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sabato 29 dicembre 2018

Le mie letture del 2018

E così finalmente questo 2018 giunge al termine. È stato un anno difficile, forse il peggiore in assoluto da che io mi ricordi, e ammetto che, pur sapendo che in realtà tra il 31 dicembre e il 1 gennaio non cambia assolutamente nulla, sapere che finisca mi fa tirare un sospiro di sollievo.
Qualche gioia durante l’anno c’è stata, sia chiaro: un paio di lavori che mi hanno fatto esclamare “oddio, che figata! Ma sta succedendo proprio a me?” (uno di questi lo troverete in libreria nei primi mesi del 2019); la vita matrimoniale che procede a gonfie vele; qualche bel film; qualche bella gita (tante mostre, quest’anno!); qualche bel momento con amici e persino un musical (Mary Poppins, al Teatro Nazionale a Milano... meraviglioso!), a cui non assistevo da un bel po’. Ma il tutto è stato offuscato da un grande dolore che ha gettato una cappa nera sulla seconda metà dell’anno: piano piano si sta un po’ diradando, ma dubito che se ne andrà mai del tutto e devo ancora capire come fare a conviverci (però giuro che mi sto impegnando). Quindi ecco, meno male che stai finendo, stupido 2018.

Anche per quanto riguarda le letture, quest’anno non è stato al massimo del suo potenziale. O meglio, lo è stato, se si considerassero tutti i libri che ho letto per lavoro, a discapito di quelli per piacere. Le mie letture personali si fermano a quota 55: che non sono poche, ma nemmeno tantissime rispetto al mio solito. È che tra i mille lavori, le mille letture (a cui segue una scheda, o una correzione, o una traduzione... ) e la conseguente stanchezza, sempre più spesso ultimamente, a me, lettrice rampante incallita, è capito di non avere voglia di leggere. A farne le spese è stato anche il blog, ovviamente, sempre più abbandonato a se stesso nonostante i miei sporadici post di buoni propositi, in cui promettevo che avrei cercato di aggiornarlo di più. E chissà che con il nuovo anno non ci riesca davvero.

© Georgiana Chitac

Ma veniamo ai bilanci di lettura veri e propri. Cinquantacinque libri, dicevamo (di cui uno, Lettere a Theo di Vincent Van Gogh, ancora in lettura, ma conto di finirlo entro il 31 dicembre); e la cosa bella è che sono state praticamente tutte letture che meritavano. Non tutti capolavori, ovviamente, ma di libri che avrei potuto tranquillamente risparmiarmi non ce ne sono stati.
Certo, magari un 200 pagine di All’inizio del settimo giorno di Luc Lang me le sarei evitate volentieri; forse forse mi sarei evitata anche qualche pippa mentale di Théodore e Dorothee di Alexander Postel o qualche eccessiva riflessione poetica di L'amore di Maurizio Maggiani, per non parlare di alcune parti di Asimmetria di Lisa Halliday... però anche questi qualcosa mi hanno lasciato.  E quindi, urrà, un anno di letture azzeccate!

Per quanto riguarda i libri belli, invece, ne ho letti diversi che, per un motivo o per l’altro, mi sono rimasti nel cuore. I migliori in assoluto, quelli che proprio mi porterò con me per tanti anni a venire, sono nove, ma anche per tutti gli altri ne è valsa sicuramente la pena. Specifico che non si tratta esclusivamente di libri usciti nel 2018... insomma, fa fede la data di lettura e non quella di pubblicazione.


L'ordine come sempre è casuale. E, come sempre, cliccando sul titolo del libro verrete rimandati alla recensione. Eccoli qui:

IL CLUB DEL LIBRO E DELLA TORTA DI BUCCE DI PATATE DI GUERNSEY di Mary Ann Shaffer & Annie Barrows, tradotto da Giovanna Scocchera ed Eleonora Rinaldi per Astoria edizioni: uno dei primi libri letti quest'anno e che mi è rimasto nel cuore. Anche se ancora non ho provato a preparare la torta di bucce di patate. (Molto bello anche il film che ne è stato tratto, uscito su Netflix ad agosto).

UN RAGAZZO D'ORO di Eli Gottlieb, tradotto da Assunta Martinese per minimum fax: di libri che parlano di autismo ce ne sono tantissimi, ma belli come questo non credo di averne mai letti. Un romanzo dolcissimo e terribile al tempo stesso, con un protagonista, Todd, che è impossibile non amare.

PATRIA di Fernando Aramburu, tradotto da Bruno Arpaia per Guanda editore: semplicemente un capolavoro.

CLESSIDRA di Dani Shapiro, tradotto da Gaja Cenciarelli per Clichy: una grande scoperta di quest'anno, un memoir sulla vita di coppia che mi ha commossa, perché se si vuole ce la si fa sempre, nonostante tutto.

LO ZOABLATORE di Sergio Olivotti, pubblicato da Lavieri edizioni: un libro illustrato, per bambini ma anche per adulti, divertente e con dei disegni semplicemente fenomenali.

MANHATTAN BEACH di Jennifer Egan, tradotto da Giovanna Granato per Mondadori: il mio primo romanzo di Jennifer Egan, a quanto dicono diversissimo da tutti gli altri suoi. A me è piaciuto tantissimo, davvero un bel "romanzone"

IL MARE DOVE NON SI TOCCA di Fabio Genovesi, pubblicato da Mondadori: Genovesi  per me è sempre una garanzia, soprattutto nei momenti più bui e tristi, perché ti insegna che sì, la vita a volte è davvero terribile, ma in un modo o nell'altro si riesce sempre a sorridere.

IL DINER NEL DESERTO di James Anderson, tradotto da Chiara Baffa per NN editore: quanto mi piacerebbe salire sul camion di Ben e andare in giro con lui per il deserto dello Utah.

DESTINO di Raffaella Romagnolo, edito da Rizzoli: ho un legame affettivo molto stretto con i luoghi che fanno d'ambientazione a questo romanzo, e quindi almeno in parte questo ha influito sul mio giudizio. Ma, cavolo, Raffaella Romagnolo scrive davvero bene ed è in grado di raccontare l'umanità e le vite che si nascondono dietro a ogni avvenimento storico.


Questi sono i nove che mi sono piaciuti di più in assoluto, ma in realtà se ne potrebbero menzionare anche altri: Vincoli di Kent Haruf per esempio (di cui qui ancora non c'è la recensione, ma merita), oppure La manutenzione dei sensi di Franco Faggiani... però una selezione va fatta e quindi mi fermo qui. Spero che anche voi abbiate letto tanti libri belli e, soprattutto, che con voi il 2018 abbia picchiato un po' meno forte. 

Sperando che il 2019 sia un po' meno doloroso e un po' più pieno di letture bellissime come queste (e di tempo per aggiornare il blog), vi auguro un buon anno nuovo, pieno di tutto ciò che più desiderate!

sabato 1 dicembre 2018

Il mio novembre, con Jeffrey Eugenides e Fabio Bartolomei (e tante altre cose)

Novembre è stato un mese molto pieno per me, e solo ora che si è concluso riesco finalmente a fermarmi un attimo e fare mente locale su tutto quello che è successo.
Un’occasione di lavoro inaspettata che ho colto al volo, perché le occasioni di provare a fare qualcosa che non sappiamo se ci possa piacere o no vanno colte sempre, ma che ha rivoluzionato drasticamente il mio tempo. Ritmi e incastri nuovi (perché sì, ho accettato questo lavoro nuovo ma senza lasciare nessuno di quelli vecchi, che sono e continueranno a essere sempre quello che davvero voglio fare nella vita), momenti di panico da “non ce la faccio”, serate in cui mi addormento sul divano senza neanche accorgermene... insomma, indovinate un po’ chi ha pagato lo scotto maggiore di questi nuovi ritmi non ancora ben ingranati? Il mio povero blog a pois, ovviamente, che se ne sta va qui tutto solo dal 5 novembre (remember remember), senza che io lo aggiornassi sulle mie nuove letture.

Non che ce ne siano state molte, in questo mese. I ritagli di tempo che usavo prima per leggere ora vengono impiegati per altro e quindi non sono riuscita a finire più di tre libri per piacere (se ci aggiungiamo quelli per lavoro però la cifra sale, ci tengo davvero a dirlo). Ma anche se sono state un po’ pochine, ci tengo comunque a parlare dei due romanzi, oltre a Destino di Raffaella Romagnolo di cui invece avevo già parlato, che ho letto in questo mese, perché sono state due belle letture.

La prima è Una cosa sull’amore di Jeffrey Eugenides, scrittore americano che avevo conosciuto con Middlesex prima e con La trama del matrimonio poi. In questo caso, però, siamo di fronte a una raccolta di dieci racconti, scritti tra il 1995 e oggi.



Dieci storie diverse tra loro, unite dal sottile filo conduttore dell’amore che si sviluppa in forme diverse: l’amore che unisce due amiche, nonostante le differenze d’età e di indole, e che sopravvive anche alla malattia, in quello che secondo me rimane il racconto più bello dell’intera raccolta, Le brontolone (piazzato proprio in apertura, per far subito capire l’eccezionale bravura dell’autore); l’amore un po’ egoistico che porta a scegliersi il padre del proprio figlio tra una selezione di tre e quello mai sopito che riflette su questa scelta; la passione e l’amore per la musica, che potrebbe sfasciare una famiglia ma che al tempo stesso la tiene insieme; i legami famigliari, che non si spezzano neanche di fronte alle decisioni più assurde; l’amore che finisce e il bisogno di accettarlo, nonostante il dolore (in Trova il cattivo, la seconda piccola perla di questa raccolta).

Quella prima notte, e ancor più nelle notti successive, era come se a letto lei si restringesse, oppure come se mi allargassi io, fino a diventare grandi uguali. E piano piano quel pareggiarsi continuò anche alla luce del sole. Facevamo ancora girare la gente per strada, ma ora sembrava che ci guardassero come se fossimo una sola creatura, e non due esseri di misura sbagliata agganciati al girovita. Noi. Insieme. All'epoca nessuno dei due scappava o inseguiva l'altro. Stavamo soltanto cercando, e ogni volta che uno di noi andava a controllare, l'altro era lì, in attesa di essere trovato. Ci siamo trovati a lungo, prima di perderci. Eccomi qua! dicevamo, dal profondo del cuore. Vieni a cercarmi. Facile come colorare l'arcobaleno.

E poi si parla di sessuologia e di vulve oracolari; di amicizie soffocanti e di notti d’amore mancate; di promesse mai mantenute e di vendette; per finire con Denuncia tempestiva, in cui si racconta forse un tentativo di violenza o forse uno di estorsione, in una storia geniale per il cambio di punto di vista, di prospettiva e per i mille dubbi che instilla nel lettore.

Ovviamente non tutti i racconti sono allo stesso livello, anche se i tre di cui ho citato il titolo sono sicuramente tra i racconti più belli che abbia mai letto. In ogni caso, Jeffrey Eugenides si dimostra bravo ed efficace anche nelle storie più brevi, che sono sempre incisive, in grado di coinvolgere a più livelli il lettore e che, soprattutto, non sembrano mai romanzi mancati (come spesso succede ai romanzieri che si prestano ai racconti, che pensano che si possano scrivere allo stesso modo).

Il secondo libro è L’ultima volta che siamo stati bambini di Fabio Bartolomei, uscito per e/o come tutte le sue opere precedenti.



Pur non conoscendolo personalmente, io a questo autore sento di voler un bene dell’anima e quindi, da quando l’ho scoperto tanti anni fa con La banda degli invisibili prima e con Giulia 1300 e altri miracoli poi, festeggio con entusiasmo l’uscita di ogni suo nuovo libro.

Protagonisti di L’ultima volta che siamo stati bambini sono Cosimo, Italo e Vanda.  Siamo nel 1943, la guerra e il fascismo hanno sfiancato il paese e mietuto già molte vittime. Loro hanno dieci anni, sono completamente diversi l’uno dall’altro eppure uniti da quei forti legami che si possono creare solo da bambini, quando si gioca insieme ogni giorno e si guarda al mondo e alle sue brutture senza capirle davvero. Quando il quattro membro del loro gruppo, Riccardo, viene portato via dai tedeschi insieme ai suoi genitori e ad altri ebrei, decidono di partire per andare a cercarlo: Vanda scappa così dall’orfanotrofio in cui vive, Cosimo lascia il nonno sapendo già che quando tornerà dovrà trascorrere molto tempo in punizione chiuso in cantina, Italo indossa la sua bella divisa da Balilla, sicuro che gli aprirà molte porte. Seguono i binari, perché è con il treno che Riccardo è stato portato via, quindi basta seguire le rotaie per arrivare dov’è andato lui, e si incamminano per un lungo viaggio che aprirà loro gli occhi su quanto sta succedendo davvero nel paese, segnando per sempre la fine della loro infanzia. A inseguirli, ci sono Suor Agnese, che ha sempre riversato su Vanda un enorme affetto, e Vittorio, il fratello di Italo che è ritornato dalla guerra con una ferita alla gamba e molti onori.

L’ultima volta che siamo stati bambini è un romanzo molto forte e commovente. E Fabio Bartolomei si dimostra ancora una volta molto bravo nel raccontare storie dal punto di vista dei bambini (se non l’avete ancora letto, leggete assolutamente il suo We are family, ne avrete conferma): è bravo a trasmetterne l’innocenza, il modo quasi disarmante di guardare il mondo,  il senso profondo di ingiustizia e il bisogno di ripararla, l’ingenuità che a poco a poco si trasforma in consapevolezza.

«Davvero pensavi di giocare con noi per tutta la vita?» Lo interrompe Vanda.
«Certo. Tu no?»
Lei ci riflette su, arrotola intorno al dito una ciocca di capelli.
«Sì, anche io a volte, però lo so che da grandi cambia tutto. Quando si cresce non si pensano le stesse cose di adesso».
«Allora dobbiamo promettere di diventare dei grandi diversi».

In alcuni punti, però, devo ammettere che ho avuto l'impressione che mancasse qualcosa, che l'autore non abbia spinto fin dove avrebbe potuto (forse per paura di diventare banale o ripetitivo?) nel racconto dell'avventura dei tre bambini, e ancor più dei loro inseguitori, perdendo così l'occasione di trasformare un bel libro in un vero e proprio capolavoro. In ogni caso, è davvero una lettura che merita.

Ho iniziato il mese di dicembre insieme a Jonathan Coe e al suo nuovo romanzo, Middle England, da poco uscito con Feltrinelli. Per me leggere Coe è sempre un po' come ritornare a casa e, anche se per il momento ho letto solo una sessantina di pagine, direi che la sensazione si sta riconfermando anche in questo caso. Spero solo di riuscire a parlarvene prima di gennaio. 


Titolo: Una cosa sull'amore
Autore: Jeffrey Eugenides
Traduttore: Katia Bagnoli
Pagine: 300
Editore: Mondadori
Anno: 2018
Prezzo: 20€
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formato cartaceo: Una cosa sull'amore
formato ebook: Una cosa sull'amore


Titolo: L'ultima volta che siamo stati bambini
Autore: Fabio Bartolomei
Pagine: 208
Editore: edizioni e/o
Anno: 2018
Prezzo: 16€
Acquista su Amazon:

lunedì 5 novembre 2018

DESTINO - Raffaella Romagnolo

Il destino è un mistero. La stessa guerra non è la stessa guerra. I soldati americani avevano gallette, dolcetti, zucchero, caffè solubile; ai Leone mancava il pane. Assunta ha fatto il possibile, ora Giulia lo sa. Non ci sono conti da aggiustare, non c'è niente da perdonare. Facciamo tutti il possibile, amica mia.


Mio padre era originario di Bosio, un paesino abbarbicato sull'appennino ligure ma ancora in Piemonte, in provincia di Alessandria. In realtà era di una frazione di poche case e poche anime, che porta proprio il mio cognome. Oltre a Ponassi, fa parte del comune di Bosio anche Capanne di Marcarolo, un agglomerato di case che oggi ha ben ventotto abitanti e un parco naturale omonimo, conosciuto in tutta Italia perché lì, nel 1944, c’è stata la strage della Benedicta: fascisti e tedeschi hanno ammazzato settantacinque partigiani.
Sono stata sui luoghi della strage solo una volta, da bambina, un giorno in cui eravamo a Bosio e i miei genitori hanno deciso di portarci. Dopo tanti racconti sentiti dai parenti e gli amici più anziani, da chi ha vissuto da vicino quegli anni o ha perso un proprio famigliare in quell'eccidio, era giunto anche per noi il momento di andare a rendere omaggio.

Perdonate la lunga premessa, ma quando ho aperto per la prima volta Destino, il nuovo romanzo di Raffaella Romagnolo da poco uscito per Rizzoli, e ho visto che era dedicato proprio “Ai ragazzi della Benedicta”, la mia mente è subito tornata a quel giorno e a tutti i racconti che ho sentito nel corso degli anni. Poi mi sono accorta anche che Borgo di Dentro, uno dei due luoghi protagonisti del romanzo, è Ovada, altro paese che ho sempre sentito nominare in casa, e ho capito che Destino, io, lo avrei amato.
Conoscevo già la scrittura di Raffaella Romagnolo, grazie a quel piccolo capolavoro di La figlia sbagliata, ed ero davvero curiosa di leggere qualcosa di nuovo di questa autrice (di cui, secondo me, si parla davvero troppo poco). Certo, però, non mi aspettavo di leggere qualcosa di forse ancor più bello e più intenso.

Destino racconta la storia di due amiche e delle loro famiglie nella prima metà del ‘900. Giulia Masca e Anita Leone sono nate e cresciute a Borgo di Dentro: entrambe lavorano alla filanda del paese, insieme a tante altre donne.  Poi, a un certo punto, le loro strade, i loro destini, si dividono. Giulia molla tutto, il lavoro, la casa, la madre Assunta e parte per l’America e approda a New York, dove con fatica si fa una nuova vita insieme a un altro immigrato italiano. Anita, invece, resta e, insieme alla sua numerosa famiglia, vive sulla sua pelle l’arrivo della Prima Guerra Mondiale e della chiamata alle armi degli uomini di casa, poi dello squadrismo e del Fascismo, della Seconda Guerra Mondiale, delle lotte partigiane e della resistenza agli orrori che si ritrova ogni giorno a vivere.

Il vuoto lasciato da Giulia non si riempì, ma la vita aggirò l’ostacolo e riprese a scorrere. Prima rivoli e zampilli – una partita a carte, un pomeriggio tutti insieme, il ballo a palchetto sul far dell’estate, il nome di Giulia che, davanti a un testo di polenta, qualcuno pronuncia senza scandalo – poi con flusso invincibile, capace di superare d’un balzo la morte di nonno Domenico, nel sonno, e quella della stessa Luigina, tre mesi dopo, di malinconia.

Sono due donne forti, Anita e Giulia, anche se in modi diversi. E sono soprattutto due amiche, che a un certo punto si sono perse per strada ma non hanno mai smesso di pensare l’una all’altra e alle scelte diverse, ugualmente difficili, che entrambe hanno compiuto e che riacquistano forza e intensità quando Giulia, dopo tanti anni, ritorna a Borgo di Dentro. Non sa cosa aspettarsi; non sa cosa è successo alle persone che amava e ha paura di quello che potrà, o non potrà, trovare. 
Attorno ad Anita e Giulia ruota una serie di personaggi (in mezzo a cui l’autrice ci aiuta a districarci inserendo, all'inizio di ognuna delle tre parti di cui si compone il libro, gli alberi genealogici) altrettanto intensi e ben caratterizzati: i fratelli di Anita, Giuseppe Garibaldi e Nino Bixio; i figli e i nipoti; i vicini di casa; i padroni dei terreni e della fabbrica, la bella e tenace Adelaide... tante vite che si mescolano, che vivono, da uno schieramento o dall'altro, mostrando coraggio o paura, quello che la storia del Novecento mette loro davanti, appoggiandosi alle piccole gioie quotidiane per resistere e sopravvivere a un destino più grande contro cui non possono nulla.

La ragazza si scosta seccata, poi si alza e lo guarda. A Nico sembra più alta, il volto duro, una riga netta tra le sopracciglia. «Ti odio» dice e gli dà uno schiaffo.
Nico rimane di stucco, poi si riprende, le afferra il polso e la tira a sé. Lei cerca di colpirlo ancora. «Ti odio» singhiozza, mentre Nico la stringe, le bacia il volto in lacrime, le chiude le labbra con le labbra. «Anch'io» le soffia in bocca, poi sente il pianto in gola e si abbandona, la bacia e intanto piange, lei invece smette di singhiozzare, la sente sorridere, poi proprio ridere, e allora ride anche lui e pensa: Oddio, la felicità.

Destino è un romanzone, in cui io ho trovato tutto quello che spero sempre di trovare in un libro: la Storia, quella con la S maiuscola, raccontata dal punto di vista umano, di chi è morto in una trincea e di chi era a casa ad aspettare, di chi è stato fucilato insieme ad altri ragazzi come lui e di chi è andato a recuperare i corpi, di chi ha mollato tutto e ha attraversato l’Oceano in cerca di se stesso e di chi invece è rimasto dov'era e ha vissuto con quello che aveva; di chi è tornato e di chi non se n’è mai andato. Tutto questo con personaggi ben caratterizzati (il mio prossimo animale domestico lo chiamerò Gelida Manina), momenti molto teneri e pieni d’amore, speranza e altruismo, e altri carichi di rabbia, ingiustizia e tanto, tanto dolore. Proprio com'è la vita.
Si capisce subito quando, nel lezzo e nella confusione, una donna riconosce un figlio. Tutto si ferma per qualche secondo, il ronzare delle mosche crepita come un falò. Rita siede su un masso, fissa il ruscello e non dà una lacrima, immobile. Qualcuno scende da Cascina Benedicta portando a braccia travi annerite da fumo e parti dell’impiantito. I pezzi di legna ch’erano tavoli, sedie e solette, vengono appoggiati delicatamente sui corpi già ripuliti, bare improvvisate. Anita toglie il fazzoletto che porta al capo, lo straccia e ne ricava due pezzuole. Inzuppa la prima nell’alcol, s’inginocchia accanto a un ragazzo e lo ripulisce, poi un altro, poi un altro, fino a contarne cinque. Poi si alza, raggiunge il ruscello, sciacqua la pezzuola nell’acqua torbida, cerca la ragazza con l’alcol e ricomincia.

Raffaella Romagnolo ha scritto un romanzo incredibile, in cui si vedono tutte le ricerche e gli studi che ha compiuto, tutta l’attenzione nel raccontare qualcosa di così difficile e al tempo stesso tutta la passione che ci ha messo nello scrivere, che emerge in ogni personaggio, in ogni gesto, in ogni singola riga di ogni singola pagina. Un libro semplicemente stupendo.


Titolo: Destino
Autore: Raffaella Romagnolo
Pagine: 397
Editore: Rizzoli
Anno: 2018
Prezzo: 21€
Acquista su Amazon:
formato cartaceo: Destino
formato ebook: Destino

martedì 30 ottobre 2018

ASIMMETRIA - Lisa Halliday

La terza domenica l'uomo comprò due coni da Mister Softee e ne offrì uno ad Alice. Lei lo accettò, come aveva fatto con la cioccolata, anche perché già gocciolava. E comunque uno che ha vinto più di una volta il Premio Pulitzer non va in giro ad avvelenare la gente.


Lo so, lo so. Quella fascetta avrebbe dovuto mettermi in guardia. Le parole “caso editoriale” e “un libro imperdibile” per lanciare un romanzo sono ormai talmente tanto abusate che ogni anno abbiamo almeno duecento libri dell’anno, quattrocento casi editoriali e mille libri imperdibili. Ma si sa, tutte le fascette tendono a essere un po’ roboanti, a lanciare ogni singolo libro come se fosse il capolavoro che tutti dovrebbero leggere, sperando così di emergere un po’ dalla massa. E se non leggessi tutti i libri che hanno un lancio simile, probabilmente mi limiterei a cinque o sei testi all’anno.
Certo, poi sono usciti anche commenti molto entusiastici, forse un po’ troppo, che avrebbero proprio dovuto farmi stare lontana da questo libro. Ma sono curiosa, non ci posso fare niente. E poi non volevo rischiare che un mio preconcetto, spesso totalmente infondato, rischiasse di farmi perdere qualcosa che invece mi sarebbe piaciuto.

E quindi sì, ho letto Asimmetria di Lisa Halliday, tradotto da Federica Aceto per Feltrinelli editore. E un po’ me ne sono pentita.
Intanto, Asimmetria è un romanzo per modo di dire. Si compone di tre parti. La prima e l’ultima sono in qualche modo collegate tra loro, mentre quella intermedia sembra del tutto avulsa dal resto.

Si parte con Follia: protagonisti sono Alice, una ragazza di venticinque anni che lavora come redattrice in una casa editrice ma sogna di scrivere, e Ezra Blazer, scrittore di fama internazionale, vincitore del Premio Pulitzer e di tutta una serie di altri riconoscimenti, tranne il Nobel... vi suona famigliare, eh? L’autrice stessa non ne ha fatto mistero: Ezra è Philip Roth e Alice è lei. E quindi sì, anche la relazione che racconta è reale. Ezra è un signore anziano, con un certo fascino; Alice una ragazza che ancora deve trovare la sua strada. I due vanno a letto insieme, poi, quando lo stato di salute di Ezra peggiore, si frequentano come due innamorati. Lui sta scrivendo e intanto attende che gli arrivi quel tanto agognato premio che aspetta con ansia e che ancora gli manca; lei sta cercando la sua strada nel mondo e, a un certo punto, capisce che forse avere accanto un signore così anziano, con così tanti bisogni e necessità, non sia poi una buona idea.
“Mary-Alice,” le disse lui con tenerezza dopo qualche istante. “Io lo so cos’è che fai.”
“Cosa?”
“So cosa fai quando sei da sola.”
“Cosa?”
“Scrivi. Non è così?”
Alice si strinse nelle spalle. “Un po’.”
Nella seconda parte, Pazzia, la storia cambia completamente. Ci ritroviamo in aeroporto a Heathrow con Amar, un economista iracheno-americano che fa scalo lì nel suo viaggio verso l’Iraq per andare a trovare il fratello. Ha due giorni liberi prima del volo successivo e vorrebbe trascorrerli a Londra con un amico, ma la polizia aeroportuale non vuole farlo uscire: la sua storia e il suo passato sembrano essere troppo complicati per poterlo lasciar andare liberamente in giro per la città. Amar, nell’attesa di capire quale sarà il suo destino in terra inglese, ripensa alla sua vita, alla sua infanzia, al suo rapporto con i genitori e il fratello, a tutto ciò che lo ha portato a essere lì, in quella sala d’attesa, in quel momento.

La terza parte, Desert Island Discs con Ezra Blazer, è invece un’intervista radiofonica, che ha come protagonista proprio Ezra, chiamato a elencare quali dischi poterebbe con sé su un’isola deserta. Fresco fresco di Nobel, lo scrittore parla della musica che ha influenzato la sua vita e la sua scrittura, mentre ci prova spudoratamente con la sua intervistatrice.

Qualcosa in Asimmetria deve essermi sfuggito, perché io l’ho trovato solo molto lento e molto noioso, soprattutto nella parte che, almeno sulla carta, avrebbe dovuto interessarmi di più: ovvero la storia tra lo scrittore Ezra e Alice. Come penso sia stato per molti, ad avermi spinto alla lettura è stato proprio il sapere che Lisa Halliday qui racconta la storia sua e di Philip Roth, filtrata attraverso due alter ego che non so quanto effettivamente siano somiglianti alla realtà (spero poco, perché io Alice l’ho trovata davvero antipatica).  Non ho trovato tenera la storia d’amore tra Ezra e Alice, anzi, a volte per me è stata al limite dell’irrispettoso nei confronti di colui che è stato un grande scrittore, ma anche, a un certo punto e inevitabilmente, un anziano con problemi di salute. 
La seconda parte, secondo me, è quella riuscita meglio, la più interessante, sia per la storia del passato di Amar, sia per le difficoltà al limite del grottesco che sta vivendo in quel momento in aeroporto solo perché ha un doppio passato. Però non ho davvero capito il collegamento né con la precedente né con la successiva (sì, c’è qualche piccolissimo riferimento, ma proprio proprio minimo), al punto che ammetto di aver pensato che sia stata inserita più che altro per dar spessore al libro, altrimenti troppo breve. Oppure è possibile che sia io a non saper cogliere il senso di questa “narrazione asimmetrica” che riflette in qualche modo “le asimmetrie della vita”... insomma, per me sarebbe stato meglio dire semplicemente che si trattava di una raccolta di tre racconti.

In generale, da Asimmetria mi aspettavo molto, molto di più. E non solo per via di una fascetta altisonante e dei commenti positivi letti ovunque (a cui, bisogna dare atto, hanno poi fatto seguito anche altri decisamente meno entusiastici). Mi aspettavo di più perché una storia come quella che ha vissuto Lisa Halliday con Philip Roth per me si merita una trasposizione diversa (oppure non sbandierare in anticipo che si tratta di voi due e lasciare al lettore la possibilità di coglierci quello che vuole). E si merita più spazio anche la storia di Amar e di tutte le persone come lui che, ogni giorno, devono affrontare il controllo passaporti, portandosi dietro un passato che non si sono scelti.
Però si tratta anche di un libro (scusate, proprio non riesco a chiamarlo romanzo) d’esordio e sicuramente Lisa Halliday ha molto potenziale e tanto tempo per affinarlo. Magari seguendo anche i consigli di Philip Roth.


Titolo: Asimmetria
Autore: Lisa Halliday
Traduttore: Federica Aceto
Pagine: 285
Editore: Feltrinelli
Prezzo di copertina: 17,00€
Acquista su Amazon:
formato cartaceo: Asimmetria
formato ebook: Asimmetria

martedì 23 ottobre 2018

LA BAMBINA OVUNQUE - Stefano Sgambati

In effetti da quando la ginecologa ha pronunciato la frase "Da adesso può nascere in qualsiasi momento" sono precipitato, e c'era da aspettarselo, in un abisso di letture e riletture delle più svariate sintomatologie: fosse per me mia moglie dovrebbe già essere ricoverata, osservata da dodici o tredici medici ventiquattro ore su ventiquattro, intubata e il suo organismo invaso di sostanze psicotrope calmanti, la sala d'attesa dell'ospedale gremita di parenti e amici, troupe televisive, giornalisti; invece è uscita.
Mia moglie è uscita
Per la precisione prima è uscita la pancia, poi mia moglie, che mi pare la segua:  segue una pancia enorme che contiene nasconde protegge nostra figlia, la persona qualunque che piegherà il piano inclinato del mondo.


I libri come La bambina ovunque di Stefano Sgambati, uscito a settembre per Mondadori, sono molto difficili da recensire. 
Potrei buttarla facilmente sulla tenerezza, che è uno dei sentimenti predominanti che si prova durante la lettura e anche una volta concluso il libro. La tenerezza di una coppia che si innamora e a poco a poco si scopre a vicenda; la tenerezza di un marito e di una moglie nella loro quotidianità, fatta di differenze caratteriali, a volte incomprensioni, a volte discussioni, e sempre amore; la tenerezza di un padre che non sa bene quale sia il suo ruolo (se davvero ne ha uno) durante i nove mesi di gravidanza di sua moglie; e la tenerezza dello stesso padre quando la bambina nasce e lui ancora non sa bene che farne; e infine la tenerezza del padre cresciuto, che guarda la figlia e quel che è diventata.

La madre tamburella le dita in quel punto e il padre capisce, perché è un gioco che fanno da tantissimo tempo, "darsi appuntamento" vicino agli oggetti sui tavoli, dietro al bicchiere, accanto al coltello; perciò raggiunge con la sua mano le dita tamburellanti di lei, gliele copre con il palmo, stop, è tutto lì, non c'è altro, il più grande e semplice gesto di pace che si sia mai visto in una cucina, lei gli sorride, sono bellissimi, la panciona di lei tocca il bordo del tavolo, sono bellissimi, sono la cosa più bella che io abbia mai visto e per un po' non dicono niente, non c'è un'altra proposta di matrimonio da fare, soltanto quella mano sopra un'altra mano e la torta rustica un po' sbocconcellata nei piatti, un forno a microonde bianco, un kitchen-aid arancione grazie al quale il padre sta imparando la panificazione, e c'è un pezzo di scottex sul pavimento che la madre proverà più tardi a raccogliere, subito bloccata da lui, che le dirà "Lascia lascia", e così tutti i giorni, da quasi nove mesi e così sarà per sempre, ma a turno, aiutarsi, venirsi incontro, incantarsi.

Potrei altrettanto facilmente buttarla sul personale, visto che io e mio marito siamo più o meno coetanei di questo padre e di questa madre e anche a noi piaceva guardare Masterchef in tv finché c’era Cracco (il programma dei pacchi no, non l’ho mai sopportato invece, nemmeno come sottofondo). Di figli noi non ne abbiamo ancora, anche se è un argomento di cui ogni tanto si parla, che aleggia tra noi in modo più o meno serio (di solito con buffi accostamenti di nomi con il cognome), ma che, onestamente non sappiamo se e quando sarà. E nemmeno come, se dovremo anche noi affrontare quello che hanno affrontato i protagonisti di La bambina ovunque, tra FIVET, campioni di sperma e siringhe di ormoni schizzate sullo specchio del bagno.

E ogni tanto ci ritrovavamo svegli entrambi su un letto umido che sembrava una zattera e avevamo fatto da poco l'amore per la quattordicesima volta di fila nei Giorgi Giusti e di nuovo e sempre orbitava sopra di noi, a pochi centimetri dal naso, la sensazione misteriosa e inesplicabile che avessimo fallito ancora, che qualcosa tra me e mia moglie si opponesse.

Ma se mi limitassi a buttarla sulla tenerezza e sul personale, non credo riuscirei a rendere giustizia al libro, perché, al di là dell’empatia con i protagonisti, al di là delle proprie esperienze e della facile commozione di fronte quegli episodi quotidiani della vita di coppia che quasi la tengono su, in questo c’è anche tanto altro.

La bambina ovunque è un memoir ironico e sincero, che non edulcora nulla, in cui questo padre s’interroga su quale sia il suo posto, senza lasciarsi prendere dalle smancerie o dall'entusiasmo che ci si aspetterebbe necessariamente da chi sta per avere un figlio. Stefano ammette subito di non essere tanto convinto all'inizio, di farlo più per soddisfare il desiderio di maternità della moglie; racconta quanto sia stato difficile arrivarci, quanto imbarazzo abbia provato nel momento di fornire il suo contributo in un barattolino, quanto sia stato difficile accettare che quell'esserino minuscolo sia arrivato nelle loro vite per stravolgerle talmente tanto che nemmeno le terribili notizie in tv possono distogliere l’attenzione da quel fagottino inerte.

Mi è piaciuto forse un pochino meno il capitolo finale, quello in cui il memoir si trasforma in finzione e il padre guarda la figlia e com'è diventata. Per quanto dolce sia ritrovarla da grande in uno dei luoghi preferiti dell'autore, questa proiezione nel futuro attribuisce a questa bambina ovunque (che oggi di anni dovrebbe averne un paio) una certa "responsabilità" che non so quanto sia giusto che abbia.

In ogni caso, La bambina ovunque è un libro divertente e a tratti molto tenero, da cui è facile lasciarsi coinvolgere, soprattutto se si è vicini all'età dei protagonisti. Ma, soprattutto, è un libro molto vero, reale, che dà voce a quei pensieri che magari molti genitori, soprattutto padri, fanno quando stanno aspettando un figlio, senza aver però il coraggio di pronunciarli. E che poi, una volta che il figlio arriva, a poco a poco spariscono, sostituiti dall'amore, dalla scoperta, dal vedere un noi fatto di due, diventare di tre.


Titolo: La bambina ovunque
Autore: Stefano Sgambati
Pagine: 137
Editore: Mondadori
Anno: 2018
Prezzo: 18,00
Acquista su Amazon:
formato cartaceo: La bambina ovunque
formato ebook: La bambina ovunque

mercoledì 17 ottobre 2018

FATE IL VOSTRO GIOCO - Antonio Manzini


La settimana scorsa è uscito Fate il vostro gioco, il nuovo romanzo di Antonio Manzini con protagonista il vicequestore Rocco Schiavone. Non starò qui a dirvi per l’ennesima volta quanto io ami questo personaggio, quanto attenda con ansia ogni sua nuova avventura e quanto, dopo un inizio non proprio entusiasta, mi sia appassionata anche alla serie tv che ne hanno tratto. Rocco Schiavone è un figo, burbero, stronzo, segnato da un passato che non gli dà tregua e che condiziona tutto il suo presente. Ma è anche tenero, a modo suo, con chi se lo merita (Lupa, più di tutti).

Aspettavo con ansia un nuovo romanzo, vi dicevo, anche perché sono ancora sconvolta da quanto successo da Pulvis et umbra l’anno scorso (per non fare spoiler dico solo: Caterina) ed ero curiosa di vedere come ne sarebbe uscito il mio vicequestore preferito.
Non benissimo, diciamoci la verità, perché Fate il vostro gioco, nonostante non sia un romanzo breve e abbia richiesto comunque un anno per essere scritto, è un po’ sottotono rispetto ai precedenti. E ci sta, ci mancherebbe, in una serie arrivata ora al settimo romanzo, più tutta una serie di racconti; ci sta che uno sia meno riuscito di un altro, soprattutto se arriva dopo due storie in cui la vicenda di Rocco ha forse toccato il suo climax. 

In questo nuovo romanzo, Rocco Schiavone si ritrova a indagare sull’omicidio di Romano Favre, un pensionato del casinò di Saint Vincent, ritrovato cadavere in casa sua con la fiche di un altro casino tra le mani. “Un morto che parla”, lo definisce Rocco, che si sforza per capire che cosa voglia dirgli. C’entra il riciclaggio? C’entrano i prestiti ai poveracci che si rovinano sul tavolo da gioco? O nessuna di queste cose? Rocco indaga con tutta la squadra, anatomopatologo Fumagalli e complottista della scientifica Gambino compresi. Ma nel mentre deve anche stare un po’ dietro a Italo, che sembra avere più di un problema, e, soprattutto, fare i conti con quanto successo nel romanzo precedente: i suoi amici romani che sembrano fidarsi più di lui, Enzo Baiocchi che pare intenzionato a fare grandi rivelazioni alla polizia, Marina che non si fa più sentire, e Caterina, ovviamente. A complicare ulteriormente le cose ci si mettono pure il vicino di casa adolescente Gabriele e sua madre. Riuscirà il nostro vicequestore preferito a risolvere il caso e, una volta per tutte, anche i suoi tormenti?

Lo scopriremo nella prossima puntata. Dico davvero (e prima che mi si accusi di spoiler, lo dice anche la bandella), perché Fate il vostro gioco è un romanzo che non finisce, che lascia in sospeso tante cose per quello a venire. E questo, per quanto mi riguarda, rappresenta un po’ un problema: non mi piacciono i gialli che non sono autoconclusivi; o meglio, mi piace che ci sia una trama parallela che li colleghi tutti, ma l’omicidio che viene affrontato in un romanzo preferisco che in quello finisca.
Al di là di questo, che è sicuramente una questione più personale, trovo che Fate il vostro gioco sia un po’ frettoloso, un po’ abbozzato. Più nella scrittura, forse, che non nella trama vera e propria. E qualcuno mi faceva notare che probabilmente è già pensato per serie tv: è più fatto di scenette, più televisivo. E poi, diciamocela, Rocco senza le sue donne non funziona tanto. E Antonio Manzini stesso sembra esserne reso conto perché poi, verso la fine, corregge un po’ il tiro con una scena in effetti molto commovente.

Fate il vostro gioco non è un brutto romanzo, sia chiaro. E, come si diceva già prima, un libro un po’ sottotono in una serie che inizia a diventare piuttosto lunga ci sta eccome. Però al tempo stesso un po’ mi spiace perché, pur avendolo divorato in un paio di giorni senza riuscire a metterlo giù, mi è mancato qualcosa che negli altri avevo trovato. Che il personaggio di Rocco stia iniziando a esaurirsi? Che stiano finendo tutte le complicazioni (e le rotture di coglioni) che il vicequestore possa affrontare risultando ancora credibile? 
Mi sa che, anche questo, lo scopriremo nella prossima puntata.


Titolo: Fate il vostro gioco
Autore: Antonio Manzini
Pagine: 391
Editore: Sellerio
Anno: 2018
Prezzo: 15€
Acquista su Amazon:
formato cartaceo: Fate il vostro gioco
formato ebook: Fate il vostro gioco (Il vicequestore Rocco Schiavone Vol. 11)

domenica 14 ottobre 2018

RICOMINCIARE... in compagnia di Bill Bryson

Come forse avrete notato, da qualche tempo qui sul blog sono un po’ latitante. Non pubblico niente dal 28 settembre e anche nei mesi precedenti i post sono stati molto risicati. I motivi sono tanti, più o meno importanti e più o meno validi, e altrettanto è il dispiacere per non riuscire più a trovare l’entusiasmo e la passione di un tempo nel mettermi qui a parlare di libri.

©Allissa Chan
Il primo motivo è sicuramente il lavoro. Gli ultimi mesi, fortunatamente, sono stati piuttosto pieni: due grosse traduzioni, una marea di schede di lettura per i vari editori con cui collaboro, qualche editing... e, insomma, non credo sia poi così difficile capire perché, nel tempo libero, la voglia di mettermi a leggere e a scrivere di libri scarseggiasse un po’.

Poi c’è inevitabilmente anche un po’ di stanchezza. La lettrice rampante sta per compiere nove anni (il primo post è del 24 ottobre 2009) e nel mondo dei blog sono davvero tanti. Molte, moltissime cose sono cambiate da allora nel modo di parlare di libri in rete. Intanto, i blog sono aumentati in modo esponenziale e poi, a poco a poco, sono di nuovo diminuiti. Altri mezzi di comunicazione (Facebook prima, Youtube e Instagram adesso) hanno preso il sopravvento, rendendo siti come il mio forse un po’ obsoleti e meno immediati e fruibili, più per gli irriducibili romantici (o per logorroici come me, che proprio non riescono a parlare di un libro tramite una semplice foto o una stories di trenta secondi). Inoltre, i blog e i blogger sono spesso vittima di attacchi più o meno giustificati da più fronti (altri giornalisti, scrittori, etc etc...) che a lungo andare fanno passare un po’ la voglia: “i blogger sono al soldo degli editori”, “tutti i blogger fanno marchette”, “i blogger non fanno mai stroncature per non perdere i favori di chi gli manda i libri, “i blogger copiano semplicemente le quarte di copertina e non leggono davvero i libri”, "i blogger sono brutti e non ci considerano", “e allora i blogger?” (scusate, questa non c’entra, ma non ho resistito), e così via...  credo sia abbastanza facile capire quanto fastidioso possa essere ritrovarsi inclusi in queste generalizzazioni quando non se ne ha mai fatto parte. In linea di massima, passata l’incazzatura iniziale nel leggere costantemente queste cose, me ne sono sempre fregata e ho continuato per la mia strada (e come me, moltissimi altri blogger che le marchette non le fanno), ma sicuramente mi ha dato di che riflettere.

E poi be’, il motivo più grande che sta condizionando tutta la mia vita negli ultimi mesi, e quindi inevitabilmente anche la voglia di sedermi a un pc e scrivere, è che sto ancora cercando di capire come riprendermi da un duro colpo emotivo, che mi ha completamente svuotata. A giugno è improvvisamente mancata mia madre. Nonostante siano passati quasi quattro mesi, dirlo e scriverlo mi riesce ancora parecchio difficile. Forse perché non ho ancora realizzato del tutto. Forse perché l’ho realizzato fin troppo e ce l’ho così costantemente in testa in ogni secondo della mia giornata che almeno ogni tanto vorrei provare a non pensarci (a non pensare che a trentatré anni non ho più i genitori, a non pensare a tutta la sfiga che ha colpito la mia famiglia e alla spada di Damocle che sembra pendere su noi figli rimasti, a non pensare a tutto quello che abbiamo fatto e non faremo più e a quello che non abbiamo avuto il tempo di fare). E un po' anche perché per carattere non sono solita parlare pubblicamente delle mie emozioni, anche perché so che tutti hanno le proprie tragedie più o meno grandi da affrontare.

Insomma, i motivi della mia incostanza sono diversi e, tutti insieme, negli ultimi tempi mi hanno portato spesso a riflettere se abbia ancora senso continuare. È vero che il blog non è un obbligo, che non ho scadenze, che è una cosa che faccio per passione e quindi se pubblico due post a settimana o uno al mese non cambia di nulla, ma vederlo così abbandonato a se stesso mi dispiace molto. Ma dispiacerebbe anche scrivere post solo per non lasciarlo vuoto, senza l’entusiasmo e la cura che ci ho messo negli anni (si vede, secondo me, quando si scrive tanto per farlo, e mi ha sempre messo una certa tristezza.
Al netto di tutte le riflessioni, però, non credo che riuscirei a stare senza La lettrice rampante. È una parte di me. È una parte che mi ha accompagnata per tanti anni, che mi ha dato grandi soddisfazioni, che mi ha permesso di esprimermi per iscritto dove dal vivo per timidezza non sono mai riuscita ad arrivare. Mi fa fatto trovare diversi lavori e mi ha fatto conoscere un sacco di persone, vicine e lontane, che probabilmente non avrei mai conosciuto e con cui si è creato un bel legame.
Quindi no, non sono ancora pronta ad abbandonare questo blog al suo destino. E anche se non credo ce ne sia bisogno vi chiedo pazienza (non credo ce ne sia bisogno, perché immagino che voi non stiate lì a chiedervi ogni giorno “sì, ma quando esce un nuovo post della lettrice rampante? Che cavolo!”) e io proverò a far tornare questo blog un po’ più attivo, per parlare e sproloquiare di nuovo di libri per voi e soprattutto con voi.

E per non far sembrare questo post come un mero elenco di lamentele e piagnistei, ricomincio subito, consigliandovi un libro che mi ha tenuto compagnia nelle ultime settimane, di un autore a cui ricorro spesso quando ho il blocco del lettore e mi sembra di non aver voglia di leggere niente: Notizie da un grande paese di Bill Bryson.


Il libro, pubblicato in Italia da Guanda nel 2017 con la traduzione di Isabella C. Blum, raccoglie gli articoli che il buon vecchio troll Bill ha scritto sul supplemento Night & Day del giornale Mail on Sunday, tra l’ottobre del 1996 e il maggio del 1998. 
Sono brevi articoli di costume sulla vita e la società americana, viste da un uomo che ritorna nel suo paese dopo aver vissuto per anni all'estero. Bill (lo chiamo per nome perché in qualche modo lo considero un amico) si ritrova quindi ad affrontare tutte le differenze tra USA e Regno Unito, ma anche una serie di stranezze, peculiarità e abitudini tipicamente americane, che lui spesso trova incomprensibili e che quindi lo fanno tanto ridere.

In Gran Bretagna, per esempio, la pubblicità di una capsula per il raffreddore prometteva soltanto di farvi sentire un po' meglio. Avrete ancora il naso rosso e ve ne starete ancora in vestaglia, ma tornerete a sorridere, benché mestamente.
In America, la pubblicità dello stesso prodotto garantiva un sollievo totale e istantaneo. Dopo aver assunto il miracoloso composto, l'americano non solo gettava la vestaglia e tornava immediatamente al lavoro, ma si sentiva meglio di come si sentisse da anni, e concludeva la sua giornata alla grande, in una sala da bowling.

Pur percependosi chiaramente che si tratta di articoli vecchi, ambientati in un'epoca diversa dalla nostra (vent'anni sembrano pochi, ma in realtà per l'evoluzione di una società non lo sono per nulla) questi articoli fanno tanto ridere anche il lettore, grazie soprattutto a fantastico spirito di osservazione dell'autore. 
E poi la copertina italiana è davvero stupenda. Quindi, leggete Bill Bryson!


Titolo: Notizie da un grande paese
Autore: Bill Bryson
Traduttore: Isabella C. Blum
Pagine: 361
Editore: Guanda
Prezzo di copertina: 19,00€
Acquista su Amazon:
formato cartaceo: Notizie da un grande paese
formato ebook: Notizie da un grande paese

venerdì 28 settembre 2018

DONNE CHE PARLANO - Miriam Toews

Siamo donne senza voce, afferma Ona, pacata. Siamo donne fuori dal tempo e dallo spazio, non parliamo nemmeno la lingua del paese in cui viviamo. Siamo mennonite senza una patria. Non abbiamo niente a cui tornare, a Molotschna perfino le bestie sono più tutelate di noi. Tutto quello che abbiamo sono i nostri sogni - per forza che siamo sognatrici.


Tra il 2005 e il 2008 in una colonia mennonita in Bolivia, a molte ragazze e donne della comunità capitava di svegliarsi coperte di lividi e contuse per via di misteriose violenze subite nella notte. Gli uomini della comunità per lungo tempo hanno attribuito queste violenze a demoni e fantasmi, oppure, a Dio o Satana che infliggevano le giuste punizioni per i loro peccati. In realtà poi si è scoperto che erano gli uomini stessi della comunità a violentare le donne: le narcotizzavano con un anestetico per animali e poi le stupravano. 

Donne che parlano, nuovo splendido romanzo di Miriam Toews, uscito il 27 settembre per marcos y marcos con la traduzione di Maurizia Balmelli, prende spunto proprio da questo reale fatto di cronaca. 
Donne, ragazze e, a volte, anche bambine violentate dai propri padri, mariti, cugini, fratelli e che ora si trovano a dover decidere cosa fare della loro vita. Non hanno molto tempo per decidere cosa fare, le donne di Molotschana: gli uomini della comunità che non sono stati arrestati per le violenze inflitte stanno infatti pagando le cauzioni di quelli in prigione e, quando saranno di ritorno, le donne dovranno decidere se perdonarli e quindi rimanere nella comunità, oppure andarsene definitivamente. È questo che ha imposto loro il pastore Peters, ribadendo così ancora una volta la loro sottomissione. O perdoni o te ne vai, mentre i colpevoli saranno comunque liberi.
Le donne di Molotschana si riuniscono di nascosto per decidere cosa fare. A seguire i loro incontri, l’unico uomo rimasto: August Pepp, ritornano nella comunità dopo anni di esilio, ma che con gli uomini mennoniti sembra davvero avere poco a che fare. A lui spetta il compito di scrivere i verbali delle loro riunioni, perché nessuna delle donne sa scrivere... e in realtà nemmeno leggere, ma è importante che rimanga una traccia scritta di quello che si dicono.

Sul piatto ci sono tante cose. Da un lato, il desiderio delle donne di andarsene per lanciare un segnale ma anche per difendersi, per non accettare passivamente le violenze e le umiliazioni subite perché, nonostante siano cresciute in una società patriarcale in cui loro valgono meno delle bestie, sentono che non è giusto. Non è giusto per loro, che sono adulte, e lo è ancor meno per le bambine che hanno subito le stesse violenze. Dall'altro lato c’è la voglia di restare, per rispondere alla violenza con la violenza, o perché la sottomissione alle regole della comunità e agli uomini è troppo radicata in loro, o più semplicemente per paura, perché non hanno idea di come sia il mondo là fuori perché nessuno glielo ha mai insegnato. C’è la voglia di rivendicare il proprio diritto a essere trattate come persone e non come, o peggio, delle bestie, ma anche il desiderio di proteggere i propri figli.

Se il pastore e gli anziani di Molotschna hanno deciso che dopo queste violenze noi donne non necessitiamo di assistenza psicologica perché quando si sono verificate non eravamo coscienti, allora che cosa dovremmo, o addirittura potremmo, perdonare? Qualcosa che non è accaduto? Qualcosa che non siamo in grado di capire? E più in generale, ciò cosa significa? Che se non conosciamo "il mondo" non ne saremo corrotte? Che se non sappiamo di essere prigioniere allora siamo libere?

Agata, Ona, Salomé, Neitje, Greta, Mariche, Mejal e Autje, sono loro le Donne che parlano. Che cercano di decidere che cosa fare, che cosa sia meglio fare per i loro figli, per la loro comunità e soprattutto per loro stesse. Sono donne forti che non sanno di esserlo, e Miriam Toews è incredibilmente brava nel tratteggiarle, nel non tralasciare nulla dei loro stati d’animo, dei loro dubbi, delle loro contraddizioni, senza mai giudicarle.

Noi amiamo i nostri figli, e con qualche legittima riserva amiamo anche i nostri mariti, non fosse perché così ci hanno insegnato
Tu confondi l’amore con l’obbedienza, dice Mariche.
Questo può valere per te, Mariche, ma non necessariamente per le altre donne della colonia, dice Agata. Comunque sia, dobbiamo amare o dimostrare amore per le tutte le persone. È l’insegnamento più importante di Dio (secondo l’interpretazione degli uomini presumibilmente), amarci l’un l’altro come Dio ci ama, e amare il nostro prossimo come vorremmo che lui amasse noi.

Donne che parlano è un libro di una bellezza e un’intensità a tratti molto dolorose, che ti costringe ad aprire gli occhi sulla condizione delle donne in certe comunità religiose (stando a wikipedia, nel mondo ci sono più di un milione e mezzo di mennoniti, cinquecento anche in Italia. E la Toews stessa, fino ai diciott'anni ha vissuto in una rigida comunità canadese). Ma al tempo stesso è un libro pieno di forza, di coraggio, d’amore che dimostra come anche le persone all'apparenza più deboli, più fragili, meno considerate e stimate, possono ribellarsi e fare una loro piccola rivoluzione.

Una volta finita la lettura, pur sapendo che si tratta di personaggi inventati, non ho potuto fare a meno di chiedermi dove siano adesso Agata, Ona, Salomé, Neitje, Greta, Mariche, Mejal e Autje e tutte le altre donne, che parlano o che agiscono in silenzio. Se hanno incontrato nel loro cammino verso il mondo reale uomini come August Pepp, pronti a tutto per aiutarle. Se hanno ritrovato la pace e loro stesse. Per loro e per tutte le altre donne che invece ancora non hanno potuto parlare, ma a cui Miriam Toews con questo libro ha prestato un po’ di voce, mi auguro davvero di sì.


Titolo: Donne che parlano
Autore: Miriam Toews
Traduttore: Maurizia Balmelli
Pagine: 253
Editore: marcos y marcos
Prezzo di copertina: 18,00€
Acquista su Amazon:
formato cartaceo: Donne che parlano

lunedì 24 settembre 2018

CAMBIO DI ROTTA - Elizabeth Jane Howard

Poi Lilian è rimasta in silenzio, mentre il sole sprofondava nel mare. Era uno spettacolo magnifico, e ho pensato che tutte queste cose d'ora in poi mi ricorderanno lei - il mare, il tramonto, le navi e la brezza - e che lei mi farà pensare a queste cose, tutte insieme. Il mondo intero per me ha preso vita grazie a lei.


Continua la riscoperta dei romanzi di Elizabeth Jane Howard da parte di Fazi editore, dopo lo straordinario (e, se ancora non fosse chiaro, per me meritatissimo) successo della saga dei Cazalet. Dopo Il lungo sguardo, pubblicato in Italia in realtà prima dei Cazalet, e All’ombra di Julius, uscito nell’aprile di quest’anno, il 6 settembre è arrivato in libreria Cambio di rotta, romanzo del 1959, tradotto sempre da Manuela Francescon.

Accolgo sempre l’uscita di un nuovo romanzo di questa scrittrice britannica con un misto di entusiasmo e ansia. Ho amato talmente tanto le sue opere precedenti che ho sempre paura che la delusione sia dietro l’angolo; però poi penso all’autrice di cui stiamo parlando, penso a quanto abbia adorato seguire le avventure e disavventure della famiglia Cazalet, ma anche quanto mi sia piaciuto immergermi nel silenzio della coppia protagonista di Il lungo sguardo, o a quanto ancora la sparizione di Julius influisca sulla sua famiglia. .. penso a tutto questo, e so che è praticamente impossibile che Elizabeth Jane Howard mi deluda. E infatti non è successo nemmeno questa volta.

La storia raccontata in Cambio di rotta ruota attorno a quattro (sì, solo quattro!) personaggi principali.  Emmanuel e Lilian Joyce sono una coppia di mezz’età dell’alta borghesia londinese: lui è un drammaturgo di successo, molto sensibile al fascino femminile; lei una donna raffinata, mondana e cagionevole di salute, che ancora non è riuscita a riprendersi dal terribile lutto che l’ha colpita; accanto a loro c’è sempre il fidato Jimmy, ufficialmente manager di Emmanuel, ma in realtà tuttofare che si prende cura della famiglia. Dopo il licenziamento dell’ultima segretaria del marito e i tragici eventi che ne sono susseguiti, Lilian decide di occuparsi lei della scelta di quella nuova. Una sera a una festa incappa in Alberta, una ragazza appena giunta a Londra dalla campagna in compagnia dello zio, senza alcuna esperienza. Lilian crede che sia la persona giusta: troppo scialba e, soprattutto, davvero troppo giovane perché Emmanuel possa invaghirsi di lei. I quattro partono quindi per New York, in cerca dell’attrice adatta a interpretare la protagonista della nuova commedia scritta dal signor Joyce e, soprattutto, un posto in cui lui riesca finalmente a scrivere. Emmanuel e Alberta partono in aereo, e hanno così il tempo per conoscersi meglio prima dell’arrivo di Jimmy e Lilian via nave. Ben presto tutti si rendono conto che Alberta, nella sua innocenza e nella sua semplicità tutta provinciale, è molto più interessante e meno ingenua di quanto inizialmente sembrasse, al punto che potrebbe quasi essere lei l’attrice che stavano cercando. Da New York i quattro si spostano poi in Grecia, dove Jimmy ed Emmanuel si scoprono sempre più affascinati dalla giovane segreteria e Lilian capisce che è ora di fare qualcosa.

Cambio di rotta mi è piaciuto parecchio e per diversi motivi. Il primo è che è un romanzo del 1959 ma non lo sembra, talmente brava è l’autrice a descrivere sentimenti e stati d’animo umani senza tempo, universali: il dolore per la perdita di una persona cara, la gelosia, l’amore, la curiosità e la scoperta di se stessi, la necessità di fermarsi e, magari, ricominciare tutto da capo. È difficile che un romanzo scritto quasi sessant’anni fa riesca a essere così attuale. Poi mi sono piaciuti molto i personaggi e le dinamiche che la Howard ha costruito tra loro: una coppia infelice ma incapace di ammetterlo; un uomo fedele e leale per tanto tempo, finché non arriva qualcosa a scalfire tutte le sue certezze; una ragazza un po’ ingenua, che starnutisce quando prova un’emozione, e che in qualche modo, con la sua visione del mondo, distrugge tutti gli equilibri creati fino a quel momento. Tutti insieme danno vita a un romanzo corale, ma dalle identità ben definite e, in qualche modo, complementari.
Quante persone ci vorrebbero per farne una completa? Noi quattro non bastiamo.
Sicuramente è un romanzo diverso dai cinque che compongono la saga dei Cazalet: è stato scritto molto prima e forse a livello di stile un po’ si sente; ci sono molti meno personaggi (quindi chi non ha apprezzato i Cazalet perché si è un po’ perso in mezzo alle piccole e grandi tragedie che colpiscono la famiglia, qui dovrebbe trovarsi più a suo agio) e, nel complesso, ha una struttura più semplice, a volte ripetitiva, eppure efficace per caratterizzare i personaggi.

Cambio di rotta non è diventato il mio preferito, questo no (continua a essere Il lungo sguardo, senza alcun dubbio), ma mi è piaciuto di più, per esempio, di All’ombra di Julius, forse proprio perché qui i Cazalet non ce li ho ritrovati più tanto, mentre con All’ombra di Julius il paragone è quasi inevitabile (pur sbagliato, perché, di nuovo, sono stati scritti a parecchi anni di distanza).
Ma al di là delle preferenze del tutto persona, ormai posso dire con certezza che Elizabeth Jane Howard sia una delle mie scrittrici preferite in assoluto.


Titolo: Cambio di rotta
Autore: Elizabeth Jane Howard
Traduttore: Manuela Francescon
Pagine: 430
Anno di pubblicazione: 2018
Editore: Fazi editore
Prezzo di copertina: 18,50 €
Acquista su amazon:
formato cartaceo: Cambio di rotta
formato ebook:Cambio di rotta

mercoledì 19 settembre 2018

L'AMORE - Maurizio Maggiani

Il fatto è che ci ho messo un bel po' a imparare a dire ti amo. Ci sono stati degli allenamenti, lunghi e penosi allenamenti in verità. Ti amo, provare un po' a dirlo ad alta voce se ti viene subito, così. Ti amo ti amo ti amo.


L’amore, da poco uscito per Feltrinelli editore, è il primo romanzo che leggo di Maurizio Maggiani e credo che sarà anche l’ultimo. E dire che l’avevo iniziato con le migliori intenzioni, incuriosita e in qualche modo anche affascinata dall'idea di raccontare attraverso gli amori passati come si è arrivati a quello “definitivo”. 

Ed è questo che succede nel libro. Ci sono uno sposo e una sposa, non più giovanissimi, che si amano. Lui, tutte le sere prima che lei si addormenti, le racconta una storia, un “fattarello”, che di solito riguarda i suoi amori passati. Le piace ascoltarli, le piace scoprire cosa ha portato suo marito a essere quello che è adesso. E lui glieli racconta volentieri, rimboccandole le coperte. Poi, al mattino, la sposa esce per andare al lavoro e lo sposo, che lavora invece da casa, continua a rimuginare su sui suoi racconti e sui suoi ricordi, sulle donne e gli amori che ha avuto, sulla loro intensità, più o meno forte e più o meno corrisposta, e soprattutto non smette mai di domandarsi quando e come ha imparato a dire “ti amo”.

Un’idea che trovo davvero molto bella e il mio entusiasmo, infatti, è rimasto alto per una buona metà del libro. Poi, a poco a poco, ha iniziato a scemare. Forse per via dello stile di Maggiani, che ho trovato sì poetico ma in modo estremamente forzato, poco convincente per me e la mia sensibilità. Forse perché mi sono persa nei pensieri e nei ricordi dello Sposo, come ci si perde quando si ascolta parlare a lungo qualcuno che, a parte qualche aneddoto o qualche battuta, proprio non riesce a tenere desta la tua attenzione. Ogni tanto si sorride (come quando racconta della loro abitudine di leggere insieme; oppure, quando all'inizio descrive la Sposa addormentata e spiega che ogni sera, se lei si dimentica, lo Sposo va e le mette il bite contro il digrignamento notturno dei denti... forse perché soffro dello stesso problema da anni ed è la prima volta che lo ritrovo in un libro), ogni tanto si annuisce e, per lo più, si pensa ai fatti propri (alla prima volta che io e mio marito ci siamo detti “ti amo”, per esempio, e al modo buffo in cui ci siamo arrivati, prima al plurale, perché anche quella era una cosa che dovevamo fare insieme; oppure a qualche tragico amore adolescenziale talmente intenso da non ricordami nemmeno più il nome dell’amato).
Non si è creata empatia, insomma, con il racconto dello Sposo. Non mi ha suscitato particolari emozioni, e anzi, a un certo punto, ho iniziato ad annoiarmi. E quando si tratta d’amore se l’emozione predominante è la noia, sappiamo tutti che si ha un grosso, grosso problema.

Eppure non mi sento di dire che L’amore sia un brutto libro. Alcune volte, soprattutto nelle descrizioni del sentimento attuale, quello tra lo Sposo e la Sposa, mi ha fatto sorridere e intenerire, come sempre mi fanno intenerire l'amore e le sue dimostrazioni quotidiane. Credo che semplicemente non sia un libro per me; che, nonostante le premesse iniziali, non sia scoccata la scintilla (portate pazienza, se un libro si intitola l’amore e parla di quello, è davvero facile usare questo linguaggio simbolico). E se Maurizio Maggiani scrive e racconta sempre così, direi che no, non siamo proprio fatti l'uno per l'altra.

Titolo: L'amore
Autore: Maurizio Maggiani
Pagine: 197
Anno di pubblicazione: 2018
Editore: Feltrinelli editore
Prezzo di copertina: 16,00 €
Acquista su amazon:
formato cartaceo: L'amore
formato ebook: L'amore

giovedì 13 settembre 2018

IL DINER NEL DESERTO - James Anderson

Non era il paradiso e non era l'inferno, solo un rettilineo che gli passava in mezzo.

Arrivata alla fine di Il diner nel deserto (che ho letto in lingua originale l’anno scorso e che esce proprio oggi in italiano per NN editore con la traduzione di Chiara Baffa), sono andata su google images e ho cercato “diner Utah”. 
Tra i vari risultati di paesaggi brulli e desertici, tra montagne e bacini d’acqua coraggiosi che tentano di trovare il loro spazio in questi luoghi impervi e quando ci riescono fanno danni enormi, c’era un’immagine che raffigurava esattamente l’idea che mi ero fatta della tavola calda di Walt, proprietario del diner che dà il titolo al romanzo e attorno a cui ruota gran parte dell’azione: un locale polveroso e solitario, affacciato su una strada statale poco battuta e circondato dal deserto quasi abbagliante, su cui spunta, qua e là, qualche casa isolata e qualche canyon. Un luogo in grado di trasmettere sicurezza e inquietudine al tempo stesso: un rifugio dopo chilometri di nulla, ma anche un posto in cui potrebbe succedere qualcosa di brutto senza che nessuno se ne accorga.

This photo of JC's Country Diner is courtesy of TripAdvisor

Il romanzo trasmette proprio questa sensazione. Un deserto sconfinato, un luogo in cui nascondersi, essere al sicuro, addormentato in una sua routine che nessuno osa o vuole mettere in discussione, ma che al tempo stesso può celare tante cose brutte, nascoste sotto una sabbia immobile da tempo ma che un soffio di vento un po' più forte può riportare in superficie.

La maggior parte dei personaggi di Il diner nel deserto ha un passato misterioso da cui fugge e in cui al tempo stesso si rifugia: Ben Jones, il camionista protagonista principale, che percorre su e giù la statale 117 per portare viveri e beni di prima necessità ai vari abitanti della zona, è stato abbandonato dalla madre quando era ancora in fasce eppure, pur non avendola mai conosciuta, alla madre pensa sempre; Walt, l’anziano proprietario del diner, in passato non è riuscito a salvare la moglie e da allora si è chiuso in se stesso e nella sua rabbia, per non dover affrontare gli altri, ma anche per non concedersi mai una tregua dai suoi sensi di colpa; Claire, questa ragazza misteriosa che è comparsa all'improvviso in una casa abbandonata vicino alla tavola calda e suona le corde di un violoncello invisibile, è fuggita dalla città e da un ex marito e ora lì, nel deserto, sembra quasi pronta a ricominciare una nuova vita; Ginny, una ragazzina adolescente che non sembra troppo preoccupata né per essere stata cacciata di casa dalla madre né per il figlio che porta in grembo e che dovrà crescere da sola; per arrivare ai fratelli Lacey e al loro solido legame.

Il diner nel deserto è il romanzo d’esordio di James Anderson, nonché primo di una, spero lunga, serie (il secondo volume, Lullaby Road, verrà pubblicato sempre da NN l’anno prossimo). L'autore ha scritto un crime che però si distacca molto dalle caratteristiche del genere: certo, c’è un mistero principale (il furto di un prezioso violoncello) dall'epilogo drammatico che avvince il lettore, prima lentamente per poi lasciarlo alla fine in balia delle piogge torrenziali e della corrente che all'improvviso arrivano e spazzano via tutto. Ma ci sono anche tante, tantissime altre cose. C'è la storia d’amore tra Ben e Claire, prima di tutto: la routine del deserto che si spezza, una deviazione che Ben fa con il suo camion e che sfocia in un rapporto improvviso, e forse per questo ancor più appassionato e potente. Ci sono i legami famigliari, in ogni loro forma possibile: quello fatto di se e di ricordi inestinti, tra Ben e sua madre; quello spezzato e così forse ancor più forte tra Walt e sua moglie; quello appena scoperto tra l'anziano e Claire; quello forse più singolare e al tempo stesso più tenero tra Ben e Ginny; l'amore fraterno che unisce i fratelli Lacey, Fergus e Duncan, e in qualche modo tutta questa comunità che vive nel deserto.
E c’è l’amicizia, quel vincolo forte che forse è il deserto stesso ad aver consolidato e che fa in modo che, anche di fronte alla situazione più critica, a quello che all'apparenza sembra il male in assoluto, nessuno giudichi nessuno.

«Mi sa che non credo più nel lieto fine.»

«Io non penso di averci mai creduto» risposi. «Ma avrei sempre voluto farlo.»
«Secondo te va bene se forse, solo per il momento, credo in un presente felice?»
«Può andare» dissi «a patto di viverlo insieme.»

Il diner nel deserto è un libro intenso, in cui il deserto funge da contenitore delle storie dei personaggi che lo popolano ma anche da protagonista, determinandone in qualche modo il destino.
Bello, davvero, davvero bello.

Titolo: Il diner nel deserto
Autore: James Anderson
Traduttore: Chiara Baffa
Pagine: 320
Anno di pubblicazione: 2018
Editore: NN editore
Prezzo di copertina: 18,00 €
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