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lunedì 24 luglio 2017

LA BIOGRAFA - David Constantine

Lei si sentiva sicura di lui e né il precedente matrimonio né la sua relazione parigina l’avevano mai turbata. È più difficile ora, molto più difficile, mentre giorno dopo giorno Katrin ricostruisce la vita di cui non è stata parte. Adesso lui non c’è più per dirle che allora era allora, adesso è adesso. Ora il presente si schiude e riversa, trasuda, gronda scampoli di quella terra con cui lui non voleva più avere a che fare, la terra che lui chiamava “quei tempi”.



Credo sia normale che, all'inizio di una storia d’amore, chi la sta vivendo si interroghi sul “prima” dell’altro: com’era, prima che arrivassi io? Che esperienze ha fatto senza di me? Quanto ha amato prima di me? Domande legittime, che magari suscitano un po’ di gelosia, ma che poi piano piano vengono assorbite dalla vita di coppia, da quell'adesso che non ha alcun motivo di competere con l’allora.

Era così anche per Katrin, la protagonista di La biografa, il romanzo di David Constantine da poco uscito in Italia per Nutrimenti edizioni, con la traduzione di Nicola Manuppelli. Ama Eric, un marito molto più grande di lei, e sa che anche lui la ama. Qualche volta lei ha provato a chiedergli del suo passato, della sua prima moglie Edna e soprattutto di quel primo grande amore, una donna francese di nome Monique, di cui conserva ancora alcune lettere in soffitta. Lui le ha sempre risposto, senza mai approfondire, ma anche senza nascondere nulla. Ora che Eric è morto, però, il tarlo della sua vita passata martella incessantemente nella mente di Katrin: vuole sapere, vuole capire, vuole provare a ricostruire la vita dell’uomo che amava prima che arrivasse lei. Non è chiaro se lo faccia per se stessa o per Eric, e nemmeno se la cosa le faccia particolarmente bene. Ma non riesce a farne a meno. Non trova in quel momento nessun altro modo per affrontare questa perdita, se non quello di capire com’era la vita di Eric prima che arrivasse lei.

- E non può smettere di indagare sul passato di Eric? – No, non ora. – Nemmeno se le fa male? – No, non riesco a smettere ora. E non sono sicura che mi stia facendo male. Mi sento viva solo quando scopro cose nuove su Eric.

E così chiede all’amico Daniel di raccontare di quell’estate in cui si sono trovati in Francia; chiede al fratello di Eric qualche dettaglio sul loro legame famigliare e sulla prima moglie Edna. E, soprattutto, legge tutte le lettere di Monique che ci sono in soffitta, anche quelle che il marito non aveva mai aperto. Si ritrova così di fronte a una storia d’amore del passato, all’apparenza molto forte ma che poi sembra non aver retto alla paura, e a un’immagine del marito che non conosceva. E a chiedersi, ancora una volta, se lui non sia stato più felice prima di lei.

La biografa è un libro molto malinconico, che affronta il tema di come imparare a convivere con quel dolore che inevitabilmente si prova quando la persona che si aveva accanto all’improvviso non c’è più. È un libro che parla di passato e di presente, di come l’adesso a volte abbia paura di confrontarsi con quell’allora che sembra così bello. Ed è un libro che racconta due grandi, grandissime storie d’amore: quella di Eric e Monique nel passato e quella di Katrin ed Eric oggi, prima che l’uomo morisse ma anche dopo, quando Katrin scopre piano piano la sua vita.

David Constantine, scrittore, poeta, traduttore e accademico inglese al suo esordio in Italia, riesce a condensare tutte queste emozioni, tutti questi racconti, questa vita passata e questa vita presente, questo prima e questo dopo, in un unico grande romanzo che riesce a trasmettere in chi lo legge tutti gli stati d’animo provati dalla sua protagonista, a coinvolgerlo nel suo dolore, nella sua malinconia ma anche nella sua voglia di sapere e di scoprire, per conoscere meglio suo marito e anche se stessa.

La biografa è un romanzo da leggere in un luogo in cui ci si sente sicuri, magari protetti da una coperta (magari dallo stesso piumone che la protagonista utilizza per ascoltare al telefono le storie che il migliore amico del marito le racconta) e da un caldo avvolgente, che culla e rilassa. Proprio per questo, quando l’ho terminato, il mio primo pensiero è stato: “questo libro mi è piaciuto tantissimo, ma se l’avessi letto d’inverno mi sarebbe piaciuto ancora di più”. Forse perché i ricordi e la malinconia, almeno per me, si addicono di più ai climi freddi; forse perché le cose più dolorose le associo sempre al freddo.

Ma anche d'estate, comunque, la storia raccontata da questo romanzo è coinvolgente e, in qualche modo, travolgente. Oltre che bellissima.

Titolo: La biografa
Autore: David Constantine
Traduttore: Nicola Manuppelli
Pagine: 256
Anno di pubblicazione: 2017
Editore: Nutrimenti
Prezzo di copertina: 17 €
Acquista su amazon:
formato brossura: La biografia

giovedì 20 luglio 2017

Ritornare a Macondo: ovvero leggere e rileggere Cent'anni di solitudine di Gabriel García Márquez

Sul finire del maggio del 1967, la casa editrice argentina Editorial Sudamericana pubblicò per la prima volta Cien años de soledad dello scrittore colombiano Gabriel García Márquez.
Lo scrittore, che aveva iniziato la sua carriera come giornalista, carriera che non abbandonò mai per tutto il corso della sua vita, aveva già pubblicato tre romanzi (La hojarasca, El coronel no tiene quien le escriba e La mala hora, ovvero Foglie morte, Nessuno scrive al colonnello e La mala ora, tradotti in italiano però solo più tardi), ma la sua consacrazione, soprattutto a livello internazionale, arrivò proprio con la storia della famiglia Buendía

Da allora sono passati cinquant'anni. Il libro è stato letto da milioni di persone, è stato tradotto in più di trenta lingue, è considerato da molti uno dei capolavori letterari del XX secolo e ha svolto un ruolo fondamentale per l'assegnazione a Gabriel García Márquez del premio Nobel per la letteratura del 1982.

La prima traduzione italiana di Cent'anni di solitudine risale all'anno successivo all'uscita, il 1968. A portare il libro in Italia è stato l’editore Feltrinelli e, soprattutto, il traduttore Enrico Cicogna, molto attivo in quegli anni nella scoperta di alcuni autori sudamericani (oltre a García Márquez, Mario Vargas Llosa e Manuel Puig).

Quarantanove anni per una traduzione sono indubbiamente tanti e la necessità di una revisione abbastanza evidente. Oltre all'evoluzione della lingua e di alcune regole grammaticali e ortografiche, spesso in traduzioni così vecchie si trovano anche fraintendimenti di significato e veri e propri errori (non bisogna dimenticare che i mezzi a disposizione dei traduttori un tempo erano molto limitati).
Per festeggiare questo cinquantesimo compleanno, quindi, Mondadori (nuovo editore dei romanzi di Garcí Márquez a partire dall’inizio degli anni ‘80) ha deciso di regalare a Cent’anni di solitudine e a tutta la famiglia Buendía una nuova traduzione, a opera di Ilide Carmignani.



Questa nuova traduzione, come la stessa traduttrice spiega nella nota finale al libro, si basa sull'edizione commemorativa data alle stampe dalla Real Academia Española e dalla Asociación de Academias de Lengua Española nel 2007, in occasione degli ottant'anni dello scrittore. Una versione considerata “definitiva”, che scioglieva alcuni dubbi interpretativi e sistemava errori, su cui aveva lavorato lo stesso García Márquez:
“Nel 2007, in occasione dell’ottantesimo compleanno di Gabriel García Márquez e dei quarant’anni dalla prima pubblicazione, la Real Academia Española e dalla Asociación de Academias de Lengua Española hanno dato alle stampe un’edizione commemorativa che fissa definitivamente il testo: attraverso un minuzioso lavoro di collazione delle edizioni precedenti, realizzato con la supervisione dell’autore, sono state risolte espressioni dubbie ed emendati errori; l’autore stesso ha poi effettuato interventi di natura stilistica relativi al lessico, alla costruzione sintattica e alla punteggiatura. È su questa edizione rivista e corretta che è stata realizzata la presente traduzione”.
Nella stessa nota, ma anche in un bell'articolo di confronto scritto da Ida Bozzi e pubblicato su laLettura del 25 giugno 2017, Ilide Carmignani spiega l’approccio seguito da Cicogna durante la traduzione e quali modifiche ha apportato invece lei affrontando di nuovo questo testo, alla luce anche dei nuovi mezzi a disposizione.
In quasi cinquant’anni la lingua è italiana è molto cambiata, così come sono cambiate le strategie di mediazione linguistico-culturale, oggi più rispettose dell’alterità dei testi. Per aiutare i lettori, che all’epoca viaggiavano ben poco, si usava ad esempio addomesticare i culturemi, e infatti la traduzione di Cicogna trasforma il sanchoco, piatto tipico colombiano a base di verdure locali, in un generico stufato. […] Strettamente legata allo “specchio dei tempi” è infine la tendenza esotizzante della traduzione di Cicogna, che esalta con forza la componente magica a scapito di quella realistica: sinonimi rari e desueti si sovrappongono al traducente naturale italiano, per cui medanos, secche, viene reso con sirti, oppure al contrario si scelgono soluzioni iperletterali ricalcando il suo dei termini spagnolo a detrimento del senso.

Nel corso della mia vita, ho letto questo romanzo diverse volte, in tre edizioni differenti:


La prima volta nella traduzione di Enrico Cicogna in un vecchio volume dalle pagine ingiallite e la rilegatura ormai distrutta, dopo essere passato tra le mani di mio padre, mia sorella e mio fratello (un libro poi sostituito da un’edizione più recente, nella collana dei Grandi Classici del '900 in edicola con Repubblica qualche anno fa, che però, per forza di cose, non aveva lo stesso fascino).

All’inizio, come mi è già capitato più volte di raccontare, io Cent’anni di solitudine non lo volevo leggere. Tutti in casa mi dicevano che avrei dovuto, che era un libro bellissimo, che mi sarebbe piaciuto tanto. Ma visto com'ero da adolescente, dirmi quelle cose non era una spinta ma un ostacolo.
Poi nell'estate tra la prima e la seconda liceo (o tra la seconda e la terza, non ricordo più bene… avrò avuto quindici anni comunque), Cent’anni di solitudine compariva insieme a una ventina di altri libri nella lista tra cui scegliere le letture per le vacanze. C’era anche L’amore ai tempi del colera, primo romanzo scritto da García Márquez dopo aver vinto il premio Nobel, e, per non dare ai miei quella soddisfazione, lessi prima quello. E mi innamorai perdutamente della storia di Florentino Ariza e Fermina Daza. Capii così che era arrivato il momento anche per Cent’anni di solitudine.

Così ho conosciuto Aureliano Buendía, il colonnello che "ha preso parte a trentadue rivoluzioni e trentadue rivoluzioni le ha perdute", che ha avuto altrettanti figli e che è riuscito a sopravvivere persino davanti a un plotone di esecuzione.
“Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito”.
Ho conosciuto Úrsula e José Arcadio Buendía, Amaranta e Rebeca e le loro passioni amorose, Melquiades e la bella Remedios, e pian piano tutte le generazioni di Buendía che hanno popolato Macondo, questo paese della Colombia caraibica fondato proprio da loro.

Temevo che mi sarei persa in questo fiume di personaggi che si susseguono (gli alberi genealogici che si trovano di solito a inizio o fine volume in quasi tutte le edizioni aiutano molto), in questo paesino dove realtà e magia si mescolano con naturalezza (non per niente questo libro viene considerato uno dei capostipiti del “realismo magico”) e anche le cose più assurde vengono considerate normali.
E invece no, non mi sono persa. O forse sì, ma è stato un perdersi bello, un perdere il contatto con la realtà e immergersi per le strade di Macondo seguendo le sue avventure, il suo fiorire e la sua successiva decadenza nel corso degli anni.

So che può sembrare retorico, ma da allora quel romanzo è diventato una parte di me. Sono andata avanti per mesi (e ogni tanto lo faccio ancora adesso) ad ascoltare l’album Terra e Libertà dei Modena City Rambles, al cui interno ci sono alcune canzoni che ispirate proprio ai personaggi di Cent’anni di solitudine (tipo questa). A lungo sono rimasta convinta che avrei chiamato mia figlia Remedios (anche Amaranta, in realtà, non mi dispiaceva) e che magari, chissà, un giorno mi sarei trovata circondata da farfalle dorate o sarei volata via insieme alle lenzuola.
“Ti senti male?” le chiese.
Remedios la bella, che teneva stretto il lenzuolo all’altro capo, fece un sorriso di compatimento.
"Macché,” disse, “non mi sono mai sentita così bene.”
Aveva appena finito di dirlo, quando Fernanda sentì che un delicato vento di luce le strappava le lenzuola dalle mani e le spiegava in tutta la loro ampiezza. Amaranta sentì un tremito misterioso nei pizzi delle sue sottane e cercò di aggrapparsi al lenzuolo per non cadere, nell’istante in cui Remedios cominciava a sollevarsi. Ursula, già quasi cieca, fu l’unica che ebbe tanta serenità da riconoscere la natura di quel vento ineluttabile, e lasciò le lenzuola alla mercé della luce, e vide Remedios la bella che la salutava con la mano, tra l’abbagliante palpitare delle lenzuola che salivano con lei, che uscivano con lei dall’aria degli scarabei e delle dalie, e con lei attraversavano l’aria in cui si spegnevano le quattro del pomeriggio, e con lei si perdevano per sempre nelle alte arie dove non potevano raggiungerla nemmeno i più alti uccelli della memoria.
Poi, in parte proprio per questo libro, ho scelto di studiare spagnolo all'Università, perché volevo leggerlo in lingua originale. Ho aspettato circa un anno, per avere almeno le basi dello spagnolo (lingua da cui partito proprio da zero) prima di cimentarmi in quest’impresa. Poi me ne è stata regalata una copia, edita da Catedra e con un buffo colonnello Aureliano in copertina.





Ricordo di aver aperto il libro per la prima volta con un po’ timore riguardo alla difficoltà della lingua e alla mia comprensione. Poi ho letto l’incipit e mi sono ritrovata ancora una volta persa per Macondo, a forgiare pesciolini d’argento e a temere che il prossimo figlio nascesse con la coda di maiale.
Muchos años después, frente al pelotón de fusilamiento, el coronel Aureliano Buendía había de recordar aquella tarde remota en que su padre lo llevó a conocer el hielo. Macondo era entonces una aldea de veinte casas de barro y cañabrava construidas a la orilla de un río de aguas diáfanas que se precipitaban por un lecho de piedras pulidas, blancas y enormes como huevos prehistóricos. El mundo era tan reciente, que muchas cosas carecían de nombre, y para mencionarlas había que señalarlas con el dedo
Da allora mi è capitato di rileggere Cien años de soledad un altro paio di volte, sempre in lingua originale, per rendere ancor più forti e vividi l’incanto e la magia come solo le letture in lingua riescono a fare. Io non sono una grande amante delle riletture, devo dir la verità, più per una questione di tempo e di quantità di libri nuovi da leggere. Ma ci sono alcuni romanzi a cui a volte sento il bisogno di tornare. E Cent’anni di solitudine è appunto uno di questi (un altro è 1984 di Orwell).

Dalla mia ultima gita a Macondo, però, erano passati diversi anni e anche per questo, quando è stata annunciata questa nuova traduzione, ho deciso di ricomprarla. In parte attratta dalla bellissima copertina con le illustrazioni di Velia de Iuliis, in parte per la curiosità di scoprire che cosa è cambiato. 

Non avevo però intenzione di fare un confronto vero e proprio: mi interessa di più l’impressione generale di coinvolgimento nella lettura, della percezione di differenze o di cose in qualche modo stonate (che in realtà era abbastanza improbabile ci fossero, perché questa nuova versione ha ripristinato parti originali che Enrico Cicogna invece aveva cambiato).
E quindi via, ho letto anche questa nuova versione di Cent’anni di solitudine.
Molti anni dopo, davanti al plotone di esecuzione, il colonnello aureliano Buendía avrebbe ricordato quel pomeriggio remoto in cui suo padre l’aveva portato a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di fango e canne costruite sulla riva di un fiume dalle acque diafane che si precipitavano su un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente che molte cose erano senza nome, e per menzionarle bisognava indicarle con un dito.
E proprio come la prima volta, con la traduzione di Enrico Cicogna, e come la seconda, quando l’ho letto in lingua originale, mi sono di nuovo ritrovata dentro Macondo, seduta al tavolo di Ursula a mangiare insieme ad altri avventori sconosciuti, a soffrire con Amaranta per le sue pene d’amore, a seguire Aureliano Segundo nelle sue peregrinazioni tra moglie e amante, a tifare per Meme e il suo amore clandestino, e sì, ancora una volta, a immaginarmi circondata di farfalle dorate o in volo insieme a delle lenzuola.


«Ti senti male?» le domandò.
Remedios la bella, che teneva l’altro capo del lenzuolo, fece un sorriso di compatimento.
«Al contrario,» disse «Non sono mai stata meglio».
Appena ebbe finito di dirlo, Fernanda sentì che un delicato vento di luce le strappava le lenzuola di mano e le spiegava in tutta la loro ampiezza. Amaranta sentì un fremito misterioso nei pizzi delle sottogonne e cercò di afferrarsi al lenzuolo per non cadere nell’istante in cui Remedios la bella cominciava a sollevarsi. Úrsula, già quasi cieca, fu l’unica abbastanza lucida da capire la natura di quel vento irreparabile, e lasciò il lenzuolo alla mercé della luce, e vide Remedios la bella che le diceva addio con la mano, nell’abbagliante aleggiare delle lenzuola che salivano con lei, che abbandonavano con lei l’aria degli scarabei e delle dalie, e attraversavano con lei l’aria dove finivano le quattro di pomeriggio, e si perdevano per sempre con lei nelle arie alte, dove non potevano raggiungerla nemmeno i più alti uccelli della memoria.


In questa nuova edizione, ho trovato tutto quello che Ilide Carmignani ha detto nella sua nota di traduzione (che, ammetto, ho letto prima del libro, per avere un'idea generale di cosa aspettarmi) e nelle varie interviste, senza trovare praticamente mai nulla di stonato né di incomprensibile, nemmeno nei localismi lasciati in lingua originale. Si nota, anche, il ripristino degli accenti in tutti i nomi propri spagnoli (Cicogna, per esempio, non accentava "Úrsula").
Solo in alcuni punti ho sentito la necessità (forse più curiosità, in realtà) di fare un confronto tra la vecchia versione di Enrico Cicogna e quella nuova di Ilide Carmignani. Ma per parole singole, per frasi forse un po’ troppo moderne che mi sembravano un po’ fuori contesto (un “cavolo”al posto di un “accidenti”… cose così). 



Da appassionata di Cent’anni di Solitudine e di Gabriel García Márquez sono convinta che questa nuova traduzione fosse necessaria. Io ho scoperto questo libro e me ne sono innamorata con la prima traduzione, è vero, e come me molti altri. Però altrettanti l’hanno trovato un po’ respingente, e la lingua utilizzata da Cicogna, perché invecchiata, perché a volte eccessivamente esotica, può avere una sua colpa (e ve ne renderete conto ancor di più se riuscirete a leggerlo in lingua originale).
Quindi se siete tra chi l’ha già letto e l’ha amato, anche in questa nuova traduzione continuerete ad amarlo. Se ci avete provato in passato ma qualcosa non ha funzionato, o se non vi ci siete mai approcciati per paura, ecco, forse questa nuova edizione può essere la spinta necessaria a dare a Cent’anni di solitudine un'altra possibilità.

Poi fatemi sapere. Io intanto vado a mettere due mollette in più alle lenzuola stese, sia mai che qualcuno decida di portarsele via.

martedì 18 luglio 2017

Metti una domenica a COLLISIONI - Il Festival Agrirock 2017

Domenica 16 luglio, in compagnia di Luca, sono andata per la prima volta a Collisioni, il festival agrirock che si tiene nel mese di luglio a Barolo, un paesino in provincia di Cuneo, dal 2009.
Non so perché non ci fossi mai andata prima. Forse perché credevo fosse lontano, forse perché non ho mai trovato nessuno che volesse accompagnarmici o non c’è mai stato nei programmi degli anni passati (davvero molto ricchi, in realtà) un autore o un’autrice che mi spingesse ad andarci anche da sola. Male. Molto, molto male. Perché, dopo una giornata trascorsa tra la piazza Blu e la piazza Rosa di questo paesino, mi sono resa conto di quanto mi sia persa negli anni passati.

A spingerci quest’anno ad andare sono stati due autori: Jeffrey Eugenides e Joyce Carol Oates. A cui si è poi aggiunto Jonathan Coe, che io avevo già sentito un paio di volte ma che merita sempre.
E quindi ci siamo svegliati, abbiamo preso l’auto (Barolo è raggiungibile solo così, con l’auto propria o approfittando di alcuni bus che partono da Torino, Milano, Genova e Cuneo durante i giorni del festival) e in un’oretta circa siamo arrivati a Barolo. Ero un po’ preoccupata della logistica, tra parcheggi, navette per arrivare in paese e code all'ingresso, ma devo dire che ci è andato tutto bene. Noi non avevamo prenotato nulla,  quindi abbiamo lasciato l’auto nel parcheggio più lontano, ma la navetta è arrivata pochi minuti dopo di noi. Lo stesso alle casse: dopo i controlli iniziali, abbiamo acquistato senza problemi i biglietti d’ingresso direttamente sul posto, beccandoci anche di sottofondo il soundcheck dei Placebo che avrebbero suonato la sera.
E poi siamo entrati in paese:



Il primo appuntamento della giornata è stato con lo scrittore inglese Jonathan Coe, in dialogo con Carlo Lucarelli in piazza Blu. I due hanno parlato, ovviamente, dei libri e della carriera letteraria di Coe, ma anche del rapporto tra il mondo dei social (che Coe frequenta… poco dopo la fine del suo incontro mi sono ritrovata un suo cuore su twitter, nel tweet in cui aspettavo l’evento) e quello dei libri, che lui consiglia di tener ben separati. Si è parlato di scrittura e di prossimi romanzi: l’ultimo è stato Numero undici, uscito l’anno scorso per Feltrinelli, e durante l’incontro Coe ha annunciato di aver iniziato a lavorare al prossimo, seguendo la sua abitudine di scrittore di pensare un libro per due anni e poi metterci meno di un anno a scriverlo. In chiusura, tra le domande del pubblico, qualcuno ovviamente ha chiesto anche della Brexit, e Coe, oltre ad aver dichiarato di aver votato contro, ha concluso il suo discorso con un bel “Fuck Brexit!”, che vale più di mille parole. 
Le ultimissime parole dette da Coe sono state la risposta alla domanda di una giovane aspirante scrittrice che gli chiedeva qualche consiglio: e lui, a differenza di molti altri autori che spesso rispondono con “non lo so” o eludendo la domanda, le ha semplicemente detto di farlo, di provarci, che se il suo sogno è quello magari riuscirà a realizzarlo, magari avrà la fortuna di essere pubblicata o per lo meno ci avrà provato. 

Jonathan Coe con Carlo Lucarelli e l'interprete Paolo Maria Noseda

Dopo l’incontro con Coe (che già adoravo e ora adoro ancora di più), abbiamo fatto due passi in paese, nell'attesa che arrivassero le 15.30 per l’incontro con Jeffrey Eugenides. Siamo andati a fare un giro nelle altre due piazze del festival e poi ci siamo fermati in un locale per un bicchiere di vino. Sì, perché a Barolo, oltre ad assistere a incontri con scrittori, cantanti e mille altri personaggi, si mangia e si beve. (No, noi non abbiamo bevuto il Barolo, perché, anche se il caldo era sopportabile, non credo che avremmo retto del vino rosso così, di primo pomeriggio).

Due bicchieri di Arneis, prima di essere bevuti.

Una volta arrivate le 15.30, siamo tornati in piazza Blu per l’incontro con lo scrittore americano Jeffrey Eugenides. A dialogare con lui questa volta c’era Luca Briasco, il cui entusiasmo era ben visibile ed è riuscito a trasmetterlo anche al pubblico (che bello quando gli intervistatori sono così contenti di presentare gli scrittori... capisci quanto amino quello che stanno facendo e uniscono alla loro competenza il fanatismo da lettori).

Jeffrey Eugenides con Luca Briasco e l'interprete Paolo Maria Noseda
Non avevo bene idea di cosa aspettarmi da Jeffrey Eugenides e, in realtà, non avevo nemmeno ben presente il suo viso. Lui è salito sul palco con un cappello in testa e un bel sorriso entusiasta. Nel corso della presentazione si è parlato dei suoi tre romanzi già pubblicati (Le vergini suicide, Middlesex e La trama del matrimonio) e della raccolta di racconti che uscirà questo autunno. Lui si definisce uno scrittore lento, come la sua produzione in qualche modo dimostra, e più adatto al romanzo che non al racconto, anche se effettivamente la sua prossima opera sarà proprio una raccolta.
Come per Coe era impossibile non parlare di Brexit, con Jeffrey Eugenides non si poteva non citare Donald Trump, ancor più considerando che Detroit e il Michigan in generale hanno svolto un ruolo fondamentale nella sua elezione. Pur essendo ovviamente contro Trump, Eugenides riesce a dare una spiegazione convincente e anche molto comprensibile del perché di questo voto nella sua città: Detroit si è in qualche modo sentita tradita dal partito democratico, che aveva promesso lavoro e sostegni a una città quasi in rovina. Lavoro e sostegni che invece non sono arrivati. Nel momento di scegliere il nuovo presidente, la maggior parte degli elettori si è divisa tra il non votare o il votare quello che a loro, vista la loro esperienza passata, è sembrato il meno peggio.

 L’incontro si è poi concluso con una domanda dal pubblico riguardo a un personaggio di Middlesex, “l’oscuro oggetto”, a cui è seguita la buffa spiegazione dell’autore sulla sua origine, che deriva dagli anni dell’università: è così, infatti, che lui e un suo compagno erano soliti chiamare una loro misteriosa compagna, che vedevano ovunque ma con cui non parlavano mai. (Sempre riguardo ai personaggi, nel corso della presentazione Eugenides ci ha tenuto a ribadire che il personaggio di Leonard in La trama del matrimonio, nonostante la bandana in testa, non è ispirato a David Foster Wallace).

Appena finito l’incontro con Eugenides (non siamo nemmeno riusciti a farci fare gli autografi, per mancanza di tempo... forse unica pecca di questo festival: gli incontri troppo ravvicinati), ci siamo spostati in Piazza Rosa per conoscere Joyce Carol Oates, il motivo principale della nostra gita a Collisioni.

Joyce Carol Oates con Luca Briasco e l'interprete Paolo Maria Noseda
Insieme a lei sul palco c’era nuovamente Luca Briasco, sempre entusiasta ed emozionato di essere lì (non oso immaginare che cosa abbia provato quando gli hanno chiesto di presentare in un solo pomeriggio due scrittori americani di questo calibro). 
Joyce Carol Oates è esattamente come me l’ero immaginata dopo averla vista in foto, dopo aver letto Sorella, mio unico amore e Una famiglia americana, e soprattutto seguendola su twitter. Una donnina minuta, molto magra, che non si è mai tolta il suo cappello nero dalla testa e che ha risposto a tutte le domande in modo pacato, senza mai usare una parola di troppo ma nemmeno senza sembrare sgarbata, lasciandosi andare ogni tanto a qualche risatina molto composta.

La presentazione si è incentrata soprattutto su I paesaggi perduti, il suo secondo memoir da poco pubblicato da Mondadori con la traduzione di Katia Bagnoli. Un libro che racconta della sua famiglia e di lei adolescente, un periodo che l’ha formata e l’ha aiutata sicuramente a diventare la grande scrittrice che è oggi. Ovviamente anche a lei è stato chiesto di Trump, anzi T***p come lo chiama lei su twitter (se già non lo fate, vi consiglio di seguirla, merita). Un primo riferimento lo ha fatto lei stessa, parlando del primo libro che ha letto: Alice nel paese delle meraviglie. Spiegando che cosa le ha trasmesso quel libro, ha detto che non bisogna mai stupirsi di fronte a certe assurdità che leggiamo nei libri, perché non saranno mai come quelle che ci capitano nella vita vera… tipo le ultime elezioni.

Finita la presentazione, Luca si è messo in coda per farsi fare l’autografo (io, ahimè, non possiedo i libri suoi che ho letto in passato), ed è stato proprio bello vederlo lì, un po’ emozionato, davanti a lei. (Un’altra cosa che mi è piaciuta molto di questo incontro è stata la presenza di Jonathan Coe tra il pubblico... anche lui lì per sentire una grandissima scrittrice nordamericana. A volte ci dimentichiamo che gli scrittori sono per prima cosa anche loro lettori  che vogliono incontrare altri scrittori. Tra l'altro sia Coe sia la Oates erano anche da Eugenides).

Luca con Joyce Carol Oates

La nostra giornata a Collisioni si è conclusa con questo incontro. Siamo poi tornati alla fermata delle navette e, anche questa volta, non abbiamo dovuto aspettare. Iniziava a esserci un po’ di calca per il concerto serale dei Placebo, ma mai confusione insopportabile.

Collisioni mi è piaciuto tantissimo, forse è il più bel festival a cui io sia mai andata. Merito degli ospiti e dei loro intervistatori (un plauso anche all’interprete Paolo Maria Noseda, che ha seguito tutti gli scrittori di lingua inglese) sicuramente, del tempo che è stato particolarmente clemente (temevo il caldo torrido, prima cosa su cui siamo stati messi all'erta quando abbiamo detto che saremmo andati a Barolo e invece si stava bene), ma ho amato molto anche l’atmosfera. Forse perché, a differenza delle fiere e dei festival letterari in generale, qui non si percepiva tanto la presenza degli addetti ai lavori. Tutti (o quasi) facevano semplicemente parte del pubblico in visita a un festival, giunti lì per sentire un ospite o per mangiare e bere.

E poi, be’, mi è piaciuto anche il vino.

lunedì 17 luglio 2017

CANI & GATTI Sotto la lente della scienza - Antonio Fischetti e Sébastien Mourrain


Ho letto (e ammirato, vista la bellezza delle illustrazioni) Cani & Gatti sotto la lente della scienza, scritto da Antonello Fischetti, illustrato da Sébastien Mourrain e edito da editoriale scienza, in una notte caldissima della settimana scorsa.
Non ho potuto parlarne prima, però, perché ogni volta che provavo a scattare una foto del libro accanto a Luna, la mia gatta “adottiva”, lei immancabilmente si spostava, magari dopo aver trascorso minuti e minuti ferma immobile nella stessa posizione. “Lo vedo che vuoi qualcosa da me, umana, e col cavolo che te lo lascio fare”. E non importa se poco prima le avevo cambiato la pappa perché quella nel piattino non le piaceva più o se avevamo appena avuto una sessione di grattini sulla schiena. Se una cosa non vuole farla, Luna non la fa. E, ovviamente, anche in questo caso alla fine non sono riuscita a convincerla.

Di questo particolare comportamento felino in “Cani & Gatti sotto la lente della scienza” non si parla, ma ne vengono raccontati molti, moltissimi altri, riguardo agli animali da compagnia più diffusi e preferiti dall’uomo.

La prima parte di questo bel volume è dedicata ai cani: dall'abbaiare al parlare con la coda, da come nascono determinate razze al falso mito della loro presunta stupidità, dal loro incredibile fiuto a quello sguardo che solo loro sanno fare e che non può che far sciogliere chi lo guarda. Si passa poi a raccontare del rapporto con l’uomo, che lo considera il suo migliore amico e a cui a volte arriva ad assomigliare in modo impressionante, per poi parlare di passeggiate e rapporti con gli altri cani.



Nella seconda parte tocca invece ai gatti e ad alcuni dei loro comportamenti più caratteristici passare sotto la lente della scienza: si parla di carattere e di cibo, di razze e di lettiere, di gatti soprammobili che dormono sempre, di fusa più o meno rumorose, di carezze e miagolii, per poi analizzare aspetti come i loro buffi baffi, la loro voglia di solitudine, la sessualità molto rumorosa e la mania per le pulizie, per poi finire con i loro giochi di equilibrio (sì, quelli che spesso fanno venire un infarto a chi se ne prende cura).



I testi di Cani & Gatti sotto la lente della scienza, scritti da Antonio Fischetti, uniscono studi scientifici, curiosità e informazioni pratiche su come prendersi cura dei propri amici a quattro zampe, scritte con un linguaggio adatti ai bambini (l'età consigliata è dai 9 anni in su... io ne ho un bel po' di più, ma questo libro mi è comunque piaciuto moltissimo...) e sono accompagnati dalle bellissime illustrazioni canine e feline di Sébastien Mourrain che arricchiscono ulteriormente un volume già di per sé molto bello.

Se avete un cane o un gatto, anche solo conoscete qualcuno che ne abbia uno, riconoscerete molte delle situazioni e delle caratteristiche descritte e non potrete fare a meno di sorridere. Ma scoprirete anche cose nuove, aspetti di questi animali pelosi che forse prima ignoravate e che vi faranno provare nei loro confronti ancor più affetto e simpatia.
E vi farà venire una voglia matta di avere un cane o un gatto (o un altro cane e un altro gatto, se già ne avete uno o più di uno). 
Che magari sarà più collaborativo di Luna e accetterà anche di fare una foto con il libro.



TITOLO: Cani & Gatti sotto la lente della scienza
AUTORE: Antonio Fischetti
ILLUSTRATORE: Sébastien Mourrain
PAGINE: 64
EDITORE: editoriale Scienza
ANNO: 2016
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martedì 11 luglio 2017

EFEMERIDI - Cesare Catà


La prima cosa che colpisce quando si prende in mano Efemeridi di Cesare Catà è l’oggetto libro in sé. Una copertina di cartone molto semplice, con la rilegatura a vista tenuta insieme dalla colla e da un filo rosso, che richiama anche i colori scelti per il titolo e la semplice illustrazione. Un oggetto libro molto particolare e molto d’impatto, per quella che è una collana di Aguaplano, la collana Glitch, che si pone un obiettivo ben preciso: raccogliere in volume i migliori contenuti prodotti in rete.
La maggior parte dei racconti che compongono Efemeridi, infatti, era già comparsa sulle colonne dell’Huffington Post, dove Cesare Catà teneva una rubrica.

Ma cosa c’è all’interno di questo libro? Il sottotitolo dice che si tratta di “storie, amori e ossessioni di 27 grandi scrittori”. Io, invece, dico che sì, ci sono 27 storie di amori e ossessioni di grandi scrittori, che sono però anche alcune delle storie più belle di scrittori e scrittrici del passato che abbia mai letto.

La raccolta parte con John Keats e il suo amore per Fanny Brawne, vissuto attraverso un muro e reso impossibile dalla malattia dell’uomo.
La notte precedente la partenza John e Fanny, ognuno nella propria stanza, poggiano le mani alla parete sapendo che, di là, c'è l'amore della loro vita. In silenzio, respirano, auscultandosi i fiati dietro il muro che li separa.
Poi si prosegue con Kafka, con Anne Sexton e Fernando Pessoa, incapace di vivere il suo amore per Ophelia perché incapace di scindersi dai suoi personaggi, per passare a J.R.R. Tolkien e al suo regno elfico dove l’amore con Edith Bratt è possibile e prende finalmente forma.
Convinto che si sarebbero rivisti, che la forza del loro legame non potesse essere spezzata dalla vecchiaia e dalla morte, le aveva sussurrato all’orecchio parole antichissime, in una lingua ignota che solo loro potevano comprendere, forgiata nella grammatica esoterica e tenerissima del loro grande amore: «Non lasciamoci sopraffare dalla prova finale. Dobbiamo separarci nella tristezza, ma non nella disperazione. Amore, noi non siamo vincolati per sempre a ciò che si trova entro i confini del mondo, e al di là di essi vi è più dei ricordi. Io tornerò. Aspettami. Ti prometto che tornerò da te».
C’è poi Jane Austen e la sua decisione di rimanere single per sempre, dopo un grande amore che si perde nell’oblio del tempo; c’è Hermann Hesse e poi Giacomo Leopardi, che ormai malato e in punto di morte ricorda la sua infanzia, il se stesso dodicenne che corre, gioca e sgambetta per le colline di Recanati e che poi verrà sostituito da quel pessimismo che lo accompagnerà tutta la vita.
Giacomo immagina di trovarsi ancora nella Marca, di incrociare per la piazza di Recanati sé bambino mentre corre; sogna di non dirsi niente, di non voler dirsi niente della tristezza e della noia delle ore che seguiranno quel giorno, di quanto grave sarà la sua festa. Perché in quel momento era solo sabato pomeriggio. Era sabato pomeriggio in un angolo del tempo.
Da Leopardi si passa a C.S.Lewis e al suo passaggio per Narnia; a David Foster Wallace che si dimentica di vedere una partita di tennis alla TV; al piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry e a Yukio Mishima; a William Butler Yeats, a Paul Celan e Martin Heidegger, a Dante Gabriel Rossetti e ad Arthur Rimbaud.
Poi c’è il racconto sulla morte di Virginia Woolf, raccontato da Vita Sackville-West, la donna che l’ha amata come si ama la rosa più bella e più fragile; c’è la storia dell’amore tra Kierkegaard e la bella Regine, talmente tanto forte che lui non può fare altro che lasciarla, nell’incapacità di amarla così tanto, senza però dimenticarla mai.
Quando Regine torna dai Caraibi, nel 1860, scopre che lui le ha lasciato in eredità tutto: i suoi risparmi, i libri, la casa. Come se fosse stata sua moglie. Come se avessero potuto viverla, quella vita. Come se l'amore fosse stato più forte dell'angoscia.
Ci sono Dylan Thomas, Carl Gustav Jung e il buon vecchio Hemingway, per passare poi al mal di vivere di Sylvia Plath, a Friedrich Hölderlin, all’amore di una madre per un figlio nella storia dedicata a Pier Paolo Pasolini e al bellissimo racconto di quando Lou May Alcott scopre di non essere più una piccola donna, per poi chiudere con Kerouac e Borges.

Sono loro i 27 grandi scrittori a cui Cesare Catà dedica i suoi racconti e le sue parole. E sono parole bellissime, di una poesia, una bellezza e un’intensità che spesso fa commuovere (nei racconti di Keats, di Pessoa, di Tolkien, di Leopardi, di Kierkegaard e di Lou May Alcott una lacrimuccia è proprio scesa).

Efemeridi è un libro per gli amanti dei libri e della letteratura, ma anche solo per gli amanti delle belle storie d’amore e di passione (amorosa e non), che forse, nel corso degli anni, senza Aguaplano e questa bella raccolta si sarebbero potute perdere nel web (io, per esempio, non conoscevo Cesare Catà e la sua rubrica sull’Huffington Post). 
E sarebbe stato un grande, grandissimo peccato.


Titolo: Efemeridi
Autore: Cesare Catà
Pagine: 160
Anno di pubblicazione: 2017
Editore: Aguaplano
Prezzo di copertina:16 €
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formato brossura: Efemeridi. Storie, amori e ossessioni di 27 grandi scrittori

venerdì 7 luglio 2017

LA LETTRICE SCOMPARSA - Fabio Stassi

La lettura non è un'attività passiva, non si inganni. Dipende solo dal grado di coinvolgimenti con il quale il lettore partecipa alle traversie di un personaggio. È più facile che alcuni libri possano far deperire chi li legge che concedergli qualche chilo in più.


Qualche anno fa Sellerio ha pubblicato un libro intitolato Curarsi con i libri. Era una sorta di enciclopedia medico-letteraria, in cui le autrici Ella Berthoud e Susan Elderkin associano a ogni malattia un libro che potrebbe aiutare in qualche modo a curarla. La versione italiana è stata curata da Fabio Stassi, che poi per un breve periodo ha tenuto una rubrica simile, con consigli di lettura "curativi", su Vanity Fair. Non so per quanto tempo sia proseguita, né quanto effettivamente questi consigli possano aver giovato a chi li ha ricevuti (l’idea di curare i malanni con la letteratura è sicuramente molto bella e molto romantica, ma altrettanto sicuramente inattuabile), ma di certo ha dato a Fabio Stassi l’ispirazione per La lettrice scomparsa, romanzo pubblicato l’anno scorso da Sellerio.

Protagonista è Vince Corso, un professore precario che, rimasto escluso dalle graduatorie scolastiche dopo l’ultimo concorsone, decide di provare a mettersi in proprio, sfruttando la sua enorme passione per la letteratura aprendo uno studio di biblioterapia. Una sorta di psicologo, che ascolta i pazienti e poi, anziché pastiglie o cure, consiglia una lettura adeguata allo stato d’animo espresso.
Pochi giorni dopo essersi trasferito nel palazzo che ospita il suo nuovo studio e che funge anche da casa, una vicina di casa di Vince scompare nel nulla e il marito viene accusato di omicidio. Per qualche motivo, Vince si sente molto attratto da questa storia. Forse perché la donna era una grande lettrice, che frequentava la stessa libreria frequentata dal protagonista, o forse semplicemente perché l’uomo vede della letteratura in ogni situazione della vita… fatto sta che Vince decide di indagare e scopre che la verità è molto più complessa di quello che potrebbe sembrare all'apparenza.

Ho iniziato a leggere La lettrice scomparsa con un certo entusiasmo. Finora ho amato molto tutti i romanzi che ho letto di Fabio Stassi (con una menzione speciale a Come un respiro interrotto) e ho un debole per i libri che parlano di libri.

E questo lo è, forse fin troppo.

Fabio Stassi, prima di essere uno scrittore, è un grande, grandissimo lettore. Lo si percepisce dal suo modo di scrivere, ma anche e soprattutto dall'enorme quantità di libri che riesce a citare nel dettaglio, in questo romanzo e negli altri. Già l’idea di poter curare, o comunque alleviare il dolore, con i libri ne presuppone una conoscenza smodata. Il risultato però, almeno in questo caso, è una punta di autocompiacimento involontario, che porta il lettore a perdersi un po’ tra i pensieri, i consigli e persino le indagini di Vince Corso.

Un personaggio, questo creato da Fabio Stassi, che ama la letteratura al punto da non riuscire a immaginare che possa esistere una vita senza di essa e senza la sua influenza. E quindi apre uno studio per curare con i libri, dove però arrivano però solo donne con problemi complicati, che tendono a sbeffeggiarlo, a contraddirlo, a disilluderlo più che a seguire ciecamente i suoi consigli.
In giro c'è molta più infelicità di quanto credessi: tutti i libri di questa biblioteca non potrebbero farci niente.
E poi si mette a indagare su una donna scomparsa, una lettrice amante della letteratura quanto lui, che dalla letteratura ha preso spunto per creare una trama complicata, un giallo che il lettore non ha alcun modo di risolvere.

È proprio nella caratterizzazione di Vince Corsi, appassionato di letteratura ma al tempo stesso insicuro e insoddisfatto di sé, nel rapporto con le sue assistite, ma soprattutto nelle indagini che il protagonista compie per scoprire che fine abbia fatto la donna scomparsa nel suo palazzo che Fabio Stassi un po’ si perde. Ci sono troppi elementi ricercati, troppe citazioni, troppo di tutto (e i libri, e la musica, e gli scacchi, e..., e..., e...).
E se all'inizio l'idea affascina ed emoziona (grazie anche alle frasi ad hoc per mandare un po' in visibilio gli appassionati lettori) a un certo punto il romanzo diventa un po' noioso, un po' pesante, un po' ripetitivo.

O forse semplicemente non tutti (non io, almeno, pur avendo letto moltissimi dei libri che il biblioterapeuta consiglia nel corso del romanzo) sono in grado di seguire tutti questi intrecci, letterari e non.

La lettrice scomparsa non è un brutto libro, intendiamoci. È scritto davvero bene e alcuni elementi sono molto toccanti (le cartoline che Vince invia al padre, per esempio) e, soprattutto, come si è già detto, l'autore dimostra ancora una volta il suo amore e la sua conoscenza per le letteratura. Che però dovrebbe essere un mondo inclusivo, almeno secondo l’idea del protagonista e dell’autore stesso, ma che in queste pagine si trasforma invece in un luogo quasi ostile e respingente.
Il solo potere taumaturgico che conosco è quello dell'amicizia. Consigliare un romanzo è un modo di voler bene a una persona.

Titolo: La lettrice scomparsa
Autore: Fabio Stassi
Pagine: 273
Anno di pubblicazione: 2016
Editore: Sellerio
Prezzo di copertina:14 €
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formato brossura: La lettrice scomparsa
formato ebook: La lettrice scomparsa

martedì 4 luglio 2017

IL MIO NEMICO MORTALE - Willa Cather

Si può essere amanti e nemici allo stesso tempo, sai? Noi lo siamo stati... Un uomo e una donna si separano dopo un lungo abbraccio e vedono cosa hanno fatto l'uno all'altra.


Myra Driscoll è stata cresciuta dal suo prozio, John Driscoll. Un uomo molto ricco e disposto a qualunque cosa per il bene della sua figlia adottiva, a cui non ha mai fatto mancare niente. Vestiti all'ultima moda, cavalli, feste sontuose a cui partecipa perfino la banda. Myra non potrebbe desiderare niente di più.
O forse sì: Oswald Henshawe, un giovanotto piacente e di belle speranze di cui la ragazza si innamora.
Al prozio di Myra, però, questo ragazzo proprio non piace, e pone alla figlia adottiva un ultimatum: o l'eredità o l'amore. E Myra non sembra avere alcun dubbio.
Dopo tanti anni, in quel paesino dell'Illinois da cui la ragazza è partita per non tornare più, di quella fuga d'amore ancora parlano tutti e il ricordo si accentua quando Myra decide di far visita per qualche giorno. Nellie, nipote di un'amica della donna, è molto incuriosita dalla figura di Myra Driscoll e dalla sua storia: quanto grande deve essere un amore per portarti a fare una scelta del genere?
Non più di tanto, sembra all'apparenza. Perché, trascorrendo del tempo con Myra e Oswald a New York, Nellie scoprirà che quella coppia che ha sfidato le convenzioni sociali del passato forse non è poi così felice come ci si aspetterebbe ma che, come tutte le coppie, nasconde gelosie, irritazioni, segreti e malumori.
«Ma sono stati felici, alla fine?», le chiedevo talvolta.«Felici? Oh, sì! Come la maggior parte della gente».Che delusione, quella risposta. Il senso della loro storia era che avrebbero dovuto essere molto più felici degli altri.

Nellie si renderà conto ancor di più di questa apparente infelicità anni dopo, quando ritroverà Myra e Oswald in condizioni economiche e di salute difficili, sempre vicini e insieme, ma ancor più lontani. Come se gli anni e il tempo che passa avessero cancellato definitivamente quanto di felice c’era stato tra loro. Se mai davvero c'è stato.

È questa la trama di Il mio nemico mortale di Willa Cather, appena ripubblicato da Fazi editore con la traduzione di Stefano Tummolini (il romanzo, in passato, è stato pubblicato prima da Mondadori e poi da Adelphi con il titolo Il mio mortale nemico).

Il libro comparve per la prima volta nel 1926, quattro anni dopo il romanzo One of ours (pubblicato in Italia con il titolo Uno dei nostri da Elliot edizioni, con la traduzione di A.M. Paci) che fece vincere alla Cather il Pulitzer, e immagino che per l’epoca l’argomento trattato fosse abbastanza scottante: la fuga d’amore e la rinuncia a un’eredità, ovvio, ma soprattutto il racconto di una vita tormentata, di una donna forte e fragile al tempo stesso, che mette in discussione il concetto di amore e di felicità.

Perché Myra Driscoll è una donna forte, pronta a sfidare le convenzioni, a rinunciare a una stabilità economica per inseguire l’amore; ma è anche una donna gelosa e capricciosa, quasi crudele, con un’incredibile consapevolezza di sé. Ed è fragile, appunto, a tratti insicura, e, da malata, si lascia poi andare ai rimpianti e all'amarezza, guardando all'amore e alla vita con una patina di infelicità che non riesce a cancellare.

Il mio nemico mortale è un romanzo molto breve, solo novanta pagine, eppure al suo interno Willa Cather riesce a condensare tante, tantissime cose: al centro di tutto c'è la figura di Myra e il suo modo di rapportarsi con gli altri; ma c'è anche la riflessione sull'amore, sull'incapacità di essere felici, di accettare una vita normale e, soprattutto, c'è il tempo che passa e disattende le aspettative.
"Si perde tutto con l'età, anche la forza di amare".
Il mio nemico mortale è un romanzo molto intenso e molto, molto bello, che meritava proprio di essere riscoperto.

Titolo: Il mio nemico mortale
Autore: Willa Cather
Traduttore: Stefano Tummolini
Pagine: 90
Anno di pubblicazione: 2017
Editore: Fazi editore
Prezzo di copertina: 9 €
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formato brossura: Il mio nemico mortale
formato ebook: Il mio nemico mortale