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lunedì 30 settembre 2013

Interviste rampanti: PAOLO PASI

Protagonista dell'intervista rampante di questa settimana è Paolo Pasi, giornalista, scrittore e musicista milanese. Ho conosciuto i suoi romanzi per puro caso, quando la casa editrice che li pubblica, la Spartaco edizioni, me li ha gentilmente inviati. Mi trovo sempre in difficoltà quelle (rare) volte in cui una casa editrice mi propone libri in lettura, perché ho sempre paura di trovarmi di fronte a libri brutti e quindi a quell'ovvio imbarazzo nel doverli stroncare. 
Ma questo con i romanzi di Paolo Pasi non è successo. Memorie di un sognatore abusivo e, soprattutto, Il sabotatore di campane, sono state due vere rivelazioni. Due libri molto belli, ben scritti e molto, molto attuali che consiglio caldamente a tutti. Segno che anche le case editrici piccole e meno diffuse hanno tanti libri e tanti autori di qualità.
Oltre ai due romanzi sopra citati, Paolo Pasi ha pubblicato con la casa editrice Spartaco anche la raccolta di racconti E il cane parlante disse bang, con la casa editrice ExCogita Ultimi messaggi dalla città, Storie senza notizia e Le brigate carosello (con prefazione di Fernanda Pivano), e con la casa edirice Tullio Pironti Editore il romanzo L'estate di Bob Marley.
Ovviamente ringrazio tantissimo Paolo per aver accettato l'intervista e per le risposte che mi ha dato.


Da bambino dicevi “da grande farò lo scrittore”?
No, in realtà volevo fare il pompiere. O l’astronauta perché ero soggiogato dalla luna. Forse era la dimensione del viaggio ad attirarmi, nonostante godessi di un’infanzia serena e adorassi la mia casa. Lavoravo molto di fantasia, questo sì, come spesso accade ai bambini. Immaginavo storie di ogni tipo, e quell'impronta mi è rimasta dentro. 

Dopo il mondo utopistico, ma forse neanche poi tanto, in cui chi sogna viene tassato, che hai presentato ne “Memorie di un sognatore abusivo”,  nel tuo ultimo romanzo,“Il sabotatore di campane”, presenti invece  una realtà, quella di Roccapelata e dei suoi abitanti disposti a tutto pur di apparire, che si avvicina molto a quella attuale. Pensi davvero che la situazione in Italia da quel punto di vista sia così disperata?
Che dirti? Spero che non sia così disperata, e in fondo non voglio crederlo, ma la sua rappresentazione mediatica si avvicina molto a Roccapelata. Abbiamo finito per credere di più alle suggestioni delle apparenze e meno alla nostra esperienza diretta, soprattutto quando mette in discussione le nostre certezze. Oggi l’anima che si esprime nella musica, nella scrittura, nell’arte sembra considerata un optional rispetto all’ossessione di un palcoscenico. Esserci conta più che essere,  e la cosiddetta realtà di fatto, che si esprime nei dati statistici, prevale sui sogni. C’è un aspetto comune che lega Il sognatore abusivo e Il sabotatore di campane. La libertà costa, e spesso scegliamo di barattarla in cambio di presunte sicurezze. Crediamo a torto che sia meglio non confrontarsi con le rivelazioni talvolta scomode e inquietanti dei nostri sogni. 

Come sei stato scoperto (o come sei riuscito a farti scoprire) dalla casa editrice che ti ha pubblicato?
Ho scoperto la casa editrice Spartaco qualche anno fa, alla rassegna Galassia Gutenberg di Napoli. Fui attratto subito dai loro titoli, e d’istinto parlai loro del romanzo che avevo cominciato ad abbozzare. Era appunto la storia dell’anarchico sabotatore… Tra l’altro alcuni testi pubblicati da Spartaco si sono rivelati importanti per la stesura del libro: ad esempio l’Autobiografia mai scritta di Errico Malatesta e il bellissimo romanzo La suora anarchica di Antonio Rabinad. 

Qual è il tuo rapporto con i critici professionisti e con i book blog?
Non molto stretto, ma non per scelta ideologica. In generale non sono bravo a promuovermi attraverso pubbliche relazioni, ma quando avviene un incontro che mi colpisce, magari durante una presentazione o una rassegna editoriale, allora scelgo di coltivare il rapporto.

Qual è la cosa più bella che è stata detta riguardo a un tuo romanzo? E la più brutta?
La più bella viene da tutte quelle persone che mi hanno detto una frase di questo tipo: .  Penso poi alle belle parole di Fernanda Pivano scritte nella prefazione al mio terzo libro, Le brigate Carosello.
Il ricordo più brutto, invece, è la bocciatura dei miei primi racconti da parte di un agente letterario. Usò parole dure e, secondo me, immotivate, con riferimenti alla storia molto approssimativi. Pensai che avesse letto un altro libro, ma subentrò presto in me la consapevolezza che le strade dell’immaginazione sono ardue, e che avrei potuto migliorare lo stile insieme alle idee. Tra l’altro da quell’episodio ho ricavato una canzone, L’editore, che fa parte del mio cd Fuori dagli schermi.

Hai qualche mania come scrittore?  Che so,  riesci a scrivere solo in un posto preciso o a una particolare ora del giorno o della notte?
Ho molte manie. Le abitudini, del resto, ci confortano e attenuano il senso di insicurezza. Di solito scrivo su carta per poi ricopiare il testo su pc e farne dunque una prima revisione. Orari privilegiati non ne ho più da quando sono padre di una meravigliosa bimba. Quando posso scrivo di sera, tarda sera, ma ogni momento è buono se c’è l’ispirazione. Tendo soprattutto a mantenere una cadenza regolare se sto lavorando a un romanzo, per non perdere il ritmo della storia. Una delle manie, dunque, è imporsi una disciplina, non troppo ferrea però…  Quanto ai luoghi, ho necessità del totale isolamento. Devo essere solo con me stesso per scrivere. Stare a contatto con il mare, sicuramente, mi aiuta, ma vivendo a Milano devo adattarmi alla quotidianità. 

Io ho un’ossessione per le copertine dei libri, condizionano tanto la mia decisione di leggere o meno un’opera. Hai avuto voce in capitolo nella scelta di quella dei tuoi libri?
Sì, a volte con successo, altre volte no. Ne L’estate di Bob Marley, per esempio, Tullio Pironti ha scelto una copertina che sulle prime non mi convinceva. Ma un editore come lui ha un’esperienza tale che i fatti gli hanno dato ragione. Quanto all'ultima copertina, ne ho discusso molto con gli amici di Spartaco, e alla fine abbiamo condiviso la scelta. 

Cosa consiglieresti a un aspirante scrittore ?
Di vivere la propria passione in modo sano. Scrivere ciò che emoziona, non ciò che conviene, ricavare puro godimento dalla stesura senza preoccuparsi troppo di ciò che penseranno amici, familiari, critici o editori. Uno stile che ci appartiene è sicuramente meglio di una vittoria ottenuta bluffando. Le sconfitte e le delusioni fanno parte del tragitto che passa anche attraverso la fatica, mentre l’unica ricompensa certa viene dall'immaginazione. Per molti ne vale la pena, e anche per me. 

Cosa pensi dell’editoria a pagamento? E dell’autopubblicazione?
Sono molto scettico sulla prima. Un editore che si fa pagare non è disposto a rischiare, e dunque non credo possa sostenere con convinzione un libro che pubblica. Meglio allora pubblicarsi a proprie spese, a patto che un autore creda fermamente in se stesso e abbia energie sufficienti per farsi conoscere. 

Ebook o cartacei?
Entrambi, anche se io propendo per i cartacei. Per me il libro è ancora un oggetto dotato di  fascino e magia, di suggestioni perfino olfattive e tattili. Le pagine segnate, fitte di note, i brani sottolineati rappresentano la mappa di un viaggio. Va detto però che quando affrontiamo un viaggio reale,  l’e-book ci apre meravigliose possibilità. Possiamo portarci dietro un mucchio di libri senza appesantire il bagaglio. Credo perciò che le due facce del libro, quella cartacea e quella elettronica, siano destinate a convivere anche in futuro. 

Qual è il romanzo, non tuo, a cui sei più legato? E tra i tuoi invece?
Chiedi alla polvere di John Fante. Scritto con l’anima, commovente, toccante, bellissimo e coinvolgente come gran parte dei romanzi e dei racconti di Fante. Ho scoperto questo grande scrittore in un momento poco felice della mia vita, e  mi ha restituito slancio ed entusiasmo. Quanto ai miei libri non saprei dirti. Ciascuno rimanda a un periodo particolare della mia vita cui sono legato. Sono tutte creature che amo. 

Un autore/autrice italiana che stimi tantissimo? Consigliaci un suo libro.
Adoro Luciano Bianciardi, autore controcorrente che considerava il successo solo come il participio passato del verbo succedere. Considero il suo romanzo La vita agra un capolavoro, perché mette a nudo le ipocrisie del boom economico ma sa andare oltre quel periodo e assume una valenza più ampia. 

Hai letto le Cinquanta Sfumature?
No, né prevedo di colmare la lacuna.

Qual è Il tuo colore preferito?
Ahi, domanda difficilissima, da non porre a un indeciso che vorrebbe tanti colori… Tra i preferiti ci sono sicuramente il verde e il rosso, guarda caso i colori delle copertine dei miei ultimi due romanzi con Spartaco. 

sabato 28 settembre 2013

L'ABORTO Una storia romantica - Richard Brautigan

Era da parecchio tempo che volevo leggere questo libro. Da quando avevo scoperto del fuorviante cambio di titolo che ha avuto nel periodo in cui è stato pubblicato dalla casa editrice marcos y marcos e che poi è stato, giustamente e per fortuna, riproposto corretto dalla ISBN. Ero curiosa di capire cosa avesse spinto la prima casa editrice a modificarlo in La casa dei libri e se e quanto effettivamente centrassero con la storia originale.
Quindi quando c'è stata l'offerta dell'ebook non me lo sono lasciata scappare. Ieri pomeriggio l'ho iniziato e stanotte, nemmeno poi tanto tardi, l'ho finito.

Non so se capita anche a voi, ma mi sono accorta che i libri che solitamente mi lasciano più dubbi e perplessità sono i romanzi corti. Non tutti eh, sia chiaro, ma con molti arrivo alla fine della lettura, spesso anche molto piacevole, domandandomi se magari sono io a non aver capito qualcosa, a non aver colto a pieno il vero senso del libro. E questo ovviamente mi è successo anche con questo breve romanzo di Richard Brautigan. L'ho letto con piacere, la storia mi è anche piaciuta, eppure non riesco a togliermi di dosso la sensazione di essermi persa qualcosa.

Il protagonista è un bibliotecario che lavora a San Francisco, in una strana biblioteca, che raccoglie romanzi mai pubblicati. Una biblioteca aperta ventiquattrore su ventiquattro, dove gli scrittori, di qualunque genere ed età, possono arrivare a qualunque ora del giorno e della notte. Ad accoglierli c'è lui, quest'uomo che da tre anni vive lì dentro senza mai poter uscire. Registra i libri, scambia due chiacchiere con gli autori e lascia che siano loro a posizionare il libro dove più preferiscono. Un giorno, in questa biblioteca arriva Vida. Una donna bellissima, con un corpo che fa letteralmente girare la testa a tutti gli uomini che incontra e di cui lei è stanca. Tra Vida e il bibliotecario scocca la scintilla, si innamorano e lei riesce così a riprendere un po' di sicurezza, protetta anche dalle mura della biblioteca. Finché un giorno lei non rimane incinta e insieme decidono di abortire, perché non si sentono pronti. Ma per farlo bisogna ovviamente uscire dalla biblioteca e affrontare, di nuovo, il mondo.

Il romanzo mi è piaciuto molto, grazie soprattutto allo stile di Brautigan, semplice ma anche a volte molto profondo. E' bella l'idea della biblioteca, di questo posto che accoglie quei libri che probabilmente nessun altro oltre all'autore leggerà mai e che riesce a trasmettere sicurezza a chiunque ci metta piede dentro. E' bello  anche il modo in cui viene rappresentato l'amore, fonte di sicurezza e spinta che, anche nei momenti più bui, ci può aiutare a ricominciare. E poi, ho apprezzato molto anche il modo in cui viene trattato il tema dell'aborto, un argomento difficile da affrontare senza cadere in banalità e lacrima facile. Qui viene raccontato in un modo quasi surreale, semplice eppure senza mai alcuna mancanza di rispetto, come qualcosa che i due protagonisti sanno che è giusto di dover fare, così come qualcosa che per chi è in clinica con loro invece è doloroso o necessario. 

Insomma, questo libricino mi è piaciuto, e anche tanto. Pur non essendo sicura di averne capito a pieno il suo significato, mi sono comunque goduta una storia semplice, sincera, surreale... una specie di favola, di cui forse non ho colto appieno tutto il valore, ma che comunque è riuscita  a lasciarmi qualcosa e che mi sento di consigliarvi caldamente.

E poi, ha una dedica iniziale semplicemente meravigliosa!

(Per quanto riguarda il cambiamento di titolo nel periodo della marcos y marcos, la scelta sicuramente non è stata delle migliori però, pesandoci bene, non è poi così completamente sbagliato... io sono riuscita a trovarci una logica e un senso... ma comunque l'originale è sicuramente meglio!)

Titolo: L'aborto, una storia romantica
Autore: Richard Brautigan
Traduttore: Pier Francesco Paolini
Pagine: 171
Anno di pubblicazione: 2012
Editore: ISBN
ISBN: 978-8876383304
Prezzo di copertina: 19 €
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venerdì 27 settembre 2013

LOS BESOS NO SE GASTAN (I baci non sono mai troppi) - Raquel Martos

Se c'è una cosa che odio nei libri è la prevedibilità. Il sapere già a metà lettura come andrà a finire. Ma anche la banalità un po' mi irrita, così come mi infastidisce l'uso sbagliato dello spazio e del tempo o le storie che sfruttano malattie e tragedie per accalappiare i lettori. Ma la cosa in assoluto che odio di più sono le belle idee, i bei titoli sprecati. Quei titoli talmente belli, da cui ti aspetti grandi cose e che invece rimangono lì, sospesi, come se fossero venuti in mente per caso all'autore.

Los besos no se gastan (in italiano I baci non sono mai troppi, edito da Feltrinelli) rientra in tutte le categorie sopra descritte. In TUTTE. Nemmeno io volevo crederci mentre lo leggevo.
Sarà che condivido il titolo in tutto e per tutto, che credo che i baci non bastino mai, che tra darseli e non darseli sia sempre e comunque meglio la prima opzione. E quindi sì, mi aspettavo tanto da questo libro, forse troppo.

Ci sono due amiche, Lucia ed Eva, una mora e una bionda, che si conoscono fin da quando erano bambine, quando la madre di Lucia è morta e lei ha dovuto cambiare scuola. Sono inseparabili, crescono insieme e insieme diventano adulte. Finché qualcosa tra le due si spezza e si allontanano. Si ritrovano poi per caso nell'aeroporto di Madrid, dopo anni in cui, pur vivendo nella stessa città, non si sono viste né sentite ma continuamente pensate. Lucia è una donna in carriera, che è stata appena lasciata dal compagno, incapace di sopportare la differente quantità d'amore che provano l'un l'altra. Eva sta divorziando, ha una bambina di cinque anni e il grande rimpianto di aver abbandonato la sua carriera di attrice. Si ritrovano ed è come se non fosse cambiato nulla. Insieme affrontano nuovi problemi: Lucia e la sua insicurezza rispetto alla voglia di diventare madre, Eva e le sue prime uscite dopo il divorzio, la bambina che cresce sotto lo sguardo delle due. Finché tutta una serie di tragedie non si abbatte sulla famiglia di Eva e renderanno la loro amicizia davvero indissolubile.

Il problema principale del libro è che tutto succede troppo in fretta. Troppo succede troppo in fretta. Due amiche che non si parlano per anni e che una volta ritrovate è come se nulla fosse cambiato. Persone che si lasciano, che se ne vanno, che muoiono, che si ammalano, che si innamorano... il tutto in duecentocinquanta pagine. Il tutto troppo poco approfondito, nonché, come si diceva già all'inizio, estremamente prevedibile. Il libro vuole fare piangere il lettore e lo pone di fronte a una tragedia dopo l'altra, come se le amicizie solo con le tragedie potessero diventare così forti. 
Ed è un peccato, perché il romanzo avrebbe avuto tutto il potenziale per essere un bel libro. Lo stile dell'autrice è fresco, rapido, tipicamente spagnolo e ti incolla alle pagine del libro. Ed è bella l'idea dei capitoli alternati tra presente e passato, così come quello di leggere la storia, all'interno di ogni capitolo, dal punto di vista di Eva e di Lucia (anche se, soprattutto all'inizio, questo genera un po' di confusione... ci ho messo un'ottantina di pagine prima di riuscire a capire chi fosse l'una e chi l'altra). Così come è altrettanto bello, bellissimo il legame d'amicizia che c'è tra le due, soprattutto quando sono bambine e adolescenti.

Per cui, nonostante contenga tutti i luoghi comuni e le caratteristiche che meno sopporto nei libri, non me la sento di bocciarlo completamente. Si sente che è un'opera prima e si percepisce che qualcosa di quanto presente nel libro sia successo davvero all'autrice. Magari non tutto, ma sicuramente c'è un tributo a una sua amica e al loro passato e presente comune.
Insomma, se avete un'amica con cui condividete tutto fin da quando siete bambine, se avete voglia di un po' di lacrime facili facili e non vi importa più di tanto della banalità e della prevedibilità, questo libro è decisamente consigliato e, sono sicura, non vi deluderà. In caso contrario, potete tranquillamente lasciar perdere.

Però mi raccomando, sia che leggiate il libro sia che non lo facciate, ricordate sempre che i baci non sono mai troppi. 

Titolo originale: Los besos no se gastan
Titolo italiano: I baci non sono mai troppi
Autore: Raquel Martos
Editore spagnolo: Espasa
Editore italiano: Feltrinelli
Acquista su Amazon:
lingua originale: Los besos no se gastan

mercoledì 25 settembre 2013

Due titoli, un solo libro: ma perché?#50

Siamo arrivati alla cinquantesima puntata! Mamma mia! Mi sembra ieri che ho iniziato a lamentarmi dei cambiamenti di titolo e invece...
Sono stata indecisa fino all'ultimo su quale libro parlare oggi: uno dei cambi drastici che tanto mi irritano o uno di quei cambi,invece, necessari che apprezzo e condivido? Una scelta difficile, lo ammetto.

Ma alla fine volevo che questa puntata cinquanta fosse speciale e per esserlo ho deciso di fare un tuffo nel passato, di ripensare alla mia infanzia, ai libri che leggevo allora, quando ancora mi concentravo solo ed esclusivamente sulla trama e non polemizzavo sui titoli. Ci sarà pur stato anche allora un libro il cui cambio di titolo, oggi, mi avrebbe dato da pensare, no?
C'è. C'è eccome. Ed  del grande Roald Dahl, uno scrittore che da bambina amavo tantissimo e che adesso, ogni volta che mi capita, consiglio e regalo volentieri a chi ha l'età giusta per leggerlo (ma anche a chi è già cresciuto e non ha avuto la fortuna di incontrarlo quando era bambino).
Molti dei suoi libri hanno un titolo diverso tra versione originale e italiana, ma oggi mi concentro solo su uno, quello forse più drastico nonché quasi obbligato. Mi riferisco a quello avvenuto con THE BFG

THE BFG (acronimo di The Big Friendly Giant) è uscito nel 1982 e racconta la storia di Sofia, una bambina orfana, che una notte viene rapita da un gigante che la porta nel suo paese, popolato ovviamente da altri giganti, che però si cibano proprio di esseri umani. Ma il BGF è diverso dagli altri, è amichevole e pacifico, e aiuterà Sofia a tornare a casa.

Nella traduzione degli acronimi da una lingua all'altra le probabilità che nessuna delle parole cambi l'iniziale è estremamente bassa, per cui molto spesso un acronimo che in una lingua suona in un modo in un'altra è completamente diverso.
In questo caso, se si fosse tradotto letteralmente dall'inglese all'italiano , il BGF sarebbe diventato il GAG, ovvero il Grande Amichevole Gigante (diciamo GGA va, spostando il secondo aggettivo dopo il sostantivo, che suona molto meglio).
Immagino che a questo punto, vista la presenza di due iniziali uguali, abbiano pensato di cercare una parola che avesse un significato simile a friendly ma che iniziasse per G, così da creare un acronimo tutto uguale e più facilmente ricordabile per un bambino. Se amichevole sto gigante, sarà anche gentile, no? Ed ecco che, nel 1987, la casa editrice Salani pubblica, con la traduzione di Donatella Ziliotto, il GGG, il Grande Gigante Gentile!



Come forse vi avevo già accennato in qualche puntata precedente, sto cercando di decidere cosa fare di questa rubrica. Abbandonarla mi spiacerebbe, perché comunque il discorso del cambiamento dei titoli mi turba e mi irrita non poco e ho bisogno di una valvola di sfogo in cui lamentarmi. Non vorrei solo che stesse perdendo un po' dell'interesse e del seguito iniziale. L'idea potrebbe essere quindi di renderla meno frequente, una volta ogni due settimane o, come con le altre rubriche, a intervallo casuale, quando trovo qualche titolo che merita due parole. Voi che dite?

martedì 24 settembre 2013

ALLA GRANDE - Cristiano Cavina

Cristiano Cavina è uno di quegli autori di cui ho sempre sentito parlare senza aver però mai avuto la tentazione di leggere nulla. Non so bene perché, forse  semplicemente non mi ero mai informata molto su di lui, sul suo stile o gli argomenti dei suoi libri. Poi, qualche giorno fa, è uscito il suo ultimo romanzo, con un titolo bellissimo, Inutile Tentare Imprigionare i Sogni, e ho deciso che era giunto il momento di dare a questo autore una possibilità. 
Ho scelto volutamente un libro precedente un po' per mettere il mio portafoglio al riparo da eventuali delusioni e un po' perché mi sono accorta che solitamente, quando inizio dall'ultimo romanzo, se l'autore non riesce a conquistarmi a pieno, difficilmente andrò a cercare ciò che ha pubblicato prima.

La scelta è caduta su Alla grande,  che poi è il primo romanzo di Cavina, per la sua buffa copertina e per la trama riportata sul risvolto, che lasciava presagire un piccolo grande romanzo.
Protagonista è Bastiano Casaccia, detto Bla. Un bambino che vive con la madre e i nonni in una casa popolare di Casola Valsenio, un paese della Romagna. Del padre non si sa nulla e lui si diverte a inventare per lui le occupazioni più improbabili ma più ad effetto sugli altri bambini. E' un bambino vivace, esagitato, che ne combina una dietro l'altra, ma anche con un grande cuore. Parla sempre con il Signore, anche se questi non sempre gli risponde, è affezionato alla sua vicina di casa disabile ed è preoccupato per il destino della sua famiglia, in evidenti difficoltà economiche. Ma ha un piano per risollevare le sorti della sua famiglia e diventare l'eroe agli occhi di tutto il paese: costruire un sommergibile e andare a recuperare un sacco di monete d'oro che, leggenda vuole, si trova in fondo al lago. Ma non è facile costruire un sommergibile, soprattutto se si è bambini e non si hanno i mezzi. L'unica soluzione per procurarsi i pezzi necessari è rubarli. Bastiano si caccerà in un guaio dopo l'altro, via via sempre più grave, con conseguenze irreparabili.

Il romanzo è effettivamente divertente: il mondo e la vita del paese vista dagli occhi di Bastiano, tutto filtrato dal suo sguardo ancora bambino che gli fa vedere e registrare tutto quello che succede, anche le cose più tristi e più brutte, senza riuscire sempre a comprenderle. L'assenza del padre, il silenzio sullo zio mezzo criminale, la disperazione della madre di fronte ai guai che combina e che lo porta a combinarne altri per cercare di rimediare, ma anche i problemi degli amici, degli abitanti del palazzo. Non si può fare a meno di provare simpatia per lui, di sorridere quando passa per strada in sella alla sua Turboberta (la bicicletta) e rimanerci un po' male quando ogni suo gesto, anche quello compiuto con le migliori intenzioni, finisce male. 
E mi è piaciuto anche molto lo stile di Cavina (quasi non sembra un holdeniano), che riesce a riprodurre perfettamente il linguaggio e la visione del mondo di un bambino di quell'età, quel mescolarsi di candore e consapevolezza, che fa sorridere ma anche un po' commuovere.

Eppure c'è qualcosa che non mi ha convinta, che credo dipenda dal fatto che ultimamente ho letto diversi romanzi molto simili a questo. C'è un bambino sulla soglia dell'adolescenza, senza un padre, con una madre che gli vuole bene ma non sa come fare con lui, con dei concittadini che lo guardano con un misto di pietà e riprovazione, tormentato dai teppisti e con accanto una banda di amici con cui cerca di compiere un'impresa straordinaria necessariamente destinata a fallire e che avrà conseguenze anche gravi. 
Di questi libri bisognerebbe leggerne uno ogni qualche anno, per fare un tuffo nel proprio passato e nella propria infanzia, per riportare a galla quei ricordi che con il passare del tempo iniziano a sbiadire. Letti invece con poca distanza l'uno dall'altro, alla fine danno un sensazione di già visto, di già letto, di già vissuto che non ti permette di apprezzarli come meriterebbero.

In ogni caso, leggerò sicuramente qualcos'altro di questo autore, perché comunque la sua rappresentazione del paese e della vita che in esso si vive è molto efficace e ben riuscita. Insomma, Cavina è sicuramente un bravo narratore! 

Titolo: Alla grande
Autore: Cristiano Cavina
Pagine: 252
Anno di pubblicazione: 2010
Editore: Marcos y Marcos
ISBN: 978-8871685441
Prezzo di copertina: 10 €
Acquista su Amazon:
formato brossura: Alla grande

lunedì 23 settembre 2013

Interviste rampanti: MARCO MALVALDI

Protagonista dell'intervista rampante di questa settimana è uno tra i miei scrittori preferiti del momento. Ho scoperto Marco Malvaldi per caso, poco più di un anno fa, e mi sono innamorata del suo stile, dei suoi personaggi e della sua scrittura.
Malvaldi deve la sua maggiore fama alla saga del BarLume, quattro romanzi ambientati in un paesino della Toscana con protagonista un barrista-investigatore, affiancato da un gruppo di vecchini impiccioni, personaggi davvero indimenticabili. Ho poi apprezzato molto anche Milioni di milioni e, soprattutto, Odore di chiuso. Il 26 settembre uscirà, sempre per la casa editrice Sellerio come i precedenti, il nuovo romanzo, Argento vivo.
Ringrazio tantissimo Marco per aver accettato di rispondere alle mie domande e il suo fantastico fan club per avermi aiutato ad entrare in contatto con lui.

© Nicola Ughi
Da bambino dicevi “da grande farò lo scrittore”?
Nemmeno per idea. Da bambino, vedevo mio padre che passava le proprie giornate a preparare i lucidi per le lezioni; mio padre insegnava immunologia, e secondo me il suo lavoro consisteva nel fare disegni bellissimi e coloratissimi e poi andarne a parlare agli studenti. In poche parole, il lavoro più bello del mondo. Per cui, da bambino quando mi chiedevano “cosa farai da grande” rispondevo “il professore universitario”. Questo ha avuto un impatto piuttosto negativo sulla mia socialità, da bambino, e anche oltre, per cui leggevo moltissimo: il che è necessario per scrivere.

Sebbene i romanzi con protagonisti Massimo, nonno Ampelio e gli altri fantastici vecchini, mi facciano sempre ridere tanto e di gusto, per me il momento in assoluto più divertente in un tuo libro è in Odore di Chiuso, quando Gaddo incontra Carducci per strada e quest’ultimo gli risponde con una sorta di poesia. Da quando l’ho letta, non riesco a fare a meno di chiedermi: ma come ti è venuta?
Le strofe finali della poesia apocrifa del Carducci mi sono state recitate da mia moglie Samantha, la quale mi ha raccontato anche una storia molto simile alla scena del libro, parlandone come di leggenda metropolitana (o meglio, paesana) di Bolgheri; pare che il Carducci, sorpreso a cambiare l’acqua al merlo sulla porta di casa di una guardia comunale, sia stato redarguito dalla stessa e abbia risposto letteralmente per le rime...
Il resto è opera mia, ho tentato di scimmiottare lo stile carducciano con un po’ di spirito goliardico.

Come sei stato scoperto (o come sei riuscito a farti scoprire) dalle case editrici che ti hanno pubblicato?
Grazie ad un uso accorto della statistica, unito ad un fenomeno chiamato “colpo di culo”: ho inviato il mio primo romanzo, La briscola in cinque, ben rilegato e con tutti i dati sul frontespizio, a circa quindici case editrici. Mi ha risposto solo una. Grazie alla parte anatomica di cui si diceva sopra, è stata Sellerio: quella a cui tenevo di più, tanto che in un primo momento non glielo avevo nemmeno inviato. Mi sembrava di mirare troppo in alto.

Qual è il tuo rapporto con i critici professionisti e con i book blog?
Ai book blog voglio un bene dell’anima: il primo romanzo ha avuto successo grazie al passaparola creatosi su internet e nelle librerie indipendenti. Coi critici professionisti, il rapporto è ambivalente: dipende dalle persone, e dalla loro onestà. Però in genere sono stato trattato anche meglio di quanto meriti...

Qual è la cosa più bella che è stata detta riguardo a un tuo romanzo? E la più brutta?
Una volta, sono stato fermato da una signora che mi ha detto “sono in chemioterapia, e i suoi libri sono stati gli unici momenti lieti dell’ultimo anno”; per uno scrittore di intrattenimento, credo sia il massimo complimento possibile. La più brutta, una tipa su IBS che si diceva sdegnata del trattamento riservato al Carducci in Odore di Chiuso e si chiedeva: “Ma non lo sa il Malvaldi che il Carducci è stato anche insignito del premio Nobel’”. In pratica, ha scambiato un sincero omaggio alle capacità di stornellatore del poeta bolgherese (che sono storicamente documentate) per un dileggio. Ognuno è libero di criticare, ma se uno non capisce...

Hai qualche mania come scrittore?  Che so, riesci a scrivere solo in un posto preciso o a una particolare ora del giorno o della notte?
Le manie le ho, ma cambiano spesso: prima scrivevo in mansarda, adesso ho un piccolo studio. Scrivo solo al computer, ed esclusivamente su portatili (e me ne compro uno nuovo per ogni libro che scrivo, regalando il vecchio). Ah, l’unica cosa che non cambia è che scrivo esclusivamente di mattina: la roba che scrivo di pomeriggio di solito fa senso.

Io ho un’ossessione per le copertine dei libri, che condizionano molto la mia decisione di leggere o meno un’opera. Hai avuto voce in capitolo nella scelta di quella dei tuoi libri?
Magari. Una volta ho provato, per Il gioco delle tre carte, a proporre un paesaggio giapponese di Hokusai; mi hanno risposto “lei pensi a scrivere che le copertine le facciamo noi”, e visto che stavo parlando con Sellerio mi sa che tutti i torti non li avevano. Le loro copertine sono spettacolari; colori tenui, e il titolo nello stesso colore dominante dell’illustrazione. Quando entri in libreria, le vedi da lontano.

Cosa consiglieresti a un aspirante scrittore ?
Di scrivere il libro che gli piacerebbe leggere nel momento stesso in cui si mette a scrivere. E di leggere qualsiasi cosa. Capolavori, per imitare: si parte tutti così. Se ti chiedi chi volevo imitare io, è facile: Stefano Benni. Roba brutta, per imparare gli errori da non fare. Libri antichi, classici greci, teatro inglese, per ampliare il proprio linguaggio e le proprie metafore. E, inoltre, saggistica: di ogni tipo. Ma, in generale, leggere. Anche dai bugiardini dei medicinali c’è qualcosa da imparare.

Cosa pensi dell’editoria a pagamento? E dell’autopubblicazione?
Sugli editori a pagamento, sarò brutale: tutto il male possibile. L’editore è uno che sceglie, e in un mondo in cui il cinquanta per cento degli abitanti ha un romanzo nel cassetto questa è una mera pratica di circonvenzione di incapace. Per l’autopubblicazione, se una persona  è consapevole che lo fa solo per motivi pratici (spedire ad un editore, o regalarlo agli amici) perché no?

Ebook o cartacei?
Ho letto il mio primo ebook giusto da tre giorni. L’isola dei cacciatori di uccelli, di Peter May. Troppo presto per dare un giudizio, ma ho la sensazione che me lo sarei goduto di più su carta. Bel libro, comunque.

Qual è il libro, non tuo, a cui sei più legato?
Il barone rampante, di Italo Calvino. Il primo libro non espressamente per bambini che ho letto. Avevo dodici anni, e sono entrato nel tunnel.

Un autore/autrice italiana che stimi tantissimo? Consigliaci un suo libro.
Troppo facile: Primo Levi. Il sistema periodico è un libro unico, non si può non leggerlo.

Hai letto le Cinquanta Sfumature? Qual è Il tuo colore preferito?(ndr temo di aver inviato le ultime due domande senza spazio tra l'una e l'altra... e questo è il risultato)
No, non l’ho letto: siccome faccio lo scrittore di lavoro, e trombo solo per divertimento, non mi piace mischiare le due cose. Scherzi a parte, no. Delle varie colorazioni proposte, le più plausibili mi sembrano quelle del rosso: certe parti, a usarle smodatamente, si infiammano...

sabato 21 settembre 2013

VOLFANGO DIPINTO DI BLU - Elvio Calderoni

Ad aprile di quest'anno sono stata a Bologna. Una città molto bella, che avevo visitato da piccola e che non mi ricordavo assolutamente. Tra una mangiata di mortadella e una passeggiata per le vie del centro, siamo anche andati fino al santuario di San Luca. In cima alla collina. A piedi, percorrendo il porticato più lungo del mondo, quei 666 archi al termine dei quali tutte le tue colpe dovrebbero essere espiate.

Questa premessa è necessaria per potervi parlare di Volfango dipinto di blu, questo libro di Elvio Calderoni che si è rivelato un'incredibile scoperta. E' necessaria perché Bologna e San Luca sono tra i protagonisti di questo libro. A  Bologna vivono Giovanna, Hanna, Piero e, da poco, anche Piergiorgio. Ci viveva anche Antonio ma ha fatto cambio di posto di lavoro con Piergiorgio ed è finito a Cagliari, per fuggire e cercare di ricominciare. E ci viveva anche Volfango. Volfango che amava il blu e suonava in un gruppo rock. Volfango che è stato ritrovato morto carbonizzato in un bosco e che i suoi amici e sua sorella non riescono in nessun modo a dimenticare. Il giorno del suo primo compleanno dopo il ritrovamento del suo cadavere, i suoi compagni di classe portano a scuola un suo pupazzo, tutto blu, per ricordarlo e averlo con loro anche una volta. Giovanna invece va su a San Luca, in bicicletta, come erano sempre soliti fare, cercando di fingere che non sia successo niente, che Volfango tornerà. Prima di salire però, vede i compagni di classe, vede il pupazzo e vede anche Hanna, insegnante di tedesco sua e, per poco, anche del fratello. Hanna che è la ex moglie di Antonio, oltre che una terrorista che sa molto più di quanto possa sembrare su quel che è successo a Volfango. Piergiorgio è il vicino di casa di Giovanna, oltre che colui che raccoglie il pupazzo di Volfango dopo che il padre di Piero l'ha lanciato dalla finestra, preoccupato per il figlio. E ha un amico, Corrado, che vive a Cagliari e che fa l'oculista e di cui anche Antonio diventa amico. Tutti insieme, a poco a poco, cercano di fare i conti con la loro vita e con quella di chi incontrano, arrivando a scoprire una verità che potrebbe cambiarla, drasticamente, ancora una volta.

Intrecci e incastri perfetti, costruiti a regola d'arte dall'autore, che riesce a tenerti incollato alle sue pagine. Un libro a tratti inquietante (credo che mi sognerò il pupazzo gigante di Volfango per un bel po'), a tratti angosciante, ma anche triste, divertente, commovente. Un libro che parla di amicizia, che parla d'amore, ma anche di dolore, di sofferenza e di voglia di ricominciare.
E' stata una lettura strana, in parte inaspettata, soprattutto grazie a questo protagonista, Volfango, sempre assente eppure unico vero motore di tutta l'azione, che riesce a tenere insieme tutti gli altri personaggi e a cambiare, in un modo o nell'altro e più o meno consapevolmente, le loro vite.
E anche se forse nel finale il romanzo si perde un po' e lascia un dubbio che avrei preferito non lasciasse, si tratta sicuramente di un romanzo davvero bello, da leggere assolutamente.

Titolo: Volfango dipinto di blu
Autore: Elvio Calderoni
Pagine: 224
Anno di pubblicazione: 2012
Editore: Miraggi
ISBN: 978-8896910207
Prezzo di copertina: 13,90 €
Acquista su Amazon:
formato brossura: Volfango dipinto di blu

venerdì 20 settembre 2013

Quello che nei libri non c'è.

Dovrei scrivere la recensione di un libro. Di un bel libro tra l'altro, Volfango dipinto di blu di Elvio Calderoni. Ma in questo momento ho la testa altrove e finché non mi riesco a liberare di tutti questi pensieri non riuscirò a concentrarmi su altro.
Ci sono cose che i libri non ti insegnano. E lo so che sto dicendo un'ovvietà. Una cosa che tutti sanno, che io stessa so. Eppure a volte questa consapevolezza si fa più forte di altre, talmente forte che quasi ti fa del male.
Quando è stato male mio padre e poi, dopo tre anni, è mancato, nulla di quello che avessi letto prima o durante mi ha preparata per quello che è effettivamente successo. Perché le storie dei libri non sono storie vere, anche se alla realtà assomigliano molto. O anche quando lo sono, sono storie vere che succedono ad altri, che colpiscono altri. La realtà, quella che ti colpisce di più o ti fa più male è quella che vivi in prima persona, quella che senti sulla tua pelle. I libri a volte ti aiutano a capire, altre ti fanno sentire meno solo, altre ti mettono di fronte a situazioni ancor più disperate e ti fanno rivedere quello che succede a te con occhi diversi. Ma non saranno mai la tua vita. Mai quello che vedi e che senti. 
Oggi ho accompagnato mia madre a trovare una nostra vecchia vicina di casa. Una signora che era solita passare l'estate qui e andare a svernare al suo paese natale. Quest'estate qui non è venuta. E' stata male. Problemi alle ossa prima, allo stomaco poi, alla testa adesso. Era una signora forte, una signora irruente, un po' lamentosa a volte, alla quale la vita ha riservato una mazzata dietro l'altra senza mai riuscire a distruggerla. E' la signora a cui rubavo le meringhe da bambina, quella con cui mangiavo le olive davanti al forno acceso quando i miei mi lasciavano da lei perché mi guardasse. La signora da cui mio papà già in sedia a rotelle si faceva portare tutti i giorni dopo pranzo a far due chiacchiere. E' la signora che si sentiva urlare al marito fin da cento metri di distanza e la stessa che ti riempiva di baci quando ti incontrava per strada.
Eppure, oggi, quando ha aperto la porta, non mi sembrava lei. Non era lei. Avevo davanti una signora docile, quasi rimpicciolita, richiusasi in se stessa. Ci ha accolto piangendo e ha pianto durante quasi tutta la nostra permanenza, sebbene la sorella cercasse in ogni modo di farla smettere. Una signora stanca, spaventata, depressa. Dicono demenza senile, dicono depressione, dicono principio di Alzheimer. Si è parlato di mio padre, ovviamente, perché quando si soffre e si sta male non si può che ricordare quanto hanno sofferto e sono stati male gli altri. Si è parlato di lei, che ha la consapevolezza che qui non ci tornerà più e che forse da qui a trovarla non ci andrà più nessuno. 
Eppure di libri che parlano di anziani ne ho letti un sacco: di centenari che saltano dalla finestra per unirsi a un circo (Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve), di vecchietti che si riuniscono in una sorta di comune perché abbandonati da figli e nipoti (E poi Paulette), di vecchini dispettosi ma anche molto consapevoli che sfruttano a loro vantaggio tutti i terribili difetti della loro età (La banda degli invisibili), di vecchini investigatori (tutta la saga di Malvaldi)... e se ci pensassi con calma sono sicura che me ne verrebbero in mente tanti altri. Eppure, nulla di quello mi ha preparato a quel che ho visto oggi. Alla tristezza che ho provato. 
Devo ammettere che io non sopporto molto chi dice "non vado a trovare qualcuno che sta male perché preferisco ricordarmelo com'era". Eppure li posso capire, perché così riescono a risparmiarsi qualche batosta, qualche dolore, qualche botta di realtà.
Però, non so. Quando lo stupore e la tristezza spariranno, mi rimarrà in mente il suo sguardo felice e commosso di quando ci ha viste entrare. Il suo sorriso quando sono riuscita a farla ridere. Oltre ovviamente alle olive che mi faceva mangiare da bambina e alle meringhe che le rubavo di nascosto.
E tutto questo, nei libri, ovviamente, non c'è.

Scusatemi, questo post non c'entra molto con la lettura e con questo blog. Ma avevo bisogno di scriverlo.

mercoledì 18 settembre 2013

Due titoli, un solo libro: ma perché? #49

Eccoci arrivati a una nuova puntata della rubrica di confronto tra titoli. Dopo la rabbia causata da Il pasticciere del re e dal suo drastico (e fuorviante!) cambiamento di titolo di cui vi ho parlato ieri nella recensione, per la puntata di oggi ho scelto di parlarvi invece di uno di quei cambi che sì, effettivamente, ci sono stati ma che non me la sento del tutto di condannare, perché dovuti a una difficoltà linguistica forse invalicabile.

Il libro protagonista è il nuovo romanzo di  Khaled Hosseini, scrittore americano di origine afghana reso celebre da Il cacciatore di aquiloni e Mille splendidi soli, e che occupa il primo posto nella classifica dei libri più venduti dal momento della sua uscita. Sto parlando ovviamente di E L'ECO RISPOSE, uscito nel 2013 per la casa editrice Piemme con la traduzione di I. Vaj:

Sebbene abbia apprezzato molto sia Il cacciatore di aquiloni sia, soprattutto, Mille splendidi soli, ancora non ho letto questo nuovo romanzo, né sono sicura che lo leggerò. Troppo marketing, troppa pubblicità a pelle me ne tengono alla larga. Ma spero in futuro, magari quando passerà un po' l'entusiasmo, di rimediare.

Anche in lingua originale il romanzo è uscito quest'anno, con il titolo AND THE MOUNTAINS ECHOED:


La differenza di titolo, seppur minima, è sicuramente evidente, ma questo perché una traduzione letterale sarebbe stata impossibile. In italiano manca il verbo to echo (gli inglesi hanno un verbo quasi per tutto): l'eco esiste solo in forma di sostantivo. Ovviamente si sarebbe potuto tradurre con "E le montagne fecero l'eco" ma il risultato sarebbe stato pessimo, anche perché solitamente l'eco "c'è" e non "viene fatto" (*AGGIORNAMENTO: mi fanno giustamente notare nei commenti che esiste il verbo "echeggiare" che, non so perché, non mi era assolutamente venuto in mente in questo caso... forse perché mi sembra abbia un senso diverso)
Si è quindi scelto di utilizzare l'eco come soggetto e di eliminare il riferimento diretto alle montagne, anche perché è risaputo che l'eco migliore si ha o nelle stanze vuote o comunque in posti silenziosi e montagnosi.
Rimane molto simile invece la copertina, con solo un lieve cambiamento di colori (e forse forse trovo quella italiana, con quella punta di rosso, più bella dell'originale)

Che ne pensate?

martedì 17 settembre 2013

IL PASTICCIERE DEL RE - Anthony Capella

I libri della casa editrice Neri Pozza sono sempre stati una certezza per me. Li compro o comunque li leggo quasi a scatola chiusa, senza fare troppe ricerche o interrogarmi  più di tanto su titoli e copertine. 
Ed è stato così anche per Il pasticciere del re, acquistato a pochissimi giorni dalla sua uscita, attratta dal titolo culinario, dal fatto che fosse una specie di romanzo storico e che fosse stato scritto dallo stesso autore de Il profumo del caffè, libro che avevo adorato.

Eppure, questa volta, qualcosa non ha funzionato come avrebbe dovuto. E non è colpa dell'autore, non è colpa della trama o delle ricette preparate che non erano di mio gusto. No. E' colpa del titolo italiano, cambiato rispetto all'originale, e totalmente fuorviante. Perché un libro che in originale si intitola The Empress of the Ice-cream (L'imperatrice del gelato) deve diventare Il pasticciere del re? 

Ancor più visto che uno dei due protagonisti, Carlo, è specializzato non in piccola pasticceria ma in granite, sorbetti e gelati , un'arte che ha imparato da bambino, che custodisce gelosamente e che lo ha portato alle corti reali. Da re Sole, prima, e poi da questi ceduto a re Carlo d'Inghilterra per cercare di consolarlo per la morte della sorella, cognata di re Sole, con la novità dei suoi gelati e dei suoi sorbetti,  ma anche per cercare di carpire più informazioni possibile riguardo alle sue intenzioni di alleanza con la Francia. Insieme a Carlo, viene mandata in Inghilterra anche Luoise de Kérouialle, una bella bretone mandata al palazzo francese in cerca di un marito che punti più ai titoli nobiliari che alla dote, e poi spedita al re Carlo con la precisa intenzione di sedurlo e diventarne l'amante. Ovviamente il Carlo gelataio è innamorato di Louise, che però lo rifiuta più volte perché non alla sua altezza. I due però, una volta in Inghilterra, diventano amici e Carlo assiste da lontano alle strategie messe in atto da Louise per farsi accettare dal re e riuscire quindi a manipolarlo, prima in base agli ordini ricevuti dalla Francia e poi in base a sue scelte personali. Carlo a poco a poco si renderà conto del comportamento di Louise e dei suoi veri intenti e, ferito e disincantato, prenderà una drastica decisione.

La trama del romanzo, anche se un pochino macchinosa, non è per niente male. E' evidente quanto Anthony Capella si trovi a suoi agio nei romanzi storici, con personaggi fittizi che si muovono in un contesto reale. Molto ben costruiti i personaggi, soprattutto i due protagonisti, a cui è anche affidata la narrazione, in capitoli alternati: da un lato Carlo, con la sua passione per il gelato, la voglia di sperimentare e creare sempre cose nuove e il suo sincero amore, dall'altro Louise, una donna ambigua, dolce e pura all'inizio, calcolatrice e meschina alla fine (io l'ho trovata davvero odiosa). E molto bella è anche l'idea di iniziare ogni capitolo con un estratto dal "The book of ice", in cui viene anticipato in qualche modo quello che Carlo preparerà nella pagine che seguono. 

Insomma, al romanzo in sé non avrei assolutamente nulla da recriminare. L'ho letto con piacere, è scorrevole e ben scritto, soprattutto se siete amanti del genere. Però questo cambio di titolo non riesce proprio ad andarmi giù. Anche perché l'ho scoperto a metà lettura, quando mi sono resa conto che qualcosa non stava quadrando. Infatti, oltre al fatto che come si diceva all'inizio Carlo non è un pasticciere, la vera protagonista, il vero fulcro di tutto il romanzo è Louise. L'azione di tutti ruota intorno a lei e alle sue scelte. Perché togliere il riferimento femminile dal titolo quindi?

Comunque, una lettura che consiglio... anche se forse non allo stesso livello de Il profumo del caffè.

Titolo: Il pasticciere del re
Autore: Anthony Capella
Traduttore: Maddalena Togliani
Pagine: 432
Anno di pubblicazione: 2013
Editore: Neri Pozza
ISBN: 978-8854506138
Prezzo di copertina: 18,00 €
Acquista su Amazon:
formato brossura:Il pasticciere del re

lunedì 16 settembre 2013

Interviste rampanti: STEFANO PIEDIMONTE

Protagonista dell'intervista rampante di questa settimana è: Stefano Piedimonte... a cui va innanzitutto un grande ringraziamento!

Stefano Piedimonte è nato a Napoli nel 1980 e si è occupato di cronaca nera per diversi giornali e settimanali. Nel 2012 ha pubblicato, con la casa editrice Guanda, il suo primo romanzo, Nel nome dello zio, in cui offre un ritratto molto diverso della Camorra e dei suoi affiliati, mostrandone i momenti più comici e, soprattutto, le debolezze. Un libro che io ho amato tantissimo, per il suo modo di combattere in qualche modo il male semplicemente ridicolizzandolo.
Il 19 settembre arriverà in libreria il suo secondo romanzo, Voglio solo ammazzarti, in cui protagonista è ancora una volta lo zio.


©Giliola Chistè

Da bambino dicevi “da grande farò lo scrittore”?
In effetti sì. Ho cominciato a scrivere racconti quando avevo undici o dodici anni. Roba illeggibile. L’unica a leggerli era una ragazzina che per qualche strano e inspiegabile motivo si era innamorata di me. Mi chiedeva sempre di continuare, di scrivere il seguito, ma lo faceva solo per amore. Cominciai a fare il giornalista con la speranza di riuscire ad allacciare contatti con gli editori di libri. Dopo circa dieci anni passati a fare quel lavoro, non ne conoscevo neanche uno. Ma il giornalismo è stato un’ottima palestra, mi ha fatto capire come non si scrive un romanzo
.
Come ti è venuta l’idea per “Nel nome dello zio”?
Osservando i tratti più grotteschi e paradossali di alcuni personaggi della malavita. Sono temuti, violenti, efferati, ma sono anche assolutamente miserabili. Hanno tic e passioni ridicole. Se la gente guardasse i malavitosi per quello che sono realmente, ne avrebbe meno paura.

Come sei arrivato alla casa editrice che ti ha pubblicato?
Avevo scritto un libricino per un piccolo editore locale al quale chiesi di pubblicarlo anche in ebook. Fu quello il mio colpo di fortuna. Il libro cartaceo, nelle librerie non esisteva. L’ebook, però, arrivato secondo nella classifica di vendite di una importante libreria online venne intercettato da un agente letterario (il mio attuale agente) che stava giusto facendo scouting. Si offrì di rappresentarmi, firmammo un contratto, dopo un paio di mesi inviai all’agenzia il testo di Nel nome dello Zio. Dodici giorni dopo, il 23 dicembre, mi telefonarono dicendomi che cinque diversi editori, i più importanti d’Italia, avevano fatto delle ottime offerte per acquisire i diritti del libro e pubblicarlo. Luigi Brioschi, il direttore di Guanda, oltre ad offrire un anticipo lunsighiero inviò al mio agente una lettera che ancora oggi conservo nel mio taccuino, e di cui vado molto fiero. Ci fece capire che credeva molto in me e nel mio libro. Scegliemmo Guanda.

Qual è il tuo rapporto con i critici professionisti e con i book blog?
E’ praticamente lo stesso. Le possibilità di trovare delle ottime penne sono le stesse da un lato e dall’altro. Anche quelle di trovare gente improvvisata sono le stesse da un lato e dall’altro, non si creda il contrario. I lettori capiscono bene quando il recensore scrive con cognizione di causa, che si tratti di un blog o di un grosso quotidiano.

Qual è la cosa più bella che è stata detta riguardo a un tuo romanzo? E la più brutta?
Corrado Augias, bontà sua, ha detto che sono riuscito a fare in letteratura ciò che Quentin Tarantino è riuscito a fare nel cinema. Non meritavo un complimento del genere, ma uno come Augias non lo contraddirei neanche se dicesse che il mondo è piatto. Roberto Saviano, che da allora è diventato per me come un fratello, ha scritto un lungo articolo dicendo “le pagine mi hanno annodato a loro, l’ho letto voracemente”, insieme a tante altre cose belle. Gian Paolo Serino, col tono ‘rock’ che gli è proprio, scrisse che avrebbero dovuto darmi lo Strega. Il commento che mi ha lasciato più perplesso, invece, l’ha fatto un importante settimanale di cui, fra l’altro, sono un assiduo lettore. Diceva in buona sostanza che il mio libro fa sorridere, ma non è un’arma sufficiente a combattere la criminalità. Forse bisognerebbe ricordare a qualcuno che faccio lo scrittore, non il magistrato o il poliziotto. Sono due ruoli molto diversi fra loro. Quando si incrociano, o si sovrappongono, abbiamo pessimi libri e pessimi magistrati.

Io ho un’ossessione per le copertine dei libri, condizionano tanto la mia decisione di leggere o meno un’opera. Come avete scelto quelle dei tuoi libri?
La copertina dell’edizione trade di Nel nome dello Zio l’ha disegnata Guido Scarabottolo. Guido è un genio, un grande artista, ed è pienamente autonomo. Certo, sono stato consultato. Il disegno mi è piaciuto fin da subito. La copertina dell’edizione tascabile è stata disegnata da uno studio grafico per l’editore Tea. Anche quella mi piace molto. Quando disegni una copertina devi capire bene a quale lettore ti stai rivolgendo.

Hai qualche mania come scrittore?  Che so,  riesci a scrivere solo in un posto preciso o a una particolare ora del giorno o della notte?
So che questo farà di me un personaggio meno attraente, ma no, non ho alcuna mania particolare. Accendo il computer un’oretta prima, cerco di disperdere la tensione facendo un po’ di surfing sui social network, poi incomincio a scrivere. Non devo bere, né nient’altro. Devo essere lucido. Al massimo una birretta, ma capita raramente. I momenti in cui mi concentro sono senza schermi, senza tastiere né niente. Penso molto, steso sul letto o sul divano. Prendo piccoli appunti striminziti, che costituiscono grossi nuclei. Quando mi siedo al computer è come se li dissolvessi, stemperandoli nella scrittura. L’unico imperativo categorico, quando scrivo, è: nessuno deve ronzarmi intorno. Nessuno nelle immediate vicinanze. Nessuna interferenza esterna.

Cosa consiglieresti a un aspirante scrittore?
Di non stare a sentire quelli che dicono ‘per pubblicare devi conoscere qualcuno’. Io non conoscevo nessuno. Tanti esordienti che pubblicano ogni anno con i grossi editori non conoscono nessuno. Meglio inviare il proprio manoscritto a un’agenzia letteraria, in modo da avere un primo filtro. Un bravo agente sa darti buoni consigli. E poi, quando un editore riceve un manoscritto da un agente che ritiene credibile, lo legge con un’attenzione diversa e più rapidamente.

Cosa pensi dell’editoria a pagamento? E dell’autopubblicazione?
L’editoria a pagamento, per quel che mi riguarda è una truffa. So bene che per la legge italiana non è così, ed esprimo quindi il mio parere personale. Qualcuno può non condividerlo. Se un editore crede in un testo, investe energie e denaro per pubblicarlo e promuoverlo. Se un editore ti chiede soldi per pubblicare un libro vuol dire che non crede nel tuo romanzo o che non ha gli strumenti per promuoverlo. In entrambi i casi non ti condurrà molto lontano. L’autopubblicazione? Dipende da come ci arrivi. Anche in quel caso le possibilità di arrivare lontano sono quasi pari a zero (i casi di grossi bestseller partiti da un’autopubblicazione sono così pochi da risultare praticamente irrilevanti ai fini statistici: sono le classiche eccezioni che confermano la regola), ma può rappresentare una scelta, e va rispettata. Certo, se arrivi all’autopubblicazione dopo essere stato rifiutato da cento editori, sarebbe il caso che prima tu dessi un ulteriore sguardo al tuo manoscritto. Una volta gli editori erano dieci. Essere rifiutato da dieci editori può voler dire che stanno sbagliando. Se sono in cento, a dirti di no, è probabile che tu debba riconsiderare ciò che hai scritto.

Ebook o cartacei? (o entrambi)
Li compro entrambi. Diciamo che quando c’è un bel romanzo che voglio leggere, lo compro su carta. Quando vedo super offerte su buoni titoli, compro in ebook. Sarebbe bello se gli editori dessero a chi compra un libro cartaceo un codice per scaricarne la versione ebook. Questo incentiverebbe la gente a comprare gli ereader e a leggere gli ebook. Alla fin dei conti, è della stessa opera che stiamo parlando.

Qual è il tuo romanzo preferito? 
Non credo possa esistere un unico romanzo preferito. Sicuramente, uno di quelli che mi hanno scosso di più, e che ritengo un capolavoro assoluto, è Le particelle elementari di Michel Houellebecq.

Un autore/autrice italiana che stimi tantissimo? Consigliaci un suo libro.
Niccolò Ammaniti, Io non ho paura. Maurizio de Giovanni, I bastardi di Pizzofalcone. Teresa Ciabatti, Il mio paradiso è deserto. Marco Missiroli, Il senso dell’elefante. E poi, per la serie ‘libri che dovrebbero leggere tutti’, l’ultimo di Roberto Saviano, ZeroZeroZero. E’ uno di quei libri che ti aiutano a conoscere meglio il mondo in cui vivi. Se non lo leggi, ti sei perso una puntata
.
Hai letto le Cinquanta Sfumature?
No.

Qual è il tuo colore preferito?
Il nero. Ma che domanda è?

venerdì 13 settembre 2013

Di concorsi letterari e antologie

© Christiane Beauregard
Questo post sarà un po' polemico. O meglio, anche se nelle mie intenzioni non vorrebbe esserlo, ho il sospetto che necessariamente per qualcuno lo diventerà. Ma è un argomento che mi gira in testa da un bel po' e so che finché non ne parlerò sarà impossibile togliermelo dalla mente. Non dico di non dormirci la notte eh, sia chiaro, però da quando mi sono avvicinata un pochino di più al mondo dei libri e dell'editoria ogni tanto mi pongo certe domande, anche magari su argomenti che non proprio mi competono, come lo scrivere. Quella che mi sta girando in testa da giorni riguarda i concorsi letterari, in particolare quelli indetti dalle piccole case editrici e che sfociano quasi sempre in antologie.
La mia è, come al solito, un'esperienza da lettrice, che si riferisce a un concorso specifico ma che, dalle ricerche che ho fatto, so che è comune a molti, moltissimi altri. Per cui non farò nomi, non servono. E invito ogni casa editrice e a qualunque scrittore/scrittrice che si senta in qualche modo in disaccordo o voglia riportare la sua esperienza a utilizzare i commenti... sono lì apposta!
(Se invece volete dei post più approfonditi riguardo al mondo dei concorsi, vi suggerisco di dare un'occhiata al blog Giramenti e ai  suoi post "Andar per concorsi"... scoprirete parecchie cose!). 

Ma veniamo a noi. Sul mio comodino staziona ormai da qualche tempo un'antologia di racconti di autori emergenti, pubblicata da una casa editrice medio-piccola a seguito di un concorso letterario.
Me l'ha regalata uno dei partecipanti, con tutto l'entusiasmo che si può provare quando un proprio racconto viene selezionato per essere pubblicato. Entusiasmo comprensibile e totalmente giustificabile. Ha saputo che il suo racconto non aveva vinto il concorso ma era stato selezionato per comparire nell'antologia, è andato alla presentazione, ha comprato a prezzo pieno diverse copie (non c'era alcun obbligo di acquisto, sia chiaro, le ha comprate di sua spontanea volontà) da regalare a parenti e amici. Proprio come avrei fatto io o avrebbe fatto, credo, chiunque altro alla sua prima o seconda pubblicazione.
Poi ha aperto il libro e ha iniziato a leggere. E, visto che non si tratta di uno scrittore dall'ego smisurato ma molto consapevole, tutto l'entusiasmo è tristemente scemato. Nell'antologia ci sono tanti racconti, forse addirittura troppi, alcuni completamente fuori tema. Quelli realmente belli sono meno di un terzo (e purtroppo spariscono in mezzo agli altri) e sono anche questi penalizzati dall'assenza quasi totale di editing e dalla presenza di refusi. 
Ho iniziato a leggerlo anche io, ovviamente, dopo che lui mi aveva accennato a queste sue perplessità. Perplessità che ho confermato. E' stata una lettura faticosa, dovuta un po' al fatto che io personalmente non amo molto le antologie di racconti scritti da autori diversi, un po' perché alcuni dei racconti presenti erano oggettivamente brutti e mal scritti, e un po' perché appunto è mancato qualcosa a livello di editore.
Prima di scrivere questo post sono andata su amazon e ibs  e ho cercato questa antologia. Su amazon non è disponibile, su ibs ci mette tre settimane ad arrivare, tempistica dovuta probabilmente al fatto che si tratta di una casa editrice piccola. Fatto sta che comunque, al momento, un lettore "normale", che non conosce nessuno degli autori e non è parente ma vuole semplicemente leggere quest'antologia, il libro non lo può comprare se non dopo una lunga attesa.

Le domande quindi sono due: ma questi concorsi organizzati dalle case editrici e queste antologie a cosa servono? E soprattutto, c'è davvero qualche lettore non scrittore/parente di scrittore che le compra e le legge?

Di risposte alla prima domanda riesco a darmene due. La prima è che questi concorsi, con conseguenti antologie, permettono ad autori emergenti di scrivere, di vedere una loro opera pubblicata magari per la prima volta, di ricevere un giudizio di qualcuno che se ne intende o che dovrebbe farlo, di vivere il loro momento di gloria (bellissimo, me lo ricordo per le tre volte in cui l'ho provato), di avere qualche conferma e magari  prendere confidenza con il mondo dell'editoria e delle case editrici, entrandoci in punta di piedi. Forse fanno anche curriculum, se esiste questo concetto anche in  narrativa.
©Tanja Stevanovic
La seconda risposta è invece molto più triste: servono a battere cassa sfruttando il comprensibilissimo entusiasmo degli autori.
Immaginiamo che in una raccolta X siano pubblicati i racconti di cinquanta autori. Immaginiamo che ogni copia del libro costi sui dodici euro e che ogni autore ne compri in media cinque copie a testa (ci sarà chi non ne compra nessuna, chi ne compra quindici). Cosa otteniamo? 3000 €. Per coprire il lavoro di selezione fatto, i lavori di editing, di grafica, i costi di stampa, per guadagnarci anche qualcosina. Ma se l'editing quasi non c'è, la grafica è scarna e i costi di stampa, essendo una casa editrice ,ridotti, a cosa servono quei 3000€?
Dal momento che è una casa editrice a organizzare un concorso e che le opere vincitrici o comunque selezionate finiscono in un libro, mi aspetto che l'editore in questione svolga lo stesso lavoro che svolgerebbe su qualunque libro (soprattutto se poi gli mette un ISBN e un prezzo di copertina che non è mai inferiore ai 10 euro), pagando poi anche agli autori i diritti di vendita. Ma questo viene effettivamente fatto?

Veniamo poi alla seconda domanda, ovvero a se ci sono dei lettori, non parenti o non amici degli autori presenti nell'antologia, che comprano questi libri. Onestamente, credo di no. Anche perché probabilmente, se qualcuno lo facesse, smetterebbe dopo aver trovato, in buona parte dei casi, racconti non sempre belli e soprattutto ricchi di errori e di refusi. E averli pagati sempre più di dieci euro.
Quindi, questa pubblicazione, oltre alla giustificatissima gloria, serve veramente a qualcosa, se gli unici lettori che raggiunge sono probabilmente lettori che hanno già anche letto il racconto in questione e hanno saltato gli altri? C'è qualche autore che è riuscito a emergere e a farsi notare partendo da queste antologie?

La mia non vuole essere una critica nei confronti dei concorsi letterari né verso chi ci partecipa (in passato l'ho fatto anche io e anche io una volta ho comprato un'antologia in cui era presente un mio racconto alla modica cifra di 18 €). Ma semplicemente una riflessione, forse un po' ingenua, sul valore di questi concorsi, nello specifico quelli organizzati dalle case editrici, che molto spesso diventano ancora una volta una trappola, un po' mascherata, nei confronti degli autori emergenti meno consapevoli.

Che ne pensate?

giovedì 12 settembre 2013

DENTRO - Sandro Bonvissuto

Io, questo libro, non lo volevo leggere. Non che ci fosse un particolare motivo eh, ma semplicemente è uno di quei libri che a prima vista non mi attirava. Poi un mio amico lo ha letto e mi ha detto che gli è piaciuto un sacco. Che l'ha riletto già diverse volte. Che lo ha toccato molto. Che lo ha adorato. E ovviamente a ognuna di queste frasi seguiva un "devi  leggerlo anche tu", un "cosa aspetti a leggerlo", un "allora, lo hai letto?".
Va bene, va bene, va beneeee. Lo leggo. Però poi dopo se non mi piace sono cavoli tuoi, sia chiaro.

E ora dovrei andare da lui e dirgli "avevi ragione. Non proprio su tutto, ma avevi ragione".

Perché Dentro è effettivamente un libro molto bello. Un libro che ti prende e ti porta dentro, appunto, alle sue pagine ma anche dentro di te.

Ti porta dentro a un carcere nel primo racconto, Il giardino delle arance amare, insieme al suo protagonista: dall'arrivo in cella alla scarcerazione, passando attraverso le giornate di reclusione, la vita a contatto con gli altri detenuti, il  tempo che passa senza che si capisca come, la solitudine e la paura che prova sia chi sta per entrare sia chi sta per uscire. Del protagonista non si sa nulla, non si sa il nome, non si sa che reato ha commesso, non si sa nemmeno quanto tempo abbia trascorso lì dentro. Ma in realtà poco importa, perché i suoi pensieri potrebbero essere quelli di chiunque. 
Il secondo racconto, Il mio compagno di banco, quello secondo me meno riuscito, ti porta invece dentro a una scuola, dentro a una classe, dentro a un'amicizia nata per caso, perché il caso ha voluto che fosse rimasto libero proprio quel posto lì, in quel banco lì, vicino a quel ragazzo lì. E quindi ci si incontra per destino e si inizia a vivere in simbiosi, legati da un legame talmente forte che non si può incrinare, che nessun può spezzare, se non il tempo e i cambiamenti che inevitabilmente porta in ogni persona. 
E poi c'è il terzo, Il giorno in cui mio padre mi ha insegnato ad andare in bicicletta,  che ci porta dentro alla testa di un bambino di cinque anni e al suo rapporto con il piccolo mondo che lo circonda: i bambini più grandi e quasi crudeli che lo lasciano indietro, la madre che non riesce a trasmettergli il giusto affetto e, soprattutto, il padre, l'uomo che lui guarda sempre e solo da lontano, con timore e reverenza, e a cui chiede di insegnargli ad andare in bicicletta. E qui, in queste poche pagine, mi sono commossa davvero. 

Sandro Bonvissuto ha uno stile molto particolare, diretto ma anche riflessivo, un po' (troppo) filosofico a volte, che analizza il dettaglio anche più banale, quel qualcosa che abbiamo sempre tutti davanti agli occhi ma che troppo spesso nemmeno consideriamo, in modo semplice eppure estremamente realistico e vero. Tre personaggi diversi, di diverse età e che si muovo in realtà diverse, eppure accomunati da qualcosa, un qualcosa che ci accomuna un po' tutti in realtà, quella solitudine interiore che cerchiamo di combattere in ogni modo ma che ci trasciniamo sempre dentro, a volte visibile a volte ben nascosta.

Leggendo qualche recensione in giro, ho scoperto che la maggior parte delle persone che lo hanno letto parlano solo del primo racconto, quello ambientato in carcere, per l'analisi diretta che fa della vita dei reclusi e per la critica alla società. Ed è vero, è un racconto intenso, bello, potente. Però, non so, io credo di aver preferito il terzo, quello del bambino e della sua bicicletta, per il suo dover confrontarsi con il mondo, che può essere crudele a qualunque età e che ti obbliga a crescere, all'improvviso. A cinque anni, ma anche a quindici o a quaranta.
Non è vero che si cresce lentamente e armoniosamente, si cresce tutto insieme. In un giorno. In un’ora. 
Insomma, se avete un amico che insiste così tanto perché lo leggiate, seguite il suo consiglio. Magari non lo adorerete tanto quanto lui, o almeno non tutti i racconti allo stesso modo. Ma comunque leggerete qualcosa che merita di essere letto.

Titolo: Dentro
Autore: Sandro Bonvissuto
Pagine: 170
Anno di pubblicazione: 2012
Editore: Einaudi
ISBN: 978-8806208448
Prezzo di copertina: 17,50
Acquista su Amazon:
formato brossura:Dentro
formato ebook:Dentro (Supercoralli)

mercoledì 11 settembre 2013

Due titoli, un solo libro: ma perché? #48

Giuro che prima o poi l'entusiasmo per le recenti vacanze in Spagna finirà (purtroppo, aggiungerei anche) e che la smetterò di parlarvi sempre e solo di cambi di titolo da e verso lo spagnolo.
Ma per ora mi godo il momento e sfrutto ancora tutto quello che ho visto là, nelle innumerevoli librerie in cui sono entrata.

Il confronto di questa settimana riguarda il libro di un'autrice nostrana, che è nata a Biella, vive a Bologna ma nel suo libro d'esordio, che le è valso il Premio Campiello Opera Prima nel 2010 e il secondo posto al Premio Strega, parla della Toscana e di Piombino.
Immagino abbiate già capito che mi sto riferendo a Silvia Avallone e al suo ACCIAIO:

Il romanzo, pubblicato dalla casa editrice Rizzoli, parla di adolescenti, attraverso le due protagoniste Anna e Francesca, e parla di operai e della vita in un quartiere, quello che si dipana attorno a via Stalingrado a Piombino, costruito come appoggio alla vicina, nonché potente, acciaieria Lucchini.  Ho letto questo libro un paio di anni fa e mi ricordo che, sebbene abbia notato tutto il potenziale di un gran bel romanzo, qualcosa non mi aveva convinto del tutto. Trovate qui la mia recensione.

Difficile credere che nel passaggio a un'altra lingua il titolo di questo romanzo potesse cambiare. Eppure, nella versione spagnola è successo. Un cambio piccolissimo, che però trovo del tutto ingiustificato e che quindi ho deciso di farvi notare.
Il romanzo esce in Spagna nel 2011, per la casa editrice Editorial Alfaguara nella traduzione di Carlos Gumpert, con il titolo DE ACERO:


Letteralmente la traduzione del titolo sarebbe "D'acciaio", un'espressione usata in spagnolo (ma anche in italiano, direi) per indicare, oltre che appunto qualcosa fatto con quel materiale, qualcosa di duro, di forte e molto resistente.  Un cambio piccolissimo, come vi dicevo, che però a mio avviso cambia leggermente il senso del titolo originale. L'acciaio fa riferimento in primo luogo all'acciaieria e poi anche alla durezza della vita di quelle parti, degli operai e dei figli di... una vita che non è sicuramente d'acciaio, che non è molto forte. Non so, questo piccolo cambiamento non mi convince per niente...

Curiosando poi nelle varie lingue in cui il romanzo è stato tradotto, ho scoperto che lo stesso cambiamento è stato fatto anche nella versione francese, D'ACIER appunto, uscita nel 2011 per la casa editrice Liana Levi con la traduzione di Françoise Brun.


Per quanto riguarda la copertina, la versione spagnola e francese hanno all'incirca la stessa immagine: stesse ragazze, stesso muretto su cui sono seduta. La versione francese cambia i colori e soprattutto toglie le ciminiere sullo sfondo, togliendo così ogni riferimento all'acciaieria del romanzo.
Delle tre, io personalmente continuo a preferire quella originale.

Che ne pensate?