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martedì 31 ottobre 2017

L'ANGOLO DEL MONDO - Mylene Fernández Pintado

Non avrei mai pensato di sentirti dire che l'amore non è sufficiente. Ci aiuta a sconfiggere la guerra, la cattiveria, l'avidità, l'infedeltà, l'invidia. Ci fa credere in noi stessi e negli altri, in qualcosa di meglio per tutti. In un mondo migliore.


Restare o andarsene?
Tutti, almeno una volta nella vita, ci siamo trovati o ci troveremo di fronte a questo bivio. Può essere per motivi affettivi, lavorativi o per mille altre ragioni. A volte è una decisione semplicissima da prendere, altre toglie il sonno. Spesso ci va coraggio in entrambi i casi, oltre a una buona dose di auto-convincimento su cosa sia meglio e cosa sia più giusto. Così come in entrambi i casi c’è paura. A volte ci si pente. Altre ci si guarda indietro pensando “ma perché non l’ho fatto prima”.

Tutto questo si amplifica, ovviamente, se si vive in paesi da cui è considerato normale andarsene perché sembra che da offrire a chi ci vive non abbiano nulla.
Ed è proprio di fronte a questo dubbio che si ritrova Marian, la protagonista di L’angolo del mondo, romanzo di Mylene Fernández Pintado, tradotto per marcos y marcos da Laura Mariottini e Alessandro Oricchio.

Marian ha trentasette anni, vive all’Avana e insegna, con passione ma senza troppi slanci, all'università. Sua madre è morta da poco e le ha lasciato in eredità un’auto sgangherata, una vecchia casa, qualche porcellana e oggetto antico che Marian ogni tanto vende, e un po’ di senso di colpa, per averle fatto credere fino all'ultimo che stesse scrivendo un romanzo che avrebbe dato una svolta alla sua vita.

Non sono coraggiosa. Per questo non ho mai scritto niente se non gli appunti delle lezioni. Non saprei dare una risposta memorabile se qualcuno mi chiedesse dei miei progetti futuri, della letteratura che si produce dentro e fuori dall'Isola, o di come faccio a scrivere con tutti questi impegni.
Non ho nessun impegno oltre al sacerdozio docente. Non ho animali, né piante. Ho dei libri, che sopravviverebbero anche se non li spolverassi, ho una stanza tutta mia  e tanto tempo a disposizione: le condizioni ideali per essere condannata a diventare una magnifica scrittrice ancor prima di aver scritto una sola frase.

Marian ha anche un ex fidanzato, Marcos, da cui si è presa una pausa di riflessione che consiste nell’andare a letto insieme di tanto in tanto; e un’amica artista, Lorena, sposata in terze nozze con un uomo molto saggio.
Lei sembra stare bene in questa sua vita grigia e senza slanci, quasi adagiata in una situazione che non sente di dover cambiare. Un giorno, però, la responsabile del dipartimento per cui lavora le offre un diversivo: scrivere la prefazione di un libro di un giovane scrittore, Daniel Arco, che sta facendo molto parlare di sé. Marian accetta l’incarico, per vedere d’improvviso tutta la sua vita e le sue certezze stravolte dall'entusiasmo, dalle ambizioni e dai sogni di Daniel, con cui inizia una travolgente storia d’amore, che la porterà a riflettere su cosa fare della sua vita.
Restare a casa, a Cuba, o andarsene, sapendo che casa e Cuba mancheranno sempre?

BiDi mi racconta parecchie cose dell'esilio, un cliché in quest'isola talmente affacciata sul mare che l'istinto di attraversarlo è quasi un'epidemia incontrollabile. I cliché, però, non sono altro che verità ripetute.
Chi se ne va, si dice, sente sempre la mancanza di qualcosa. Forse degli altri. Non conta quanti nuovi amici ti farai. Ti mancherà sempre qualcuno. Anche nel resto del mondo il cielo è blu, fa caldo, ci sono il mare e dei begli acquazzoni. Però a quello spazio manca il tempo. Quello che continua a scorrere senza di te, che scrosta le pareti, sbiadisce le fotografie e sotterra i vecchietti della casa all'angolo.

In L’angolo del mondo Mylene Fernández Pintado riesce a concentrare tutti i dubbi e le paure di chi si ritrova a vivere in un luogo che sembra avere poche prospettive, ma che al tempo stesso non verrebbe abbandonare, ma anche tutte le incomprensioni che possono nascere tra due persone che si amano ma che, al tempo stesso, vogliono due cose diverse e non riescono a capirsi l’un l’altro.

Marian ha un lavoro che le piace, ha una casa, ha degli amici e ama vedere il mare. Ama l’Avana e  Cuba. E ama Daniel, anche se non capisce perché se ne voglia andare. Daniel, invece, è più giovane e non vede (o non vuole vedere) prospettive e non capisce come possa la donna che ama accontentarsi.

Abbiamo fatto l'amore. Daniel, come se non potesse vivere senza di me in Spagna né in nessun altro luogo della terra. Io, come se dovessi ricordargli che il nostro mondo era bello e sicuro. Lui, credevo che lo avrei accompagnato. Io, che non se ne sarebbe andato da nessuna parte.

E, soprattutto, questo libro offre uno spaccato della società cubana e delle varie rivoluzioni che nel corso degli anni in essa si sono sviluppate. L'arrivo degli americani e poi la loro fuga. La povertà di molti e la ricchezza di pochi. Le scarse prospettive, ma al tempo stesso le difficoltà ad ambientarsi lontano da lì e il desiderio, di molti, di tornare. La frustrazione e la paralisi, ma anche la capacità, non di tutti, di riuscire a vedere del buono e del bello anche dove per molti sembra impossibile.

Da amante della letteratura sudamericana, sempre in cerca di autori contemporanei per raccontare le vicende caraibiche del passato e del presente, devo dire che quella di L'angolo del mondo è stata proprio una bella lettura. Ho amato molto lo stile dell'autrice e il modo in cui ha raccontato il personaggio Marian: una donna che si pone domande e si tormenta di dubbi e incertezze, che si lascia coinvolgere e trasportare dall'amore, ma senza mai mettere il desiderio degli altri di fronte al suo, per quanto possa essere doloroso lasciar andare chi non vuole rimanere. O lasciare indietro chi, invece, è deciso a restare.


Titolo: L'angolo del mondo
Autore: Mylene Fernández Pintado
Traduttore: Laura Mariottini e Alessandro Oricchio
Pagine: 221
Anno di pubblicazione: 2017
Editore: marcos y marcos
Prezzo di copertina: 16 €
Acquista su Amazon:
formato cartaceo:L'angolo del mondo

venerdì 27 ottobre 2017

UNA VITA NON MIA - Olivia Sudjic

Avete mai sentito davvero, ardentemente, di non sapere chi siete? Fate mai qualcosa per poi pensare, Chi è al posto di comando? Come se un comandate pazzo vi avesse chiusi fuori dalla cabina di pilotaggio. Io sicuramente sì. Provo una specie di vertigine che mi lascia tremante. Immagino che la proviamo tutti quando compiano una scelta che ci sembra difficile, e a volte è vero che non sappiamo chi siamo perché non sappiamo chi dovremmo essere, o chi vogliamo essere.

Da quando esistono i social, a tutti è capitato almeno una volta di seguire quasi compulsivamente qualcuno che non si conosce: sbirciamo il suo profilo facebook per scoprire qualche aggiornamento, controlliamo su instagram l’ultima foto che ha postato o guardiamo su twitter quale messaggio di 140 caratteri ha lanciato nell’etere. Niente di patologico nella maggior parte dei casi: piccola e semplice curiosità aiutata dal fatto che chi condivide queste cose ha un profilo pubblico e quindi vuole farsi leggere e seguire. 
A volte, però, tutto questo può sfociare in una vera e propria ossessione, soprattutto se si è in cerca di risposte sulla propria vita e il proprio passato e si tende a pensare di poterle trovare un po’ ovunque.
È quello che succede a Alice Hare, la protagonista ventitreenne di Una vita non mia, romanzo di esordio di Olivia Sudjic, pubblicato da minimum fax e tradotto da Chiara Baffa.


Alice vive in Inghilterra con la madre, dopo che il padre è scomparso nel nulla durante la loro permanenza in Giappone qualche anno prima. Un giorno è uscito di casa per andare al lavoro e non è più tornato. Forse era depresso, dopo che le delusioni lavorative negli Stati Uniti lo avevano spinto a cercare un lavoro stabile in Giappone, lontano da tutto e da tutti. 

Questa sparizione non ha mai smesso di tormentare Alice, un tormento amplificato dalle lettere che la ragazza riceve da Silva, sua nonna, che vive a New York. Ed è da lei che Alice decide di andare, in cerca di risposte. Ed è sempre a New York che incrocia, prima virtualmente e poi fisicamente, Mizuko Himura, una scrittrice giapponese che sembra avere molto in comune con lei e verso cui sviluppa una certa ossessione, fatta di foto pubblicate su instagram e attese spasmodiche di spunte blu che sembrano non voler arrivare mai. Intanto, grazie ai social, a Wikipedia e ad altre avveniristiche app, Alice compie indagini su se stessa e sul suo passato, ma anche su quello di Mizuko e delle altre persone che, in quel momento, sono nella sua vita, per arrivare a scoprire uno strano intreccio, un vortice di odio e amore che sembra collegare tutti. E da cui si può scappare solo andandosene, o cliccando sul tasto “non seguire più”.

Raccontare la trama di Una vita non mia è molto complicato, perché è ricca di intrecci, di trame e sottotrame, di salti nel passato e nel presente, di ricordi e sogni che si mescolano al quotidiano, di virtuale e reale che a volte non si riescono più a distinguere tra loro. Il tutto reso possibile da internet e dai social, e anziché risposte sembrano portare ad altre domande.
Detto così potrebbe sembrare un libro confuso, ma no, non lo è. O meglio, in parte forse sì, ma è una confusione voluta perché rispecchia quella che si crea quando le cose all'improvviso sembrano tutte sfuggirci di mano, ma soprattutto quando vogliamo disperatamente capire qualcosa, al punto da lasciar perdere ogni logica.
Se ci si lascia andare, poi, se si decide di affidarsi ad Alice e di seguirla in questa sua ricerca spasmodica di sé, questa confusione diventa chiara, comprensibile e quasi condivisibile (visto che stiamo parlando di social): perché ci si trova di fronte a una ragazza che, appena finita l’università, non sa esattamente cosa fare della sua vita; una ragazza il cui passato è stato segnato dalla scomparsa del padre e dalla conseguente reazione della madre, diventata nei suoi confronti quasi ossessiva; una ragazza che ha bisogno di capire chi era per decidere chi sarà in futuro e che spera, vivendo quasi in simbiosi con una donna con cui in qualche modo si identifica, di ritrovare finalmente la sua strada.
Proprio quella settimana, il mio ragazzo di allora mi aveva detto che l'amore non era altro che il ricongiungersi, dopo miliardi di anni, degli atomi delle stelle esplose.
«Chi te l'ha detto?», avevo chiesto immediatamente, sapendo che non poteva averlo pensato da solo
«Un fisico», rispose lui dopo una pausa risentita.
Essendo uno a cui piaceva spacciare le cose per sue, aveva letto l'ultimo New Yorker dalla prima all'ultima pagina. Mi ritrovai a pensare a quel che mi aveva detto mentre io e Mizuko camminavamo, e adesso sapevo che era vero.
Certo, Una vita non mia non è un romanzo semplice da leggere, perché seguire Alice e tutti gli intrecci che si creano nella sua vita richiede un certo sforzo mentale che però, arrivati alla fine, viene ripagato. Il romanzo offre tanti spunti di riflessione, sull'uso dei social e su come questi possono arrivare a condizionare la nostra vita, ma anche sul bisogno, umano e legittimo, di avere delle risposte alle domande passate, prima di potersene porre delle nuove.
Fermatevi un momento a pensare alla vostra vita senza Wikipedia. Dolce fonte di eterno conforto. Angelo dispensatore di informazioni. Pensate alla vostra vita senza l'opzione di ricerca su internet.
Approfitto dell’occasione per spendere due righe sulla nuova grafica minimum fax, lanciata ufficialmente a maggio durante il Salone del libro di Torino di quest’anno. Una grafica, a opera di Patrizio Marini e Agnese Pamparini, che mi piace molto, per diversi motivi: i colori, il modo in cui l’illustrazione si dipana nella copertina e, piccolo dettaglio che trovo molto importante, il nome del traduttore in copertina.


Titolo: Una vita non mia
Autore: Olivia Sudjic
Traduttore: Chiara Baffa
Pagine: 472
Anno di pubblicazione: 2017
Editore: minimum fax
Prezzo di copertina: 18,50 €
Acquista su Amazon:
formato cartaceo:Una vita non mia
formato ebook: Una vita non mia

lunedì 23 ottobre 2017

TUTTO È POSSIBILE - Elizabeth Strout

"A star male non si fa mai l'abitudine, checché ne dica la gente. Ora però, per la prima volta, si rese conto - possibile fosse davvero la prima volta che se ne rendeva conto? - che esiste qualcosa di assai più tremendo, e cioè quando uno non riesce più a star male. Lo aveva visto succedere ad altri, era un vuoto negli occhi, l'assenza che li definiva."


È da circa una settimana che dovrei scrivere la recensione di Tutto è possibile, il nuovo romanzo di Elizabeth Strout uscito a inizio settembre per Einaudi, ma, ogni volta che ci provo, mi ritrovo in difficoltà. Soprattutto perché temo di ripetermi, temo di scrivere di questa autrice le stesse cose che ho già scritto dei romanzi precedenti: che lei è una delle mie scrittrici preferite in assoluto; che un romanzo bello come Olive Kitteridge non so se l’ho mai letto (ma che anche tutti i suoi altri romanzi non sono da meno); che adoro il suo stile, il suo garbo e la sua delicatezza nel descrivere anche le situazioni più tragiche e le vite più banali; che preferivo di gran lunga quando pubblicava con Fazi che non ora con Einaudi; e che, insomma, tutti dovrebbero leggere i suoi libri.
Però di Tutto è possibile, tradotto come il precedente Mi chiamo Lucy Barton, di cui è una sorta di seguito, da Susanna Basso, mi piacerebbe poter dire qualcosa di diverso e di riuscire a spiegare perché questi racconti, che messi insieme formano un romanzo, siano così belli.

Siamo ad Amghas, in Illinois, paesino di provincia in cui Lucy Barton è nata e cresciuta e da cui poi è riuscita a fuggire per diventare un’affermata scrittrice. Tutti si ricordano di Lucy da bambina, anche se lei in città non ci viene poi tanto spesso. Quasi mai, in realtà. Sebbene lì abbia ancora un fratello e, soprattutto, da lì abbia preso spunto per il suo ultimo successo: un libro che parla di chi è riuscito a fuggire, ma anche e soprattutto di chi, invece, è rimasto.
Ed è proprio sulle vite di chi è rimasto che si concentra Elizabeth Strout, dando voce, in questi nove racconti, a ognuno di essi, raccontandone il passato e il presente, il disagio dell’infanzia e la capacità, o l’incapacità, di riscattarsi, ma anche le delusioni, le paure per il futuro ma la voglia, in molti casi, di continuare comunque a provarci.

E per un istante Annie rifletté su questo: che suo fratello e sua sorella, brave persone, serie, perbene, equilibrate, non avevano mai conosciuto la passione che porta un uomo a rischiare tutto quello che ha, a mettere a repentaglio ciò che gli è più caro, semplicemente per essere vicino al bagliore accecante del sole che per quell'istante sembra capace di lasciarsi la terra alle spalle.

È un romanzo corale, Tutto è possibile, in cui i vari racconti che lo formano (e che si potrebbero leggere anche come racconti autoconclusivi, se non fosse per quel filo sottile che li lega tra loro) si concentrano su un singolo personaggio raccontandone la storia, che però, unita alle altre, crea una sorta di biografia collettiva, il ritratto di un paese della provincia americana.
È la provincia americana, ancora una volta, la vera protagonista. I romanzi che la raccontano sono ormai diffusissimi: romanzi che danno voce a personaggi e vicende che apparentemente sembrerebbero banali nella loro quasi eccessiva semplicità ma che invece hanno voci e storie molto, molto forti.

Elizabeth Strout ne è forse stata una capostipite con il suo Olive Kitteridge ma anche con tutto il resto della sua produzione (Amy e Isabel, I ragazzi Burgess, Resta con me), e in Tutto è possibile si conferma una maestra nel dare voce a questi personaggi e nel farli sentire vicini a chi legge.

È come se la Strout prendesse per mano il lettore e lo portasse lì, proprio lì, insieme a Pete Burton e a Tommy Guptilli a prendere a martellate una vecchia insegna; insieme a Patty Nickly a lottare contro il suo peso, contro le voci che da sempre la inseguono e contro una ragazzina indisciplinata che forse cerca solo qualcuno che la ascolti; è come se ti facesse andare ospite a casa di Linda e Jay Paterson-Cornell per scoprire le crepe del loro matrimonio che la donna ha sempre finto non ci fossero o ti portasse nella mente di Charlie, quando deve decidere fino a che punto tradire sua moglie. Poi, le parole di Elizabeth Strout accompagnano il lettore in Italia, insieme a Mary, una donna piuttosto anziana, che ha deciso di concedersi una nuova possibilità e un nuovo amore, per poi farlo sedere su una poltrona scomoda insieme a Pete, Lucy e Vicky, a parlare di passato e di famiglia, cercando di non farsi troppo distrarre da quello strano tappeto sul pavimento. E ancora, l'autrice lascia che a servire la colazione a chi la legge sia Dottie nel suo Bed & Breakfast; poi lo porta a scoprire i segreti di un padre che tutti sapevano tranne forse i propri figli, fino ad arrivare, nell'ultimo racconto, a capire insieme ad Abel Blaine, a uno strano Scrooge e a un cavallino dimenticato, che forse, davvero, tutto è possibile.

È un grande romanzo Tutto è possibile di Elizabeth Strout e, anche se forse si sarebbe meritato una cura editoriale migliore da parte del suo editore, conferma esattamente tutte le cose che dicevo all’inizio: Elizabeth Strout è una delle mie scrittrici preferite in assoluto; che un romanzo bello come Olive Kitteridge non so se l’ho mai letto (ma anche che tutti i suoi altri romanzi non sono da meno, Tutto è possibile compreso, ovviamente); che adoro il suo stile, il suo garbo e la sua delicatezza nel descrivere anche le situazioni più tragiche e le vite più banali; che preferivo di gran lunga quando pubblicava con Fazi che non ora con Einaudi.

E che, insomma, tutti dovrebbero leggere i suoi libri.


Titolo: Tutto è possibile
Autore: Elizabeth Strout
Traduttore: Susanna Basso
Pagine: 205
Anno di pubblicazione: 2017
Editore: Einaudi
ISBN:978-8806229696
Prezzo di copertina: 19 €
Acquista su Amazon:
formato cartaceo: Tutto è possibile

mercoledì 18 ottobre 2017

Il mondo è bello perché è vario (e anche i libri)

Ieri a Londra è stato assegnato il The Man Booker Prize for Fiction, il premio che ogni anno viene dato al miglior romanzo in lingua inglese.
A vincerlo è stato George Saunders con Lincoln in the Bardo (pubblicato in italiano da Feltrinelli con il titolo Lincoln nel Bardo). È il primo romanzo di questo scrittore americano, finora conosciuto per le sue raccolte di racconti (pubblicate in Italia da minimum fax), ed è stato accolto dalla critica e dai lettori in modo ambivalente.
C’è chi lo ha amato tantissimo, apprezzandone l’originalità stilistica e il modo in cui è stato sviluppato il tema della morte, del passaggio nell'aldilà e del dolore sia di chi se ne va sia di chi resta. C’è chi invece lo ha trovato un romanzo furbo, senza in realtà alcuna originalità, a tratti confusionario e caotico. E, ancora, c’è a chi non è piaciuto perché non ci ha ritrovato il Saunders dei racconti. 
Io appartengo alla prima categoria: ho trovato questo romanzo originale sia per il modo in cui è scritto (fonti storiche inventate si alternano a dialoghi per far progredire la storia) sia per le emozioni che mi ha suscitato. 
Però è la terza categoria quella che mi interessa ai fini di questo post. “Non mi è piaciuto perché non ci ho ritrovato il Saunders dei racconti” o, parlando più in generale di tutti i libri, “Non mi è piaciuto perché non era quello che mi aspettavo”.

Quanto sono importanti le aspettative che i lettori hanno verso un libro nell'apprezzare o meno il libro stesso? 

©Julio Antonio Blasco
Mi è capitato spesso di iniziare le mie recensioni dicendo che per un dato libro avevo aspettative molto alte e poi di confermare o meno se quelle aspettative erano state soddisfatte. 
D'altronde perché scegliamo di leggere un determinato libro o un determinato autore? Perché per qualche motivo, sensato o meno (a volte, per me, può bastare anche la copertina), ci ha attirato; perché ne abbiamo sentito parlare bene da altri; perché lo pubblica un editore che non ci ha mai deluso; o magari semplicemente perché abbiamo già letto qualcosa di quell'autore o di quell'autrice, ci era piaciuto e quindi abbiamo deciso di leggere anche le produzioni successive.
Le aspettative con cui ci approcciamo ai libri, però, se da un lato sono umane e comprensibilissime (d'altronde, se scelgo di leggere un libro anziché un altro è perché mi aspetto di trovarci qualcosa che nell'altro non troverei), dall'altro però rischiano di distorcere, in modo più o meno pesante, il nostro rapporto con quel libro.

A me succede spesso. Leggo un romanzo o un racconto di un autore o di un’autrice che in passato mi era piaciuto e se non ci ritrovo quelle stesse sensazioni provate in passato, per un momento, rimango un po’ delusa. Poi però, nella maggior parte dei casi, riesco a dimenticarmene, ad allontanarmi dal ricordo di cosa avevo letto in passato per concentrarmi su quello che ho di fronte e cercare così di non condizionare il mio giudizio. (Non sempre ci riesco eh, sia chiaro, anche perché non sempre gli scrittori riescono a cambiare drasticamente stile o struttura di un’opera producendo qualcosa di altrettanto bello).

Mi è successo per esempio con Nick Hornby, per citare un autore abbastanza conosciuto nei cui confronti tutti, nel corso degli anni, hanno un po’ cambiato opinione: l’Hornby di Un ragazzo o di Alta fedeltà non esiste più; l’autore stesso ha faticato a rendersi conto che scrivendo in quel modo, forse perché invecchiato, forse semplicemente perché si è esaurito, non funzionava più. Allora se n’è uscito con Funny Girl: un romanzo completamente diverso e che, senza il nome in copertina, difficilmente si sarebbe potuto associare a lui. E, per me, ha funzionato. Il fatto che sia un Hornby completamente diverso non vuol dire che non sia altrettanto valido.
Un altro esempio è J.K. Rowling, che dopo Harry Potter ha pubblicato a suo nome Il seggio vacante, un romanzo completamente diverso, rivolto anche a un pubblico diverso che non sempre è stato in grado di capire che sì, la scrittrice era la stessa, ma il romanzo no. (Poi si è inventata uno pseudonimo, per pubblicare thriller, e ha rivelato di esserne l’autrice solo dopo, onde evitare altri "sì, ma non è Harry Potter").

Parlando di autori più impegnati, invece, direi che anche George Saunders rientra in questa categoria. I suoi racconti sono tutti molto belli e, probabilmente, se non avessi letto quelli (soprattutto Dieci dicembre) non avrei letto nemmeno Lincoln nel Bardo. L’impatto con il romanzo è stato abbastanza traumatico, in effetti. Perché no, non è il Saunders dei racconti e ha scritto un’opera atipica, che forse non è nemmeno classificabile come romanzo. Ma una volta superato lo shock di leggere da parte di un autore una cosa completamente diversa da quella che mi sarei aspettata, be’, quel romanzo l’ho apprezzato eccome (così come ho apprezzato la capacità di Saunders di cambiare stile, di non prendere un suo racconto e semplicemente allungarlo per farlo diventare un romanzo, con il rischio di essere molto meno efficace).

C’è poi un’altra categoria di lettori che, ammetto, fatico un po’ a capire. Ovvero quella che non riesce ad apprezzare un autore perché si aspettava, nei suoi romanzi o nei suoi racconti, di ritrovarci un altro autore. Un esempio è quello successo a La fine dei vandalismi, il primo romanzo della trilogia di Grouse County di Tom Drury, pubblicato in Italia da NN editore. Un romanzo che, di nuovo, io ho amato moltissimo, ma che ha ricevuto pareri contrastanti. Tra le critiche principali c’è quella di non essere come Kent Haruf, l’autore della Trilogia della Pianura, sempre edita da NN editore, che ha avuto un successo (per me meritatissimo) strepitoso.

Ma se in un libro si cerca un altro autore, perché non leggere direttamente i libri di quell’autore? Sì, lo so, può essere che uno abbia già letto tutto e che l’autore, perché ritiratosi o perché, come nel caso di Haruf, mancato, non possa più scrivere niente. Però su che basi si confrontano due autori che sì, hanno forse qualche tratto in comune, ma sono comunque due autori diversi.

In generale, spesso la colpa di questi strani confronti deriva dai blurb che accompagnano le uscite dei libri: quante volte sulle quarte di copertina di un autore vi capita di leggere “è il nuovo Pinco Pallino”? Oppure “in questo libro ci trovate una cosa di Tizio, una cosa di Caio e, già che ci siamo, anche una di Sempronio”?

© Franco Maticchio
È ovvio che leggendo i rimandi si sentono. Anche perché gli scrittori sono (devono… dovrebbero…) essere prima di tutto lettori e si sono formati sulle opere di autori del passato, che hanno influenzato in modo più o meno netto la loro scrittura e il loro stile.
Così come è ovvio che un editore cerca il più possibile di sfruttare il traino del successo di un altro scrittore o di un altro romanzo per vendere.
E, ultima ovvietà lo giuro, è ovvio che un lettore cerchi nei libri qualcosa che gli piaccia e per farlo il confronto con altri autori è quasi inevitabile.

Però noi lettori dovremmo anche saper andare oltre. Staccarci da quell'aspettativa che ci porta a leggere un’opera per un determinato motivo e leggerla, invece, per quello che è. Un’opera a sé, che può piacerci o non piacerci, indipendentemente da cosa abbiamo letto prima.
Anche perché, altrimenti, si potrebbe leggere sempre e solo lo stesso libro, magari cambiando solo qualche riferimento (i nomi dei protagonisti, la città di ambientazione, la professione, etc etc…), così da essere sicuri di leggere sempre la stessa cosa con lo stesso stile. 

Ma che noia, no?

lunedì 16 ottobre 2017

LA SAGA DEI CAZALET vol.5: Tutto cambia - Elizabeth Jane Howard



E così siamo arrivati alla fine. Con Tutto cambia, quinto e ultimo volume, si conclude la saga della famiglia Cazalet della scrittrice inglese Elizabeth Jane Howard, pubblicata in Italia da Fazi editore e tradotta da Manuela Francescon.

Scrivere la parola fine mi provoca una certa nostalgia, la stessa che ho provato quando ho chiuso definitivamente il volume pochi giorni fa. Perché, dopo questo lungo viaggio attraverso diciotto anni e cinque libri, la famiglia Cazalet mi mancherà terribilmente.

E pensare che l'avevo conosciuta quasi per caso, questa famiglia, grazie alla bella copertina del primo volume, Gli anni della leggerezza, che mi ha attirato come una calamita (è opera di Tom Purvis, così come lo sono quelle dei quattro volumi successivi). 


Così mi sono ritrovata a Home Place, un’enorme tenuta nella campagna inglese, in mezzo ai membri di questa numerosa famiglia, proprietaria di un’azienda di legnami: padre, madre, tre figli maschi, una figlia femmina, mogli e uno stuolo di nipoti. Stava per iniziare la seconda guerra mondiale, anche se per il momento sembrava ancora distante, una remota possibilità, che toccava solo di sfuggita le vite di questa famiglia.
Poi la guerra è scoppiata, in Il tempo dell’attesa, e con essa sono cambiate le vite dei Cazalet. Abbiamo letto un susseguirsi di vicende, di dettagli, di paure e, soprattutto, abbiamo visto crescere e maturare tutti i personaggi. C’è stata Confusione, poi Allontanarsi, fino, appunto, ad arrivare a Tutto cambia.

Un titolo che lascia già presagire parte di quello che succederà nel romanzo. Cambiamenti, enormi, nella vita di tutti, che iniziano con la morte della Duchessa nelle primissime pagine: una scomparsa che sembra rompere in qualche modo un equilibrio tra i tre fratelli, Edward, Hugh e Rupert, e che li metterà di fronte a enormi responsabilità che forse prima non erano ben consapevoli di avere. Per non parlare di Rachel, la sorella che da sempre si occupa di tutti tranne che di se stessa, che adesso si ritrova finalmente e per la prima volta ad avere in mano la sua vita.
Nel mentre ci sono le vite dei figli e delle figlie dei fratelli Cazalet, a cui si aggiungono ora anche quelle dei loro nipoti. E quindi ritroviamo Polly e Clary, ora madri e più distanti di quanto non fossero negli altri romanzi ma comunque sempre amiche. Ritroviamo Louise, che sembra in qualche modo aver trovato un suo equilibrio, e Simon e Teddy, che ancora stanno lottando per trovare il loro posto nel mondo, più una nuova generazione di piccoli Cazalet.

È difficile fare un riassunto della trama, sia perché è molto articolata (ed è questa una delle cose che più ho amato dei romanzi di Elizabeth Jane Howard: i dettagli, il raccontare anche episodi che potrebbero sembrare all'apparenza inutili, ma che messi insieme fanno andare avanti la storia e delineano le caratteristiche di ognuno dei suoi protagonisti); sia perché rischierei di rovinare il gusto della lettura a chi questi libri li deve ancora incominciare.

E non me lo perdonerei mai.

Proprio come con i romanzi precedenti, a stupirmi ancora una volta è stata la bravura di Elizabeth Jane Howard nel raccontare queste vite, nel creare questi intrecci che da un lato sì, raccontano semplicemente la storia (moooooolto dettagliata) di una famiglia, ma dall'altro sono anche uno spaccato della società inglese della metà del ‘900. Leggendo i cinque volumi della saga dei Cazalet si legge anche una parte della storia inglese: la leggerezza tra una guerra e l’altra; la paura e l’attesa di sapere cosa ne è stato di chi è stato costretto ad arruolarsi nella seconda guerra mondiale; la confusione negli anni immediatamente successivi al conflitto e il bisogno di ritrovare la propria vita; l’allontanamento dalla famiglia che si vive quando si cresce e si prende consapevolezza di quello che si è e si vuole (o non si vuole) diventare; fino, appunto, all'inevitabile cambiamento finale, in un epoca che va avanti veloce e non aspetta nessuno.

Più volte, durante la lettura, mi sono ritrovata partecipe delle vicende dei suoi protagonisti, quasi come se le stessi vivendo io: alcuni personaggi avrei voluto picchiarli (Edward, mi dispiace, dopo cinque volumi vinci senza alcun dubbio il premio di più antipatico di tutti); altri mi hanno profondamente deluso (il “noooooooooooooooooo” che ho urlato quando ho scoperto cosa aveva fatto uno dei miei personaggi del cuore credo lo abbia sentito tutto il palazzo); altri avrei voluto scuoterli un po' e farli reagire (Rachel, cavolo...) e altri ancora avrei voluto semplicemente abbracciarli e dire loro che si stanno comportando bene e che andrà tutto bene.

Non so come si faccia a scrivere libri così. Come sia riuscita Elizabeth Jane Howard a creare tutto questo e a far sentire il lettore, ogni volta, in ogni volume, quasi come fosse parte della famiglia. 
So che in questi libri e in ognuno dei personaggi c’è qualcosa della scrittrice stessa, so che Elizabeth Jane Howard ha vissuto molti degli episodi raccontati sulla sua pelle e che nella sua vita ha incontrato alcuni dei personaggi che incontrano i suoi protagonisti nel libro. Ed è riuscita a raccontare tutto questo, a dare voce a tutto quello che ha vissuto, alle persone che ha incontrato, all'ambiente che l’ha circondata, attraverso le voci, le vicende, gli intrallazzi, i tradimenti, i dolori e gli amori di questa famiglia. E lo ha fatto incredibilmente bene.

È stato un vero piacere conoscerti, famiglia Cazalet, e percorrere con te un pezzo della vostra vita. Cercherò di venirvi a trovare ogni tanto, risfogliando le vostre storie e quella della vostra fantastica autrice. Chissà che così io riesca a sentire un po' meno la vostra mancanza.

Titolo: Tutto cambia (la saga dei Cazalet vol. 5)
Autore: Elizabeth Jane Howard
Traduttore: Manuela Francescon.
Editore: Fazi editore
Anno: 2017
Pagine: 610
Acquista su amazon:
formato cartaceo: Tutto cambia. La saga dei Cazalet: 5
formato ebook:Tutto cambia (La saga dei Cazalet)

giovedì 5 ottobre 2017

REQUIEM PER UN'OMBRA - Mario Pistacchio e Laura Toffanello


È da qualche giorno che penso a cosa scrivere di Requiem per un’ombra, il secondo romanzo di Mario Pistacchio e Laura Toffanello pubblicato quest'anno dalla casa editrice 66thand2nd.
Perché vorrei evitare di citare il loro primo romanzo (sì, quello là, quel piccolo capolavoro), così come ho cercato di non pensarci mentre leggevo. Ma è quasi impossibile, purtroppo. Perché se tu autore (voi autori, in questo caso) scrivi un romanzo come L’estate del cane bambino, è naturale che generi una montagna di aspettative nei lettori per il secondo. (Anche perché forse, senza il primo romanzo, io questo Requiem per un’ombra  nemmeno lo avrei letto).

E quindi, per quanti sforzi io possa (e vorrei, davvero) fare, non ci riesco a ignorare l’enorme abisso che, secondo me, c’è tra questi due romanzi.

Lo avevo immaginato, in realtà, già quando avevo scoperto che il nuovo libro sarebbe stato un poliziesco, un hard boiled per essere più precisi: un genere che forse pare semplice e alla portata di tutti. Che ci vuole, in fondo? metti un investigatore tormentato, sempre in bilico tra la legalità e l’illegalità; metti una o più indagini, più o meno oscure; qualche pestaggio; una o due donne misteriose, qualche comprimario e qualche descrizione cupa e tenebrosa et voilà… hai un poliziesco.

E invece no.

Protagonista di Requiem per un’ombra è Sal Puglise, un investigatore privato torinese ormai vicino alla pensione che sta aspettando il grande caso con cui chiudere la sua carriera. In passato lavorava in coppia con un collega, ma qualcosa tra loro si è spezzato e adesso lui avrebbe solo voglia di smettere e riposarsi. Il grande caso sembra arrivare, quando si presenta da lui un tabaccaio che ha picchiato a sangue un rapinatore. Sembrerebbe legittima difesa, ma è la parola del tabaccaio contro quella del ladro. Ci va qualche garanzia di vittoria in più… e bisogna trovarla con discrezione. Puglise accetta il lavoro, facendoselo pagare ben caro… e scoprendo ben presto che è molto più complicato di quello che sembra. Nel frattempo, viene contattato da una donna, Dalia Soriano, che gli chiede aiuto per ritrovare suo fratello Paolo, scomparso da tanti anni. Anche in questo caso, per Sal Puglise le cose si complicano in fretta, riportando alla luce un passato sconvolgente che ancora rischia di rovinare il presente.

Poi ci sono anche altre piccole storie collaterali: quella del barista Sergio e di suo figlio; quella della vicina di casa con cui Puglise condivide cene settimanali; e quella del suo passato, di quello che è successo tra lui e il suo socio.

Perdersi in tutte queste trame e sottotrame è molto semplice. Soprattutto se costruite in modo un po’ raffazzonato, come, purtroppo, in questo caso. Una situazione che si potrebbe anche accettare, se si vedesse che gli sforzi degli autori si sono concentrati su altro: sui personaggi, magari, sulle loro caratteristiche e i loro sentimenti. Invece ci ho trovato solo scimmiottamenti, cliché, elementi già visti e già sentiti in tutti i polizieschi, a cui Mario Pistacchio e Laura Toffanello, per quanto mi riguarda, non sono riusciti ad aggiungere nulla di nuovo (sì, c’è Rico, che mi è piaciuto tantissimo e che ho trovato geniale, anche se sfruttato davvero troppo poco).
Leggendo, a fatica (cosa che per quanto mi riguarda, visto il genere, indica che qualcosa tra me e quel libro non sta funzionando) mi sono chiesta se questo senso di già letto, già visto, fosse una cosa voluta, visto quanto è stata caricata (un esempio: l’investigatore indossa sempre il trench. Ché probabilmente è più figo del loden di manziniana memoria o dell’impermeabile del tenente Colombo).  E non ho trovato una risposta. 

Può darsi che non l’abbia capito io, ci mancherebbe. Però, ecco, per me è stata una vera delusione.

(A tutto questo, aggiungerei che sarebbe servita una miglior cura editoriale, a livello di revisione e di editing del testo, perché ci sono alcune incongruenze, alcune frasi che lette per intero non hanno senso o hanno errori di concordanza che le rendono quasi incomprensibili. Per esempio: I giorni perduti non tornano quasi mai. E quando torna, si presenta senza invito.)

Titolo: Requiem per un'ombra
Autore: Mario Pistacchio, Laura Toffanello
Pagine: 268
Anno: 2017
Editore: 66thand2nd
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formato brossura: Requiem per un'ombra