primo romanzo pubblicato in Italia nel 1995, e di come inizialmente lui non avesse pensato a un vero e proprio sequel, ma che poi la scrittura e le intenzioni, ovvero di fare una satira politica e sociale del Regno Unito di oggi, lo abbia riportato in qualche modo lì, a quella famiglia e a quei personaggi. 
Si è parlato di scrittura, ovviamente, e di come la scuola Holden abbia svolto in passato un certo ruolo nella sua scelta di dedicare un intero capitolo del libro a dei personaggi adolescenti (qualche anno fa era stato invitato dalla scuola a tenere una sorta di corso di riscrittura, in cui si doveva prendere una storia per ragazzi classica e trasformarla con un linguaggio moderno… lui aveva scelto I viaggi di Gulliver, uno dei suoi libri preferiti in assoluto), ma anche di serie TV (lui è un fan sfegatato di Downtown Abbey), di ossessioni personali (tema ricorrente nei suoi libri: c’è in Numero Undici, c’era in La famiglia Winsham e c’è in Coe stesso) e del ruolo dei social media nella società moderna («sono utili in alcuni casi, tipo oggi che ho seguito i terribili fatti di Bruxelles tramite twitter, ma sono anche in parte responsabili della perdita di empatia tipica della società moderna»).
Alla fine sì, si è parlato del libro ma a partire da quello e dalle sue tematiche si è parlato anche di tutt’altro. 
E io ho apprezzato tantissimo il suo modo di parlare e il suo fantastico accento inglese, ma anche il suo sense of humor, molto garbato (se non fosse stato per le due buffe signore citate prima che, sentendoci ridere già in lingua originale, ci chiedevano in continuazione di tradurre prima dell’interprete, così potevano ridere prima degli altri anche loro… no, signore, mi spiace, aspettate l’interprete) e il suo prendersi in giro. 

Poi, è arrivato il momento della dedica. 
Allora, io dal vivo sono una persona timidissima con gli sconosciuti. Figuriamoci con uno sconosciuto che parla inglese e che è, tra le altre cose, uno dei miei scrittori preferiti (lo sono anche in italiano con quelli che mi piacciono meno, comunque). Però poi mi sono trovata lì davanti e ho pensato “ma sì, chi se ne frega, io provo a parlargli, alla peggio mi prende per una fan invasata”. Gli ho detto che avevo terminato il libro quel pomeriggio, lui mi ha chiesto se una parte in particolare mi era piaciuta, io gli ho risposto che all'inizio era un po’ strana ma poi quando ho capito sì, lui mi ha detto che era l’effetto che voleva e poi constatato che leggo in fretta. E poi è successo più o meno questo:



«Beh sì, sono una lettrice allenata, perché ho un blog di recensioni e, per quanto possibile, mi piace aggiornarlo di frequente». 
«Davvero hai un blog? E mi segui su twitter?».
«Sì, lei ogni tanto mi mette anche i cuori».
«Ma dai, davvero! Come si chiama?».
«La lettrice rampante».
«Non ho presente al momento, scusami… ma la recensione del mio libro l’hai già scritta?».
«Ci mancherebbe!No, non ancora, l’ho finito oggi e penso la scriverò nei prossimi giorni».
«Dai, bello! Allora mettila in un posto in cui io la possa vedere, che sono curioso».

E alla fine stavo per svenire, ecco.
Poi magari se ne dimenticherà e non la leggerà (non oso immaginare in quanti lo tagghino da tutto il mondo), o ci proverà e non ci capirà niente perché la scriverò in italiano, o boh, qualunque altra cosa. Però chissene frega in realtà…  aver chiacchierato cinque minuti con Jonathan Coe e avergli detto che ho un blog per me è già stato un grandissimo traguardo.

Grazie quindi a chi mi ha convinto ad andarci, a Barbara per la compagnia, le foto e la birra e a Jonathan Coe per essere l'adorabile scrittore che è.

(La recensione di Numero Undici arriverà nei prossimi giorni, poi vi assicuro che dopo quella, fino al prossimo romanzo, questa fase da fan sfegatata e invasata si placherà. Portate pazienza ancora un po’).

martedì 3 settembre 2013

Expo 58 - Jonathan Coe

Devo iniziare questa recensione con una premessa. Se non si fosse ancora capito, io amo Jonathan Coe. Amo i suoi libri (li ho letti praticamente tutti), amo il suo modo di scrivere e soprattutto amo lui, uno scrittore e una persona incredibile, con cui ho avuto la fortuna di scambiare due chiacchiere qualche anno fa alla presentazione del suo romanzo precedente. E' uno di quegli autori di cui comprerei anche la lista della spesa, per intenderci.
Questo mio amore incondizionato nei suoi confronti mi porta però ovviamente ad avere delle alte aspettative e a rischiare, ogni volta che esce qualcosa di suo, di vederle miseramente disattese. Ma in parte è anche colpa sua, perché da un autore che ha scritto La casa del sonno, La famiglia Winshaw e La pioggia prima che cada, non puoi che aspettarti dei capolavori.

Expo 58 non è un capolavoro, diciamo subito. Non ci si avvicina nemmeno lontanamente. Eppure, è Coe. E' Coe in ogni pagina, in ogni personaggio, in ogni dialogo. E' solo un Coe diverso, un Coe più tranquillo, un Coe, forse, invecchiato, che si porta sulle spalle il peso dei capolavori precedenti che ha creato e cerca di toglierselo in ogni modo.

Di questo romanzo a lasciarmi più perplessa è la trama. In cui, sostanzialmente, non succede nulla. Thomas Foley,  giovane copywriter del Central Office of Information di Londra, viene inviato a Bruxelles durante l'Esposizione Universale del 1958, per supervisionare l'operato di uno dei punti cardine del padiglione della Gran Bretagna: il pub Britannia. Dovrà tenere gli occhi aperti, perché è la prima esposizione universale dopo la fine della guerra e i rapporti tra la Nato e l'Unione Sovietica sono molto tesi. Insomma, potrebbe succedere di tutto ed è meglio che ci sia qualcuno a tenere d'occhio la situazione. Quindi Thomas parte, lasciando la moglie e la figlia a casa da sole, in balia delle attenzioni del vicino di casa. A Bruxelles l'uomo entrerà in contatto con un mondo frenetico, con persone di diverse nazionalità, che gli faranno mettere in dubbio la sua tranquilla vita londinese. Si troverà invischiato in intrighi internazionali molto pericolosi, senza quasi nemmeno accorgersene, e, soprattutto, in grandi dilemmi amorosi.

Una trama particolare, già solo per la sua ambientazione, che sembra non voler decollare mai, almeno per quanto riguarda la parte di spionaggio, che a tratti è un pochino confusa. E mi potrebbe anche andare bene, se non fosse che in fascetta e in quarta di copertina viene scritto che si tratta di una spy story. Molto, molto più bella è la storia d'amore, le storie d'amore anzi, e il modo in cui vengono affrontate dal protagonista. 
Nonostante questa perplessità, il libro tutto sommato è un bel libro. Ben riusciti sono i personaggi, soprattutto quello del vicino di casa e dei due agenti segreti che tormentano Thomas, e bello è lo stile di Coe, con quel suo umorismo sottile, estremamente British, che all'inizio ti spiazza e poi ti fa sorridere di gusto.

Da quando ho chiuso il libro, ieri sera, non riesco a fare a meno di pensare che questa assenza di exploit nella trama, questa "calma narrativa" (non so se esiste una cosa del genere, ma nella mia mente rende bene l'idea), questa confusione, siano volute dall'autore per definire meglio Thomas e il suo stato d'animo, per descriverlo non solo attraverso i suoi gesti e le sue parole ma anche tutto quello che lo circonda.
"Dobbiamo tutti goderci il nostro tempo qui, finché possiamo. Perché potrebbe finire da un momento all'altro, e nessuno di noi può sapere quando, o come. [...] E' questo il problema con la felicità".
E' un libro che si legge bene, senza intoppi, e con alcune scene davvero divertenti. E non posso assolutamente dire che non mi sia piaciuto, anzi. Però, se conoscete Coe e tutta la sua opera narrativa, un pochino di delusione vi rimarrà sicuramente.
E se non avete mai letto nulla di questo autore, non partirei da questo per iniziare a conoscerlo, ecco. (E, se potete, leggetelo in lingua originale...)


Titolo: Expo 58
Autore: Jonathan Coe
Traduttore: Delfina Vezzoli
Pagine: 280
Anno di pubblicazione: 2013
Editore: Feltrinelli
ISBN: 978-8807030550
Prezzo di copertina: 17€
Acquista su Amazon:
formato brossura: Expo 58
formato ebook: Expo 58 (I narratori)

venerdì 10 settembre 2010

DONNA PER CASO-Jonathan Coe

Per Maria non c'è nulla di certo. La sua vita è una sequenza di episodi accidentali. L'amicizia di chi la circonda non la smuove, e non la smuovono neppure le reiterate offerte di matrimonio da parte di Ronny, innamorato devoto. Le piace vivere dentro i confini che certamente sente come il suo mondo ma che altrettanto sicuramente sa non essere prodotto di una "sua" precisa volontà. Si laurea, si sposa, ha un figlio e continua a non capire come di quegli eventi si possa dire "la mia vita". Esiste un grimaldello capace di far saltare l'apparente freddezza esistenziale di Maria? O tutto è destinato a finire com'è cominciato, vale a dire "per caso"? "Donna per caso" è il primo romanzo di Jonathan Coe.

E con questo credo di aver letto tutti i romanzi di Coe (le biografie no, ma magari più avanti).
Che dire di questo romanzo, il primo scritto da Coe (anche se arrivato in Italia solo dopo il successo della Casa del Sonno e della Famiglia Wishaw)? Sebbene abbia letto pareri contrastanti, anche tra gli amanti di questo grande autore, devo dire che a me non è dispiaciuto per nulla. Forse non tanto per la storia narrata (a lungo andare sta protagonista diventa un po' irritante, soprattutto per questo suo affidarsi al caso e lasciare che nulla intorno a sé la tocchi), ma per lo stile. Un narratore onniscente, che ogni tanto chiede scusa al lettore per la sua pedanteria o per la sua difficoltà a spiegare certi concetti. Un narratore che decide cosa merita che noi sappiamo della vita di questa donna e cosa no, e che quasi "parla" con i lettori. Questa è la genialità di questo libro, una caratteristica di Coe che si ritrova spesso in altri suoi romanzi, anche se forse mai in modo così marcato. Certo, a livello di trama, tutti gli altri sono molto meglio, forse perchè in questo una vera trama non c'è, è solo un seguire la protagonista attraverso le sue giornate.
Molto belle le ultime tre righe, con quel senso, ancora una volta, di essere in balia del destino.
E poi, ci sono certe perle qua e là che meritano proprio.

"Winnifred era tutto ciò che Maria non era, e anche di più. Era una persona felice, aperta, fiduciosa e sicura di sé che credeva nella benevolenza di Dio, nella santità del matrimonio e nella bontà innata della natura umana. Era idiota anche in altri modi comunque."

"Maria, la cui natura era essenzialmente fiduciosa, non aveva mai creduto in Dio, ma d'altro canto non aveva alcuna prova inconfutabile che lui credesse in lei"

Nota alla traduzione: non male!

mercoledì 11 agosto 2010

I TERRIBILI SEGRETI DI MAXWELL SIM - Jonathan Coe

9 marzo 2009, Maxwell Sim, neo-agente di commercio, viene trovato nudo e in coma etilico nella sua auto in Scozia, durante una bufera di neve. Nel bagagliaio un cartone pieno di spazzolini ecologici. Cos'è accaduto? Com'è arrivato fin lì? Torniamo indietro di qualche mese: Maxwell ha quarantotto anni e sta attraversando un periodo difficile, sembra aver toccato il fondo. Appena divorziato, in cattivi rapporti con il padre, incapace di comunicare con la sua unica figlia, capisce che nonostante i suoi settantaquattro amici su Facebook non ha nessuno al mondo con cui condividere i suoi problemi. Non avendo più niente da perdere, decide di accettare una curiosa opportunità di lavoro: un viaggio da Londra alle isole Shetland per pubblicizzare un'innovativa marca di spazzolini ecocompatibili. Si mette in macchina con mente aperta, le migliori intenzioni e la voce amica del navigatore come compagnia. Ben presto si accorge che il viaggio prende una direzione più seria, che lo porta nei luoghi più remoti delle isole britanniche, ma soprattutto nei più profondi e bui recessi del suo passato. Jonathan Coe reinventa il romanzo picaresco per i nostri tempi.

Aspettavo con ansia un nuovo libro di Coe. E, sebbene abbia letto pareri molto contrastanti riguardo questo nuovo romanzo, non posso dire che non mi sia piaciuto.
Certo, ci troviamo di fronte a un Coe diverso, cambiato rispetto a La Casa del Sonno (il suo capolavoro, secondo me) e rispetto anche alla saga Trotter o alla Famiglia Winshaw. Non è un romanzo corale, non ci sono miliardi di personaggi che si intrecciano e grandi fatti storici a fare da sfondo alla vita del protagonista. (Ma qualcuno sì, e devo ammettere che leggere Facebook in un romanzo mi ha lasciata un po' sconvolta...)

Tutto è incentrato su Maxwell Sim, un uomo sulla soglia deli cinquant'anni che ha visto la sua vita andare a rotoli dopo che la moglie lo ha lasciato e inizia un viaggio, fisico e metaforico, nella sua vita, che lo porta a scoprire segreti del passato rimasti a lungo celati, e a prendere coscienza anche di se stesso.
Certo, alcune parti sono un po' esasperate, troppo assurde per essere considerate come reali e certi incastri sono un po' forzati. Ma è riuscito a tenermi incollata alle sue pagine, a farmi divertire e anche a farmi riflettere parecchio.
E poi certe trovate sono proprio geniali: quella degli spazzolini da denti, quella del passeggero sull'aereo e della ragazza che per vivere crea alibi, e soprattutto quella del protagonista che si innamora del suo navigatore satellitare.
Che dire del finale? Coe vuole regalarci un parte di sè, entrando fisicamente nel suo romanzo. Inquietante? Abbastanza. Di impatto? Anche. Necessario? Onestamente non lo so. Insomma, sto povero protagonista sfigato riesce finalmente a capire cosa vuole dalla sua vita e tutto deve finire così?

A me è piaciuto molto (così come mi era piaciuto anche La Pioggia Prima che Cada), anche se sicuramente Coe non verrà ricordato per questo romanzo.

"Avremmo voluto, avremmo dovuto, avremmo potuto. Le parole piu' dolorose del linguaggio."



Nota alla traduzione: da rivedere, da rivedere e poi da rivedere ancora una volta. Sebbene la lettura scorra senza troppi inghippi, ci sono qua e là degli errorini e delle scelte dubbie che i puristi (o pi gnoli, come me) colgono quasi immediatamente.

mercoledì 3 marzo 2010

LA FAMIGLIA WINSHAW- Jonathan Coe

Le atrocità di una famiglia britannica negli anni di Margaret Thatcher. E, insieme, le avventure di uno scrittore che, incaricato di ricostruire le vicende di questa famiglia, vi si ritrova invischiato, lui e i suoi fantasmi infantili, sino a misurare sulla propria pelle i meccanismi di potere e sopraffazione che hanno portato l'Inghilterra degli anni Ottanta allo sfascio.


Un libro molto complesso da leggere, a causa degli innumerevoli personaggi che si alternano nelle pagine e degli sbalzi continui tra passato e presente da un capitolo all'altro. Ma Coe aiuta il lettore, inserendo un albero geneaologico all'inizio del romanzo così da poter seguire senza perdersi troppo le vicende dei rampolli Winshaw.
E' anche un libro geniale, i cui protagonisti si muovono perfettamente inseriti nella società dell'epoca, degli anni '80 e primi anno '90, dando vita quindi all' ennesimo ben riuscito spaccato sociale descritto dall'autore.
La trama è molto ben pensata e sviluppata. E' bello il filo conduttore che lega tutto il libro: unfilm giallo che tanto ha colpito il protagonista scrittore bambino (una trasposizione di Dieci Piccoli Indiani di Agatha Christie) e che si concretizza in modo strepitoso nelle ultime cinquanta pagine, tra travestimenti, morti collegate allo stile di vita delle vittime e passaggi segreti alla Cluedo.
A scatenare il tutto è la zia Tabitha, la pazza della famiglia, che è in realtà l'unica a non perdere il contatto con le cose veramente importanti della vita e a non lasciarsi sopraffare dall'avidità della societò moderna. Sarà lei a decidere di far chiarezza e di punire tutti i membri della sua famiglia, rei di essersi fatti coinvolgere troppo nell'avidità della società moderna e di agire solo ed esclusivamente per interesse personale.

E' molto bello, una volta presa dimestichezza con i nomi, anche il mescolarsi dei personaggi, tutti più o meno consapevolmente collegati tra loro e tutti con un legame, positivo o negativo, con la famiglia Winshaw.


Coe è semplicemente un genio.


Nota alla Traduzione: c'è qualche refuso, ma nel complesso è fatta bene

venerdì 12 febbraio 2010

CIRCOLO CHIUSO- Jonathan Coe


Alle soglie del capodanno del 2000 Claire Newman, reduce da un matrimonio fallito e da un lungo soggiorno in Italia, decide di tornare in Inghilterra, nella sua vecchia città di Birmingham. Pensa sia venuto il momento, dopo più di vent'anni, di scoprire definitivamente cosa sia successo a sua sorella Miriam, scomparsa misteriosamente nel 1978. Il libro, al tempo stesso seguito de "La banda dei brocchi" e romanzo in sé compiuto, conclude un'ideale trilogia costituita da "La banda dei brocchi" (dedicato agli anni Settanta) e da "La famiglia Winshaw" (dedicato agli anni Ottanta).

E' stupendo. Un libro che si divora. Un ritratto fedele e appassionato del Regno Unito con l'avvento del nuovo millenio, raccontato tramite le vicende dei protagonisti di La Banda dei Brocchi, ora più vecchi ma in realtà non ancora cresciuti. Troppe sono infatti le cose rimaste in sospeso dal passato e dalla loro adolescenza. E tutte trovano un finale, più o meno sconvolgente e più o meno prevedibile (eh sì, uno dei colpi di scena principali era un pochino prevedibile), che lascia pienamente soddisfatti. Un circolo che si chiude insomma, in cui tutti i personaggi alla fine raggiungono quello che hanno sempre voluto, felici o meno.
Coe scrive veramente bene. I suoi personaggi sono forti e ben caratterizzati e il suo modo di ancorare fatti inventati e vita privata dei protagonisti alla situazione storica e politica del periodo è molto efficace, ed è forse ciò che da' maggiore forza al libro, permettendo anche una critica non troppo velata al governo di Blair e a tutte le conseguenze dell'11 Settembre.
Questo libro mi ha fatto apprezzare ancora di più La Banda dei Brocchi, che ho deciso di dover assolutamente rileggere in italiano (non mi piace ammetterlo, ma ho fatto veramente fatica a leggerlo in lingua originale).
Merita davvero.

Nota alla traduzione: ben fatta direi. C'è qualche nota ogni tanto che forse si poteva evitare, ma comunque non disturba troppo.

giovedì 19 novembre 2009

THE ROTTER'S CLUB- Jonathan Coe (titolo italiano "La Banda dei Brocchi")

Trotter, Harding, Aderton, Chase: sembra il nome di un prestigioso studio legale; in realtà si tratta di un quartetto di giovani amici, che frequenta un liceo elitario di Birmingham, quel tipo di scuola che preleva ragazzi intelligenti dal loro background ordinario e li fa atterrare in una classe sociale diversa da quella dei loro genitori. I ragazzi sono destinati a carriere importanti, mentre i genitori rimangono impantanati nel loro mondo di matrimoni sciovinisti, scontri sindacali, guerre di classe e di razza e ignoranza culturale. Siamo negli anni '70, anni in cui si susseguono sconvolgimenti sociali, lotte politiche, attentati dell'Ira. Su questo mare in tempesta cercano di destreggiarsi, con alterne fortune, i quattro ragazzi.

L'ennesimo bel libro di Coe. Tra risate, ironia, momenti allegri ma anche tragici, si sviluppa l'adolescenza di questi quattro amici, tutti diversi tra loro eppure molto legati.
Il ritratto della società che fa lo scrittore è semplicemente perfetto ed è molto facile immergersi in quella vita, nelle strade di Birgmingham e nelle paure e vicende dei personaggi. E la forza di Coe in questo romanzo sta proprio lì, nel fedele ritratto della realtà in cui immerge le storie fittizie di questi personaggi. Struggente è poi la storia di Lois, la sorella di Benjamin. Così come è molto particolare il flusso di coscienza dinale di Benjamin in cui rivela come sono cambiate le cose nel corso degli anni.
Di nuovo, mi verrebbe da dire peccato per il finale. Ma la scelta fatta da Coe non è sicuramente casuale.
Assolutamente da leggere! Consiglio in italiano però, perchè in inglese ho spesso fatto molta fatica a seguire alcune parti.