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martedì 31 gennaio 2017

VIAGGIO SUL FIUME - Robert Nathan

«Ricorderà che tenevo pulita la casa», spiegò, «e che cucinavo bene. Ricorderà che lo facevo sentire a suo agio... ma non che lo amavo. Non ricorderà come mi sentivo tra le sue braccia. Non ricorderà com'era baciarmi».
«Vorresti che ricordasse questo?», chiese Mr Mortimer, curioso.
«Certo», rispose Minerva. «Che altro?».


Ci pensate mai a cosa rimarrà di voi nella mente di chi vi sta attorno quando non ci sarete più?  È un pensiero che non ci sfiora quasi mai, e sarebbe forse più strano il contrario, perché condizionerebbe troppo la nostra vita impedendoci a tutti gli effetti di viverla.
Però ogni tanto capita, magari di fronte a una notizia che ci sconvolge, di mettersi lì a pensare a cosa resterà di noi dopo. Chi si ricorderà di noi? E per cosa? Per tutte le cose belle che abbiamo fatto insieme, per tutti i ricordi e per tutto l’amore che ci siamo scambiati? Oppure rimarranno solo le cose pratiche, le cose quotidiane, le abitudini? E, soprattutto, possiamo ancora fare qualcosa per cambiare le cose?

Queste riflessioni, sulla vita, sulla morte e sull'amore sono il motore di Viaggio sul fiume, romanzo di Robert Nathan, pubblicato in Italia da Edizioni di Atlantide e tradotto da Gaja Cenciarelli.
  
Un pomeriggio di maggio, in una cittadina sulle sponde del fiume Missouri, Minerva Parkinson esce dall'ambulatorio del suo medico con la notizia di avere non più di due anni di vita. La notizia la sconvolge, non tanto per sé quanto per il marito Henry e per il ricordo che teme lui avrà di lei quando non ci sarà più. Sono una coppia tranquilla, Minerva e Henry. Una brava moglie e una brava casalinga lei, un impiegato contabile per un’azienda locale lui. Da giovani si amavano, tanto, e forse si amano ancora adesso, sebbene per Minerva diventi difficile riuscire a distinguere quel che è amore e quel che è pura e semplice sicurezza e abitudine. Per essere sicura di lasciare in Henry un ricordo importante decide di spendere tutti i soldi che ha messo da parte per acquistare una chiatta e partire finalmente per quel viaggio sul fiume che il marito da anni e anni sognava fare. Così si guadagnerà il suo amore e, soprattutto, si garantirà di non essere dimenticata.

Sapeva che quello che stava facendo era un gesto del tutto egoistico, benché avesse l'aspetto e il profumo della generosità. Stava spendendo parte del futuro di Henry per se stessa: stava comprando un'altra stanza nel cuore di Henry.

Harry sembra riluttante, stupito da questo strano gesto di sua moglie, ma alla fine accetta di partire. Durante una sosta del viaggio, sulla chiatta salgono altri due ospiti: Mr Mortimer, un uomo misterioso che Minerva aveva già incrociato poco prima della partenza, e Nora, una giovane e un po’ ingenua parrucchiera segnata da una salute molto cagionevole. 
Da un viaggio a due per creare ricordi, questo viaggio sul fiume diventa una strana vacanza a quattro, che modifica un po’ le volontà di Minerva nei confronti del marito e di se stessa.

Ho iniziato a leggere Viaggio sul fiume con la certezza che alla fine, se non già durante la lettura, avrei pianto come una fontana. Mi era già capitato, in passato, di leggere libri che raccontano relazioni tra persone un po’ avanti con gli anni che sanno che tra poco la loro vita finirà e di commuovermi come poche volte mi succede (mi viene in mente In viaggio contromano di Micheal Zaadorian, pubblicato da marcos y marcos, uno dei miei romanzi preferiti di sempre). Perché queste riflessioni sulla fine della vita e sugli amori che rimangono, questi viaggi d’addio, mi toccano sempre un po’.

Ma in questo libro c’è anche qualcosa di diverso della semplice storia d’amore. E lo si capisce fin dalla prima apparizione di Mr Mortimer, la cui reale natura è chiara fin da subito, e dalle discussioni che lui ha con Minerva prima e poi, nel corso del viaggio, con Henry e con Nora. Si parla di morte, con paura, certo, ma anche con curiosità, per capirne i meccanismi, i modi d’azione e se esiste, in qualche modo, la possibilità di fermarla o quantomeno di modificarne la venuta. Minerva vorrebbe farlo per se stessa, ma anche per Henry e per Nora. E la morte sembra quasi cedere alle sue richieste, colpita dal suo coraggio e dalla sua idea di amore. Quasi, però, perché contro la morte, contro il destino, in realtà, nessuno può nulla.

Alla fine, come avevo previsto, ho pianto. Per l’amore, per i ricordi, per quello che è rimasto. Ma mi sono anche stupita, per il coraggio mostrato da Robert Nathan nel trattare un argomento così importante nel 1949, e per tutte le riflessioni e i pensieri che Viaggio sul fiume, nella sua apparente semplicità, inevitabilmente fa nascere in chi lo legge.

«E quindi», disse, «cos'altro è l'amore, se non memoria?».


TITOLO: Viaggio sul fiume
AUTORE: Robert Nathan
TRADUTTORE: Gaja Cenciarelli
PAGINE:126
EDITORE: Atlantide
ANNO: 2016
ACQUISTA SU AMAZON
formato cartaceo: Viaggio sul fiume

giovedì 26 gennaio 2017

VOLTI NELLA FOLLA - Valeria Luiselli

Sapevo che non era molto sensato riporre alcun tipo di fiducia negli oggetti e che non appena ci abituiamo alla presenza silenziosa di qualcosa, questa si rompe o sparisce. Anche i legami con le persone che mi circondavano erano segnati da questi due modi della temporaneità: rompersi o sparire.


Ho comprato Volti nella folla di Valeria Luiselli, pubblicato in Italia da LaNuovaFrontiera e tradotto da Elisa Tramontin, alla fiera Più Libri Più Liberi di Roma. Stavo chiacchierando in chat con una mia amica, che mi stava raccontando di quanto le stesse piacendo questo libro che, a sua volta, le era stato consigliato da un’altra amica comune, che lo aveva amato allo stesso modo.

Questo dialogo, unito al bellissimo titolo, alla ancor più bella illustrazione di copertina a opera di Gaia Stella e al fatto che avessi sentito parlare spesso di questa scrittrice messicana senza però mai decidermi a leggere niente, mi hanno fatto venire un’improvvisa voglia di comprare questo libro. Poi è rimasto un po’ lì a guardarmi, dallo scaffale dei libri da leggere, prima che arrivasse il momento di aprirlo.

Volti nella folla è narrato in prima persona da una giovane donna, sposata con un architetto che forse la tradisce e madre di due figli piccoli. Una vita famigliare molto comune, che alla donna però inizia a stare un po’ stretta. Per evadere da questi ritmi e da queste abitudini inizia a scrivere un romanzo, in cui racconta della sua giovinezza newyorchese, quando di mestiere faceva la traduttrice e viveva di poesia, di incontri con personaggi bizzarri ed eccentrici e dormiva sempre a casa di altri. A questi racconti nel passato, si mescolano quelli nel presente, con il marito e i figli, ma anche quelli ancor più passati, con personaggi che non può aver incontrato ma che vivono comunque nella sua mente e, in qualche modo, la condizionano.
La protagonista si ritrova così a scrivere di sé e di altri, a ricordare e immaginare i tanti volti che, in mezzo alla folla, ha incontrato o abbandonato.

Volti nella folla è un libro abbastanza complesso. Il lettore entra nei pensieri della protagonista, salta con lei tra passato e presente, tra reale e immaginato, tra personaggi realmente esisti e altri che nascono e vivono solo nella sua mente. E, a un certo punto, un po’ si perde.
O almeno è quello che è successo a me.
Ho amato tantissimo la prima parte di questo romanzo e i ricordi della protagonista sul suo passato: il lavoro di traduttrice, la sua quotidianità fatta di incontri con sconosciuti a cui lasciare le chiavi di casa, fino al momento in cui le cose sono cambiate.
A volte, prima di ritornare nella sua cittadina, veniva nel mio appartamento a farsi un altro bagno e cenavamo con gli avanzi di quello che aveva cucinato il venerdì. Parlavamo dei libri che aveva venduto; parlavamo di libri in generale. A volte, la domenica, facevamo l'amore.

Così come ho amato anche il presente: il marito che legge quello che lei scrive da sopra la sua spalla e poi si interroga sulla sua veridicità, ma anche i sospetti che nei confronti dell’uomo la protagonista inizia a provare; e poi i figli e gli strani vicini di casa.

Mio marito mi chiede se è vero che non riesco a dormire dopo aver fatto sesso.
«A volte.»
«E che fai quando io mi addormento?»
«Ti abbraccio, ti ascolto respirare.»
«E poi?» insiste.
«E poi niente, poi mi addormento.»

A un certo punto, però, non ho quasi più capito che cosa stessi leggendo. Troppi personaggi che si mescolano, troppi incontri, e quel confine, tra reale e immaginato, valicato troppo di frequente. Può darsi fosse un effetto voluto, che portasse il lettore a perdersi tra i mille volti della folla che ci circonda e che spesso nemmeno esiste. Però, ecco, mi rimane la sensazione, anche dopo un paio di giorni dal termine della lettura, di essermi persa qualcosa, di non essere stata in grado di comprendere appieno il senso del libro.
Lo stile di Valeria Luiselli è incredibile. Mi sono piaciute le sue frasi, i suoi costrutti, il suo modo di osservare il mondo e descrivere i rapporti che si creano.

Anche se mi ci sono persa, anche se non sono sicura di aver capito tutto, Volti nella folla è sicuramente un libro da leggere. Per il modo in cui è narrato e per tutta una serie di piccole riflessioni, sulla vita e su quello che si è o non è, che fa nascere leggendo.


TITOLO: Volti nella folla
AUTORE: Valeria Luiselli
TRADUTTORE: Elisa Tramontin
PAGINE:169
EDITORE: laNuovafrontiera
ANNO: 2015
ACQUISTA SU AMAZON
formato cartaceo: Volti nella folla

lunedì 23 gennaio 2017

UN SOLO PARADISO - Giorgio Fontana

«Te l’ho già detto. Ero convinto di non essere in grado di amare. E non avendo particolari ambizioni nella vita, ho finito per obbedire a questa legge: mi sono accontentato. È triste, ma anche – come dire – igienico. In ogni caso funzionava alla perfezione, persino io ne ero stupito. Ti accorgi di come la ricerca della felicità abbia qualcosa dell’inganno».
«Ma è impossibile informarsi in questo modo», disse lei. «Scusa, ma la trovo un’idiozia».
«Vero. Eppure mi ha risparmiato parecchia sofferenza. Prima non avevo idea di cosa desiderassi, di cosa volessi fare della mia vita. Poi con il tempo ho imparato a non pensarci più. Il desiderio mi sembrava una cosa sopravvalutata. Se te ne sbarazzi, ottieni la libertà».
«E invece ora?».
«Ora ci sei tu», disse Alessio.

(Questa mio recensione è stata pubblicata su Ultima pagina il 10 gennaio 2017)

Alessio ha quasi trent’anni e non si è mai innamorato. Credeva di non averne bisogno. Credeva che l’amore e la felicità non fossero indispensabili o che, semplicemente, non dovesse né aspettarli né tantomeno cercarli. Bisogna accontentarsi di quello che si ha, non desiderare niente, per poter sopravvivere. “Un dolceamaro contentarsi”, lo chiama, fatto di un lavoro stabile lontano dal paesino di montagna in cui è cresciuto e a cui non ama tornare e dalla sua famiglia; fatto di viaggi in solitaria e di musica jazz. Finché nella sua vita non entra Martina, una ragazza dalla risata un po’ rumorosa, che parla poco di sé e sfugge da un amore passato che ancora la tormenta. La ragazza lo travolge, lo fa innamorare e poi stare male, come succede con quasi tutti gli amori. Ma Alessio da questa sofferenza non riesce a riprendersi. Diventa un’ossessione, che lo porta a chiudersi in se stesso, a deprimersi, a non saper più vivere.

Dopo Morte di un uomo felice, con cui ha vinto il Premio Campiello 2014, Giorgio Fontana mette da parte le tematiche storiche e sociali e in questo suo nuovo romanzo, Un solo paradiso, pubblicato ancora da Sellerio editore, decide di raccontare una storia d’amore. Un uomo che non cerca e non vuole l’amore, che si accontenta di quello che fa, forse per paura di soffrire, forse perché più semplice. Finché l’amore non arriva, lo travolge, e poi lo distrugge, mostrando quanto si possa essere fragili quando si perde qualcosa e, soprattutto, quanto difficile sia sopportare il dolore della fine della felicità.
Si accorse che fino a quel momento non aveva capito nulla di quanto gli fosse successo. Ma ora, infine, comprese: non aveva perso l’amore. Quello era sempre possibile, come gli aveva detto Laura. Aveva perso unicamente lei, un semplice essere umano – e questo era mille volte peggio.
La storia di Alessio viene raccontata tramite un espediente abbastanza classico: un ragazzo, appena rientrato a Milano dopo aver lavorato per qualche tempo a Roma, entra nel bar che frequentava da giovane con il suo gruppo di amici. Amici che ha perso di vista, come succede spesso quando si diventa adulti e le vite prendono cammini diversi, e di cui non ha saputo quasi più nulla. In quel bar, su uno sgabello, c’è Alessio che beve. I due si salutano, si scambiano banali convenevoli e poi Alessio decide di riversare tutta la sua storia con Martina e tutta la sua sofferenza su questo amico che non vede da un anno e che sa che non rivedrà più. Beve e racconta. Racconta e beve. Poi, alla fine, si alza e se ne va, perché nonostante sia passato ormai del tempo, nonostante sappia che il dolore quasi sempre passa, non sa come fare a uscirne, non sa se esista una soluzione per sopravvivere.
Alessio era passato attraverso la solitudine dell’adolescenza in quel posto dimenticato da dio, l’aggressione del padre, il fratello in prigione; era passato attraverso le infamie di vecchi amici, i lavori umilianti, la morte di una cugina cui era tanto legato; tutto il cumulo di problemi che non rivelava a nessuno per decenza o vergogna: e dunque perché ora non era in grado di riaversi?
Perché comprese questo – il vero punto della storia, come mi disse finalmente al Ritornello: si sopravvive a tanti inferni, e non a un solo paradiso.
A far da sfondo al romanzo c’è Milano, una città che Giorgio Fontana conosce e ama molto, e a cui dedica un ritratto bellissimo. È quasi una protagonista, che assiste alle gioie, ai dolori, agli amori, ai ritorni, agli addii di chi la vive, cambiando il suo aspetto di pari passo con gli stati d’animo dei protagonisti. Dal centro alla periferia. Da una città piena di luce e colori, a un posto grigio, triste, che inghiotte chi lo popola e se lo porta via.
Ecco cos’era Milano. Era una città di addii. Gli amori terminavano regolarmente a ogni ora, nei luoghi più imprevedibili: lo spazio di un abbraccio consumato di fronte al parcheggio di Bisceglie, al limite urbano occidentale. Uno schiaffo di fronte alla Biblioteca Sormani. Uomini e donne la cui sola presenza era ormai diventata intollerabile: si mormoravano addii inferociti in letti di viale Lomellina, di via San Marco, di piazzale Brescia: matrimoni terminati da una firma, o interrotti bruscamente senza altre parole.
Con Un solo paradiso, Giorgio Fontana dimostra di saper parlare anche d’amore, di saper affrontare con uno stile impeccabile e profondo il tema forse più banale e comune del mondo, quello della fine di una storia, analizzandone gli aspetti più controversi, più difficili, più brutti. Tutti, almeno una volta nella vita, hanno subito una perdita e un dolore così forti come solo la fine di un amore può provocare. Quasi tutti ne escono, riprendono in mano ciò che resta di se stessi e continuano la loro esistenza. Poi ci sono quelli che invece non ci riescono: come Alessio e Martina. Che passano da un «dolceamaro contentarsi» a un paradiso andato in frantumi, al cui cospetto non si può far altro che arrendersi. 

Titolo: Un solo paradiso
Autore: Giorgio Fontana
Pagine: 208
Anno di pubblicazione: 2016
Editore: Sellerio
ISBN: 9788838935466 
Prezzo di copertina: 14 €
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formato cartaceo: Un solo paradiso
formato ebook: Un solo paradiso

giovedì 19 gennaio 2017

NON SCRIVERE DI ME - Livia Manera Sambuy

Ha senso raccontare tutto questo? Non lo so, non credo stia a me dirlo. So solo che è la mia vita, la vita di una persona che ha fatto del leggere il proprio mestiere, e che nel corso del tempo ha coltivato la convinzione che abbiamo bisogno di storie perché le storie ci aiutano a vivere.


Di letteratura anglo-americana io non so praticamente niente. Non è un granché, come inizio di una recensione di un libro che parla di scrittori americani, me ne rendo conto, ma credo sia giusto essere onesti fin da subito. Certo, qualche autore lo conosco e qualcuno l'ho anche amato tantissimo: penso a Philip Roth, a Paul Auster, a Williams, a Saunders, a Carver, a Franzen e alla Strout, giusto per citare i primi che mi vengono in mente. Uh sì, e ci sono anche Hemingway, Capote, Fitzgerald e Salinger. 
Però, ecco, mi limito a conoscerne qualche romanzo o qualche racconta di racconti, senza avere ben chiaro, se non a semplice logica, quale sia il loro ruolo nel panorama letterario americano. E mi va bene così, se devo dire la verità, perché per quanto bella e affascinante sia indubbiamente la letteratura americana, mi sembrerebbe un po’ un peccato concentrarmi esclusivamente su quella e quasi ignorare tutte le altre.
Forse è per questo motivo che a Non scrivere di me di Livia Manera Sambuy, pubblicato da Feltrinelli nel 2015, ci sono arrivata così tardi. E quasi per caso, aggiungerei, perché il libro mi è stato messo in mano durante una discussione riguardo alle copertine Feltrinelli e al fatto che non sempre siano così ben riuscite. Questa, che riporta un’illustrazione di Adrian Tomine, le cui illustrazioni hanno fatto spesso da copertina al The New Yorker, è forse la più bella degli ultimi anni.

© Adrian Tomine (fonte: http://bit.ly/2iMHDMx)

Ma veniamo a Non scrivere di me, una raccolta degli incontri fatti dalla stessa Livia Manera Sambuy, giornalista specializzata in letteratura ango-americana che scrive sul Corriere della Sera, con alcuni grandi scrittori e grandi scrittrici americani nel corso degli anni.
E così il lettore si ritrova a Parigi, a casa di Mavis Gallant, scrittrice amatissima in America ma poco conosciuta in Europa, che Livia Manera Sambuy incontra ormai da anziana, un po’ intimorita per quella fama di donna dal brutto carattere che la accompagna, dopo che i suoi racconti le hanno tenuto compagnia da giovane, quando se ne è andata dall’Italia in cerca di una nuova vita.

Si chiamava Mavis Gallant, ed era una ragazza di ventotto anni – parliamo del 1950- indipendente, coraggiosa, senza un soldo e senza amicizie, ma così ricca di immaginazione narrativa, senso dell’umorismo e intelligenza, da scrivere una cosa che mi ha sempre divertita. E cioè che a Parigi le storie d’amore e i matrimoni finiscono tra le sette e le otto di sera, l’ora della pioggia e dei taxi introvabili, quando in tutta la città ci sono coppie che si separano per sempre, lasciando lungo i marciapiedi rottami di cene al ristorante annullate, biglietti per il balletto inutilizzati e brandelli di orgoglio.

Poi, il lettore va a New York, seduto al tavolo di un ristorante con l’autrice, Philip Roth e Judith Thurman, la grande biografa di Karen Blixen e poi di Colette, che rivela quanto possa essere difficile andare d’accordo con i personaggi di cui si racconta la vita.

Da New York si passa a uno sperduto McDonald’s in una stazione di servizio, tra Chicago e Bloomington, a incontrare David Foster Wallace. Lo scrittore è già un mito, per i suoi libri ma anche per il suo modo schivo di rapportarsi con gli altri. 
Poi si torna a New York, per conoscere Joe Mitchell, e poi a incontrare Richard Ford, famoso per il suo grande legame con Carver e per la sua suscettibilità di fronte alle recensioni negative, come per esempio quella della scrittrice Alice Hoffman apparsa sul New York Times.

Quando gli chiedo com'è andata, dice che veramente è stata sua moglie, Kristina, a prendere un libro di Alice Hoffman, portarlo in giardino, prendere la mira e piantargli dentro una pallottola. Lui ha sparato solo per secondo, dice. Poi ha messo il libro in una busta e lo ha spedito all'autrice. Quando vede che non riesco al trattenermi dal ridere di complicità - siamo amici- si schermisce: "Francamente, non ho mai capito perché questa storia abbia fatto tanto rumore. Ho sparato al libro, mica a lei".

Poi si va da James Purdy e Paula Fox, per finire con l’incontro con Philip Roth, con cui negli anni Livia Manera Sambuy ha instaurato un vero e proprio rapporto di amicizia, che ha portato al documentario “Philip Roth: Unmasked”.
Il grande legame con Philip Roth, in realtà, traspare in quasi tutti i racconti dell’autrice. È stato lui a presentarle Judith Thurman, per esempio, e lui a fare una bellissima disamina sull'importanza dei McDonald’s.

Ma a New York, nella zona di Broadway all'altezza della Novantesima Strada, Philip Roth mi aveva insegnato che è un errore snobbare i McDonald's. Diceva che svolgono una funzione sociale importante, accolgono gente povera e famiglie intere che possono starci ore spendendo poco e usufruendo di bagni puliti. Una sera, passando davanti alle vetrine di uno di questi fast food dell'Upper West Side mentre facevamo una passeggiata notturna, mi aveva fatto notare che seduti a quei tavoli c'erano anziani che vivevano soli nelle case d'affitto vicine, e passavano lì le serate per vedere un po' di gente e rifornirsi di tovagliolini e carta igienica. "Ci vanno i vecchi, bianchi e neri, ci vanno le famiglie con tanti bambini - dove altro potrebbero permettersi di sfamarli?" mi aveva detto aprendomi gli occhi su un aspetto dell'America che non avevo mai preso in considerazione. "Di notte ci vanno i poliziotti, i travestiti, le prostitute, i teenager, e qualche volta ci vado anche io, a sorseggiare una Coca e a vedere che aria tira".

È un libro molto bello, questo Non scrivere di me. Un libro che ti fa provare un po’ di invidia per Livia Manera Sambuy e per le possibilità che ha avuto di conoscere questi grandi nomi e, spesso, di diventarne amica. Certo, alcuni autori, onestamente, proprio non li conoscevo e il racconto dell’autrice, la sua famigliarità,  mi hanno fatto sentire un po’ ignorante. Ma non importa, perché questi ritratti di scrittori sono, in realtà, ritratti di esseri umani, con il loro caratteraccio, le loro manie, le loro fragilità, la loro ironia e i loro ricordi. A volte fanno sorridere, a volte riflettere, e sì, ogni tanto anche un po' commuovere. Bello, bello davvero.


Titolo: Non scrivere di me
Autore: Livia Manera Sambuy
Pagine: 206
Anno di pubblicazione: 2015
Editore: Feltrinelli editore
Prezzo di copertina: 16 €
Acquista su Amazon:
formato cartaceo: Non scrivere di me
formato ebook: Non scrivere di me

lunedì 16 gennaio 2017

NON È IL MIO GENERE! E invece (forse) sì! - Racconti

Sabato 14 gennaio si è tenuto il secondo incontro di Non è il mio genere! E invece (forse) sì, il ciclo di appuntamenti organizzato da me, Claudia di Il giro del mondo attraverso i libri e Stefania della libreria Sulla parola di Caluso.

Dopo il primo appuntamento, dedicato ai romanzi gialli e thriller, protagonisti questa volta sono stati i racconti. Un genere un pochino bistrattato, di solito ignorato dai più ma che ora sta riuscendo, piano piano, a ritagliarsi il suo spazio e la considerazione che si merita.
Credo che ormai sia quasi inutile ripetere quanto io adori questi pomeriggi: le sedie erano, di nuovo, tutte piene, e alle presentazioni dei libri si sono alternate come sempre chiacchiere, risate, gossip letterari (e non).

Inutile non è, invece, ringraziare ancora una volta tutti i partecipanti: Claudia e Stefania, che insieme a me hanno messo in piedi questi incontri, e tutte le altre persone che hanno deciso di trascorrere con noi il loro sabato pomeriggio.

©Il giro del mondo attraverso i libri

Ma veniamo ora alle raccolte di racconti consigliate. Mentre se ne parlava, molto spesso per definirle sono state usate parole come "strano", "particolare". Forse che gli scrittori di racconti, in poco spazio, se la sentano di osare un po' di più con le stranezze? O magari siamo noi che in un racconto cerchiamo il particolare, qualcosa che in un romanzo quasi sempre non si trova? Una domanda che ci siamo posti, durante l'incontro, e che ora giro anche a voi.

Intanto che ci pensate, ecco qui l'elenco dei consigli arrivati. Come sempre, nel caso il libro sia stato consigliato e recensito su uno dei nostri blog, trovate il link nel titolo.


Anna - Niccolò Ammaniti (Einaudi)

La sognatrice di Ostenda - Eric-Emmanuel Schmidt (e/o)

Dieci dicembre - George Saunders (minimum fax)

Dodici racconti raminghi - Gabriel García Márquez (Mondadori)

Incubi e deliri - Stephen King (Mondadori)

Moby Dick e altri racconti brevi - Alessandro Sesto (Gorilla Sapiens editori)

Undici solitudini - Richard Yates (minimum fax)

Bugiardi e innamorati - Richard Yates (minimum fax)

Scusate il disordine - Luciano Ligabue (Einaudi)

Non ho ancora finito di guardare il mondo - David Thomas (marcos y marcos)

La pazienza dei bufali sotto la pioggia - David Thomas (marcos y marcos)

Il pappagallo che prevedeva il futuro - Luciano Lamberti (gran via)

Sono il guardiano del faro - Eric Faye (Racconti edizioni)

Alla conquista della luna - Emilio Salgari (Cliquot)

Tra cielo e colline - Antonella Saracco (Araba Fenice) 

Nessuno accendeva le lampade - Felisberto Hernández (la Nuova frontiera)

Il viaggiatore - Stieg Dageman (Iperborea)

Il vento distante - Emilio Pacheco (SUR)

Ottaedro - Julio Cortázar (Einaudi) 

Sessanta racconti - Dino Buzzati (Mondadori)

Il prossimo incontro si terrà sabato 18 febbraio e, vista la vicinanza con San Valentino, sarà dedicata ai ROMANZI ROSA. Sempre alle 16, sempre alla libreria Sulla parola di Caluso.
Preparate i consigli... e i fazzoletti.

giovedì 12 gennaio 2017

IL PESO MINIMO DELLA BELLEZZA - Azzurra de Paola

Come se sbagliare a fin di bene fosse meno grave che sbagliare e basta. Come se i problemi creati da qualcuno che ti ama siano meno gravi, meno importanti, meno colpevoli. Invece sono quelli che ti arrecano più danni. Proprio perché vengono da qualcuno che ti ama e di cui ti fidi e al quale credi, e che pensi mai mai mai possa farti del male. Invece poi un giorno ti svegli e capisci che quella persona si era sbagliata. Ops. Aveva valutato male, si era fatta male i conti sulla tua vita. Sulla tua pelle. E che ti ritroverai una serie di crepe da chiudere o storture da raddrizzare. E che per farlo ti ci potrebbe volere tutto il tempo che hai a disposizione. E che potresti addirittura non riuscirci.

Quello tra una madre e un figlio maschio, soprattutto se figlio unico, è il rapporto famigliare che forse mi spaventa di più.
Sarà che sono femmina, sarà che non sono figlia unica e non ho mai avuto con i miei genitori un qualche rapporto puramente esclusivo; sarà che non ho mai avuto (per fortuna, aggiungerei) motivo di ricevere più attenzioni di mio fratello e mia sorella; e magari anche che ho avuto diverse esperienze, più o meno dirette, di quanto esclusivo e respingente possa essere il rapporto madre-figlio maschio per chi prova ad avvicinarsi … fatto sta che mi ha sempre un po’ spaventato, perché se non si riesce a trovare il giusto equilibrio, almeno da una delle due parti, questo legame può condizionare tutti gli altri. Fortunatamente i casi in cui questo equilibrio non si trova sono rarissimi, ma esistono.

Uno di questi è quello che racconta Azzurra de Paola in Il peso minimo della bellezza, il suo bellissimo romanzo d’esordio, pubblicato a ottobre 2016 da LiberAria editrice.

Ci sono una madre e un figlio maschio. Di lei leggiamo solo alcune pagine di diario, mentre al figlio è affidata l’intera narrazione di questo loro rapporto.
Lui si sente oppresso, come se la madre lo avesse messo al mondo solo per sentirsi meno sola, per soddisfare il suo egoismo e colmare quel bisogno di attenzione che ha caratterizzato da sempre tutta la sua vita. E lui si vendica di questo egoismo, di questa esclusività, di questa eccessiva protezione della madre, contrastando, in modo inconsapevole da bambino, sempre più palese una volta cresciuto, ogni suo tentativo di essere felice. Non vuole che nessuno si metta tra loro, mai.
Nemmeno il Dottore, una figura che è nella loro vita da sempre e che di amore ne avrebbe da dare tanto, a entrambi. Ma entrare in un rapporto così esclusivo, quasi morboso, è praticamente impossibile e, a un certo punto, nonostante l’amore, nonostante la voglia di combattere, nonostante gli sforzi, non si può che cedere.
Fino a quando ti ha abbracciata ed è stato una specie di riscatto su tutto quel dolore. Ti ha riscattata e per un attimo ti sei sentita finalmente bene. È difficile dire con parole che faccia avesse il tuo Dottore mente ti stringeva ma era sollevato. Come se fosse in pace solo con te dentro la sua stretta che gli bagni la spalla con le lacrime che si vanno asciugando. Crediamo al lieto fine, sembravi dire.
Crediamoci, pensavi.
Ma dopo un po’ di tempo niente importa più perché non è di speranza che si alimentano le storie. La vita non è così che va avanti. Non è di speranza che si mangia e non ci si apparecchia la tavola e non ci si riempie la pancia.
Il peso minimo della bellezza è un romanzo bellissimo, vi dicevo. Per il modo in cui è scritto, con questi momenti crudi, oscuri, quasi violenti e dolorosi che si contrappongono alla poeticità dell’amore, nella sua impossibilità, reale o immaginaria, di essere vissuto e nel rimpianto che lascia.
Però bisogna avere il coraggio di innamorarsi di qualcuno. Non ci si può aspettare che faccia tutto da solo. Devi capire quando è il momento di smettere di avere paura. Forse sarà una gran fregatura e forse tra cinquant'anni sarà a qui a pensare a cosa regalargli dopo cinquanta anniversari.
Ma è un romanzo bellissimo anche per l’onestà con cui racconta questa storia, questo legame madre e figlio. Uno scambio di colpe, di recriminazioni. Un circolo vizioso di egoismi che nascono da quella che dovrebbe essere la forma di amore più pura e più scontata e che invece, qui, portata volutamente all'esasperazione, arriva a condizionare e distruggere la vita di chi lo vive e lo subisce.
Azzurra de Paola racconta una storia che fa commuovere, che fa riflettere e fa anche un po’ male. Un libro sull'amore, sul troppo amore, e sull'incapacità di contenerlo, di gestirlo, di viverlo.


Titolo: Il peso minimo della bellezza
Autore: Azzurra de Paola
Pagine: 173
Anno di pubblicazione: 2016
Editore: LiberAria editrice
Prezzo di copertina: 12 €
Acquista su Amazon:
formato cartaceo: Il peso minimo della bellezza

lunedì 9 gennaio 2017

ORFANI BIANCHI - Antonio Manzini

Chi è il colpevole? La storia, il nostro paese, il capitalismo, la fame, la sventura, il destino? Se lo scelga lei. Però su una cosa vorrei farla ragionare. Che paese è quello che ti costringe a partire e andare a vivere in una famiglia straniera incapace di badare ai propri anziani costringendoti a sputare sulla tua?

Non è stato semplice decidere con quale aneddoto personale legato al mondo delle badanti iniziare la recensione di Orfani Bianchi, l'ultimo romanzo di Antonio Manzini pubblicato da Chiarelettere.

Quello della zia di mia madre, che, stando a certe leggende tramandate dai parenti, ha cacciato quattro o cinque badanti, tra cui una inseguendola con il bastone, prima di trovarne una con cui andasse talmente d’accordo da insegnarle addirittura la sua ricetta segreta per fare la pasta? Quello di quella ragazza che sarebbe dovuta arrivare a casa dei miei genitori verso le 10.30 di una mattina di agosto del 2002 e che ancora oggi non si è vista? O quando quella volta mi sono ritrovata coinvolta in un’assurda conversazione con una persona che sosteneva che tutte le badanti sono brutte persone, perché chi parte e lascia i propri figli è sicuramente una cattiva madre (rimanere senza aver nulla da dare da mangiare, a questi figli, è molto meglio invece)?

Ne avrei anche altri a disposizione, in realtà, alcuni bruttissimi, altri molto belli, accumulatisi nel corso degli anni. Ma pensandoci quello che più mi sembra adatto per parlarvi di questo libro è successo pochi giorni fa, proprio il giorno dopo averlo finito. Ero in una sala d’aspetto all’ASL e, nell’attesa, ho scambiato due chiacchiere veloci con uno sconosciuto, che mi raccontava trafelato che era tutta la mattina che rimbalzava da un ufficio all’altro per recuperare tutto il necessario per il ritorno a casa dall’ospedale di qualcuno. Era preoccupato di non farcela, che il letto e il materasso non arrivassero in tempo, che mancasse sempre qualcosa. Era preoccupato di ritrovarsi completamente impreparato. 
Questo aneddoto, abbastanza banale (e comune, se bazzicate un po’ in quegli ambienti dell’ASL), mi ha fatto capire quanto davvero mi avesse fatto arrabbiare la lettura di Orfani Bianchi di Antonio Manzini.

Il romanzo racconta la storia di Mirta, una giovane donna moldava trasferitasi a Roma in cerca di lavoro, per poter mantenere il figlio Ilie, rimasto a casa con la nonna. All’inizio, Mirta lavora come badante, poi, quando il figlio della signora che accudisce decide di mettere la madre in casa di riposo per venderne la casa, si ritrova a vivere in un minuscolo appartamento con altre donne e a far le pulizie, con uno stipendio ridicolo. Proprio in quei giorni, Mirta viene raggiunta dalla notizia della morte della madre. La donna torna in patria per il funerale e, soprattutto, per cercare di capire che cosa fare adesso con il figlio: a Roma con sé non lo può portare e nessuno dei pochi, e poverissimi, abitanti del suo paese può ospitarlo. Resta solo una soluzione, quella più terribile: metterlo in un internat, una sorta di orfanotrofio che raccoglie sia i bambini rimasti senza genitori sia quelli, come Ilie, che li hanno all’estero, in cerca di lavoro e di fortuna. Gli orfani bianchi, appunto. Tutti sanno quanto tristi e squallidi siano quei luoghi. Quanta sofferenza ci sia. Ma Mirta non vede altra soluzione e si convince che sarà solo una cosa temporanea. Quindi lascia il figlio lì e riparte per Roma. La fortuna, fin a quel momento avversa, sembra a un certo punto girare: grazie all’intervento dell’amico Pavel, Mirta riesce a trovare un nuovo lavoro come badante, in una lussuosa villa su un colle romano, che le garantisce uno stipendio altissimo. Mirta deve solo resistere qualche mese, tra le angherie della anziana signora che accudisce e il clima da caserma impostole dall’intera famiglia che l’ha assunta, e poi potrà andare a riprendere Ilie e iniziare una nuova vita. Ma qualcosa, ancora una volta, va storto.

Dicevo che Orfani bianchi mi ha fatto arrabbiare molto, anche se me ne sono resa conto solo da un certo punto in poi. Fino a circa metà, lo stavo trovando un libro molto bello e, soprattutto, stavo provando una pena infinita per Mirta e per la sua vita sfortunata, che è molto comune a quella di tanti, tantissimi stranieri dell’est che sono qui in Italia per sfuggire alla povertà del loro paese e per garantire a chi invece ci è restato una vita migliore.

Antonio Manzini, però, secondo me fa due errori. Il primo è nel finale, che ho trovato molto frettoloso, con tanti, troppi elementi presentati e poi lasciati lì (che ne è della signora Eleonora, per esempio?), e soprattutto tanto, troppo, davvero troppo tragico. Cercava forse la lacrima, la commozione, l’eccessivo stupore nel lettore. Certo, non mi aspettavo un lieto fine, questo no. Ma nemmeno che tutto finisse così, velocemente.

Il secondo errore per me è ancora più grave, ed è quello che più in assoluto mi ha fatto arrabbiare. In Orfani bianchi si generalizza troppo: italiani cattivi, italiani menefreghisti, italiani incapaci di accudire i propri cari. E ce ne sono, in effetti. Ce ne sono anche tante, di persone che ricorrono alle badanti o alle case di riposo per menefreghismo. Ma ce ne sono anche tante, tantissime che invece cercano questo genere di aiuto perché semplicemente non hanno altra soluzione, perché semplicemente da soli non ce la possono fare. Tantissime persone che farebbero di tutto pur di garantire il massimo benessere possibile alle persone a cui vogliono bene, anche fare su e giù tra mille uffici in una fredda mattinata d’inverno, come il signore che ho trovato l’altro giorno nella sala d’aspetto.
Non c’è assolutamente nulla di male o di deprecabile, nel farsi aiutare da qualcuno.
E poi, anche tra le badanti, di qualunque nazionalità siano, ci sono persone oneste e persone disoneste, persone eccezionali e altre davvero spregevoli. 
In questo libro, la dicotomia, la contrapposizione è davvero troppo forte, troppo generalizzata, con continue citazioni che fanno riferimento a quanto ingrati, anzi stronzi, siano gli italiani.
Adesso siamo lontani, tanti chilometri ci dividono, ma presto le cose andranno meglio e noi non saremo mai una famiglia così. Io se potessi starei lì, accanto a te e a nonna a vivere insieme e fare le cose insieme. Qui in Italia ognuno vive per i fatti suoi. Hanno tutto ma sorridono poco e non gli viene da essere felici. Per questo la signora Olivia mi fa una tenerezza enorme. La lasciano qui, con me, un'estranea che viene da lontano. E quando se ne andrà, forse avrà solo i miei occhi accanto. Quelli di una sconosciuta che le sta vicino solo per il mensile.
Questa scelta, probabilmente voluta, per estremizzare al massimo il concetto, butta al vento la possibilità di aprire una riflessione più seria e più profonda su un tema di cui, in effetti, non si parla poi così tanto.

Orfani bianchi è sicuramente scritto bene (non credo ci sia bisogno che sia io a dire che Antonio Manzini sa scrivere bene) e altrettanto sicuramente mette bene in luce la povertà e la disperazione che spingono persone a lasciare il proprio paese e la propria famiglia in cerca di un posto migliore. Però forse ha calcato un po’ troppo la mano, forse conosce troppo poche storie di famiglie che hanno fatto ricorso a una badante per accudire qualcuno e si è fermato alla soluzione più facile, quella che fa più scalpore e fa più indignare.
Sbagliando, secondo me.


Titolo: Orfani bianchi
Autore: Antonio Manzini
Pagine: 256
Editore: Chiarelettere
Anno: 2016
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formato cartaceo: Orfani bianchi
formato ebook: Orfani bianchi

mercoledì 4 gennaio 2017

IL MUGGITO DI SARAJEVO - Lorenzo Mazzoni

«[...] Mi piaceva l'idea della mucca perché, a volte, la senti che muggisce da qualche parte. Non è spaziale un bovino che sopravvive nella Sarajevo assediata?»

Non avevo nemmeno dieci anni quando è scoppiata la guerra in Bosnia ed Erzegovina e non mi ricordo quasi nulla. Troppo piccola io per interessarmene allora e troppo recente come storia per essere poi studiata a scuola. Ho solo qualche ricordo molto vago, che si concentra soprattutto su quando la Jugoslavia è poi diventata ex- Jugoslavia.

Per questo sono stata molto attratta da Il muggito di Sarajevo di Lorenzo Mazzoni, pubblicato da Edizioni Spartaco. Volevo provare a colmare una mia lacuna e, come quasi sempre mi capita in questi casi, volevo farlo tramite un romanzo. Di Lorenzo Mazzoni, poi, avevo già letto e amato molto l’opera precedente, Quando le chitarre facevano l’amore, uscito per lo stesso editore, quindi avevo nei suoi confronti una certa fiducia sul fatto che si sarebbe trattato di un bel libro.

E quindi eccomi nella Sarajevo del 1993, dilaniata dalle continue rappresaglie tra serbi e bosniaci, in compagnia della giovane Amira, della sua cigar box guitar e del suo sogno di diventare una rockstar. Ma anche insieme a Carlo e Oscar, due fotoreporter italiani che arrivano in una città assediata inseguendo una leggenda all'apparenza un po' folle. Sono andata con Mozambik l’irlandese a rubare i generi di prima necessità, per essere sicuri che arrivasse davvero a chi ne avesse bisogno. Sono finita poi in mezzo a cecchini dei servizi segreti serbi con la passione per Barbra Streisand e nel cortile di Ivan, un negoziante di tabacchi che ha convertito il suo negozio in una fumeria d’oppio. E in questo mio viaggio per Sarajevo, sono stata sempre accompagnata da un muggito, a volte lontano, a volte talmente vicino da sembrare che ci fosse davvero una mucca accanto a me.

Attraverso questi personaggi, a volte crudeli e spietati, altre un po’ ingenui, altre semplicemente desiderosi di non arrendersi mai, di combattere e di non piegarsi al destino, Lorenzo Mazzoni crea un ritratto fedele di una città assediata, riuscendo a trasmetterne ogni sfumatura e ogni contraddizione. La paura e il terrore. La violenza e le ingiustizie. Ma anche i sogni, gli amori e la voglia di non arrendersi mai. Il tutto a tempo di musica, quella che Amira suona e compone con il suo strano strumento musicale, e di muggiti.
Prima di andare a recuperare la sua Golf crivellata ripensò un'altra volta alla questione della mucca. Sorrise. Sarajevo era il posto più pazzesco del mondo.
Il muggito di Sarajevo è un gran bel romanzo. Bello per il modo in cui è nato, che Lorenzo Mazzoni racconta nella nota finale. Bello per il modo in cui viene raccontata la storia di una città e delle tante vite che la popolano. 
Bello per quella piccola speranza che ti lascia alla fine, nonostante tutto.


Titolo: Il muggito di Sarajevo
Autore: Lorenzo Mazzoni
Pagine: 252
Editore: edizioni spartaco
Anno: 2016
Acquista su Amazon:
formato cartaceo: Il muggito di Sarajevo

lunedì 2 gennaio 2017

LE ENTUSIASMANTI AVVENTURE DI MAX MIDDLESTONE E DEL SUO CANE ALTO TRECENTO METRI - Tito Faraci & Sio


Non ricordo esattamente quando mi sono imbattuta per la prima volta in Scottecs, il fumetto nato dalla penna di Sio. So però che è solo da un anno a questa parte che le sue strisce mattutine sono diventate un appuntamento quotidiano. Entro in Facebook al mattino e tra le prime cose che cerco ci sono i suoi buffi e stilizzatissimi personaggi e, soprattutto, le sue vignette nonsense. Le adoro. 
Adoro la loro totale assenza di logica e il modo in cui questa assenza le rende così divertenti. Mi è capitato di stare a fissarle per qualche minuto prima di riuscire a capirle del tutto, per poi concludere con “non so se questo sia un pirla o un genio”. Ma ridere, be’, ho sempre riso un sacco.

Quando ho saputo che Sio avrebbe pubblicato per Feltrinelli un libro insieme a Tito Faraci, uno degli sceneggiatori storici di Topolino, la curiosità è stata tanta, tantissima, unita però a un po’ di scetticismo. Si tratta di un fumetto? Di un romanzo? Di una storia completamente priva di senso? Ci avrei capito qualcosa? E, soprattutto, mi avrebbe fatto ridere come le vignette quotidiane?
Quando ho aperto per la prima volta Le entusiasmanti avventure di Max Middlestone e del suo cane alto trecento metri e ho letto la grandissima citazione di Jonathan Coe riportata nell'esergo, in effetti, ho riso. Tantissimo. E ho continuato a ridere fino all’ultima pagina.
La grandissima citazione di Jonathan Coe in esergo al libro

Il libro inizia con una piccola lezione su come interpretare correttamente la sceneggiatura di un fumetto. Nella pagina di sinistra ci sono le spiegazioni di Tito Faraci, in quella di destra i disegni esplicativi di Sio (o meglio, interpretati “alla Sio”). 
Una volta capita la differenza tra “primo piano”, “piano americano”, “figura intera”, “mezzo busto”, “campo lungo”, “campo lunghissimo” e tutte le altre nozioni di sceneggiatura, si passa alla storia vera e propria: protagonista è Gregory Rosboff, un contadino del Wisconsin che parte in cerca delle radici della sua famiglia e si ritrova non si sa bene come in Russia, nel bel mezzo di un complotto per rovesciare lo zar. In questa sua avventura farà la conoscenza di tutta una serie di buffi personaggi, alcuni gentilissimi, altri cattivissimi, e una santa. E, a rendere ancor più strane le cose, c’è un libro dal titolo strano, che spunta spesso nei momenti più impensabili.

Le entusiasmanti avventure di Max Middlestone e del suo cane alto trecento metri è un libro non semplicissimo da leggere, per questa alternanza tra testo scritto e sua rappresentazione, che bisogna confrontare immediatamente (leggete le parole di Tito Faraci, poi guardate le vignette di Sio, quasi riga per riga), ma, una volta che si è capito il meccanismo, è davvero divertente. Io ho riso davvero tanto, a volte di gusto, a volte con un attimo di ritardo, quasi sempre pensando “non so se questo sia un pirla o un genio”.

Certo, per apprezzarlo dovete essere amanti del nonsense e dell’assenza di logica, ed essere persone che, come me, si divertono con le cose un po’ sceme. Se lo siete, be’, questo libro vi piacerà sicuramente.


Titolo: Le entusiasmanti avventure di Max Middlestone e del suo cane alto trecento metri 
Autore: Tito Faraci & Sio
Pagine: 116
Editore: Feltrinelli
Prezzo di copertina: 14€
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