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martedì 12 settembre 2017

Il mio Festivaletteratura di Mantova 2017

Da mercoledì 6 a domenica 10, a Mantova, si è tenuta la XXI edizione del Festivaletteratura.
Sono stata a questo festival per la prima volta l’anno scorso e, per tutta una serie di motivi (l’atmosfera che si respira per le vie della città; la possibilità di incontrare gli autori non solo durante gli eventi ma anche per strada, mentre si fanno gli affari loro; il cibo e i dolci; e, soprattutto, la prima gita insieme a Luca) me ne ero pazzamente innamorata.
Un amore che si è confermato anche quest’anno, nonostante qualche piccola difficoltà organizzativa iniziale.

Il primo enorme scoglio da superare per andare al Festivaletteratura, infatti, è riuscire destreggiarsi in mezzo al vasto, vastissimo programma e ai luoghi degli eventi. Tanti incontri, in diversi punti della città che di primo impatto non si capisce quanto siano lontani tra loro (in realtà sono tutti raggiungibili in massimo quindici minuti a piedi dal centro), e che richiedono quindi una certa attenzione al momento della selezione.

Subito dopo c’è la questione della prenotazione dei biglietti. Io, per fortuna, avevo il pass stampa, ma abbiamo comunque dovuto prenotare qualche biglietto in anticipo. Alle 9.05 del giorno dell’apertura delle prenotazioni per i non soci, molti eventi online erano già esauriti. Telefonando qualche posto si trovava ancora, però come sistema, effettivamente, è un po’ scoraggiante. Soprattutto quando poi, una volta là, ti rendi conto che a molti eventi si riesce a entrare acquistando il biglietto sul posto (sì, anche quelli dati per esauriti online o in biglietteria), a fronte di code più o meno lunghe (in alcuni casi, arrivi sul posto, lo acquisti ed entri; in altri fai un bel po’ di coda): credo ci sia una ripartizione dei biglietti tra i vari canali di vendita, per fare in modo di accontentare più gente possibile. Un sistema che forse andrebbe comunque rivisto, così come andrebbe aggiunta una sorta di abbonamento a un prezzo ridotto per partecipare a un tot numero di incontri (la media dei biglietti d’ingresso è di 6€, che non sono tanti se si partecipa a uno o due eventi, ma lo diventano se il numero cresce).

Quindi, stilato l’elenco degli incontri a cui partecipare, localizzati sulla mappa i luoghi in cui si svolgeranno e prenotati i biglietti (e anche un luogo dove stare a Mantova, se è previsto un soggiorno di più giorni… noi siamo andati in un bellissimo appartamento a pochi km dalla città, con, tra le altre cose, un divano magnifico), si può partire.
Noi siamo arrivati il giovedì nel tardo pomeriggio, pochi minuti prima che scoppiasse un enorme temporale. Abbiamo aspettato che smettesse (addormentandoci sul suddetto divano) e poi siamo andati in città, poco prima di cena.


Abbiamo fatto un giro di ricognizione alle bancarelle dei libri usati che ogni anno popolano i portici di Palazzo Ducale e poi siamo andati a mangiare (i tortelli di zucca).

Il Festivaletteratura vero e proprio, per noi, è iniziato il venerdì pomeriggio, con l’incontro con lo scrittore americano George Saunders, di cui è appena uscito per Feltrinelli il primo romanzo, Lincoln nel bardo.
A presentarlo, nella cornice di Palazzo San Sebastiano, c’era Marco Malvaldi in pantalocini corti e, soprattutto, un po’ in soggezione.


L’incontro è partito con la domanda di rito su Donald Trump: una domanda banale, forse, ma anche inevitabile considerando l’epoca che stanno vivendo gli Stati Uniti e il fatto che comunque il protagonista di questo primo romanzo di Saunders è proprio un presidente (e poi credo sia abbastanza impensabile separare letteratura e vita politica, in questo momento. Soprattutto se sei uno scrittore di quel calibro). Lui ha risposto: “He is us”, ovvero che Trump fa parte degli americani, che ogni presidente viene dalla storia, nel bene e nel male.
Poi si è passati a parlare di Lincoln nel Bardo, il suo primo romanzo, e del suo significato: Lincoln si ritrova ad affrontare la morte del figlioletto, finito adesso in quel bardo (ovvero una specie di limbo, secondo la filosofia buddista). Ci si trova di fronte a un presidente dolce, intelligente, ma in qualche modo anche sconfitto dalla vita.
La particolarità di questo romanzo sta poi nella tecnica narrativa: George Saunders, attraverso un enorme lavoro di ricerca che lo ha tenuto impegnato per molti anni, utilizza fonti, ritagli, notizie, alcune vere altre inventate da lui per portare avanti la storia. (“Ci si deve sentire proprio dei gran fighi, a scrivere un romanzo così” gli ha fatto notare Marco Malvaldi).
Alla domanda su quali libri, invece, legge, Saunders ha citato i romanzi russi come i suoi preferiti. In particolare Le anime morte di Gogol di cui ha detto: “Sono sicuro che, se Dio pensa a noi, lo fa nel modo in cui Gogol pensa ai suoi personaggi". Ha poi citato anche i Peanuts, nella versione fumetto e nella versione cartone, come suo modello: questi personaggi con la testa enorme, che si muovo su uno sfondo quasi inesistente, e che dimostrano che se si è grandi dentro non importa molto cosa ci sia fuori.
Altre domande di rito, tra cui i rapporti con i social network in cui in qualche modo siamo tutti scrittori e bisognerebbe quindi prestare attenzione a cosa si scrive, e, visto l’argomento del libro, il rapporto tra vita e morte (“è più doloroso per chi se ne va o per chi resta?”).

Finito l’incontro con Saunders, siamo tornati in centro: Luca per andare di nuovo alle bancarelle dei libri usati (“prima si fa un giro di ricognizione, poi si compra senza pietà") e io per partecipare all’incontro Roma-Aosta solo andata con Antonio Manzini e Marco Giallini nel cortile di Piazza Castello.



Non credo serva che vi dica quanto sia stato figo, quest’incontro. Sì, anche se non aveva una scaletta vera e propria ma c’erano due lì che parlavano e dicevano cazzate. Sì, anche se Manzini all’inizio aveva mal di testa e all’inizio sembrava un po’ spento. Ho riso per un’ora, tra i loro aneddoti (e una bellissima dichiarazione d’amicizia di Manzini per Giallini) e le loro battute. Ho scoperto anche che stanno per iniziare a girare la seconda serie di Rocco Schiavone, che sarà formata da quattro puntate, due tratte da 7-7-2007 e due dal nuovo romanzo Pulvis et umbra. Loro due, insieme, sono esattamente come me li ero immaginati: fenomenali (e anche particolarmente gnocch...ehm, piacevoli da guardare).

Dopo cena, siamo invece andati all’incontro L’amore si impossessava di lei, con protagonista Artemis Cooper, la biografa di Elizabeth Jane Howard (sia la biografia sia i romanzi della Howard sono pubblicati da Fazi editore). 



In dialogo con Stefania Bertola, Artemis Cooper ha ripercorso un po’ la vita della scrittrice inglese, raccontando anche aneddoti personali sul loro rapporto (“Jane era una bravissima cuoca”). Quello che è venuto fuori, paradossalmente, è una specie di ritratto di tutta la famiglia Cazalet, che si concentra in un’unica donna: Elizabeth Jane Howard stessa, infatti, ha dichiarato più volte che in tutti i personaggi della sua saga c’è qualcosa di lei (in particolare in Louise, ma anche nelle altre due cugine, Polly e Clary). Si è poi passati a raccontare del suo rapporto con l’ingombrante marito Kingsley Amis, che finché sono rimasti insieme le ha quasi impedito di avere successo (però ora se si va in una libreria inglese di Kingsley Amis si trovano uno o due libri, mentre la Howard occupa pareti intere).
L’incontro con Artemis Cooper è stato davvero bello e avrei voluto che non finisse mai: mancavano giusto i pasticcini e un po’ di tè, per rendere perfetta l’atmosfera che ha creato con le sue parole e i suoi sorrisi. Si è percepito chiaramente quanto tenesse a questa biografia e, soprattutto, alla sua protagonista (che lei ha conosciuto da bambina, perché i suoi genitori erano molto amici di Jane e del marito).

Il primo incontro di sabato mattina è stato con Harry Parker, ex-soldato dell’esercito inglese e autore di Anatomia di un soldato, edito da Sur. Avrebbe dovuto essere in compagnia di Brian Turner, autore di La mia vita è un paese straniero (NN editore), che però è stato fermato dall’uragano Irma. Ed è stato un vero peccato, perché sarebbe venuta fuori una presentazione eccezionale.



È la seconda volta che partecipo a un incontro con Harry Parker ed è la seconda volta che un po’ mi commuovo. Per il suo modo di parlare, per la sua lucidità nel raccontare la guerra e quello che gli è successo, senza mai cadere nel pietismo o nell’autocommiserazione (nonostante il relatore, Carlo Annese, abbia insistito troppo sul fatto che Parker sia senza gambe e che quanto raccontato nel libro sia la sua storia… ma lo scrittore è stato bravo a non cadere nel tranello). Tra le cose che più mi hanno colpita c’è il fatto che lui abbia ribadito più e più volte che mentre era in Afghanistan, oltre a combattere, ha tentato in ogni modo di rendere la presenza dell'esercito il più semplice possibile per i civili, che da questa guerra non si libereranno mai (“noi soldati, dopo sei o sette mesi, torniamo a casa. Loro no, casa loro è la guerra”), così come il suo aver sottolineato che i media e il modo in cui viene fatta la comunicazione in tv oggi trasmette una visione completamente offuscata di come sia effettivamente la guerra in medio oriente.
Dal pubblico, a fine incontro, hanno di nuovo provato a chiedergli come si vive senza gambe e a quale è stato il suo percorso di accettazione di quello che gli è successo. E ancora una volta lui è stato bravissimo a non cascarci, perché “io non sono le mie ferite”.

Usciti dall'incontro con Parker siamo andati a prendere uno spritz al bar con un amico e, mentre eravamo lì seduti ai tavoli, dietro di noi sono passati Marianne Leone, Chris Cooper e Elizabeth Strout (sì, ho visto Elizabeth Strout mentre bevevo uno spritz piuttosto alcolico).

Marianne Leone e Chris Cooper li abbiamo rivisti nel pomeriggio, alla presentazione di Jesse, il libro pubblicato da Nutrimenti edizioni che la donna ha scritto per raccontare la storia di suo figlio, nato con una grave paralisi cerebrale.


Il libro è ricco di momenti tristi (inizia proprio con il racconto della morte del ragazzo, avvenuta quando aveva diciott'anni), ma è anche un enorme inno alla vita, al combattere, al non arrendersi di fronte alle ingiustizie e a una società spesso incapace di accettare il diverso.
Inutile dire che l’incontro è stato molto toccante e molto commovente, ma anche pieno di delicatezza (l’amicizia tra Marianne Leone e Davide Ferrario che l’ha intervistata ha reso l’intervento ancor più prezioso, così come l’incredibile sorriso della donna) e sì, anche di momenti divertenti.
Alla fine non ho avuto il coraggio di andare a farmi autografare il libro: temevo che sarei scoppiata a piangere di fronte a questa donna forte, dal sorriso magico, che sta girando l’Italia per raccontare la storia di suo figlio che oggi non c’è più. Ci è andato Luca per me, ma alla fine sono riuscita a stringerle almeno la mano.

Il nostro Festivaletteratura è finito con questo incontro (e una mangiata subito dopo). Ed è stato proprio bello, come l’anno scorso. Mantova è una città bellissima, che in quei giorni lo diventa ancora di più, per l’atmosfera che si respira e per le persone che la popolano, scrittori e non (“Guarda, c’è Saunders!” credo sia stata la frase che abbiamo ripetuto più spesso in giro per la città). 
Siamo tornati a casa io con una torta sbrisolona e un pass sbiadito, Luca con una decina di libri usati, ed entrambi con la voglia di tornarci anche l’anno prossimo. 


martedì 7 febbraio 2017

ANATOMIA DI UN SOLDATO - Harry Parker

Sono anche rumore. Tipo un bang, tipo un boom, tipo un tonfo sordo, tipo uno sgracchio, tipo un fischio acuto penetrante perforante spaccatimpani.
Ho schiacciato quell’uomo contro la forza di gravità.
Non è riuscito a restare intero e gli ho disintegrato il piede, sbattendoci contro e spaccandolo in mille pezzi: piede e scarpa ridotti a brandelli nella mia scia. Li ho fatti volare insieme alla terra che ho scaraventato in aria. In aria nella mia onda supersonica, tranciando di netto la pelle.
Distruggendo quanto c’è di più sacro.

(Questa mia recensione è stata pubblicata su Ultima pagina il 31 gennaio 2017)

Come si fa a raccontare la guerra? Qual è la voce giusta? Quella di chi ha assistito da semplice spettatore, magari filmando o scrivendo? Quella di chi l’ha vissuta sulla propria pelle, combattendola o subendola? Quella di chi, semplicemente, se la immagina dai racconti di chi vi ha preso parte o vedendola in tv?
È una domanda difficile, a cui non esiste un’unica risposta possibile. Ma è anche una domanda che chiunque decida di scrivere di guerra si dovrebbe porre. Se l’è chiesto sicuramente anche Harry Parker, prima di iniziare a scrivere il suo romanzo d’esordio, Anatomia di un soldato, tradotto da Martina Testa e pubblicato da Sur nella collana BigSur.
Apparentemente avrebbe potuto fare a meno di porsela, forse, considerando che alla guerra ha preso parte ben due volte, nelle file dell’esercito britannico: in Iraq nel 2007 e in Afghanistan due anni dopo. Ne avrebbe potuto fare a meno, considerando che alla guerra ha anche pagato il suo tributo, perdendo entrambe le gambe nell’esplosione di un ordigno. Avrebbe potuto di raccontare la sua esperienza diretta, magari in prima persona. Ma oltre che soldato Harry Parker è anche uno scrittore, lo era prima di arruolarsi ed è tornato a esserlo una volta ripresosi dalle gravissime ferite riportate. Per questo ha scelto una forma narrativa differente, che non usa sola voce, la sua, ma tante diverse. Le voci degli oggetti, che alla guerra e alle sue sofferenze prendono parte tanto quanto gli uomini.

Ogni capitolo di Anatomia di un soldato è affidato a un oggetto diverso: tutti insieme raccontano la storia di tre personaggi, le cui vite si intrecciano e si incontrano, in modo a volte sottile a volte molto stretto, durante la guerra in Afghanistan. La prima è quella del giovane capitano dell’esercito britannico Tom Barnes, matricola BA5799, che, al rientro da una missione, salta su una mina e perde entrambe le gambe. La sua storia è introdotta dalla voce del laccio emostatico in dotazione a tutti i soldati e che gli viene messo ancora sul posto, quando i suoi compagni stanno cercando di farlo sopravvivere nonostante le gravissime ferite. Poi c’è un catetere. Una cannula per l’intubazione. Una sega per amputazione. Una sedia a rotelle. La borsa della madre quando arriva da lui in ospedale la prima volta. Un calzino attorno a un moncone, che si inzuppa di sangue ogni volta che viene inserita una protesi. Una prima protesi, una seconda, una terza. Una medaglia al valore, quella che viene consegnata a tutti coloro che sono rimasti feriti in guerra e che non fa che amplificare il dolore e l’amarezza che questi provano.
Dopo che ogni soldato ebbe ricevuto una come me e che la banda ebbe ricominciato a suonare, gli uomini in parata si girarono di scatto verso sinistra e si allontanarono rapidamente a passo di marcia, con le colonne che ondeggiavano qua e là muovendosi all’unisono. Lui le guardò andar via e capì che non si sarebbe mai più sentito parte di loro. Loro se ne andavano in licenza, convinti di essere invincibili e sapendo che non sarebbe mai successo a loro, mentre lui tornava al centro per adattarsi a quello che invece gli era successo. La mia guerra continua, pensò, e mi infilò in tasca.
Tramite questi e altri oggetti si ricostruisce quanto successo a Tom, da prima che saltasse in aria insieme all’ordigno fino al momento in cui la sua vita raggiunge una nuova, faticosa normalità.

Le altre due storie sono quelle di due ragazzi afghani, che vivono vicino alla base del soldati britannici: Latif, che milita nelle file dei ribelli, e Faridun, che invece non è interessato a combattere e vorrebbe semplicemente andare avanti con la vita normale del suo villaggio, aiutando il padre nel suo lavoro. Sono amici di infanzia, separati però da un conflitto che alla fine li unirà di nuovo.

La loro storia viene raccontata da oggetti diversi rispetto a quelli del capitano Barnes. Più semplici, che ben connotano l’origine e la vita dei ragazzi che descrivono: un sacco di letame, un tappeto, la batteria che serve per far esplodere un ponte e uccidere gli invasori, una vecchia bicicletta rubata, un caccia pronto a sganciare una bomba su un villaggio che si sospetta pieno di ribelli, una carriola, una banconota da venti dollari, quella che il capitano Barnes mette in mano al padre di Faridun, per risarcirne la morte ma che invece non fa che esasperarne il dolore.
L’uomo parlò sottovoce, guardandomi.
«Dice che è una cosa triste. Dice che accettare dei soldi da te per ripagare la morte del figlio è la cosa peggiore che abbia mai fatto. Tu parli di soldi che gli cambieranno la vita: la sua vita è già cambiata. Vorrebbe riuscire a essere forte e a rifiutare la tua offerta ma dice che hai ragione, non può resistere a così tanti soldi. Gli dispiace, però, perché non vuole nessun debito e nessun legame con voi».
L’uomo alzò gli occhi da me verso BA5799 e pronunciò un’ultima frase.
L’interprete non tradusse.
BA5799 spostò lo sguardo dal vecchio all’interprete.
«Che cos’ha detto?», chiese.
«Ti augura di non avere pace», disse l’interprete.
Oggetti che raccontano storie, quindi, che non permettono astrazioni ma tengono il lettore ancorato alla materia. L’ordine in cui vengono raccontate le storie di Tom, Latif e Faridun non è cronologico, non è prestabilito, ma fa salti tra passato e presente, tra prima dell’esplosione e dopo. E ognuno di questi capitoli si potrebbe quasi leggere come un breve racconto a sé. Tutti insieme, però, formano un’unica, grande storia.
Ti sei ricordato. Ti sei ricordato lo scoppio, il dolore e la solitudine dell’elicottero. Ti sei ricordato l’uomo che ti aveva portato via dal campo di battaglia, ti sei ricordato di quando eri in pezzi all’ospedale, invaso dai farmaci e dai tubi. Ti sei ricordato di aver rimpianto che ti avessero portato in salvo. Ti sei ricordato: «Abbiamo appena amputato la seconda gamba».
Ti sei ricordato di tutti quelli che ti avevano aiutato: le infermiere che ti avevano lavato con delicatezza e i dottori che ti avevano tagliato via altri pezzi per salvarti, la fisioterapista e «spingi bene con i glutei», l’uomo che mi aveva consegnata.
Ti sei ricordato l’ultima volta che avevi portato delle buste della spesa, prima di partire per quel paese lontano, quando non avevi bisogno di me, ed era una vita fa.
Grazie alla scelta di Harry Parker di far parlare oggetti, cose prive di sentimenti, Anatomia di un soldato riesce a trasmettere tutta la violenza, il dolore, il male, le difficoltà e le perdite di chi vive un conflitto, dando al racconto una forma universale, in grado di a rappresentare l’esperienza di chiunque, in qualunque guerra.

TITOLO: Anatomia di un soldato
AUTORE: Harry Parker
TRADUTTORE: Martina Testa
PAGINE:349
EDITORE: Sur
ANNO: 2016
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