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martedì 28 aprile 2015

DIGLIELO DA PARTE MIA - Joan Didion

Sto leggendo molti libri scritti da donne che parlano di donne, in questo periodo. Non che lo faccia poi così consapevolmente, nel senso che non ho mai prestato particolare attenzione a quote rosa o azzurre per decidere un libro da leggere. Però, ecco, guardando le letture dei miei ultimi mesi le donne la fanno da padrone. Forse perché sto vivendo un periodo un po’ confuso della mia vita, in cui non so bene che cosa fare della mia vita o come fare a raggiungere quello che vorrei, e quindi ho bisogno di leggere di qualcuno non dico nella mia stessa situazione (che in confronto a quel che succede nei libri la mia vita è tutta rose e fiori) ma che almeno possa comprendere i dubbi della mia mente. E quindi ecco Elizabeth Strout, ecco Véronique Ovaldé, ecco Joyce Carol Oates ed ecco anche Joan Didion.

Della protagonista di Diglielo da parte mia, Charlotte Douglas, non ho assolutamente niente, e per fortuna direi anche. Non sono combattuta tra due mariti, uno serio e pragmatico, l’altro impulsivo e scapestrato, che forse non ho mai nemmeno amato davvero. Non ho una figlia che sembrava tanto docile e buona e invece ora è ricercata dalla polizia. Non sono in fuga perenne da un paese all'altro, né sono approdata a Boca Grande, capitale di un piccolo stato dell’America latina in cui si sta per verificare l’ennesimo colpo di stato.

Nessuno potrebbe mai essere davvero, e ripeto per fortuna, come una delle protagoniste dei romanzi di Joan Didion, in cui tutto è esasperato, quasi confuso, a volte forse addirittura incoerente. E al tempo stesso, almeno in parte, potremmo esserlo tutte. Perché Charlotte, così come ce la racconta Grace, la narratrice, la testimone che racconta al lettore quanto successo alla protagonista da parte sua, è una donna che ama e che soffre, è donna che non è riuscita ad ottenere quello che aveva sempre sognato e che ora non riesce a trovare pace, forse perché non sa dove trovarla, perché non sa che cos’è realmente.
Ecco quando accadde: lasciò un uomo, ne lasciò un secondo, tornò a viaggiare col primo; lo lasciò morire solo come un cane. Perse una figlia a beneficio della “storia” e un’altra in seguito a certe complicazioni (in entrambi i casi riferisco l’opinione di altri), si credette di sbarazzarsi di un simile fardello e venne a Boca Grande, in qualità di turista. Una turista. Così diceva lei. In realtà venne qui più come ospite di passaggio che come turista, ma lei non faceva tale distinzione.
Non faceva abbastanza distinzioni. Sognava la propria viva. Morì, piena di speranze. Questo, in sintesi.

Sono donne forti e fragili al tempo stesso, quelle che Joan Didion racconta. Donne che vivono in un mondo fatto di apparenze, di giochi di potere, politici, certo, ma anche quotidiani, nella vita di ognuno, a cui si può resistere o soccombere. Oppure fuggire come fa Charlotte, per non dover fare nessuna delle due cose.

Diglielo da parte mia è, ancora una volta, un romanzo difficile. Difficile da leggere, perché in alcuni punti è davvero tanto confuso che si fatica a capire cosa centrino certi episodi con la storia della protagonista. Difficile da capire. Difficile da giudicare anche, perché sebbene io sia convinta che la fuga non sia la soluzione ai problemi, credo anche che in certe situazioni non si possa fare altro.

È un libro da leggere al momento giusto, questo sicuramente. Quando si è di buon umore, per non pagare troppo le conseguenze della lettura, oppure quando si è un po’ depressi e si è in cerca di empatia e di donne che, in un modo o nell'altro, ce l'hanno fatta.

Titolo: Diglielo da parte mia
Autore: Joan Didion
Traduttore: Adriana Dell'Orto
Pagine: 226
Editore: edizioni e/o
Acquista su Amazon:
formato brossura: Diglielo da parte mia

sabato 25 aprile 2015

GLI UOMINI IN GENERALE MI PIACCIONO MOLTO - Véronique Ovaldé

Ho acquistato Gli uomini in generale mi piacciono molto di Véronique Ovaldé senza avere la minima idea di che cosa parlasse. Mi ha attratta molto il titolo e ancora di più la stupenda copertina dell’edizione tascabile di minimum fax. Mi piacevano i colori, mi piacevano quei cuori  rossi gommosi e come il tutto si presentava visivamente.
Ho letto la quarta solo una volta arrivata a casa, ma non ho provato alcun stupore nello scoprire che il libro è tutt'altro che leggero e che tratta un tema molto forte, quello della violenza e dell’amore, da parte di chi dovrebbe o vorremmo che ci volesse bene.

Protagonista è Lili, che vive con il compagno Simon in un piccolo appartamento e che ama andare a trovare gli animali nel vicino zoo. Finché un giorno, proprio lì dove si sente più tranquilla, non le pare di vedere un’ombra che le riporta alla mente tutto il suo passato: una madre morta troppo presto, un padre padrone assente, troppo preso dall'ascesa del suo nuovo folle partito, un fratellino rimasto traumatizzato che ripone in lei ogni speranza, dei vicini di casa gentili e un uomo che sembra dare alla Lili quattordicenne tutto l’amore di cui ha bisogno. Un passato che Lili, per quanto si sforzi, non riesce in alcun modo a dimenticare. Tutto è ancora troppo aperto: lo sono le violenze, psicologiche e fisiche, ma lo è, purtroppo, anche l’amore. E Lili deve trovare il coraggio di chiudere tutto questo. In un solo modo possibile.

Ammetto che nelle prime trenta pagine non riuscivo bene a capire che cosa stessi leggendo. La narrazione è affidata direttamente a Lili e nelle sue parole c’è del disordine, c’è della follia che impiega un po’ di pagine per acquisire un suo senso. Una volta però che si scopre che cosa questa ragazza sta realmente raccontando, tutto acquisisce un senso, anche la sua confusione, e la durezza e il dolore, ma anche la voglia di liberarsene, invadono le pagine e lasciano senza fiato.
La vita di Lili è fatta di amori e di perdite: l’amore per la madre, che di colpo non c’è più, l’amore per il padre, che non ha mai potuto mostrarsi perché troppo presto trasformato in paura, l’amore per il fratello, troppo piccolo per riuscire ad affrontare tutto quanto, l’amore per quell'uomo che lei credeva l’avrebbe aiutata a vivere. E l’amore per se stessa, che appare e scompare, e su cui dovrà puntare per potercela fare.
È un personaggio forte e potente, ma anche fragile e insicuro, quello creato da Véronique Ovaldé con questo suo ostile, inizialmente ostico sì, ma incredibile una volta arrivati alla fine.

Gli uomini in generale mi piacciono molto è un libro difficile da leggere e da comprendere (e immagino anche da scrivere). Però superati questi ostacoli, superato lo stupore legato allo stile, è un libro che conquista, che fa male e che fa pensare, all’amore e a tutte le cose che troppo spesso noi donne ci lasciamo fare nel suo nome. Un libro da leggere.

Titolo: Gli uomini in generale mi piacciono molto
Autore: Véronique Ovaldè
Traduttore: Lorenza Pieri
Pagine: 122
Editore: minimum fax
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mercoledì 22 aprile 2015

BUTCHER'S CROSSING - John Williams

Avrete sicuramente sentito tutti parlare di Stoner di John Williams. Un libro ignorato per anni, sia negli Stati Uniti sia all’estero, che ha rivissuto una sorta di seconda giovinezza nel 2013, quando è stato finalmente tradotto in diversi paesi, tra cui anche l’Italia grazie alla casa editrice Fazi. Un libro che ha per protagonista questo professore un po’ apatico, che lascia che le cose gli succedano senza mai ribellarsi, facendole semplicemente scorrere. Un gran romanzo di un grande scrittore.
Contestualmente a Stoner sono arrivati anche gli altri romanzi dimenticati di John Williams. Nulla, solo la notte, la sua opera d’esordio, e questo Butcher’s Crossing di cui vi sto per parlare.

Butcher’s Crossing è un paese vicino alle montagne del Colorado ed è qui che approda Will Andrews, un ragazzo che ha deciso di lasciare i suoi studi ad Harvard per andare in cerca di se stesso. Con i molti soldi che ha a disposizione, assolderà un gruppo per andare proprio su quelle montagne, a caccia di buffali. È così che conosce Miller, un burbero cacciatore che si dimostra ben entusiasta di accompagnarlo e che lo aiuta a recuperare tutto il materiale e il personale necessario. Partono in quattro, a metà settembre, per poter tornare prima che inizi l’inverno. Nonostante qualche iniziale difficoltà, l’acqua che non si trova, i rapporti non proprio semplici tra i vari membri della spedizione, l’inesperienza di Will, il gruppo arriva in una radura circondata da montagne e, soprattutto, piena di bufali. La caccia si rivela più semplice del previsto. Forse fin troppo, per un Miller che ha dei conti in sospeso con il passato e non vuole risparmiare nessun animale. Finché non succede l’irreparabile: l’inverno arriva e nessuno dei quattro sa se ce la farà.

Si potrebbe definire Butcher’s Crossing un romanzo di formazione: c’è il giovane e inesperto protagonista, Will Andrews, che cerca di capire cosa vuole dalla vita e da se stesso, e che per farlo ha bisogno di provare emozioni forti, lontane da quelle a cui è abituato; c’è l’esperto cacciatore Miller, invece, che si porta addosso un passato misterioso che cerca in qualche modo di cancellare, di vendicarsi di qualcosa, ed è disposto a tutto per farlo.
Nel corso della lettura si segue l’evoluzione di Will e l’irrequietezza di Miller, che esplodono entrambe nel finale, senza che si capisca poi così bene chi è che abbia imparato qualcosa e chi no.

Devo ammettere però che qualcosa di questo romanzo non mi ha convinta del tutto. Forse è l’ambientazione quasi western e montana. Forse è che non sono una grande appassionata di questi personaggi che mollano tutto e partono alla ricerca di se stessi (perché essere se stessi in mezzo montagna è, per me, ben diverso che esserlo in mezzo agli altri). Forse è che lo stile pacato e quasi rilassato di John Williams, perfetto per romanzi come Stoner, mi risulta un po’ più ostico in un romanzo che, almeno in parte, dovrebbe essere di avventura. E infatti, anche nei momenti più concitati, non ho percepito quell'ansia, quell'agitazione che mi sarei aspettata.

È sicuramente un libro scritto molto bene, con dei personaggi ben caratterizzati di cui si nota perfettamente l’evoluzione  mano a mano che si procede con la lettura.

Però, ecco, per apprezzarlo al meglio, vi devono piacere le montagne, la solitudine, gli uomini in cerca di se stessi e i bufali. Tanti bufali.

Titolo: Butcher's Crossing
Autore: John Williams
Traduttore: S. Tummolini
Pagine: 359
Editore italiano: Fazi editore
Acquista su Amazon:
formato brossura: Butcher's Crossing


sabato 18 aprile 2015

UNA FAMIGLIA AMERICANA - Joyce Carol Oates

Quando decidi di leggere un romanzo di Joyce Carol Oates, sai già che sarà una lettura che ti farà arrabbiare. Incazzare, anzi, che arrabbiare non è abbastanza forte per descrivere la sensazione che le storie che questa scrittrice racconta fanno nascere in chi le legge.

Probabilmente vi avevo già detto qualcosa di simile quando vi ho parlato di Sorella, mio unico amore (e altrettanto probabilmente vi dirò la stessa cosa in futuro, quando leggerò qualcos'altro). Perché la Oates scrive così. Vuole provocare nel lettore proprio quest'effetto. E sta al lettore capire se è abbastanza corazzato per accettare quello che leggerà.

La famiglia americana del titolo è la famiglia Mulvaney, anche se potrebbe essere qualunque altra famiglia degli anni 60 e 70 dello stato di New York. Una moglie, Corinne, molto religiosa e sempre vivace e allegra. Un marito piccolo imprenditore che con il suo lavoro mantiene la famiglia e che brama di far parte del club esclusivo dei ricchi del suo paese. Quattro figli perfetti, tre maschi e una bellissima e dolcissima ragazza adolescente, Marianne. Più tutta una serie di animali intelligentissimi, che completano il quadretto. Una famiglia benedetta da Dio, potrebbe definirla senza problemi la madre. Una famiglia felice e perfetta. Ma un giorno succede qualcosa di terribile, proprio alla bella e candida Marianne. Qualcuno le fa del male e la famiglia, anziché stringersi su di lei, a poco a poco si infrange e si spezza. L'idillio non era poi così reale, allora. Da quel momento, tutta la famiglia si ritrova in balia di qualcosa che non riesce a spiegarsi, che non riesce a gestire  e che segnerà tutti irrimediabilmente.

Si prova tanta rabbia, leggendo. Sia prima del terribile episodio, nel vedere questa famiglia che si crede perfetta, a causa soprattutto dell'educazione della madre, che giustifica sempre tutto con il volere di Dio; e sia, ovviamente, dopo, quando viene fuori quell'ipocrisia che purtroppo si trovava e ancora oggi si trova spesso in certe persone e in certe famiglie incapaci di essere se stesse. 
Joyce Carol Oates scrive incredibilmente bene. Mettendo in evidenza i giusti dettagli, le giuste emozioni, le giuste situazioni, che all'apparenza sembrano magari banali e inutili ma che servono a caratterizzare alla perfezione ognuno dei protagonisti.

Devo ammettere però che il finale non mi ha convinta del tutto. È troppo piatto, troppo poco duro, rispetto al resto del libro. Ogni membro della famiglia ha ritrovato se stesso, certo. Ma il grande dolore che è stato provocato da alcuni dei suoi membri è rimasto in qualche modo impunito. Non posso dirvi più di tanto, o rischierei di fare spoiler. Però, ecco, credo che il non poter essere a pieno se stessi non possa giustificare il fare male agli altri, soprattutto se gli altri dipendono da te. 

Per cui Una famiglia americana mi è piaciuto ma mi sarei aspettata, alla luce anche di quel che so che è in grado di fare Joyce Carol Oates, qualcosa di più. Forse non volevo il lieto fine, se così si può definire quello che si ritrova qui. O almeno non per tutti, per quanto sia davvero brutto ammetterlo pubblicamente.

In ogni caso, il libro è sicuramente un bel libro, che merita la lettura. Partite solo preparati, ecco.



Titolo: Una famiglia americana
Autore: Joyce Carol Oates
Traduttore: Vittorio Curtoni
Pagine: 502
Editore: Il saggiatore
Acquista su Amazon:
formato brossura: Una famiglia americana


martedì 14 aprile 2015

#ioleggoperché... ecco cosa non mi convince

Ci ho dovuto pensare un po’ prima di decidermi a dedicare un post all'iniziativa #ioleggoperché. Immagino sappiate tutti di che cosa si tratta: il 23 aprile, giornata mondiale del libro, i messaggeri regaleranno a degli sconosciuti non lettori una delle 240.000 copie di libri,  scelti dalle case editrici aderenti e stampati per l’occasione in un’edizione apposita, con lo scopo di invogliarli a leggerli.

L’evento, organizzato dall’AIE e patrocinato da diversi enti (per informazioni più approfondite vi rimando direttamente al loro sito), ha messo in campo molte forze, tra testimonial importanti ed eventi correlati, che da un lato sanno un po’ di ultima spiaggia e dall'altro fanno chiedere perché spendere tutti questi soldi in un botto solo anziché diluire nel tempo (e negli anni, che la crisi dei lettori non è mica una cosa nata ieri)le iniziative e gli interventi a favore dei libri e della lettura.

Mi sono decisa, oggi, perché in questi giorni ho visto il banner di #ioleggoperché sulla testata di molti giornali, in un supermercato e, domenica, pure sulle magliette degli arbitri durante alcune partite di calcio. E il primo pensiero è stato “qui ora forse si sta un po’ esagerando”.
Premesso che da lettrice e da book blogger è ovvio che mi piacerebbe che l’amore per la lettura si diffondesse e riprendesse quel vigore che aveva in passato, così come è ovvio che ogni iniziativa, dalla più piccola alla più grande, volta a cercare di raggiungere questo scopo è un tentativo lodevole, io credo che in questa #ioleggoperché ci siano troppe cose che non funzionano del tutto, per renderla davvero credibile ed efficace.
Ve ne parlerò per punti e vi chiedo già scusa fin da ora se alcune delle mie obiezioni le avete già lette o sentite da altri in altri luoghi (segno che le perplessità non sono solo mie).

LA SCELTA DEI LIBRI: sappiamo tutti che un libro sbagliato al momento sbagliato può creare problemi persino al lettore più accanito, causando blocchi e remore non sempre facili da superare. Figuriamoci dare un libro scelto arbitrariamente da un editore a uno sconosciuto, per giunta non lettore. Innanzitutto, perché dovrebbe leggerlo? Perché è un regalo? Perché gliel'ha regalato quella ragazza così carina sul bus o quel signore tanto cortese in coda alle poste, che però non hanno idea di cosa/come/quanto/se legge e perché lo fa o non lo fa? E poi, come si fa a sapere se, una volta regalato, questo libro verrà davvero letto?
Inoltre, tra i titoli scelti (ancora una volta vi rimando alla pagina ufficiale, con l’elenco completo) secondo me ce ne sono alcuni che effettivamente possono essere adatti anche a chi non legge abitualmente (penso a De Silva, ad esempio), ma ce ne sono molti che, per quanto sicuramente bei libri, più che invogliare la lettura in un non lettore, potrebbero dargli la mazzata finale.
 E poi ci sono dei titoli che chi voleva avrebbe già letto: Il cacciatore di aquiloni, ad esempio, è stato in classifica per mesi e mesi (forse addirittura anni) ed è uscito in mille versioni diverse. Lo trovavi in libreria, ma anche all’autogrill e al supermercato. Possibile che, chi era davvero intenzionato a leggerlo, debba aspettare che glielo regali uno sconosciuto?
 I libri sono stati scelti dai vari editori, e ci può anche stare ovviamente, ma in base a quale parametro?  In base a cosa si pensa che Come un romanzo di Pennac, che parla di libri e di lettura, sia il libro ideale per persone a cui dei libri non importa niente?



I MESSAGGERI: al di là del termine da setta religiosa, che trovo davvero mal pensato, a queste persone viene data, a mio avviso, troppa responsabilità per una cosa che non dovrebbe nemmeno competere a loro. Escludendo subito chi lo fa solo per i crediti universitari (nulla di criticabile, anzi, probabilmente fossi ancora studentessa avrei aderito anche io) e anche chi ha aderito per potersi intascare o scambiare qualche libro che prima non aveva (e c’è sicuramente chi lo fa),  questi messaggeri altro non sono che appassionati lettori a cui viene affidato il compito di contagiare gli altri con la loro passione  e salvare così le sorti dei libri e dell’editoria in crisi. Cosa che facciamo già, da anni e anni. Perché se l’editoria ancora non è collassata del tutto in parte è anche merito di quello zoccolo duro di lettori medi e lettori forti, che amano leggere e acquistare libri. Ora, devono anche convincere gli altri a fare altrettanto. Perché questo deve spettare a loro?
Ma soprattutto, possibile che l’AIE e gli editori non sappiano che i lettori questo lo fanno già? Lo faccio io e mille altri blog letterari che parlano di libri e di editoria, con passione e impegno. Lo fa ogni singolo lettore, quando legge sulla metro o sul bus o sul treno o in coda o in qualunque altro posto vi venga in mente, circondato da altre persone che almeno un secondo, se ne hanno la curiosità, possono scoprire un libro nuovo. Lo fa quando pubblica una citazione su un social e quando si ferma davanti a una vetrina o a una targa che dice “pinco pallino è stato qui”. Certo, così facendo non regala fisicamente niente a nessuno e quindi è un lettore forse fine a se stesso. Ma se uno per convincersi a leggere deve aspettare che uno sconosciuto gli regali un libro a caso, beh, non credo che servirà poi tanto a cambiare le statistiche.
E poi, una volta finita la campagna, una volta riusciti (non so come) a quantificare se ha funzionato, il merito o la colpa a chi verranno dati? Ai messaggeri che non sono stati abbastanza bravi a diffondere? All’AIE che invece ha avuto proprio un’idea geniale?

I TESTIMONIAL: ammetto che questa è la parte che capisco meno, ma in generale in realtà, non solo con i libri. Non capisco perché io debba mettermi a leggere così all’improvviso perché Linus, Saturnino o Carlo Cracco mi dicono di farlo (così come non compro un profumo perché lo porta un tizio famoso) o perché gli arbitri hanno messo una maglietta durante una partita di calcio (che poi, un conto Telethon che tutti sanno che cos’è e quindi la maglietta ha un senso… ma se io dalla curva vedo sta maglia con su scritto #ioleggoperché, cosa capisco?). Ma qui forse sono io che di marketing non capisco niente.

GLI EVENTI: L’iniziativa sembra essersi diffusa molto, molti sono stati i messaggeri che hanno aderito e le iniziative create per promuovere l’evento. Così come molti saranno gli eventi in programma per la giornata mondiale del libro. Il fatto è che questi eventi c’erano già prima, anche gli anni passati, solo che venivano pubblicizzati meno. Molto meno. E lo sbaglio grosso, secondo me, sta proprio qui. Facciamo questa cosa gigantesca, che fico, senza tenere conto di tutto quel che è già stato fatto in passato e forse passato in secondo piano perché a organizzarlo erano piccole librerie, biblioteche o piccoli editori.  Reading, presentazioni, piccoli festival, incontri con gli autori ci sono da sempre, tutti gli anni e tutto l’anno. Ma l’AIE lo sa?

I RISULTATI: ne ho già parlato prima, ma voglio ritornarci. Come si quantificherà il successo o il fallimento dell’iniziativa? Che dati si aspettano dall’AIE per decidere se ha funzionato o meno? E su che periodo? Dopo un mese, due, tre, due anni? E come si farà a capire se è valso il dispendio di tempo e di denaro (ok, ci sono dei grandi sponsor che stampano i libri e a cui probabilmente a livello economico cambia poco, ma un libro che un messaggero regala dopo che gli è stato dato gratis è un libro in meno che viene comprato in una libreria)? E, ripeto, di chi saranno i meriti e le colpe?
Ora, non voglio sembrare sempre negativa. E qualche cosa di positivo sicuramente c’è anche in questa campagna. La canzone di Bersani e Pacifico, per dirne una:




Però ecco, guardando il video, bellissimo, e ascoltando le parole, mi sono immaginata la reazione di uno a cui di queste cose non frega niente e non è mai fregato niente. Non credo cambierà idea.

Il problema grosso di queste iniziative, secondo me, è che entusiasmano sempre  tantissimo i lettori, che ci mettono un sacco di passione e di impegno, ma che raramente trova riscontro in persone a cui, semplicemente, non interessa. E pensandoci è anche logico che sia così.

Non lo so, onestamente, che cosa si possa fare per ampliare il raggio del lettori. Da un lato mi piacerebbe saperlo, mi piacerebbe che tutti leggessero almeno un libro al mese, perché sono davvero convinta che la loro vita un poco cambierebbe e migliorerebbe. Dall'altro però mi chiedo anche come reagirei io se qualcuno (soprattutto uno sconosciuto) volesse obbligarmi a fare qualcosa che non mi interessa. Magari una possibilità gliela darei, che preferisco provare tutto almeno una volta prima di dire no (nei limiti, ovviamente). Ma poi? 

lunedì 13 aprile 2015

AMY E ISABELLE - Elizabeth Strout

Ve l’ho già detto, vero, che adoro Elizabeth Strout? Credo di sì, ma ogni volta che leggo un suo romanzo non posso fare a meno di ripeterlo. Adoro Elizabeth Strout, adoro le sue storie, i suoi personaggi e il suo modo di scrivere.
Questa volta a farmi ribadire di nuovo questi concetti è stato Amy e Isabelle,  romanzo d’esordio di questa scrittrice americana, pubblicato nel 1998, ben undici anni prima di Olive Kitteridge, opera con cui ha vinto il Pulitzer e che l’ha portata alla meritatissima ribalta anche in Italia.

Le Amy e Isabelle del titolo sono figlia e madre, due donne che vivono da sole in una qualsiasi cittadina americana. Si vogliono bene, certo, ma sentono anche continuamente il peso l’una dell’altra. Isabelle nasconde lo shock del suo passato dietro a un comportamento rigido e un po’ insicuro, che si riversa sulla figlia ma anche sulle sue relazioni con l’esterno. Non ha molti amici Isabelle, se si escludono le conoscenze nella fabbrica in cui lavora come segretaria, e sembra non essere in grado di stringerne, di entrare a far parte di quella società perfetta che popola la sua cittadina. Questa insicurezza è passata anche ad Amy, che ama e odia la madre al tempo stesso, che a scuola tende a isolarsi, ma che trova in Stacy, una ragazza adottata che odia i genitori che la accudiscono, una grande amica. Finché non succede qualcosa di terribile, che sconvolge la vita di entrambe, rendendo ancor più fragile e difficile il loro rapporto.

Un romanzo d’esordio, questo Amy e Isabelle, che non sembra minimamente un romanzo d’esordio, talmente bene è strutturata la trama e sono caratterizzati i personaggi. Quell'equilibrio precario che c’è nel rapporto tra madre e figlia è ben evidente nel lettore a ogni pagina: le fragilità, le insicurezze, le delusioni, gli sconvolgimenti emotivi, le reciproche recriminazioni delle due protagoniste si mescolano e si incastrano in modo perfetto, al punto che, come succede in ogni rapporto genitori-figli, diventa difficile capire chi ha ragione e chi no, chi è l’adulta e chi la ragazzina.
Attorno a Amy e a Isabelle, poi, ruotano tutta una serie di personaggi, quasi insignificanti quelli maschili, sebbene responsabili dei turbamenti delle due donne, e bellissimi quelli femminili (Stacy con la sua finta sicurezza, ma anche Fat Bev e Dottie  con il forte legame che le unisce).

Insomma, Amy e Isabelle è un romanzo duro e poetico al tempo stesso. Un romanzo difficile, sicuramente, ma che ha anche un bel po’ di speranza. Un romanzo che mi è piaciuto davvero tanto e che vi consiglio caldamente di leggere.

Eh sì, lasciatemelo dire ancora una volta, adoro Elizabeth Strout.

Titolo: Amy e Isabelle
Autore: Elizabeth Strout
Traduttore: Martina Testa
Pagine: 474
Editore: Fazi editore
Acquista su Amazon:
formato brossura: Amy e Isabelle
formato ebook:Amy e Isabelle

martedì 7 aprile 2015

CHI MANDA LE ONDE - Fabio Genovesi

Io ho una passione per i vecchi pulmini Volkswagen. Non so bene da dove sia nata, considerando anche che non sono mai salita su uno, però quando vedo un pulmino Volkswagen o qualcosa che ne ritrae, me ne sento irrimediabilmente attratta. Un’altra cosa che amo molto è il mare. Quell'enorme distesa prima azzurra e poi blu che sembra non voler finire mai e quelle onde che si infrangono sulla spiaggia e poi tornano indietro, quasi indecise su che cosa fare.
Potete immaginare quindi quale possa essere stata la mia prima reazione quando ho visto la copertina di Chi manda le onde di Fabio Genovesi. Un pulmino Volkswagen con sopra un canotto e sullo sfondo spiaggia e mare all'infinito. Già solo vedendo la copertina e leggendo la trama, sapevo che il libro mi sarebbe piaciuto. Quello che non sapevo è che mi sarebbe piaciuto così tanto.

Il romanzo racconta la storia di Luna, Luca e della loro madre Serena. Luca è il figlio maggiore, perfetto in ogni cosa che fa, amato e adorato da tutti. Luna è una bambina intelligente, un po’ ingenua e credulona, sempre alla ricerca di avventure. E soprattutto, è albina e per lei che dal fratello ha ereditato l’amore per la spiaggia e il mare è una vera tortura. Serena li ha avuti da un uomo misterioso, con cui ha avuto due brevi, ma indimenticabili, rapporti. Sono una famiglia felice, loro tre. Finché non succede qualcosa di terribile, che li destabilizzerà completamente. Attorno a loro ruotano altri personaggi: il piccolo Zot, che arriva da Chernobyl, che parla l’italiano degli anni ’60 e che subito si ritrova preso in giro e isolato dai suoi compagni, proprio come Luna; c’è Sandro, che ha quarantanni ma ancora non ha ben capito cosa vuole fare della sua vita, e che si affeziona molto a Luca, e poi si innamora di Serena. Insieme a lui ci sono i suoi amici di sempre, quarantenni insicuri e un po’ sfigati proprio come lui. E poi c’è Nonno Ferro, che si prende cura di Zot a modo suo. Questi personaggi in un modo o nell'altro convergono e si ritrovano insieme, uniti, in un gruppo molto improbabile ma che, in qualche modo, riesce a sopravvivere.

Non mi aspettavo mi sarebbe piaciuto così tanto, vi dicevo. Non mi aspettavo di ritrovarmi così immersa nella storia, sebbene a tratti un pochino prevedibile, e, soprattutto, di affezionarmi così tanto ad alcuni dei suoi personaggi. Luna è incredibile, certo, ma ancor più incredibile, per me, è stato il piccolo Zot, questo bambino all'apparenza ingenuo e sfortunato, che forse, con la sua fisarmonica sgangherata, le sue canzoni stonate e la sua inconsapevole poesia, della vita ha capito più di tutti gli altri. Non pensavo nemmeno che avrei capito così tanto Sandro, anche se ogni tanto un paio di schiaffi glieli avrei dati volentieri, e la sua paura di muoversi che lo ha portato a stare fermo, a non compiere mai scelte, a disimparare in qualche modo a vivere. Così come mi è piaciuta tantissimo Serena, con il suo amore passeggero e all'apparenza un po’ (tanto) incosciente, che però le ha portato i doni più belli che potesse avere e che ora deve lottare in ogni modo per non riuscire a perdere. (Che invece avrei adorato Nonno Ferro lo sapevo già).
E poi c’è il mare, c’è tanto, tantissimo mare, che condiziona suo malgrado le vite di tutti, portandosele via o riportandole indietro a chi credeva di non averne più.


Io credo molto nella bellezza delle piccole cose, nella poesia che ogni piccolo gesto piò racchiudere in sé. E questo libro ne è pieno, per chi la sa cogliere. E Fabio Genovesi è stato davvero bravo nel creare questa storia, nel mettere insieme tanti problemi (l’affrontare un lutto, il sentirsi diversi, l’aver paura di scegliere e di muoversi, l’affrontare cose più grandi di noi, capire finalmente se stessi e l’amore, solo per citarne qualcuno) e raccontarsi senza mai scadere nel patetico, nel banale, nel già letto e già sentito.

Insomma, Chi manda le onde è stato per me un libro molto bella. Di quelli che non riesci a smettere di leggere, anche se è notte fonda o hai mille altre cose da fare. Un libro che ti fa venire voglia di sole, di mare, di luna, di amici, di follia e di amore. Un libro assolutamente da leggere.

E ora che ho finito questa recensione, sebbene siano passati molti anni, forse è davvero ora anche per me di rispondere a quella cartolina che mi è arrivata dalla Germania una mattina d’estate, tramite un palloncino atterrato in giardino. Chissà perché ho aspettato così tanto.

Titolo: Chi manda le onde
Autore: Fabio Genovesi
Pagine: 391
Editore: Mondadori
Anno: 2015
Acquista su Amazon:
formato brossura:Chi manda le onde
formato ebook:

sabato 4 aprile 2015

STORIE D'ALTRE STORIE - Giovanni Arpino

Mi capita spesso, quando termino un romanzo, di domandarmi che cosa succederà da quel momento in poi ai suoi protagonisti. Noi lettori vediamo spesso (non sempre, che ci sono romanzi che prendono un protagonista dalla nascita alla morte) solo uno stralcio della loro vita, il momento che l’autore ha deciso di raccontarci. E dopo, però, che succede? 

Molti scrittori, del passato e del presente, hanno provato a rispondere a questa domanda, giocando con i romanzi che li hanno formati e con i lettori appassionati. Tra questi c’è anche Giovanni Arpino con il suo Storie d’altre storie.

Un libricino sottile sottile, quasi troppo viene da pensare una volta chiuso, che si compone di racconti che hanno come protagonisti alcuni dei personaggi più importanti della letteratura mondiale. Personaggi cresciuti, cambiati, diversi da come noi lettori abbiamo imparato a conoscerli e amarli. C’è Cappuccetto rosso ormai adulta e sposata, che è stufa della sua vita da casalinga ma soprattutto di quel vecchio tappeto di pelo di lupo che attira la polvere in salotto. C’è Sandokan, che ora si guadagna la vita come può. Ci sono Faust e Casanova, un po’ invecchiati e un po’ più insicuri. C’è una Lolita ormai adulta, che non riesce a smettere di indossare quei calzini bianchi che, da bambina, tanto l’hanno resa felice. Ci sono Sancho e Don Chisciotte fuori dal loro contesto ma sempre l’uno la spalla dell’altro. Tarzan e Jane analizzati dalle scimmie. Un Frankestein un po’ mammone e una fantastica Alice invecchiata nel corpo ma non nella mente. E ancora don Rodrigo, Achab, Marlowe e Falstaff in cerca di mecenate, per poi arrivare a Pinocchio, che forse forse preferiva essere un burattino, che almeno non sentiva mal di pancia e dolori.

Trovo l’idea alla base del libro davvero geniale. Così come lo sono alcuni racconti: divertenti (quello di Cappuccetto rosso e di Pinocchio), poetici (Alice, semplicemente incredibile) e anche un po’ tristi (il futuro di Lolita è esattamente come me l’ero immaginato una volta terminato il libro). Quello che traspare in ogni parola è la conoscenza profonda ma anche la passione e l’amore di Giovanni Arpino per i personaggi di cui ha parlato. Ed è bello vedere dei tributi così grandi di scrittori ad altri scrittori.

Ora, dopo tutto questo entusiasmo, arriva il mio piccolo però. Che nulla ha a che vedere con il libro, in realtà, ma che riguarda principalmente me stessa. Per apprezzare al meglio tutti questi racconti è necessario avere una conoscenza profonda delle opere da cui sono tratti. Conoscenza che, in alcuni casi (non in tutti per fortuna), purtroppo a me manca. Non ho mai letto Sandokan. Non ho mai letto le storie di Marlowe e Falstaff. E, lo confesso, nemmeno Moby Dick. Delle lacune che questo libro e questi racconti un pochino ammetto mi hanno fatto pesare, perché non mi hanno permesso di apprezzarlo del tutto. Che sia giunta l’ora di rimediare a queste lacune?

In ogni caso, se siete appassionati di letteratura classica, se anche voi vi siete chiesti spessi “e ora che succede?” alla fine di un libro, se avete voglia di farvi due risate ma anche di riflettere un po’ e, soprattutto, se volete conoscere uno scrittore italiano forse poco ricordato e considerato nella storia della nostra letteratura (anche qui, devo ammettere di nuovo con somma  franchezza, che prima di questo libro non conoscevo Giovanni Arpino, anche se ha vinto diversi premi, tra cui uno Strega e un Campiello nel corso della sua carriera), che meriterebbe invece molta più attenzione… beh, Storie d’altre storie fa sicuramente per voi.


Titolo: Storie d'altre storie
Autore: Giovanni Arpino
Pagine: 104
Editore: Lindau
Acquista su Amazon:
formato brossura:Storie d'altre storie

mercoledì 1 aprile 2015

QUANDO SIETE FELICI, FATECI CASO - Kurt Vonnegut

Tra tutte le cose che potrei invidiare agli Stati Uniti ce ne sono due in particolare (ok, in realtà tre, se consideriamo anche i festeggiamenti per il 4 luglio, mio compleann… giorno dell’indipendenza). La prima, quella più macroscopica, è la loro letteratura, passata ma anche e soprattutto contemporanea. Una letteratura prolifica e al tempo stesso di qualità, che ha dato voce a ogni tipologia di scrittore. In Italia questa letteratura un po’ manca. O meglio, c’è, ma fatica a diffondersi e a farsi scoprire.
La seconda cosa sono i discorsi ai laureandi al termine dell’anno accademico. Negli USA il sistema universitario è diverso, ci sono le classi anche all'università, e quindi si presta molto di più a queste celebrazioni rispetto alle nostre sessioni di laurea sparse per l’anno accademico. Però, ecco, devo dire che se al termine della mia discussione, oltre al voto, ai complimenti e all'avermi proclamato dottoressa nella cosa sbagliata, il mio presidente mi avesse anche fatto un discorsetto per farmi capire che ce l’avrei fatta anche una volta uscita di lì, sarei stata sicuramente più contenta. 

Negli USA, dicevamo, questi discorsi sono la prassi. E sono tenuti solitamente da personalità di spicco di una determinata disciplina. Credo sia un modo per far capire agli studenti che “hey, io una volta sono stato seduto lì con voi e adesso sono qui, e vi sto parlando. Ce la potete fare anche voi”.

Quando siete felici, fateci caso, questo bel volumetto dalla copertina semplicemente magnifica, raccoglie i discorsi tenuti nell'arco degli anni da Kurt Vonnegut, grande scrittore americano (di cui ammetto di aver letto solo Mattatoio n.5).  Ora, non è che possa fare una recensione dei suoi discorsi, non avrebbe alcun senso. Però posso dirvi quello che questi discorsi mi hanno lasciato. Un elogio della semplicità, della felicità, delle piccole cose che possono cambiare il mondo. Ma non tutto il mondo, Kurt Vonnegut non è così presuntuoso. Possono cambiare il nostro piccolo mondo e renderlo un posto migliore. Con le sue parole, sia che le abbia pronunciate in un college femminile, sia in una piccola e sperduta università, sia di fronte agli studenti di quella che in passato ha frequentato anche lui, in pochi minuti dice e insegna tanto. A credere nelle proprie passioni, non tanto per vederle realizzate, quanto per formare la propria anima
Praticare un’arte, non importa a quale livello di consapevolezza tecnica, è un modo per far crescere la propria anima, accidenti. Cantante sotto la doccia. Ballate ascoltando la radio. Raccontate storie.

A essere gentili, buoni ed onesti, perché l’odio ha creato solo distruzione.
Di regola io ne conosco una sola: bisogna essere buoni, cazzo.
Ad amare e non abbandonare mai i libri e lo studio, perché potranno essere dei grandi compagni per la vita.
Non abbandonate mai i libri. È così piacevole tenerli in mano, col loro peso cordiale. La dolce riluttanza delle pagine quando le sfogliate con i vostri polpastrelli sensibili. Gran parte del nostro cervello si dedica a decidere se quello che tocchiamo con le mani ci fa bene o male. Anche un cervello da quattro soldi sa che i libri ci fanno bene. 
A mangiare tanta crusca e a lasciarsi stare le orecchie, a considerare sei le stagioni e non semplicemente quattro.
A fare “l’amore ogni volta che potete. Vi fa bene”.
E, soprattutto, a notare ogni singola cosa che, per quanto minuscola, ci può rendere felici. 

Ma tornando a mio zio Alex, che ormai è in paradiso. Una delle cose che trovava deplorevole negli esseri umani era che si rendevano conto troppo raramente della loro stessa felicità. Lui invece faceva del suo meglio per riconoscere apertamente i momenti di benessere. Capitava che d’estate ce ne stessimo seduti all'ombra di un melo a bere limonata, e zio Alex interrompeva la conversazione per dire: «Cosa c’è di più bello di questo?».
Spero che voi farete lo stesso per il resto della vostra vita. Quando le cose vanno bene e tutto fila liscio, fermatevi un attimo, per favore, e dite a voce alta:«Cosa c’è di più bello di questo?»
La cosa più bella in assoluto, che mi ha fatto amare questo libricino ancor più di quanto immaginassi ancor prima di acquistarlo (che, diciamocelo, un libro con una copertina e un titolo così, è uno di quelli che si comprerebbe anche a scatola chiusa, perché fisicamente molto bello), è il fatto che Kurt Vonnegut non ci mette retorica, ma tanto umorismo, tanta ironia e autoironia, tante battute (che sicuramente al momento del discorso dal vivo hanno reso ancora di più, anche se la traduzione di Martina Testa rende il giusto onore alle parole dello scrittore), lasciando perdere quel distacco, quel senso di superiorità con cui spesso gli accademici più anziani si rivolgono ai giovani. C’è onestà, c’è realtà, c’è passione, che gli derivano dalla scrittura, dal suo difficile passato, ma, sono convinta, anche dal fatto che lui creda e segua esattamente tutto quello che ha detto. 

Credo che Quando siete felici, fateci caso diventerà il libricino che regalerò ogni volta che qualcuno mi dirà che è un po’ giù di morale, che le cose non stanno andando come avrebbe voluto, che la vita fa schifo e non si sente apprezzato come voleva. Magari non risolverà il problema. Però sono sicura che almeno una delle parole di Vonnegut centrerà il suo obiettivo e che, almeno per un momento, chi lo leggerà si sentirà meglio.


Titolo: Quando siete felici, fateci caso
Autore: Kurt Vonnegut
Traduttore: Martina Testa
Pagine: 107
Editore: minimum fax
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