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mercoledì 30 dicembre 2020

Il 2020 in un post

 Fa un certo effetto ritornare a scrivere su questo blog a un anno esatto di distanza dall'ultimo post. Soprattutto se si considera che anno assurdo e difficile è stato questo 2020. Quando ho scritto qui per l'ultima volta la parola lockdown era qualcosa di distante, che sentivamo ogni tanto menzionare al telegiornale ma che mai avremmo pensato avrebbe fatto parte della nostra quotidianità. Non avevo mai indossato una mascherina, se si esclude quella volta in cui con degli amici avevamo dipinto con lo spray un vestito di carnevale, e mai avrei  pensato di doverla tenere addosso ogniqualvolta mettessi piede fuori di casa. Avevo un paio di barattoli di gel igienizzante abbandonati in un cassetto del bagno ed erano anni che qualcuno non mi infilava qualcosa nel naso. 

E poi è arrivato il 2020, è arrivato il Coronavirus, sono arrivati i tristi dati giornalieri su contagi e decessi, sono arrivate le zone rosse, i DPCM, i lockdown, la didattica a distanza, i tamponi (ne ho fatti solo due, uno per lavoro e uno per sicurezza) e quella costante ansia di mettere piede fuori di casa e di ammalarsi o far ammalare qualcuno. Un anno complicato, in cui sicuramente io sono stata molto fortunata: nessuno della mia famiglia si è ammalato, nessuno di noi ha perso il lavoro o ha avuto gravi ripercussioni da questa situazione, se non la difficoltà emotiva e mentale di non poter fare le cose normalmente (che è nulla rispetto a chi si è ammalato, è indubbio, ma che ogni tanto si fa sentire).

E per quanto io non veda l'ora che quest'anno finisca, ci sono alcune cose che devo salvare per forza. Per esempio, ho tradotto tanto e sono uscite tante mie traduzioni. Da un po' di tempo a questa parte mi sto cimentando nella traduzione di libri per bambini e ragazzi e mi sto divertendo tantissimo. Ne approfitto quindi per ringraziare chi mi ha dato questa opportunità, un giorno quasi dal nulla, per avermi fatto scoprire un mondo che ignoravo ma in cui invece ritrovo tutta me stessa (grazie, Lara!). 

Ecco qui quelli usciti quest'anno:


Ma veniamo alle letture di quest'anno, che lo so che è quello che più interessa anche a voi. Non ho letto tantissimo in questo 2020. Nemmeno poco, per carità, ma più ci ripenso più mi accorgo di non aver avuto il solito entusiasmo. Un po' è sicuramente colpa della didattica a distanza, che da marzo mi ha assorbito completamente (mi spiace se voi avete incontrato docenti che in DAD non facevano nulla, tutti nella mia scuola ci hanno dedicato anima e corpo, cercando di fare il più e il meglio possibile per non perdere i ragazzi per strada), un po' dalle letture per lavoro che sono continuate per tutto l'anno e che, per quanto siano sicuramente uno dei lavori dei miei sogni, ti tolgono un po' la voglia di leggere per piacere. E poi credo ci sia stata anche un po' di quella stanchezza fisiologica che ogni tanto colpisce anche i lettori più voraci. 

In compenso però ho scoperto e recuperato tante serie TV bellissime: ho visto tutto Downton Abbey, ho scoperto The Office, mi sono innamorata definitivamente di The Crown, abbiamo riso con Upload e con la seconda stagione di The Umbrella Academy e, proprio negli ultimi giorni, ho fatto una full immersion in Bridgerton (più duca di Hastings per tutti!).

Ma torniamo ai libri. Leggere meno ti fa diventare anche un lettore un po' più attento, o almeno con me è stato così. E quindi tra le letture assolutamente evitabili di quest'anno c'è un libro solo:  Donne che comprano fiori di Vanessa Montfort.
Ci ho messo un mese a leggerlo. Lo prendevo in mano e a ogni pagina volevo lanciarlo fuori dalla finestra talmente mi irritava per la quantità di luoghi comuni sulle donne che contiene. Avrei potuto abbandonarlo, certo, ma per qualche motivo ho preferito trascinarmelo, per vedere se sul finale migliorasse (per me la risposta è: no). 

Le letture belle sono invece state molte, libri che per un motivo o per l'altro mi hanno emozionato o mi hanno tenuto tanta compagnia. Se devo scegliere i migliori in assoluto, direi che sono questi:

UN RAGAZZO NORMALE di Lorenzo Marone, edito da Feltrinelli. È il primo romanzo di Marone che leggo, un autore da cui per qualche inspiegabile motivo mi sono sempre tenuta a distanza, e ho riso e ho pianto tanto leggendo le avventure del piccolo Mimì che nell'estate del 1985 inizia a diventare grande, grazie anche alla sua speciale amicizia con Giancarlo Siani. Una scoperta inaspettata.


LA RAGAZZA CON LA MACCHINA DA SCRIVERE di Desy Icardi, edito da Fazi. Avevo già letto e apprezzato il primo romanzo di questa autrice, L'annusatrice di libri, ma qui con la storia di Dalia e della sua macchina da scrivere Olivetti rossa va oltre, creando un romanzo sui ricordi che trovano sempre il modo di venire a galla.


OLIVE, ANCORA LEI di Elizabeth Strout, edito da Einaudi e tradotto da Susanna Basso. Va be', non credo che ci sia bisogno di dire molto sul ritorno di Olive Kitteridge. Elizabeth Strout ha rischiato nel ridare voce a un personaggio così tanto amato: poteva venir fuori una minestra riscaldata, qualcosa per i lettori appassionati (tipo me, per intenderci) ma che non avesse più nulla da dire. E invece no, Olive Kitteridge è ancora e sempre lei, anche adesso che si fa sempre più stanca e anziana non ha perso la sua forza, né il suo modo, schietto, rude, ma anche molto sincero e profondo di vedere il mondo. 


LA STRADA DI CASA di Kent Haruf, pubblicato da NN editore con la traduzione di Fabio Cremonesi. Bello, bello, bello, forse il migliore di Haruf dopo Benedizione. Dopo otto anni di assenza, durante i quali nessuno ha sentito la sua mancanza, quello stronzo (scusate) di Jack Burdette ritorna a Holt con la sua cadillac rossa e con lui ritornano i ricordi di quello che ha fatto, alla cittadina che si è fidata e alle donne che hanno avuto la sfortuna di innamorarsi di lui. 


Non so cosa ci riserverà questo 2021, anche se a essere meglio del 2020 direi che ci va davvero poco. Spero che si possa presto tornare a fare una vita il più normale possibile, con tutte le accortezze e le attenzioni del caso (dai vaccino, spicciati!). Nel mio piccolo spero che la mia famiglia e i miei amici continuino a stare bene e così come quelle di tutti. Spero di poter tradurre ancora tanto, di leggere altri bei libri e guardare altre serie tv. Spero di poter tornare al cinema e alle mostre, che sono due delle attività che più mi sono mancate quest'anno. E spero che tutti voi possiate ritrovare la serenità se quest'anno l'avete persa o mantenerla se, come me, siete stati tra i fortunati in un anno terribile.

Ah sì, spero anche di tornare a scrivere un po' di più sul blog e non usarlo solo una volta l'anno, visto cos'è successo l'ultima volta che ci ho scritto.

mercoledì 18 ottobre 2017

Il mondo è bello perché è vario (e anche i libri)

Ieri a Londra è stato assegnato il The Man Booker Prize for Fiction, il premio che ogni anno viene dato al miglior romanzo in lingua inglese.
A vincerlo è stato George Saunders con Lincoln in the Bardo (pubblicato in italiano da Feltrinelli con il titolo Lincoln nel Bardo). È il primo romanzo di questo scrittore americano, finora conosciuto per le sue raccolte di racconti (pubblicate in Italia da minimum fax), ed è stato accolto dalla critica e dai lettori in modo ambivalente.
C’è chi lo ha amato tantissimo, apprezzandone l’originalità stilistica e il modo in cui è stato sviluppato il tema della morte, del passaggio nell'aldilà e del dolore sia di chi se ne va sia di chi resta. C’è chi invece lo ha trovato un romanzo furbo, senza in realtà alcuna originalità, a tratti confusionario e caotico. E, ancora, c’è a chi non è piaciuto perché non ci ha ritrovato il Saunders dei racconti. 
Io appartengo alla prima categoria: ho trovato questo romanzo originale sia per il modo in cui è scritto (fonti storiche inventate si alternano a dialoghi per far progredire la storia) sia per le emozioni che mi ha suscitato. 
Però è la terza categoria quella che mi interessa ai fini di questo post. “Non mi è piaciuto perché non ci ho ritrovato il Saunders dei racconti” o, parlando più in generale di tutti i libri, “Non mi è piaciuto perché non era quello che mi aspettavo”.

Quanto sono importanti le aspettative che i lettori hanno verso un libro nell'apprezzare o meno il libro stesso? 

©Julio Antonio Blasco
Mi è capitato spesso di iniziare le mie recensioni dicendo che per un dato libro avevo aspettative molto alte e poi di confermare o meno se quelle aspettative erano state soddisfatte. 
D'altronde perché scegliamo di leggere un determinato libro o un determinato autore? Perché per qualche motivo, sensato o meno (a volte, per me, può bastare anche la copertina), ci ha attirato; perché ne abbiamo sentito parlare bene da altri; perché lo pubblica un editore che non ci ha mai deluso; o magari semplicemente perché abbiamo già letto qualcosa di quell'autore o di quell'autrice, ci era piaciuto e quindi abbiamo deciso di leggere anche le produzioni successive.
Le aspettative con cui ci approcciamo ai libri, però, se da un lato sono umane e comprensibilissime (d'altronde, se scelgo di leggere un libro anziché un altro è perché mi aspetto di trovarci qualcosa che nell'altro non troverei), dall'altro però rischiano di distorcere, in modo più o meno pesante, il nostro rapporto con quel libro.

A me succede spesso. Leggo un romanzo o un racconto di un autore o di un’autrice che in passato mi era piaciuto e se non ci ritrovo quelle stesse sensazioni provate in passato, per un momento, rimango un po’ delusa. Poi però, nella maggior parte dei casi, riesco a dimenticarmene, ad allontanarmi dal ricordo di cosa avevo letto in passato per concentrarmi su quello che ho di fronte e cercare così di non condizionare il mio giudizio. (Non sempre ci riesco eh, sia chiaro, anche perché non sempre gli scrittori riescono a cambiare drasticamente stile o struttura di un’opera producendo qualcosa di altrettanto bello).

Mi è successo per esempio con Nick Hornby, per citare un autore abbastanza conosciuto nei cui confronti tutti, nel corso degli anni, hanno un po’ cambiato opinione: l’Hornby di Un ragazzo o di Alta fedeltà non esiste più; l’autore stesso ha faticato a rendersi conto che scrivendo in quel modo, forse perché invecchiato, forse semplicemente perché si è esaurito, non funzionava più. Allora se n’è uscito con Funny Girl: un romanzo completamente diverso e che, senza il nome in copertina, difficilmente si sarebbe potuto associare a lui. E, per me, ha funzionato. Il fatto che sia un Hornby completamente diverso non vuol dire che non sia altrettanto valido.
Un altro esempio è J.K. Rowling, che dopo Harry Potter ha pubblicato a suo nome Il seggio vacante, un romanzo completamente diverso, rivolto anche a un pubblico diverso che non sempre è stato in grado di capire che sì, la scrittrice era la stessa, ma il romanzo no. (Poi si è inventata uno pseudonimo, per pubblicare thriller, e ha rivelato di esserne l’autrice solo dopo, onde evitare altri "sì, ma non è Harry Potter").

Parlando di autori più impegnati, invece, direi che anche George Saunders rientra in questa categoria. I suoi racconti sono tutti molto belli e, probabilmente, se non avessi letto quelli (soprattutto Dieci dicembre) non avrei letto nemmeno Lincoln nel Bardo. L’impatto con il romanzo è stato abbastanza traumatico, in effetti. Perché no, non è il Saunders dei racconti e ha scritto un’opera atipica, che forse non è nemmeno classificabile come romanzo. Ma una volta superato lo shock di leggere da parte di un autore una cosa completamente diversa da quella che mi sarei aspettata, be’, quel romanzo l’ho apprezzato eccome (così come ho apprezzato la capacità di Saunders di cambiare stile, di non prendere un suo racconto e semplicemente allungarlo per farlo diventare un romanzo, con il rischio di essere molto meno efficace).

C’è poi un’altra categoria di lettori che, ammetto, fatico un po’ a capire. Ovvero quella che non riesce ad apprezzare un autore perché si aspettava, nei suoi romanzi o nei suoi racconti, di ritrovarci un altro autore. Un esempio è quello successo a La fine dei vandalismi, il primo romanzo della trilogia di Grouse County di Tom Drury, pubblicato in Italia da NN editore. Un romanzo che, di nuovo, io ho amato moltissimo, ma che ha ricevuto pareri contrastanti. Tra le critiche principali c’è quella di non essere come Kent Haruf, l’autore della Trilogia della Pianura, sempre edita da NN editore, che ha avuto un successo (per me meritatissimo) strepitoso.

Ma se in un libro si cerca un altro autore, perché non leggere direttamente i libri di quell’autore? Sì, lo so, può essere che uno abbia già letto tutto e che l’autore, perché ritiratosi o perché, come nel caso di Haruf, mancato, non possa più scrivere niente. Però su che basi si confrontano due autori che sì, hanno forse qualche tratto in comune, ma sono comunque due autori diversi.

In generale, spesso la colpa di questi strani confronti deriva dai blurb che accompagnano le uscite dei libri: quante volte sulle quarte di copertina di un autore vi capita di leggere “è il nuovo Pinco Pallino”? Oppure “in questo libro ci trovate una cosa di Tizio, una cosa di Caio e, già che ci siamo, anche una di Sempronio”?

© Franco Maticchio
È ovvio che leggendo i rimandi si sentono. Anche perché gli scrittori sono (devono… dovrebbero…) essere prima di tutto lettori e si sono formati sulle opere di autori del passato, che hanno influenzato in modo più o meno netto la loro scrittura e il loro stile.
Così come è ovvio che un editore cerca il più possibile di sfruttare il traino del successo di un altro scrittore o di un altro romanzo per vendere.
E, ultima ovvietà lo giuro, è ovvio che un lettore cerchi nei libri qualcosa che gli piaccia e per farlo il confronto con altri autori è quasi inevitabile.

Però noi lettori dovremmo anche saper andare oltre. Staccarci da quell'aspettativa che ci porta a leggere un’opera per un determinato motivo e leggerla, invece, per quello che è. Un’opera a sé, che può piacerci o non piacerci, indipendentemente da cosa abbiamo letto prima.
Anche perché, altrimenti, si potrebbe leggere sempre e solo lo stesso libro, magari cambiando solo qualche riferimento (i nomi dei protagonisti, la città di ambientazione, la professione, etc etc…), così da essere sicuri di leggere sempre la stessa cosa con lo stesso stile. 

Ma che noia, no?

lunedì 13 febbraio 2017

Cathy, Kent e Le nostre anime di notte

Dov’è la tua mano?  
Proprio qui accanto a te, dove sta sempre.
Cathy Haruf, con la sua bravissima interprete
Non so bene da dove cominciare per raccontarvi l’incontro con Cathy Haruf avvenuto domenica 12 al Teatro Franco Parenti di Milano in occasione dell’uscita di Le nostre anime di notte, ultimo romanzo del marito Kent, pubblicato quando lui ormai non c’era più.
Vorrei scrivere un post super professionale, in cui vi racconto quali domande le sono state fatte e come lei ha risposto, senza lasciarmi andare a sentimentalismi o commenti personali. E mi ero ripromessa di essere così anche durante l’incontro stesso: ascoltare, prendere appunti, fare domande intelligenti.
Però poi mi sono seduta, lei è arrivata, con il suo bastone colorato e un sorriso dolcissimo sul viso e niente, al diavolo la professionalità, qui il problema era non commuoversi.

Questa donna è la moglie di Kent Haruf, l’autore di La trilogia della Pianura, su cui ho versato una valle di lacrime, di tristezza, di gioia, di commozione, e che, almeno in parte, ha contribuito a farmi innamorare. 
Ed è anche la persona a cui Haruf ha dedicato Le nostre anime di notte, questo piccolo gioiello appena uscito per NNeditore, sempre con la magistrale traduzione di Fabio Cremonesi, che racconta la storia d’amore tra due anziani, facendomi commuovere ancora una volta, e in alcuni punti forse ancor di più che nei tre libri precedenti.

Cathy ci tiene però a dire che il libro è autobiografico solo nella struttura di base, quella dei due anziani che la notte si ritrovano per mano nel letto, a chiacchierare. «Era il momento della giornata che Kent amava di più» ci dice. «La sera ci mettevamo nel letto e ci raccontavamo le nostre giornate. Abbiamo sempre fatto così, abbiamo sempre parlato di tutto, senza mai attaccarci, e parlandone in qualche modo anche le cose più difficili in parte già si risolvevano. E quando Kent stava ormai per morire, gli ho chiesto se c’era altro che avremmo potuto dirci, secondo lui. Ha risposto di no e io gli ho detto che ero d’accordo. Nessun rimpianto, insomma».

Da questo espediente, da queste mani di due anziani che si stringono nella notte e si abbandonano alle chiacchiere, è poi nato il romanzo vero e proprio, la storia di Addie Moore e Louis Waters e il loro dolcissimo amore. Dolcissimo e un po’ scandaloso per Holt, un paesino di poche anime in cui inevitabilmente tutti sanno tutto di tutti e tutti chiacchierano. Eh sì, la Holt di Le nostre anime di notte è un po’ diversa rispetto a quella della Trilogia della Pianura: una Holt che fa battute, che lancia frecciatine e piena di pettegoli, ma che al tempo stesso, almeno in parte, invidia il coraggio che Addie e Louis hanno avuto nel tentare di essere felici anche da anziani.


Holt è un paesino inventato, in cui Kent Haruf ha ambientato tutti i suoi romanzi (anche i due precedenti alla Trilogia della Pianura e non ancora usciti in Italia), di cui nemmeno Cathy ha ben chiara l’origine: potrebbe in qualche modo ricordare i paesini in cui Haruf ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza, ma anche essere semplicemente un luogo del Colorado che potrebbe essere un posto qualunque. Kent, però, da lì non si sarebbe mai potuto muovere: «I’m stuck in Holt» diceva sempre.

Ma com’era il Kent Haruf non scrittore? Il Kent Haruf che dai libri non emerge? Cathy racconta di un uomo timido, ma al tempo stesso molto popolare e molto amato dai suoi studenti per il suo senso dell’umorismo. Un uomo che amava ascoltare gli altri e le loro storie, «e che probabilmente se fosse qui adesso risponderebbe alle vostre domande e poi ve ne farebbe lui altre, per scoprire qualcosa di voi». Un uomo molto disponibile e una persona vera, non costruita. Un uomo molto tranquillo, tranne quando guardava la sua squadra di football del cuore, in tv. In quei momenti, improvvisamente, si trasformava.
«Io uscivo dalla stanza, perché era impossibile stare con lui mentre guardava i Denver Broncos, soprattutto se perdevano. E poi ogni tanto, quando gli uscivano le parole peggiori, gli cantavo “tu andrai all’inferno, tu andrai all’inferno”».

Per quanto riguarda la scrittura, lui e Cathy erano un meccanismo ben oliato. Nel caso dei romanzi precedenti, Kent ha impiegato molto tempo per scriverli. Iniziava a pensare ai personaggi almeno un anno prima di metterli su carta. Poi scriveva tutto a macchina, con gli occhi bendati, così da poter vedere dentro di sé quello che stava scrivendo. Aggiungeva qualche annotazione e poi passava la bozza a Cathy, perché la battesse al pc. E così via, per altri quattro o cinque giri di bozze. Cathy si è sempre occupata solo di correggere errori e refusi, non ha mai fatto alcuna osservazione sulle trame, perché i libri non erano suoi. («Una volta, mentre stavo battendo al pc uno dei libri della trilogia, gli ho detto che un personaggio mi era piaciuto molto e avrei voluto saperne di più. Kent si è chiuso in camera e non è uscito per due giorni. E pensare che a me sembrava un complimento».)
Con Le nostre anime di notte è stato diverso. Kent sapeva che stava per morire, sapeva di non avere tempo e quindi ha scritto con più urgenza, stupendosi della velocità con cui era capace di abbozzare i capitoli. Cathy racconta che quando ha letto le prime due pagine del libro ha pensato che si trattasse di un’idea geniale, quella di un uomo e una donna ormai anziani ed entrambi soli che decidono di attraversare insieme le notti. E ha sorriso, perché sapeva che Kent sapeva che lei, come Addie Moore, ne sarebbe stata capace («Lui no, era troppo timido»).
«È sciocco pensare di essere soli quando si potrebbe essere insieme» ci dice. E racconta di come abbia cercato di convincere i membri del suo club del libro, desiderosi di un po’ di compagnia, a fare qualcosa di simile. «Alla peggio si soffre un po’, si viene un po’ feriti. Ma se le cose vanno bene, si ottiene qualcosa di bellissimo».

Io avevo due curiosità che mi ronzavano in testa da un po’.
La prima riguardava il film che da Le nostre anime di notte è stato tratto. Il regista è Robert Redford, che interpreta anche Louis Waters, mentre la parte di Addie è affidata da Jane Fonda. Volevo capire come fosse nata l’idea del film. Se un giorno le fosse squillato il telefono e «Salve, sono Robert Redford, vorrei girare un film dal romanzo postumo di suo marito». 
E in effetti sì, è andata proprio così. Robert Redford era alla ricerca di un nuovo film in cui recitare con Jane Fonda. Ha letto Le nostre anime di notte in bozze, prima che uscisse, e ha deciso che era questo. Cathy gli ha fatto un'unica richiesta, che fosse fedele al libro. 

Poi, qualche tempo dopo, è di nuovo squillato il telefono in casa Haruf e: «Salve, sono Jane Fonda, posso venire qualche giorno lì da lei e ce ne andiamo un po’ a spasso per il Colorado?».
A questo punto anche qualche amico di Cathy ha avuto la reazione che avrei avuto io (ok, forse io sarei proprio svenuta), chiedendole se non fosse emozionata dalla cosa. E lei semplicemente ha risposto che sì, certo, Jane Fonda fa un lavoro che la mette sotto i riflettori e che la rende conosciuta a tutti, ma è un essere umano, come tutti gli altri, e siamo tutti sulla stessa barca, abbiamo tutti gli stessi problemi e le stesse difficoltà. «E Kent scriveva con questa consapevolezza. E per questo scriveva della condizione umana, di eventi che tutti condividiamo, tirando fuori da ogni personaggio la sua umanità, senza mai giudicare nessuno. Di se stesso diceva di essere un po’ pettegolo, perché osservava tutto e tutti».

(Per la cronaca, il film dovrebbe uscire a settembre di quest’anno, sarà nelle sale solo per una settimana, così da garantirsi la possibilità di essere candidato agli Oscar, e poi sarà visibile su Netflix.)

La seconda curiosità riguardava invece quale fosse il suo libro preferito. Togliendo Le nostre anime di notte, che «per quel che rappresenta e quel che racconta è ovviamente in un’altra categoria», il suo preferito è Canto della Pianura (mentre Crepuscolo è e rimarrà per tutti quello in cui Kent ha fatto quella cosa terribile, che non vi dico ma se l’avete letto sapete cos'è e da cui io ancora non mi sono ripresa, che lui giustificava con «sì, ma è solo un libro!».)

Poi l’incontro con i blogger è finito, lei ci ha ringraziato con lo stesso sorriso dolce con cui ci ha salutato entrando. Io non ho potuto non pensare a quanto bello e triste al tempo stesso fosse tutto questo: venire in Italia a parlare dei libri di suo marito, scomparso poco più di due anni fa, e riuscire a farlo senza mai versare una lacrima, senza mai scadere nel patetismo, ricordando sempre tutto con un sorriso e facendo sorridere di rimando anche chi era lì ad ascoltarla. In ogni sua parola, in ogni suo gesto, si è visto e sentito quanto amasse Kent e quanto bello fosse quello che avevano costruito insieme e che, anche se lui ora non c'è più, in qualche modo stanno ancora costruendo.

Il pomeriggio è proseguito con lo spettacolo vero e proprio. In una sala stracolma di persone (500 persone, a sentire parlare di un libro pubblicato da un piccolo editore sono un vero e proprio record), Marco Missiroli ha raccontato il suo rapporto con Haruf, Lella Costa e Gioele Dix hanno dato voce a Addie Moore e Louis Waters e poi Fabio Cremonesi e la stessa Cathy hanno risposto alle domande di Antonio Calabrò. 



Ed è stato tutto bellissimo, proprio come lo era stato leggere la Trilogia della Pianura e, pochi giorni fa, anche Le nostre anime di notte.
Stavolta però non ho mai pianto.
Giuro.

martedì 14 giugno 2016

CREPUSCOLO - Kent Haruf

In ogni caso era importante che tutti ricordassero che un uomo può essere amato profondamente anche se ad amarlo non sono in molti



Caro Kent Haruf,
so che quello che sto facendo non ha alcun senso, perché, anche se tu volessi, purtroppo queste parole non potrai mai leggerle. Però mi capita quasi sempre, quando leggo libri bellissimi o che comunque hanno raggiunto punti dentro di me che non vengono scoperti così spesso, di non sapere come parlarne e di pensare che l’unica cosa che vorrei fare in quel momento è scrivere all'autore, parlargli, ringraziarlo, abbracciarlo. E quindi lo farò anche con te, anche se non sei più qui.

Non immagini neanche quanto io abbia amato la tua Trilogia della Pianura. Quanto abbia amato Holt e (quasi) tutti i suoi abitanti. Sono partita da Benedizione, che sì, tu hai scritto per ultimo ma che qui NN editore, il piccolo grande editore che ti ha riscoperto, ha pubblicato per primo. Sono partita da lì, dicevo, e ho pianto con Dad e per Dad, per la sua vita che stava per finire, per le persone che si lasciava alle spalle e per tutto il dolore e i rimpianti che stava provando. Sono poi passata a Canto della pianura, il primo vero volume della trilogia, e mi sono affezionata ai fratelli McPheron, come era da tanto che non mi affezionavo ai personaggi di un libro. Ho amato loro e la loro dolcezza, la loro goffaggine. Ma ho amato anche Victoria, che ha fatto irruzione nella loro vita stravolgendola completamente, e Tom, i suoi due figli, Maggie. Ancora una volta Holt, insomma. E ho pianto tanto, lo devo ammettere, ma un pianto bello, di quelli che nascono quando le emozioni che provi sono troppo forti per tenerle tutte dentro.

Ed eccomi arrivata a Crepuscolo. Con tanta paura, devo dir la verità. Perché sapevo che dopo questo probabilmente storie nuove di Holt non le avrei più lette. Perché sapevo, era abbastanza logico e naturale direi, che qualcosa sarebbe finito.  E così è stato, effettivamente, e, di nuovo, ho pianto un sacco. Per le fini, certo, ma anche per i nuovi inizi, per le nuove possibilità che dai ai tuoi personaggi. Ci sono di nuovo i McPheron che vedono la loro vita nuovamente stravolta e non sanno bene come faranno. Ci sono ancora Tom e Maggie, che ritroviamo come li avevamo lasciati nel libro precedente, solo più felici. C’è ancora Victoria, che ora ha con sé la piccola Katie e sta cercando di costruirsi un futuro, senza però mai dimenticare quello che è stato il suo passato. E ci sono personaggi nuovi: ci sono DJ e suo nonno, che cercano di prendersi cura l’uno dell’altro; le loro vicine di casa, Dena ed Emma, che devono fare i conti con una madre che sta vivendo una forte delusione d’amore; Luther e Betty, che vivono in una roulotte, hanno due figli che non sanno bene come proteggere e sono seguiti dagli assistenti sociali, dalla dolce Rose Tyler in particolare; c’è Hoyt, il personaggio più cattivo, più terribile di tutti i tuoi libri. E c’è Holt, ancora e sempre Holt, che incrocia e lega tutti tra loro.

Ho finito il libro qualche giorno fa, caro Kent, in un pomeriggio di pioggia e ha riportato un po’ il sole. Con la sua semplicità, con la sua tenerezza, con il suo sguardo di speranza che non abbandona mai chi se lo merita (chi non se lo merita invece sì, ed è giusto così). Ce l’ho ancora qui, accanto a me, pieno di buffi post-it a segnalare i pezzi per me più importanti, più belli. Ogni tanto lo sfoglio ancora, leggo qualche parola (in realtà mi basta leggere un nome, per sentirmi già meglio), me lo rigiro anche solo tra le mani e poi lo rimetto giù.

Questi tre libri, questa tua bellissima Trilogia della Pianura, che qualcuno forse reputa un po’ sopravvalutata, forse perché parla di cose troppo semplici (eppure così vere, così reali, così piene di vita, porca miseria!), credo che mi accompagnerà tutta la vita.

E so già che a Holt tornerò. Leggendoti e rileggendoti, ma anche da sola, con la mente. Alla fattoria dei McPheron o a ballare un valzer all’Associazione dei veterani. E a salutare tutti questi bellissimi personaggi ancora una volta.
Quindi grazie, Kent, per queste bellissime storie che ci hai saputo raccontare.
Con immenso affetto
Elisa

Titolo: Crepuscolo
Autore: Kent Haruf
Traduttore: Fabio Cremonesi
Pagine: 315
Editore: NN Editore
Prezzo di copertina: 18,00€
Acquista su Amazon:
formato brossura:Crepuscolo. Trilogia della pianura: 3
formato ebook: Crepuscolo

mercoledì 11 maggio 2016

Incontrando... Fabio Cremonesi, traduttore di Kent Haruf e della sua Trilogia della Pianura

Domani è il 12 maggio ed esce Crepuscolo, il terzo volume tradotto in italiano della Trilogia della Pianura di Kent Haruf. Dopo Benedizione e Canto della pianura, NN editore porta finalmente al lettore italiano anche l’ultimo volume che la compone.

Io ho avuto la fortuna di poter partecipare come blogger alla presentazione in anteprima del libro, proprio all’interno della casa editrice, e di ascoltare dal vivo la voce di Fabio Cremonesi, che questi tre libri li ha tradotti.
È la prima volta da quando ho il blog che partecipo a un evento in anteprima, riservato a blogger e giornalisti direttamente in casa editrice e, se un pochino avete imparato a conoscermi in questi anni, potete immaginare quanto fossi in ansia. Però si parlava di Kent Haruf, autore dei due libri che negli ultimi mesi, nel bene e nel male, mi hanno fatto emozionare e versare più lacrime in assoluto. Non potevo farmi fermare dalla mia timidezza e dal mio imbarazzo (e poi, lo ammetto, ero curiosissima di entrare in casa NN).
E quindi in un piovoso lunedì mattina di maggio, mi sono messa un maglioncino rosa, ho preso il treno e sono andata a Milano.

Entrare nella sede di NN editore è stato davvero un po’ come entrare in una casa. Libri ovunque (che spettacolo!), un bel po’ di disordine, scrivanie tutte vicine, una buffa divisione di uffici tra uomini e donne, e poi poltrone e divani vecchio stile. È esattamente come me l’ero immaginata.
Poi sono arrivati un po’ di altri blogger, abbiamo tirato fuori chi lo smartphone e l’iPad, chi carta e penna (a questi incontri preferisco ricorrere sempre alla vecchia maniera, anche se poi mi ritrovo a dover decifrare che cosa ho scritto) e l’incontro con Fabio Cremonesi è cominciato. 

Si è parlato prima di tutto del Kent Haruf scrittore, partendo da un’intervista rilasciata dalla moglie e uscita il 3 maggio sul sito della casa editrice americana, da cui emerge che era uomo molto metodico, che vedeva la scrittura come un vero e proprio lavoro e che quindi lo portava a cercare di scrivere sempre, tutti i giorni, per otto ore di fila, anche quando non aveva niente da dire. La cosa particolare è che usava come ufficio un capanno degli attrezzi in mezzo al verde e che scriveva con gli occhi coperti, per non farsi distrarre dai refusi durante la stesura.
Da lì si è passati a parlare delle differenze, stilistiche ma anche a livello di traduzione, dei tre romanzi della trilogia (che, ricordo, NN ha scelto di pubblicare partendo dall’ultimo, Benedizione). Tre romanzi che funzionano anche da soli, sebbene tra Canto della pianura e Crepuscolo ci sia una continuità ben evidente. Una continuità anche a livello di traduzione, in quanto più simili nello stile e nella voce rispetto al linguaggio più spoglio, più essenziale di Benedizione. (Bello l’aneddoto di Cremonesi che ha consegnato in ritardo la traduzione di Canto della pianura perché si aspettava la stessa “voce” di Benedizione e ci ha messo un po’ per trovare invece quella giusta).
E per quanto riguarda le tematiche? Se Benedizione parlava di fine vita, Canto della pianura di nascite e rinascite, in Crepuscolo si trova tutto quello che ci sta in mezzo, tra la nascita e la morte. Un libro che parla di vita, quindi, e, almeno stando alle parole di Fabio Cremonesi, anche d’amore.
Poi si è riflettuto sul fatto che i romanzi di Kent Haruf piacciono a tutti, giovani e adulti, senza alcuna distinzione di genere. Cremonesi ha provato riflettere sul perché, dicendo che uno dei motivi potrebbe essere che Haruf parla di cose di cui siamo un po’ disabituati a parlare, come la nascita e la morte, o a farlo con cinismo ed eccessiva ironia, mentre nei suoi libri Haruf mette delicatezza, dolcezza, rispetto e nessun giudizio anche nei momenti più difficili. (E poi qui se n’è uscito con un fantastico “insomma, Haruf spacca!”).

Alla fine, c’è stato chiesto come abbiamo conosciuto noi questi libri e perché ci sono piaciuti (io ho ammesso che subito non volevo leggerlo, perché ne stavano parlando in tanti e quando in tanti parlano di un libro ho sempre paura di non riuscire davvero ad apprezzarlo. E ho anche confessato di essere scoppiata a piangere nella sala d’aspetto del medico leggendo Benedizione. Cremonesi ha ribattuto dicendo che lui lo ha fatto in bagno, appena finito di tradurlo) e, dopo quattro chiacchiere, siamo usciti da lì con la nostra copia di Crepuscolo fresca di stampa, ma anche con Le cose che restano di Jenny Offill, in uscita lo stesso giorno di Haruf, con la borsa a tema e tanti altri piccoli gadget (volevo il notes di NN da un sacco!).


È stato un incontro molto piacevole, perché sentire parlare un traduttore del libro che ha tradotto è una cosa bellissima, soprattutto se lo ha amato tantissimo: ne senti l’entusiasmo, la passione, la fatica e il legame forte che questi libri e questo autore si è creato.  
Ringrazio quindi tantissimo Luca e tutta la NN per avermi permesso di esserci (e la mia amica Thais di Solo libri belli per aver affrontato insieme questa nuova esperienza da blogger).

E voi che cosa state aspettando? Leggete subito la Trilogia della Pianura di Kent Haruf!

mercoledì 27 aprile 2016

CANTO DELLA PIANURA - Kent Haruf

E così i fratelli McPheron proseguirono discutendo di bestiame da macello, di manzi di prima scelta, di giovenche e di vitelli da ingrasso, spiegarono anche questo, e i tre discussero a fondo fino a tarda sera. Parlando. Conversando. Spaziando un po' anche in altri campi. Due uomini anziani e una ragazza di diciassette anni seduti al tavolo sparecchiato di una sala da pranzo di campagna, dopo cena, mentre fuori, oltre le pareti di casa e le finestre senza tende, un gelido vento del nord scatenava l'ennesima tempesta invernale sugli altopiani.


Non so davvero da dove cominciare per parlarvi di Canto della pianura di Kent Haruf, secondo volume nella versione italiana della sua Trilogia della Pianura, pubblicato in Italia da NN Editore con la traduzione di Fabio Cremonesi.
Avevo provato più o meno la stessa sensazione anche con Benedizione, il primo volume pubblicato da NN editore di questa trilogia ambientata nel paesino di Holt, in Colorado. E in realtà è quello che provo quasi sempre quando mi capita di leggere libri bellissimi. Mi tolgono il fiato e le parole e mi fanno pensare per superlativi, al punto che mi verrebbe semplicemente da dire "fidatevi e leggetelo". Ma qualcosa in più effettivamente bisogna dire, non fosse altro perché Canto della pianura si merita tutti gli elogi possibili.

Siamo di nuovo a Holt, dicevamo. Ma questa volta non entriamo più in casa di Dad e delle sue vicine. Questa volta andiamo a trovare Tom Guthrie, docente di storia al liceo e padre di Ike e Bobby, due bambini molto svegli, che si rendono perfettamente conto che ci sia qualcosa che non va nella loro madre, che preferisce stare chiusa in camera al buio piuttosto che con loro. Poi andiamo da Maggie Jones, collega di Tom, che bada all’anziano padre e alle esigenze di chiunque le venga a chiedere aiuto, come si vede costretta a fare Victoria Roubideaux, che viene cacciata di casa dalla madre quando scopre che la figlia è incinta. Per poi arrivare al casolare dei fratelli McPheron, a qualche miglio di distanza dal paese, dove i due vivono da soli insieme ai loro animali da quando i genitori sono morti.
Le vite di tutti questi personaggi si intrecciano tra loro, e con quelle di altri, e ci raccontano ancora una volta quanto movimentata e appassionante, nel bene e nel male, possa essere la vita anche nel paesino più sperduto che si possa conoscere e tra le persone più semplici possibile.

Mi avevano detto che, a differenza di Benedizione, Canto della pianura non mi avrebbe fatto piangere. E invece mi sono commossa ancora di più. Forse per il filo conduttore del libro, completamente diverso rispetto a quello del primo volume: se là si parlava di fine vita, di rimpianti, di cose che ormai non si possono più aggiustare, qui c’è invece un inno alla nascita, alla rinascita e ai cambiamenti, che possono sì essere difficili e dolorosi, ma che alla fine non possono che far del bene. Forse per lo stile di Haruf, semplicissimo, diretto e senza troppi orpelli (anche se rispetto a Benedizione ne ha già qualcuno in più) eppure molto, molto efficace. Forse (e soprattutto) per la bellezza e la tenerezza di due personaggi, gli anziani fratelli McPheron, i cui comportamenti, tutti, da quelli più goffi a quelli più coraggiosi, mi hanno riempita di tenerezza e commossa in un modo che non credevo possibile.
Spero solo che stia bene, disse Raymond.
Lo spero, disse Harold.
Salirono al piano di sopra. Si sdraiarono ciascuno in camera sua, senza riuscire a addormentarsi, rimasero svegli al buio, separati dal corridoio, pensando a lei, e sentirono quanto la casa era cambiata, quanto all'improvviso tutto sembrasse vuoto e triste.
Ora manca ancora un libro, Crepuscolo, in uscita il 12 maggio, per concludere questa trilogia della Pianura. E sono davvero curiosa di scoprire a casa di chi ci porterà Kent Haruf questa volta e quale storia ci racconterà. Sapendo già che di sicuro sarà bellissimo.


Titolo: Canto della pianura
Autore: Kent Haruf
Traduttore: Fabio Cremonesi
Pagine: 304
Editore: NN Editore
Prezzo di copertina: 18,00€
Acquista su Amazon:
formato brossura:Canto della pianura. Trilogia della pianura: 2
formato ebook: Canto della pianura

venerdì 4 marzo 2016

BENEDIZIONE - Kent Haruf

C'è qui Rose Tyler, disse Alene a sua madre. È sola.
Guardarono la donna anziana seduta accanto alla finestra.

Non riuscirà mai a farsi una ragione del fatto che lui non c'è più, disse Willa.

Perché dovrebbe? Non ci riesce nessuno.

In questo momento fuori c’è il sole. Tira un forte vento e, se distolgo un attimo gli occhi dallo schermo del pc e guardo fuori, vedo le nuvole muoversi lentamente, su quella distesa azzurra che è il cielo. Fin da quando ero bambina, ho sempre amato guardare le nuvole. Ed è una di quelle cose che se non potessi fare mi mancherebbe. E soprattutto che mi piacerebbe aver la possibilità di fare un’ultima volta, quando sarà il momento.
Non sto delirando. Semplicemente, questa è una delle sensazioni che ho provato leggendo Benedizione di Kent Haruf, tradotto da Fabio Cremonesi e pubblicato da NN Editore. Sicuramente avrete già sentito parlare di questo autore. Della sua capacità di portare il lettore in un paesino della pianura americana, Holt, e raccontarne la bellezza ma anche il dolore, attraverso il personaggio di Dad, un anziano signore che sta morendo, e di tutta la comunità che va a rendergli omaggio.

Per cui non starò a raccontarvelo anche io. Un po’ perché qualunque cosa io vi dicessi, qualunque immagine io riuscissi a creare, non sarebbe mai all'altezza di quello che troverete in questo libro. Un po’ perché non saprei nemmeno come fare a riassumere tutta questa bellissima storia.
Benedizione è un libro che parla di ricordi e di rimpianti, quelli che inevitabilmente vengono fuori quando si è vicini alla fine. È un libro che parla d’amore, ma anche di vergogna, di incomprensione, di dolore. E lo fa attraverso la vita di un paesino, Holt appunto, popolato da persone semplici che hanno alle spalle delusioni e vite non sempre semplici; persone a volte ottuse, da un lato capaci di apprezzare più di chiunque altro la bellezza di un panorama o di un bagno in un abbeveratoio, dall'altro troppo caparbie, troppo testarde per ammettere di aver sbagliato.

Benedizione di Kent Haruf è un piccolo capolavoro, di trama e di stile. Questo ve lo posso dire, anche se, di nuovo, lo avrete già letto e sentito da qualche parte. È un libro che ti colpisce, soprattutto in quelle ultime quaranta dolorosissime e magnifiche pagine. (Ecco, magari leggetele quando siete da soli, o preparatevi alle reazioni di chi vi vedrà piangere come una fontana. A me questo non era stato detto, e ho faticato tantissimo a non lasciarmi andare). 
È un libro che ti entra dentro, qualunque cosa questo voglia dire. Per i suoi personaggi. Per l’amore di una moglie per il compagno di una vita e l’inevitabile fine. Per l’amore di un padre verso i propri i figli, che c’è, ma che non sempre, per convenzione, per incomprensione, per incapacità di empatia, viene dimostrato.
Perdonami, sussurrò lui. Ho sbagliato un sacco di cose.Avrei potuto fare di meglio. Ti ho sempre voluto bene.
Non me l'hai mai detto quando avevo la sua età.
Puoi perdonarmi anche  questo?
Sì, papà.
Voglio dirtelo ora, disse lui.
Lei lo guardò, lo stava fissando con gli occhi lucidi.
Ti ho voluto bene, sussurrò. Te ne ho sempre voluto. Ho sempre approvato ciò che facevi. Anche adesso.

Nella semplicità di queste 270 pagine, nella semplicità di questo paese sperduto nelle grandi campagne americane, nella semplicità dei suoi protagonisti, c’è un mondo. Bello e brutto, proprio come lo è il mondo vero, e che in parte ricorda un po' quello creato da Wendell Berry con la sua Port Williams.

Forse mi sono fatta prendere la mano e forse non avete capito niente di quello che ho scritto. Se fosse, scusatemi, ma il vento e le nuvole continuano a distrarmi. Fate una cosa. Leggetelo. Andate ad Holt. Andate a salutare Dad, a dire una parola di conforto a Mary o a Lorraine, senza offendervi se non vi lasciano entrare. Andate a prendere un caffè da Willa e Alene, o anche solo a fare due chiacchiere con la piccola Alice, che di affetto ne ha davvero tanto bisogno.

Leggetelo e andate a Holt, dicevo. E poi venite qui e sono sicura che capirete quello che sto dicendo. 
E ora mi toccherà leggere anche Canto della pianura, secondo volume pubblicato in Italia della Trilogia della pianura, e poi Crepuscolo, che dovrebbe uscire a Maggio. Visto che ho chiuso il libro ieri e, nonostante le lacrime, già Holt e i suoi abitanti già mi mancano terribilmente.


Titolo: Benedizione
Autore: Kent Haruf
Traduttore: Fabio Cremonesi
Pagine: 275
Editore: NN Editore
Prezzo di copertina: 17,00€
Acquista su Amazon:
formato ebook:  Benedizione