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martedì 31 maggio 2016

L'INONDAZIONE - Adrián N. Bravi

Sentiva una strana sensazione di calma e serenità quando attraversava le strade sommerse del paese. Non sapeva darsi una spiegazione, forse non c'era neanche e, se c'era, in fondo non voleva conoscerla. Insomma, aveva capito che ritrovarsi tutta quell'acqua per le vie gli aveva aperto un mondo nuovo: le cose scomparivano dalla vista per farsi più presenti, sia per i vivi che per i morti.


C’è stato un periodo, quando ero bambina, in cui casa dei miei genitori era spesso soggetta a rischi di alluvione a causa di un tubo mal funzionate che, durante temporali violenti o lunghe giornate di pioggia, non riusciva a incanalare tutta l’acqua. Erano dei brutti momenti, perché vedevi l’acqua nel prato davanti a casa aumentare a dismisura, coprendo le piante, fino al momento in cui superava il muretto di divisione e invadeva la nostra strada. Il primo anno in cui è successo, non abbiamo fatto in tempo a togliere niente dal garage e, come noi, quasi tutti i nostri vicini. Risultato: più di un metro e mezzo d’acqua in cantina, un’auto da buttare e tante altre cose sommerse completamente. Io ho alcuni vaghi ricordi di quel momento. Un vicino che tenta, insieme a mio padre, di tirare fuori la nostra auto dal garage con l’acqua che ormai gli arrivava alla vita. Il pompiere che, tra le varie cose, ripesca un vecchio peluche di un asino e mi guarda sconsolato. Le patatine fritte che abbiamo mangiato dalla famiglia che ha ospitato me e mio fratello quella sera a cena. 
Da quella volta, ogni pioggia e ogni temporale era per tutti fonte di preoccupazione. Togli subito le auto, svuota la cantina, fai una piccola diga e poi, insieme ai vicini di casa, aspetta di vedere che cosa succede. Noi allagati non ci siamo più. Il mio vicino di casa, che si era trasferito da poco, due volte. Una delle due non ha retto, e mio padre e un altro vicino lo hanno ripescato dall'acqua svenuto. Poi quel tubo lo hanno aggiustato e l'acqua non è più arrivata, ma il ricordo e la paura che succeda di nuovo sono sempre lì.
Mi scuso per questo lungo preambolo, ma è quello che ho avuto in mente fin dal primo momento in cui ho visto la copertina di L’inondazione di Adrián N. Bravi, edito da nottetempo. Un ricordo che sembra lontano (era il 1992), che questo libro ha riportato prepotentemente alla luce.

L’inondazione racconta la storia di un paese, Río Sauce, che viene completamente sommerso dall’acqua. Tutti i pochi abitanti rimasti decidono di andarsene. Solo Ilario Morales non se la sente di lasciare la sua casa e quindi, raccolte poche cose che potrebbero tornargli utili, si rifugia nella soffitta di casa sua. Ogni giorno prende la sua piccola barca a remi e va in giro per le vie del paese: passa al cimitero a trovare sua moglie, sua figlia, e tutti gli altri morti; raccoglie quegli oggetti che da soli riemergono dall’acqua e li porta a casa, convinto che se siano emersi da soli ci deve essere un motivo; e osserva le case e questa lunga distesa d’acqua. Mentre è a pranzo in una locanda nel vicino, e asciutto, paese, scopre che qualcuno si è fatto avanti con gli abitanti di Río Sauce, per comprare tutte le case. Saputa la notizia, Ilario Morales cerca di andare a parlare con le persone che crede esserci dietro a questo piano e cercare così, in compagnia di un buffo cane che all'improvviso non lo vuole più abbandonare, di salvare il paese. Ma poi l’acqua finalmente si ritira, gli abitanti tornano in paese, eppure Morales sente che c’è qualcosa che non va.

Il mondo sommerso che riscopriva in quel momento davanti alla finestra lo faceva sentire, oltre che un estraneo, anche una specie di custode che aveva il compito di sorvegliare la valle rimasta nascosta; la terra della sua infanzia, umida, fitta di piante e animali, che si era ripiegata su se stessa per consentire all'acqua di alzarsi oltre gli argini.

L’inondazione è un romanzo all'apparenza molto semplice, quasi una fiaba, per lo stile con cui è raccontato e per la poeticità di certe immagini. Ma è anche qualcosa di più. È la storia della vita di un uomo, del suo passato e del suo presente, dell’amore per sua moglie, per la figlioletta morta da bambina e per quel figlio che invece ancora oggi gli dà dei problemi. Ed è la storia di un paese, di quelli piccoli e quasi dimenticati da tutti come ce ne sono tanti, anche in Italia, in cui la voglia di restare viene spesso soffocata dal desiderio di comodità, di cui è facile trovare qualcuno che voglia approfittare.
Ilario Morales è un piccolo eroe, un anziano che non si arrende e che non vuole lasciar andare tutti i ricordi della sua vita, anche se farlo sarebbe forse la cosa più semplice. Per cui affronta cinesi imprenditori, il figlio che vorrebbe ancora una volta chiedergli dei soldi, persino yacares, enormi e paurosi coccodrilli che hanno popolato quella distesa d'acqua. E affronta se stesso e il suo passato.

Nella sua estrema semplicità, nel suo surrealismo, nella poesia dei piccoli gesti e delle parole, questo libro mi è piaciuto davvero tanto. E lo consiglio a tutti, a chi in passato ha provato la sensazione di vedere tutto sommerso ma anche a chi non ha idea di che cosa possa fare dall'acqua alle case e alle persone.
Bello davvero.

Titolo: L'inondazione
Autore: Adrián N. Bravi
Pagine: 184
Anno: 2015
Editore: nottetempo
Acquista su Amazon:
formato brossura: L'inondazione
formato ebook:L'inondazione

lunedì 30 maggio 2016

IL PROFESSORE VA AL CONGRESSO - David Lodge

Come il pellegrino cristiano del Medioevo, così il congressista del nostro tempo indulge a tutti i piaceri e ai diversivi del viaggio, mentre in apparenza sembrerebbe austeramente intento al proprio perfezionamento. È vero che vi sono degli esercizi penitenziali da eseguire, come presentare (talvolta) un proprio saggio, e ascoltare (immancabilmente) l'esposizione dei lavori altrui, ma con questa scusa il viandante si muove e visita posti nuovi e interessanti, e intreccia rapporti nuovi e interessanti; scambia pettegolezzi e confidenze (perché le sue storielle un po' consunte, sono nuove per gli altri e viceversa); mangia e beve e si diverte ogni sera in compagnia... eppure, a cosa finita, torna a casa con la reputazione accresciuta di persona seria e impegnata.


Circa un mese fa, stavo chiacchierando con un mio amico dell'imminente Salone del libro. Lui è un addetto ai lavori, e mi stava raccontando alcuni retroscena tipici di queste fiere che chi partecipa come visitatore non coglie. Tra questi, c'era il fatto che molti vedono questi eventi come una possibilità per rimorchiare (lui non ha usato proprio questo termine, ovviamente). Di fronte alla mia incredulità, mi ha detto che mi avrebbe prestato Il professore va al congresso di David Lodge, e poi ne avremmo riparlato. Ovviamente, ho accettato, anche perché fino a quel momento non avevo mai sentito nominare questo autore (sebbene in Italia siano stati pubblicati da Bompiani parecchi suoi romanzi) e un po' mi incuriosiva.

Il professore va al congresso, come il titolo lascia facilmente intendere, racconta di un gruppo di professori e accademici, di diversa provenienza ed esperienza, che si ritrova sempre a partecipare a congressi di letteratura in giro per il mondo.
Tra questi c'è Persse McGarrigle, docente alle prime armi e poeta che ancora crede nell'amore casto e puro, che proprio al suo primo congresso si innamora perdutamente di un'altra partecipante, la bella Angelica. Da quel momento, per lui inizia un'avventura che lo porterà a partecipare a quasi tutti i congressi del mondo, per rincorrere la donna di cui è innamorato.
A far da contorno alla sua storia ci sono quelle di altri professori, che incontra spesso durante i suoi spostamenti: Philip Swallow, per esempio, che partecipa a ogni congresso possibile e immaginabile per stare il più lontano possibile dalla moglie; oppure Morris Zapp, che dalla moglie invece ha da poco divorziato e si gode la vita senza alcun impegno affettivo; o ancora Arthur Kingfisher con la sua segretaria/concubina giapponese, Sigfried von  Turpitz con la sua misteriosa mano guantata e la sua fama di critico spietato, e molti altri esponenti di un'élite accademica, accomunata, oltre che da una vasta esperienza in fatto di congressi, da una strana vivacità sessuale.

Gli intrecci di Il professore va al congresso sono tanti, troppi da poter riassumere in poche righe, e portano i vari personaggi ad amarsi od odiarsi senza alcun ritegno, attraverso avventure a volte un po' assurde, ma decisamente molto comiche.
Ovviamente quella di David Lodge è una caricatura, un'esagerazione ed esasperazione della vita di certi accademici che sembrano davvero vivere solo ed esclusivamente per partecipare a questi congressi e vivere esuberanti avventure sessuali, e ha l'effetto di fare umanizzare anche questi personaggi, facendo perdere, grazie alle scene di scazzottate per una recensione negativa o di incontri (o anche solo i pensieri) sessuali scabrosi, un po' di quella reverenza che io ho sempre provato nei loro confronti.
Forse non è il libro più divertente che io abbia mai letto, come dice invece la frase di Umberto Eco riportata in copertina (ma lui era di quell'ambiente e credo che abbia riconosciuto molti più elementi di quanto non possa fare un lettore che quel mondo invece lo conosce poco), ma sicuramente è un libro molto buffo, e a tratti anche impietoso, che fa sorridere spesso e, alcune volte, proprio scoppiare a ridere. Il professore va al congresso mi è piaciuto molto, insomma, e mi ha fatto venire voglia di recuperare anche gli altri romanzi di David Lodge.
Eh sì, ora mi sembra anche molto plausibile il discorso che il mio amico mi faceva riguardo alle fiere, ai congressi e al modo in cui vengono visti, e vissuti, da alcuni dei partecipanti.
("Lui è tra questi?" vi starete chiedendo voi... vi lascio con il dubbio, è più divertente).

Titolo: Il professore va al congresso
Autore: David Lodge
Traduttore: Mary Buckwell e Rosetta Palazzi
Pagine: 412
Anno: 1990
Editore: Bompiani
Acquista su Amazon:

giovedì 26 maggio 2016

Incontrando... Elizabeth Strout al Circolo dei lettori di Torino

Ieri pomeriggio, presso il Circolo dei lettori di Torino, si è tenuto un incontro con la scrittrice americana Elizabeth Strout, in tour in Italia per presentare il suo ultimo romanzo, Mi chiamo Lucy Barton, da poco uscito per Einaudi.

Sono venuta a conoscenza di quest’incontro qualche settimana fa e già allora sapevo che avrei fatto qualunque cosa per andarci. Chi segue il blog e la pagina, sa quanto io ami questa scrittrice e i suoi romanzi e pensare di averla a soli 50 km di distanza e non andare a incontrarla sarebbe stato folle.
E quindi ieri, in compagnia della mia libraia preferita Stefania, sono andata a Torino. Immaginavo ci sarebbe stata tanta gente a quest’incontro e avevo già scritto al Circolo dei lettori per sapere se ci fosse qualche procedura da seguire. “Vieni almeno un’ora prima” mi è stato solo detto. Noi siamo arrivate là un’ora e mezza prima e, dopo una pausa gelato, ci siamo messe in coda. Sì, in coda. Fa impressione pensare che ci sia coda per una scrittrice che non sia anche un personaggio televisivo o cinematografico. Eppure sì, ieri ad aspettare Elizabeth Strout eravamo davvero in tanti. 


In troppi forse, perché pur arrivando con questo largo anticipo non abbiamo potuto assistere all’evento nella sala in cui si teneva, ma in una attigua, in collegamento video. E non è la stessa cosa, purtroppo. Però dai, la mia scrittrice preferita era nella stanza accanto alla mia... direi che è già una bella soddisfazione. 
A dialogare con lei c’era Susanna Basso, traduttrice dell’ultimo romanzo uscito, che, devo dire, mi ha fatto una tenerezza infinita. Era, credo, talmente tanto emozionata che per le prime domande ha dovuto leggere da un foglio quello che doveva dire. E la capisco, perché trovarsi accanto a quella donna e doverle parlare deve essere qualcosa di incredibile.



L’incontro è iniziato con la lettura di un passo di Mi chiamo Lucy Barton, prima in inglese dalla stessa Elizabeth Strout (che ha un bell’accento americano, ma che si capisce perfettamente quando parla) e poi la traduzione da parte di Susanna Basso.  Da lì si è poi passato a parlare del libro, con alcune domande sulla sua protagonista e sull’ambientazione.
Elizabeth Strout ha scelto di far arrivare la sua protagonista dal Midwest, pur essendo lei del Maine, perché una volta ci è andata e si è accorta di quanto cielo ci fosse, un cielo che quasi si mangiava la terra. Le è sembrato il posto ideale per far crescere una donna in un’infanzia difficile e un posto ideale da amare e odiare al tempo stesso.
Altra particolarità di Lucy Barton è il fatto che sia una scrittrice. La Strout ha detto che nemmeno lei subito voleva credere che lo stava facendo davvero. Però Lucy era una bambina solitaria, che trovava nei libri conforto e calore (un po’ perché li leggeva nella biblioteca della scuola, al caldo, anziché nel garage in cui viveva, un po’ per tutto quello che le hanno dato).

Si è parlato poi anche dei romanzi precedenti, in particolare Olive Kitteridge, che è particolarmente amato in Italia. Elizabeth Strout ha detto di essere contenta che sia piaciuto così tanto e di avere così tanti lettori entusiasti per quel libro e per quel personaggio, ma in realtà cerca di non pensarci troppo e di fare il suo lavoro, di scrivere quello che sente senza pensare troppo a quali saranno le reazioni di chi lo leggerà. Anche perché crede che nessuno possa mai conoscere davvero un altro e che quindi ogni persona nei libri trova qualcosa di diverso. 
Elizabeth Strout ha raccontato del suo amore per Hemingway, dicendo di essere forse l’unica donna americana ad amare lui e la sua scrittura chiara e diretta, e poi dell’importanza per la protagonista del libro ma anche per lei dei gesti degli sconosciuti, quel concetto espresso tanto bene da Tennessee Williams nel suo Un tram che si chiama desiderio.

Dopo qualche altra domanda e qualche intervento dal pubblico (mi dispiace, non ho segnato tutto, ero troppo presa ad ascoltarla e scrivere, su carta o su smartphone, mi avrebbe distratta troppo), ovviamente, è arrivato il momento degli autografi.

Io ho portato con me sia Olive Kitteridge sia Mi chiamo Lucy Barton, ma alla fine ho deciso di farle autografare solo il primo. È senza ombra di dubbio il mio preferito, per questa burbera protagonista che mi ha fatto letteralmente impazzire. E quindi mi sembrava più giusto averlo solo lì (dai, oggi la polemica sul passaggio in Einaudi ve la risparmio).
Inutile dire che ero agitatissima quando è arrivato il mio turno. Però avevo davanti Elizabeth Strout e dovevo assolutamente dirle qualcosa di più di un semplice “Hi!”. Allora le ho detto che era una grande onore conoscerla e che Olive Kitteridge è, appunto, il mio romanzo preferito in assoluto. Lei mi ha stretto la mano con entrambe le sue, in un gesto dolcissimo e tenerissimo, che mi ha emozionata un sacco. Penso faccia così con tutti, e questo forse lo rende ancor più speciale, perché potrebbe limitarsi a una fredda stretta di mano (che sarebbe anche comprensibile, con tutta la gente che incontra ogni giorno).
Sono uscita che mi tremavano un po’ le gambe, ma davvero, davvero felice.



Ringrazio il circolo dei lettori per avermi dato finalmente la possibilità di incontrarla (anche se magari la prossima volta ditemelo che con la tessera avrei potuto prenotare il posto nella sala principale, per la Strout l’avrei fatta senza alcun problema!), e Stefania per la compagnia, le belle chiacchiere, le foto (e il gelato!) di tutto il pomeriggio.

Eh niente, gente, io ho l'autografo di Elizabeth Strout:

mercoledì 25 maggio 2016

TORINGRAD - Darien Levani

Come fai a riconoscere la felicità mentre la stai vivendo? e sussurrare a te stesso: ora fermati, sei felice. Cristallizza questa frazione e osservati meglio: hai parte di quello che volevi, sei in un posto caldo, e sparsi per questa città ci sono degli amici che farebbero tutto per te. Rifletti su questo momento, cerca di fissarlo nella tua memoria per sfogliarlo più tardi come si sfogliano delle fotografie in cerca di conforto.
Non lo sai. Lo capisci dopo, solo dopo.

Quando mi è stato regalato, direttamente dalle mani degli editori qualche giorno prima dell'uscita, Toringrad di Darien Levani, mi è stato anche detto che questo mi sarebbe piaciuto sicuramente. Non solo per la copertina rosa shocking e la Mole Antonelliana che ci svetta sopra, ma per la storia e lo stile dell’autore. Quando mi dicono così, cerco di anticipare la lettura al prima possibile, perché sono sempre incredibilmente curiosa di sapere se chi me l’ha consigliato ha indovinato oppure no.
Devo anche ammettere che i romanzi pubblicati da Edizioni Spartaco sono per me una garanzia. Di tutti quelli che ho letto, e sono tanti, non ne ho trovato uno che mi abbia delusa. Posso piacere di più o di meno, ma si sa quasi per certo che si leggerà una bella storia. Ed è stato così anche nel caso di Toringrad

Il romanzo ha come protagonista Drini, un albanese, ex studente di storia, che dopo aver partecipato per anni a traffici di droga per accumulare un po’ di soldi, ora ha messo la testa a posto e realizzato un suo piccolo sogno: quello di aprire un bar, a Torino, il Toringrad appunto, e farlo diventare nel suo piccolo un luogo frequentato e famoso. I legami con il passato ci sono ancora, perché sono legami troppo difficili da spezzare, però la vita di Drini sembra aver finalmente preso una piega diversa. Finché non viene contattato dal cognato Petrìt che, tradito da qualcuno dei suoi e arrestato, ha bisogno di qualcuno di cui si fida per portare a termine un’importante consegna di cocaina. Drini si ritrova quindi nuovamente catapultato in quella vita. Sa ancora come muoversi, perché certe cose non si dimenticano, ma più si ritrova invischiato in rivalità tra bande, tradimenti e spiate alla polizia, più si rende conto che il suo bar, la sua vita nuova sono qualcosa a cui non può più rinunciare. 

Dal bellissimo incipit che ho citato all’inizio di questa recensione, devo ammettere che mi aspettavo qualcosa di diverso. Non so bene perché, visto che la trama nei risvolti di copertina è racconta e anche bene. Forse perché non avevo pensato a come la ricerca della felicità riguardi un po’ tutti, così come la consapevolezza di accorgersi di averla persa arriva sempre, per tutti, troppo tardi. E quindi sì, riguarda anche ex spacciatori che sognano un futuro migliore. 
E Drini ne è un esempio lampante, con la sua storia, dall’arrivo in Italia alla voglia di laurearsi, dalla quasi inevitabile carriera nello spaccio fino alla ricerca di stabilità, con l’apertura di un bar. Una felicità, magari non perfetta, che riesce a raggiungere ma che poi il suo passato cerca in ogni modo di portar via.

Non avevo la benché minima idea di come funzionasse il mondo dello spaccio e, soprattutto, di quanto influenti siano i legami di sangue e d’onore, in queste situazioni. Ho imparato qualcosa, su un mondo che esiste e che fa parte della nostra società. E già solo per questo direi che Toringrad è un bel libro.
Se poi ci aggiungiamo lo stile di Darien Levani, che si affida alla prima persona per far sembrare ancor più reale il protagonista Drini, siamo di fronte a qualcosa di più, che vale decisamente la pena di leggere.

Titolo: Toringrad
Autore: Darien Levani
Pagine: 175
Editore: Edizioni Spartaco
Anno: 2016
Acquista su Amazon:
formato brossura: Toringrad

lunedì 23 maggio 2016

UNA VALIGIA DI LIBRI - Resoconto di un viaggio in Nord America e Canada

Sabato 21 maggio si è tenuto il quinto (e, ahimè, penultimo) incontro di Una valigia di libri, il ciclo di appuntamenti dedicato alla letteratura di tutto il mondo, organizzato da Il giro del mondo attraverso i libri e me presso la Libreria Sulla Parola di Caluso.
Protagonista di questo incontro è stata la letteratura del nord America, tra Stati Uniti e Canada.


Come ormai tradizione, prima di passare ai consigli, voglio ancora una volta ringraziare tutti coloro che hanno partecipato, fisicamente e virtualmente.
Ritrovarsi in libreria un sabato pomeriggio a parlare di libri, insieme a persone che prima di questo evento nemmeno conoscevi e che ora consideri quasi amiche, per me è qualcosa di bellissimo. I libri hanno tanti poteri, e uno di questi è proprio quello di fare incontrare le persone.
L’altra cosa bella, che già sapevo ma che l’incontro di sabato mi ha confermato non essere una cosa solo mia, è che un libro oltre alla storia che racconta ne contiene anche tante altre: le peripezie fatte dal lettore per trovarlo, il fatto che una lettura abbia fatto tornare persone dal passato che non avevo più fatto parte della vita, o pure strani incontri papali che hanno fatto nascere grandi amicizie.

Insomma, credo si sia capito quanto bene io sia stata in quella bella libreria arancione sabato pomeriggio.





Ma ora passiamo ai libri, che è quello state aspettando tutti. Sebbene la partecipazione sia stata un po’ meno ampia delle altre volte (forse la letteratura nord Americana è talmente vasta che fa quasi paura riuscire a consigliare un solo libro), i titoli pervenuti sono stati comunque tanti (considerate che io da sola ne ho portati cinque…). Come sempre, nei casi in cui i libri siano stati recensiti su uno dei blog dei partecipanti, troverete il link alla recensione.
Qui invece trovate la bella mappa creata da Claudia, per avere un’idea più chiara del luogo da cui vengono o in cui sono ambientati i romanzi consigliati.

CANADA
Self – Yann Martel (Piemme)
Sanctuary Lane – Jane Urquhart (Nutrimenti)
Un complicato atto d’amore – Miriam Toews  (Adelphi)
Racconti – Alice Munro (Einaudi)

STATI UNITINon dirlo a nessuno – Harlan Coben (Mondadori)
Mi chiedo quanto ti mancherò – Amanda Davis (Terre di mezzo)
Il paradiso degli animali – David James Poissant (NN editore)
Visioni dal futuro – Philip K. Dick (Fanucci)
Scavare fino al centro della terra – Kevin Wilson (Fazi editore)
La famiglia Fang – Kevin Wilson (Fazi editore)
La scopa del sistema – David Foster Wallace (Einaudi)
Cronache marziane – Ray Bradbury (Mondadori)
La campana di vetro – Silvia Plath (Mondadori)
Canto della pianura – Kent Haruf (NN editore)
Benedizione - Kent Haruf (NN editore)
Olive Kitteridge – Elizabeth Strout (ma anche tutti gli altri libri di questa autrice)(Fazi editore)
In viaggio contromano – Michael Zaadorian (marcos y marcos)
Quando siete felici fateci caso – Kurt Vonnegut (minimum fax)
La sorella cattiva – Veronique Ovaldé (minimum fax)
Molto forte, incredibilmente vicino – Jonathan Safran Foer (Guanda editore)
Furore  - John Steinbeck (Bompiani)
Via col vento –  Margareth Mitchell (Mondadori)
Le correzioni – Jonathan Franzen (Einaudi)
Last days of California – Mary Miller (clichy edizioni)
A volte ritorno – John Niven (Einaudi)
Anche noi l’America – Cristina Henriquez (NN editore)
Angeli e demoni – Dan Brown (Mondadori)
Orientarsi con le stelle – Raymond Carver (minimum fax)
Il vangelo secondo Biff – Christopher Moore (LIT)
Level 26 – Anthony Zuicker (Sperling & Kupfer)
Tutti i libri di Hunter Thompson (Bompiani)


Davvero tanti bei consigli, che racchiudono un po’ tutta la letteratura nord americana e canadese contemporanea. (Mancano ovviamente tanti altri libri importanti, ma la cosa bella di questi incontri è che non si guarda tanto ai libri più conosciuti, più famosi, o “imprescindibili”, ma ai gusti di chi ne parla).

Il prossimo incontro, che sarà l’ultimo almeno di questa prima edizione, si terrà sabato 18 giugno, sempre alle ore 16, sempre alla bellissima Libreria Sulla Parola di Caluso, e sarà dedicato all'Africa e all'Oceania.

venerdì 20 maggio 2016

LE COSE CHE RESTANO - Jenny Offill

Una falena volò nella stanza e sbatté le ali contro il paralume. Mi chiesi se fosse la stessa che aveva cercato di volare fino a una stella. Ma quella falena era morta, me lo ricordavo, e allora forse era la falena rimasta a casa a volare intorno al lampione, in strada. Mia madre mi aveva raccontato anche quella storia, spiegandomi che la morale era questa: non ci si può fidare delle stelle. Si spostano sempre più lontano man mano che ti avvicini.

Quando hai otto anni il tuo mondo è molto piccolo. I bambini del quartiere in cui vivi, qualche compagno di classe, i parenti se li hai vicino, e soprattutto i tuoi genitori. Sono loro che più di tutti, a quell’età, ti insegnano a guardare il mondo, a cercare di capirlo, e segnano, nel bene o nel male, quello che sarai più avanti. E sono loro che più di tutti cerchi di accontentare, stupire, compiacere.

Grace, la piccola protagonista di Le cose che restano di Jenny Offill, il primo romanzo di questa autrice americana che arriva ora in Italia grazie a NN Edizioni e alla bella traduzione di Gioia Guerzoni, dai suoi genitori cerca di assorbire più che può. Anche perché è una bambina un po’ solitaria, a cui il mondo reale va un po’ stretto, a causa delle mille avventure fantastiche e le mille storie che sua madre Anna le racconta continuamente. Il padre riesce quasi sempre a tenerle entrambe con i piedi per terra: è un uomo di scienza, lui, e le fantasie della moglie e quelle della figlia lo divertono, sì, ma senza esagerare. Eppure questa famiglia sembra funzionare: tra questa madre esuberante, questo padre così legato ai suoi principi, e questa bambina che ama entrambi.
A un certo punto però gli equilibri della famiglia si rompono. Il padre ha una grande opportunità che non si sente di rifiutare, ma Anna non riesce ad accettarlo. E quindi prende l’auto, ci carica dentro tutto quello che c’è in casa, si prende Grace e partono. Per dove, non si sa. Grace la segue, perché della madre si fida. Ma anche se ha solo otto anni e nelle fantasie della donna si è sempre trovata a suo agio, a poco a poco si rende conto che c’è qualcosa che non va, che le storie della madre sono sempre meno fantastiche, più complesse, più difficili per lei da capire. E questo cambia tutto.

Se avete letto e amato Sembrava una felicità, ultimo romanzo in ordine di scrittura di Jenny Offill ma primo a essere tradotto qui in Italia, vi approccerete a questo libro con enorme entusiasmo e, soprattutto, con altissime aspettative, quasi certi di ritrovarci quello stile asciutto eppur così intenso che aveva reso quel libro indimenticabile. Ecco, dimenticatevelo invece. 
Dimenticatevelo e iniziate a leggere Le cose che restano come se non fosse di Jenny Offill, o almeno con la consapevolezza che si tratti di un romanzo di molto precedente (questo è del 1999, Sembrava una felicità del 2014).

Se ci riuscite, e io devo ammettere di avercela fatta solo perché ho letto una bella recensione prima di cimentarmi con la lettura, ve ne innamorerete proprio come avevate fatto con l'altro libro. Adorerete queste due protagoniste femminili: la piccola Grace, una bambina molto sveglia, che ama in egual misura suo padre e sua madre, anche se dalla personalità di quest’ultima si ritrova quasi travolta, senza mai riuscire a capirla a fondo. E Anna, questa donna che racconta storie e che di mestiere salva uccelli in via d’estinzione, è un personaggio complesso, che a volte ti fa tenerezza, altre volte quasi ti disturba, quando non vorresti semplicemente strozzarla. 
L’unico che un po’ ci rimette è il padre, poco caratterizzato in realtà, o forse anche lui completamente schiacciato dalla personalità della moglie, che riesce a gestire solo fino a un certo punto.
Il nonno studiava le metafore, mi spiegò. Voleva capire perché il cervello metteva a confronto le cose. Ogni volta che andavano a fare un giro in macchina, inventava delle canzoni per lei durante il viaggio. La strada è un nastro, cantava. La luna è una torta. La notte prima di morire disse a mamma che mio padre era una lunga passeggiata con le scarpe strette.
Può darsi anche che in mezzo al libro vi perdiate un po’, in questo viaggio all'avventura di madre e figlia e, soprattutto, nei pensieri di Anna, che diventano via via più complessi, più confusi. Ma una volta arrivati alla fine vi ritroverete, in Grace, in suo padre, nell'adorabile Edgar, e in tutti quei personaggi che Anna in un modo o nell'altro ha toccato e stravolto, con la sua personalità.

Jenny Offill parla sempre di famiglie, di famiglie che sembrano felici ma che in realtà stanno in piedi in equilibrio precario che potrebbe rompersi da un momento all'altro. E lo fa con uno stile incredibile, pieno di vita, di sentimenti, di emozioni a volte forti e a volte folli, che trascinano il lettore lungo le pagine, su e giù tra gli stati d'animo dei suoi protagonisti, che alla fine vi lasceranno quasi senza fiato. 
Le cose che restano
 è un bel romanzo d'esordio, che lascia già sottintendere quel che di incredibile farà poi questa scrittrice con il suo libro successivo. Bello, bello davvero.


Titolo: Le cose che restano
Autore: Jenny Offill
Traduttore: Gioia Guerzoni
Pagine: 216
Anno: 2016
Editore: NN editore
Acquista su Amazon:
formato brossura:Le cose che restano
formato ebook: Le cose che restano

mercoledì 18 maggio 2016

MANUALE DI SOPRAVVIVENZA AMAZZONICA PER SIGNORINE DI CITTÀ - Sara Porro

Come molti ansiosi, non ho mai avuto un grande spirito d'avventura.
Però la mia ansia universale è a tal punto onnicomprensiva che a un certo punto mi è venuta l'ansia di non avere vissuto abbastanza avventure. Ho pensato che a trent'anni la mia finestra di opportunità si stava chiudendo, e improvvisamente la mia zona di comfort mi ha fatto venire la claustrofobia.
Allora ho deciso di partire per un'avventura: un viaggio zaino in spalla in Perù.
 

La conoscete già la collana Allacarta di EDT, vero? È quella collana che prende uno scrittore italiano, lo manda da qualche parte nel mondo e poi gli chiede di scrivere una piccola guida letteraria-culinaria di quello che ha visto... e mangiato, ovviamente.
Dopo una serie di scrittori uomini (da Marco Malvaldi a Fabio Geda, da Paolo Cognetti a Giuseppe Culicchia, passando per Andrea Bajani e Davide Enia), a partire questa volta è stata una donna, Sara Porro, che in Manuale di sopravvivenza amazzonica per signorine di città racconta del suo viaggio in Perù.

Zaino in spalla, fidanzato appresso e via, su tortuose stradine a bordo di autobus sgangherati, su gommoni da cui sembra impossibile (non) cadere o per le vie della città con taxisti impazziti, ma anche in mezzo alla foresta o tra altri turisti a compiere un rito di purificazione, fino ad altitudini impensabili o su isole in mezzo fiume. In queste poche pagine, c'è un viaggio e un mondo, che l'autrice è stata brava a raccontare con il giusto mix tra serietà e senso dell'ironia (e dell'autoironia).

Come per quasi tutti gli autori dei volumi precedenti che ho letto, anche per Sara Porro in realtà il cibo è solo un pretesto. C'è, certo, e a volte è anche parecchio strano (francamente non so se riuscirei mai a mangiare il cuy, ovvero il porcellino d'India, né se sarei disposta a buttar giù una strana erba allucinogena per purificarmi), ma dal viaggio culinario a quello interiore, in posti dove la natura e, in qualche modo, la magia ancora la fanno da padrone come appunto il Perù, il passo è davvero breve. Anche se si è signorine abituate alla città e che all'avventura non partono mai.

Devo ammettere che Manuale di sopravvivenza amazzonica per signorine di città mi ha stupita. Perché l'unico altro libro che avevo letto di Sara Porro era Giuseppino, l'autobiografia di Joe Bastianich di cui lei era stata coautrice, che, pur amando tantissmo Joe, non mi aveva convinta per niente.  Qui invece mi sono ritrovata molto coinvolta dal suo stile, dalle sue avventure e dal suo modo di affrontarle (già a partire da quel titolo che mi fa sorridere ogni volta che lo leggo).

Manuale di sopravvivenza amazzonica per signorine, come tutti quelli della collana Allacarta, è un libro leggero, lettura veloce e scorrevole, che forse se non conoscete la struttura di questi libricini potrebbe lasciarvi un po' di amaro in bocca (già che parliamo di cibo...). Eppure, nella sua semplicità, nella sua ironia, riesce a lasciare qualcosa. Oltre alla fame, ovviamente.

Titolo: Manuale di sopravvivenza amazzonica per signorine di città
Autore: Sara Porro
Pagine: 128
Anno di pubblicazione: 2016
Editore: EDT
Acquista su Amazon:

lunedì 16 maggio 2016

Il mio bellissimo SalTo 2016

Dopo una domenica di riposo e di riordino di idee (che ho trascorso principalmente mangiando) eccomi qui a cercare di raccontarvi dei due giorni che ho passato quest’anno al Salone Internazionale del Libro di Torino.
Un evento che aspetto ogni anno con ansia e che poi, una volta arrivato, mi stupisco sempre di quanto passi in fretta.


Quest’anno il mio resoconto è particolarmente difficile da scrivere, perché è stato un Salone molto particolare. Un Salone fatto più di incontri con persone tra uno stand e l’altro che non di eventi prettamente letterari e di libri (sì, lo so, la pila di libri che ho comprato sembra smentirmi…).
Temo quindi che questo post sarà più simile a una pagina di diario, piena di emozioni e di sorrisi scemi mentre la scrivo, che non a un racconto serio e professionale.

Il mio primo giorno al Salone è stato venerdì 13. Avevo segnato una lunga lista di eventi a cui partecipare che, alla fine, non ho minimamente seguito. Ho partecipato solo all'incontro all'ora di pranzo con Gianluigi Bodi che ha presentato l’antologia di racconti da lui curata, Teorie e tecniche di (in)dipendenza, insieme ad alcuni degli autori che ne hanno preso parte, e nel pomeriggio al dialogo tra Margherita Oggero e Raffaella Romagnolo, autrice del bellissimo La figlia sbagliata (più passa il tempo da quando l’ho chiuso più mi rendo conto di quanto questo romanzo mi sia davvero piaciuto… a breve ve ne parlerò come si deve anche qui).

Cos'hai fatto per il resto del tempo, vi starete chiedendo voi.
Ho vagato da uno stand all’altro, ho chiacchierato con la mia amica Thais, ho sfogliato la mia ultima traduzione e chiacchierato con Sara e Francesca allo stand Lindau, mi sono seduta sulle comodissime poltrone di NN editore, ho consigliato libri ad amici incontrati quasi per caso (Gianni, grazie mille per la fiducia!), riso, scherzato, incrociato autori nei momenti più imbarazzanti (tipo Andrea Vitali proprio mentre stavo addentando il carissimo panino comprato per pranzo), mandato messaggi d’aiuto dopo incontri non sempre piacevoli, soprattutto per me che sono di una timidezza imbarazzante (e poi sfatiamo anche un po’ questo mito… non è che perché siamo blogger ci dobbiamo volere tutti bene) e fatto foto sceme. 
Tante. Foto. Sceme. 
Con pupazzi rosa giganti, con fantastici gorilla di peluche (viva le ragazze di Gorilla Sapiens edizioni!), e con quel bellissimo Snoopy gigante di fronte allo stand di Baldini e Castoldi, (da sola e con il mio social media manager preferito... foto che però, per rispettare la sua povera dignità ormai perduta, evito di pubblicare anche qui). 


E poi beh, ho comprato libri. Seguendo la lista che mi ero segnata, ma anche lasciandomi guidare un po’ dal momento. Sono entrata là dentro alle 10.30 del mattino e sono uscita verso le 18.30. Stanca morta, sudatissima perché nei padiglioni del Salone fa sempre un caldo folle, e, ovviamente, felicissima.

Sabato 14 sono tornata con il lettore rampante, uomo dotato di una pazienza infinita, e appena entrati ci siamo messi in coda per andare a sentire Antonino Cannavacciuolo presentare il suo libro, Il piatto forte è l’emozione, insieme a Bruno Gambarotta. Un incontro un pochino troppo breve, secondo me, ma con alcuni momenti davvero divertenti (e alcuni un po’ polemici… e completamente fuori luogo). Cannavacciulo dal vivo è ancor più enorme che in tv. Mi sarebbe piaciuto provare (sul lettore rampante) la potenza della sua manata, ma non c’è stata occasione.


Finito quello abbiamo ripreso a girare senza meta, tra uno stand e l'altro. Un girare che ci ha portato a incontrare di nuovo Thais, a incrociare Marco Malvaldi senza avere il coraggio di andare a salutarlo (“io fossi in lui ora come ora non mi vorrei salutare"), a Peppe “il prof” (insieme a Gianni che avevo visto il giorno prima è uno dei partecipanti più fedeli ed entusiasti di Una valigia di libri), a vedere per la prima volta Francesca (è stato un vero piacere!), allo stand di Spartaco edizioni, dove ho scattato questa bellissima foto con un gruppo di autori di cui ho letto e amato i libri.


E poi a conoscere dal vivo per la prima volta Laura del blog La Libridinosa, che era in compagnia di Baba di Desperate Bookswife… con, ovviamente, altra foto di rito.


Dopo aver fatto la coda insieme a Nicola Lagioia per un hot dog ed essere andati a vedere ICub, il robottino dell'Istituto Italiano di Tecnologia, nel pomeriggio abbiamo incrociato Roberto Saviano allo stand della Bao (in cui c’era anche un immancabile Zerocalcare a far disegnini) e assistito alla prima rissa della mia vita all’interno del Salone, allo stand Rizzoli (vi do un piccolo indizio: Matteo Salvini).
Alle 15.30 siamo andati al Bookstock Village, per assistere al laboratorio di Sio, insieme a qualche bambino e a una marea di adulti. Prima che lui arrivasse, c’è stato l’incontro con Marta, una ragazza che segue il mio blog e la mia pagina credo quasi da sempre e che è stato davvero bellissimo vedere per la prima volta dal vivo (per non parlare dell’immediata empatia che si è creata tra il lettore rampante e suo marito).

L’incontro con Sio è stato molto divertente. Lui è un personaggio buffissimo come i fumetti che disegna. 


Finito quello, abbiamo fatto ancora due passi (a salutare Casasirio edizioni e comprare il loro ultimo libro pubblicato, Elementare, cowboy), due foto (di nuovo dalla Baldini e Castoldi, ma questa volta con Lucy!) e qualche acquisto e poi, stanchi morti, siamo usciti, nel bel mezzo del diluvio universale.
Il bottino di libri dei due giorni di Salone è stato molto ricco. Alcuni facevano parte della lista che avevo stilato nei giorni precedenti, altri sono stati regali degli editori (grazie NN e grazie Spartaco!) e altri frutto dell’ispirazione del momento. Tutti insieme fanno decisamente la loro figura:


Ecco, il mio SalTo 2016 è stato questo. Un salone ricco di incontri, di foto e di emozioni. A volte talmente belle che descriverle sarebbe impossibile.

Concludo come sempre ringraziando tutti coloro che hanno contribuito a renderlo così bello (il lettore rampante, ovviamente, ma anche Thais, Laura, Marta, Camilla, Gianni, Peppe, Francesca, Luca… e tutti gli altri) e tutte quelle case editrici, piccole di dimensioni ma grandi in tutto il resto, che davvero mi hanno fatto sentire a casa.

E ora non mi resta che aspettare un anno per la prossima edizione del Salone del Libro!
(Per fortuna per ingannare un po' l'attesa tra due settimane inizia la Grande Invasione a Ivrea)

giovedì 12 maggio 2016

BLITZ - David Trueba

Non ricordo esattamente come ho conosciuto lo scrittore spagnolo David Trueba. Credo sia stato per caso, qualche anno fa, quando ho infilato nel carrello di un ordine online il suo Aperto tutta la notte, attratta dalla copertina e dalla trama senza averne mai sentito parlare prima. Quel libro era stata una vera rivelazione, che mi aveva poi portato a recuperare anche Quattro amici, unico altro suo romanzo all'epoca tradotto in italiano.
Poi, durante un viaggio in Spagna (non ricordo più se ero a Barcellona o a Madrid), in un libreria ho visto Saber perder, che da noi non c’era ancora (adesso sì, e si intitola Saper perdere). E potevo non comprarlo?
E ora, eccomi qui a parlavi dell’ultima sua fatica letteraria, Blitz, che mi è stato regalato in lingua originale da una mia amica l’anno scorso, e che per una stranissima coincidenza del destino è uscito in italiano, con Feltrinelli come tutti i precedenti, proprio il giorno successivo in cui ho iniziato a leggerlo.

Blitz racconta la storia di Beto, un architetto paesaggista che sta per soccombere alla realizzazione dei suoi sogni a causa della crisi economica che in Spagna non ha risparmiato quasi nessuno. Ha un ultima possibilità, quella di presentare un suo progetto a un premio e sperare di vincerlo. Ed è per sapere il risultato di quel concorso che si trova a Monaco con Marta, sua compagna da qualche anno, che ha in qualche modo salvato dopo la fine di un grande amore. Ed è sempre lì che riceve un messaggio di Marta sul suo cellulare, in cui dice che ancora non gli ha detto nulla, che fatica a farlo e che si chiude con un bel cuore. Ovviamente il messaggio non era per lui e all'improvviso si ritrova da solo a Monaco ad affrontare i terribili postumi di una rottura sentimentale. Accanto a lui c’è solo Helga, quella donna di mezz'età che li ha accompagnati nei giorni del concorso e con cui di sicuro nessuno vorrebbe affrontare la fine di un amore. 

Quanto mi sia immedesimata in Beto voi non potete neanche immaginarlo. Tu sei lì, che cerchi di capire cosa fare della tua vita e l’unica sicurezza che hai in quel momento se ne va, forse neanche tanto all'improvviso anche se tu non ci hai mai voluto fare caso, con un semplice messaggio. Ho compreso il suo agire un po’ folle dei momenti successivi, la sua ricerca di conforto nei modi più disparati (e disperati), le sue azioni esagerate e il suo sperare che fosse tutto uno scherzo. E credo che chiunque sia stato lasciato così, dopo una storia più o meno lunga, capisca perfettamente cosa sta provando questo pover'uomo.

Ma David Trueba è stato bravo a farlo poi reagire, come siamo stati poi bravi a reagire tutti noi quando ci è successo. C’è voluto tempo, certo, e soprattutto forse le cose sono cambiate in un modo che mai avremmo potuto immaginare. Ma sì sa, l’amore è così, è un lampo, che arriva all'improvviso e illuminarci la vita.

Blitz mi è piaciuto proprio tanto, anche se forse avrei voluto qualche pagina in più. Mi è piaciuto per lo stile tragicomico con cui è raccontata la storia, che non cade mai nel patetico e, anzi, a tratti diverte pure; per le reazioni di Beto e per quel senso di speranza e di possibilità che alla fine il testo lascia, e che lo stesso protagonista impara piano piano a conoscere.
Insomma, consiglio di leggerlo... soprattutto se siete stati lasciati da poco e non sapete come uscire dall'inevitabile depressione che ne consegue, ma anche se siete stati lasciati in passato e ora siete ancora qui per raccontarlo.
(Se non siete stati lasciati mai, invece, beh, siete proprio fortunati...  ma potete leggerlo lo stesso).


Titolo: Blitz
Autore: David Trueba
Traduttore: Francesca Pé
Pagine: 133
Anno di pubblicazione: 2016
Editore: Feltrinelli
ISBN: 978-8807031946
Prezzo di copertina: 14 €
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formato brossura: Blitz
formato ebook: Blitz

mercoledì 11 maggio 2016

Incontrando... Fabio Cremonesi, traduttore di Kent Haruf e della sua Trilogia della Pianura

Domani è il 12 maggio ed esce Crepuscolo, il terzo volume tradotto in italiano della Trilogia della Pianura di Kent Haruf. Dopo Benedizione e Canto della pianura, NN editore porta finalmente al lettore italiano anche l’ultimo volume che la compone.

Io ho avuto la fortuna di poter partecipare come blogger alla presentazione in anteprima del libro, proprio all’interno della casa editrice, e di ascoltare dal vivo la voce di Fabio Cremonesi, che questi tre libri li ha tradotti.
È la prima volta da quando ho il blog che partecipo a un evento in anteprima, riservato a blogger e giornalisti direttamente in casa editrice e, se un pochino avete imparato a conoscermi in questi anni, potete immaginare quanto fossi in ansia. Però si parlava di Kent Haruf, autore dei due libri che negli ultimi mesi, nel bene e nel male, mi hanno fatto emozionare e versare più lacrime in assoluto. Non potevo farmi fermare dalla mia timidezza e dal mio imbarazzo (e poi, lo ammetto, ero curiosissima di entrare in casa NN).
E quindi in un piovoso lunedì mattina di maggio, mi sono messa un maglioncino rosa, ho preso il treno e sono andata a Milano.

Entrare nella sede di NN editore è stato davvero un po’ come entrare in una casa. Libri ovunque (che spettacolo!), un bel po’ di disordine, scrivanie tutte vicine, una buffa divisione di uffici tra uomini e donne, e poi poltrone e divani vecchio stile. È esattamente come me l’ero immaginata.
Poi sono arrivati un po’ di altri blogger, abbiamo tirato fuori chi lo smartphone e l’iPad, chi carta e penna (a questi incontri preferisco ricorrere sempre alla vecchia maniera, anche se poi mi ritrovo a dover decifrare che cosa ho scritto) e l’incontro con Fabio Cremonesi è cominciato. 

Si è parlato prima di tutto del Kent Haruf scrittore, partendo da un’intervista rilasciata dalla moglie e uscita il 3 maggio sul sito della casa editrice americana, da cui emerge che era uomo molto metodico, che vedeva la scrittura come un vero e proprio lavoro e che quindi lo portava a cercare di scrivere sempre, tutti i giorni, per otto ore di fila, anche quando non aveva niente da dire. La cosa particolare è che usava come ufficio un capanno degli attrezzi in mezzo al verde e che scriveva con gli occhi coperti, per non farsi distrarre dai refusi durante la stesura.
Da lì si è passati a parlare delle differenze, stilistiche ma anche a livello di traduzione, dei tre romanzi della trilogia (che, ricordo, NN ha scelto di pubblicare partendo dall’ultimo, Benedizione). Tre romanzi che funzionano anche da soli, sebbene tra Canto della pianura e Crepuscolo ci sia una continuità ben evidente. Una continuità anche a livello di traduzione, in quanto più simili nello stile e nella voce rispetto al linguaggio più spoglio, più essenziale di Benedizione. (Bello l’aneddoto di Cremonesi che ha consegnato in ritardo la traduzione di Canto della pianura perché si aspettava la stessa “voce” di Benedizione e ci ha messo un po’ per trovare invece quella giusta).
E per quanto riguarda le tematiche? Se Benedizione parlava di fine vita, Canto della pianura di nascite e rinascite, in Crepuscolo si trova tutto quello che ci sta in mezzo, tra la nascita e la morte. Un libro che parla di vita, quindi, e, almeno stando alle parole di Fabio Cremonesi, anche d’amore.
Poi si è riflettuto sul fatto che i romanzi di Kent Haruf piacciono a tutti, giovani e adulti, senza alcuna distinzione di genere. Cremonesi ha provato riflettere sul perché, dicendo che uno dei motivi potrebbe essere che Haruf parla di cose di cui siamo un po’ disabituati a parlare, come la nascita e la morte, o a farlo con cinismo ed eccessiva ironia, mentre nei suoi libri Haruf mette delicatezza, dolcezza, rispetto e nessun giudizio anche nei momenti più difficili. (E poi qui se n’è uscito con un fantastico “insomma, Haruf spacca!”).

Alla fine, c’è stato chiesto come abbiamo conosciuto noi questi libri e perché ci sono piaciuti (io ho ammesso che subito non volevo leggerlo, perché ne stavano parlando in tanti e quando in tanti parlano di un libro ho sempre paura di non riuscire davvero ad apprezzarlo. E ho anche confessato di essere scoppiata a piangere nella sala d’aspetto del medico leggendo Benedizione. Cremonesi ha ribattuto dicendo che lui lo ha fatto in bagno, appena finito di tradurlo) e, dopo quattro chiacchiere, siamo usciti da lì con la nostra copia di Crepuscolo fresca di stampa, ma anche con Le cose che restano di Jenny Offill, in uscita lo stesso giorno di Haruf, con la borsa a tema e tanti altri piccoli gadget (volevo il notes di NN da un sacco!).


È stato un incontro molto piacevole, perché sentire parlare un traduttore del libro che ha tradotto è una cosa bellissima, soprattutto se lo ha amato tantissimo: ne senti l’entusiasmo, la passione, la fatica e il legame forte che questi libri e questo autore si è creato.  
Ringrazio quindi tantissimo Luca e tutta la NN per avermi permesso di esserci (e la mia amica Thais di Solo libri belli per aver affrontato insieme questa nuova esperienza da blogger).

E voi che cosa state aspettando? Leggete subito la Trilogia della Pianura di Kent Haruf!

martedì 10 maggio 2016

MI CHIAMO LUCY BARTON - Elizabeth Strout

Certe volte mi dispiace che Tennessee Williams abbia scritto per Blanche DuBois la battuta in cui dice: «Ho sempre confidato nella gentilezza degli estranei». È capitato spesso a molti di noi di essere salvati dalla gentilezza degli estranei; peccato che a lungo andare la battuta risulti trita, buona per un adesivo da appiccicare sulla macchina. Ed è questo che mi rattrista, che per quanto bella e piena di verità possa essere una frase, a furia di ripeterla si riduca a una battuta da adesivo.

Sono corsa in libreria a comprare Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout il giorno stesso dell'uscita. Sì, anche se questa volta è uscito con Einaudi e non più con Fazi, rovinando la mia bella collezione. Perché Elizabeth Strout, da quando l'ho conosciuta la prima volta con Olive Kitteridge, è diventata per me una grande garanzia. Una delle mie scrittrici preferite, direi, di quelle di cui leggerei anche la lista della spesa, per intenderci.
Tutti e quattro i romanzi precedenti di questa donna mi hanno fatto impazzire. Per il suo stile, per il modo di caratterizzare i personaggi (Olive è per me indimenticabile, e anche il reverendo Tyler di Resta con me) e per le storie famigliari che racconta.
E quindi eccomi qui, a una settimana di distanza dall'uscita, a parlarvi di questo nuovo romanzo.

Protagoniste questa volta sono una madre e una figlia, la Lucy Barton del titolo. È lei la voce narrante del libro, che racconta di quelle tre settimane che ha dovuto passare in ospedale a causa delle complicazioni di una banale operazione. Proprio lì, un giorno, vede spuntare sua madre, che corre da lei per la prima volta dopo anni che non si vedevano. La donna le tiene compagnia raccontandole di vecchie conoscenze del paesino da cui arriva e da cui Lucy è scappata tanto tempo prima, oppure le sta semplicemente accanto, senza quasi mai dormire. Lucy è contenta, ma al tempo stesso arrabbiata, perché da quell'incontro torneranno alla luce tutta una serie di ricordi del passato, della sua vita di bambina e ragazzina che viveva in un garage e che non ha mai avuto niente. Ricordi spesso dolorosi, a tratti nitidi, a tratti confusi, che la madre sembra (o finge di) non ricordare.
Poi dopo cinque giorni la madre se ne va e Lucy si ritrova di nuovo nel presente, a fare i conti con la sua vita di adesso.

Ancora una volta mi ritrovo a dover usare un superlativo per descrivervi un libro. Mi chiamo Lucy Barton è un libro bellissimo. La storia di una madre e di una figlia, che si amano nonostante tutto ma che non possono dirselo apertamente, perché non sono mai state capaci e perché c'è un passato troppo difficile perché possano ammetterlo.
È un libro che parla di forza, quella di una figlia di fuggire da un passato che l'avrebbe distrutta e quella di una madre che prende per la prima volta l'aereo per correre al capezzale della figlia quando sente che ne ha bisogno, nonostante non si sentano e non si vedano da anni, e di fragilità, dovuta a un passato di privazioni e di dolore che poi si è riversato sul presente. 

Ma ci sono anche momenti in cui, all'improvviso, mentre percorro un marciapiede assolato, o guardo la chioma di un albero piegata dal vento, o vedo il cielo di novembre calare sull'East River, mi sento invadere dalla consapevolezza di un buio talmente abissale che potrei urlare, e allora entro nel primo negozio di vestiti e mi metto a chiacchierare con una sconosciuta dei modelli dei maglioni appena arrivati. Deve essere il sistema che adottiamo quasi tutti per muoverci nel mondo, sapendo e non sapendo, infestati dai ricordi che non possono assolutamente essere veri. Eppure, quando vedo gli altri incedere sicuri per la strada, come se non conoscessero per niente la paura, mi accorgo che non so cos'hanno dentro.
Mi chiamo Lucy Barton mi è piaciuto molto, credo si sia capito. Però, prima di mettermi a scrivere questa recensione ho dovuto riflettere un attimo e parlarne a voce con qualcuno, perché c'è anche una piccola nota stonata e fino all'ultimo sono stata indecisa se segnalarla o meno. Alla fine ha vinto il sì, perché è una cosa che la mia lettura un po' l'ha condizionata.
Il problema è che, sparse per tutto il libro, ci sono alcune imperfezioni a livello di italiano. Non voglio assolutamente dire che Susanna Basso, bravissima traduttrice dall'inglese, abbia tradotto male il libro, perché non credo sia lì la questione. La mia sensazione, smentibile e confutabile in qualsiasi momento e da chiunque più esperto di me, è che sia mancata una revisione approfondita del testo una volta tradotto e che ha portato ad avere nel testo frasi come "andò a vomitare in gabinetto" o "D'altronde chiunque utilizzi le proprie competenze per mortificare una persona in quel modo, è giusto un emerito stronzo", per fare due degli esempi più lampanti. Piccolezze, sicuramente, che non condizionano la comprensione del testo, ma che mi hanno un po' distratta nella lettura e un po' infastidita, oltre ad aver rovinato lo stile dell'autrice.

In ogni caso, siamo di nuovo di fronte a un grande, grandissimo libro di Elizabeth Strout. Il grosso problema è che l'ho comprato e letto appena uscito, quindi ora mi toccherà di nuovo aspettare con ansia un sacco di tempo per l'uscita di quello nuovo.

Titolo: Mi chiamo Lucy Barton
Autore: Elizabeth Strout
Traduttore: Susanna Basso
Pagine: 158
Anno di pubblicazione: 2016
Editore: Einaudi
ISBN: 9978-8806229689
Prezzo di copertina: 17,50 €
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formato brossura:Mi chiamo Lucy Barton

venerdì 6 maggio 2016

NON ADESSO, PER FAVORE - Annalisa De Simone

Nella scala del dolore oggettivo la mamma mi stacca di vari gradini. Persa la città natale, la propria casa, il lavoro, l'intimità con il marito e la fiducia nel futuro della figlia, mia madre diventa imbattibile. Il problema è che c'è sempre qualcuno che sta peggio di te, ma questo non significa che ci si senta in dovere di stare meglio.

Quando ho sentito per la prima volta la notizia del terremoto all’Aquila ero in auto, con mia madre e una mia amica, e stavamo andando a fare una gita in un noto outlet piemontese. Avevano dato la notizia alla radio, senza ancora riuscire a specificare bene l’entità del disastro che si era compiuto. 
Ho preso davvero consapevolezza di quello che era successo solo la sera, guardando le prime immagini al tg, e poi man mano nei giorni successivi.
Non riesco nemmeno a immaginare che cosa si possa provare a perdere una persona cara, una casa, un negozio, un’auto, tutta la propria vita in un terremoto… e spero davvero di non scoprirlo mai. Però volevo leggere un libro che ne parlasse, un racconto di qualcuno che l’ha davvero vissuto, non per chissà quale turismo macabro, ma per poter ascoltare la voce di qualcuno a cui forse un po’ è stata tolta.

Quando mi è stato proposto Non adesso, per favore di Annalisa De Simone, pubblicato da Marsilio editore, ho accettato di leggerlo principalmente per questo. Poi mi è piaciuta molto anche la copertina, e il fatto che la protagonista fosse una giovane donna che lavora in una casa editrice e sogna di fare la scrittrice.

Annalisa vive a Roma, dove si è trasferita per l’Università e un po’ anche per fuggire da quella vita che le sarebbe toccata se fosse rimasta all’Aquila: i genitori gestiscono infatti un negozio di calzature e il suo destino segnato, in quanto figlia unica, sarebbe stato proprio quello di lavorare lì. Ma Annalisa vuole studiare e vuole scrivere. Grazie a uno stage, viene poi assunta in una piccola casa editrice dove si occupa di editing e, proprio per questo suo lavoro, durante una presentazione conosce Vittorio Ferretti, uno scrittore già affermato, molto più grande di lei, con il quale inizia una relazione, fatta principalmente di attrazione e sesso, ma che poi diventa qualcosa di più. Uno strano prendersi e lasciarsi, che porta Annalisa a essere all’Aquila proprio la notte del 6 aprile del 2009. Sfollata insieme alla sua famiglia, si ritrova a vivere in un piccolo appartamento di un paesino della costa abruzzese. Una convivenza forzata, con suo padre, sua madre e sua nonna, che porta alla luce tutti i problemi che la famiglia ha sempre avuto e incrementa quelli tra lei e Vittorio.

Devo dirvi la verità, da Non adesso, per favore mi aspettavo qualcosa di diverso. Al punto che finché la protagonista non è effettivamente arrivata all’Aquila non riuscivo davvero a capire che cosa l’autrice volesse raccontare. La storia di una giovane donna che si innamora di un uomo più anziano che con lei fa il bello e il cattivo tempo, tra sesso a volte un po’ esagerato e lunghi silenzi, non mi sembrava avesse niente di originale. Poi però a poco a poco li senso arriva, nei ricordi che emergono in Annalisa e nei suoi genitori durante la convivenza forzata, nel malessere psicofisico che la ragazza prova, per il terremoto reale che ha colpito la sua famiglia e la sua città e quello che prova dentro di lei, per questa strana storia che ha iniziato e per la sua vita e i suoi sogni in generale.
Ecco, direi che la seconda parte del libro, quella che parla del terremoto e di come, oltre che fisicamente, abbia colpito chi lo ha vissuto, e quell'incredibile postilla finale, salvano sicuramente la prima parte del romanzo e arrivano a darle un senso vero e proprio, molto profondo.

Non adesso, per favore di Annalisa De Simone è un buon libro, molto scorrevole (quasi non mi sono resa conto delle pagine che mi scorrevano sotto gli occhi…e quando un libro mi prende così tanto sicuramente ha qualcosa da dirmi), da cui forse mi aspettavo qualcosina di diverso e, a tratti, qualcosina di più. Però sì, è valsa la pena di leggerlo.


Titolo: Non adesso, per favore
Autore: Annalisa De Simone
Pagine: 210
Anno di pubblicazione: 2016
Editore: Marsilio editore
Acquista su Amazon:
formato brossura: Non adesso, per favore

giovedì 5 maggio 2016

SalTo16... e facciamoci un salto anche quest'anno, dai

Manca una settimana esatta all'inizio del Salone internazionale del libro di Torino. Siete pronti? Siete caldi? 
Il tema di quest'anno è quello delle "Visioni" e io, devo dirvi la verità, come ogni anno non vedo l'ora di varcare quei cancelli ed entrare in quei caldissimi padiglioni.
Nonostante la mancanza di sedie, il caldo, il caos, la fila per andare in bagno, i panini costosissimi, i bambini ovunque e tutti i problemi che vi possano venire in mente, io adoro il Salone del libro. Adoro il clima che si respira, adoro il camminare tra gli stand, adoro il camminare per i corridoi e incrociare scrittori che si fanno i fatti loro, adoro incontrare altri lettori appassionati e assistere alle presentazioni. Quindi penso non sia difficile immaginare il mio stato d'animo ora.

© Mimmo Paladino
Sono anche riuscita in tempi ragionevoli a districarmi tra l'immenso programma e, sebbene ogni tanto qualche nuovo incontro ancora salti fuori, penso di potervi già dire a quali intendo partecipare (dico intendo perché poi là dentro distrarsi è un attimo e tutti i piani degli anni passati sono sempre andati a farsi benedire).
Salvo imprevisti sarò al Salone tutto il venerdì e tutto il sabato. Quindi mi sono focalizzata sugli eventi di quei due giorni, ignorando completamente gli altri... onde evitare tentazioni.

Ed eccoli qui:

VENERDÌ 13
h 13. TEORIE E TECNICHE DI (IN)DIPENDENZAPresentazione dell’antologia di 24 racconti curata da Gianluigi Bodi in SALA ROMANIA

h 14. INTRADUCIBILI: PENSARE L'IMPENSABILE?:  seminario di traduzione a proposito del libro Lost in Translation di E. F. Sanders (Marcos y Marcos) in SALA MADRID

h 15. L'Italia vista dalla Puglia. Nuove visioni cinematografiche. Incontro con Checco Zalone: e non credo serva che vi dica altro. In SALA GIALLA

h 16. Un'ora con... RAFFAELLA ROMAGNOLO. In occasione della pubblicazione del romanzo La figlia sbagliata. Al CAFFE LETTERARIO.


SABATO 14
h. 11 Il piatto forte è l'emozione. Incontro con Antonino Cannavacciuolo. In SALA GIALLA.

h 12 I bastardi di Pizzofalcone. Incontro con Maurizio De Giovanni. In SALA GIALLA

h 15. Impara a fare un fumetto. Incontro con SIO. Al BOOKSTOCK VILLAGE. Questo sarebbe per bambini, ma spero ci facciano entrare comunque...

h 17.30 A quattromani. Incontro con Paco Ignacio Taibo II e Giancarlo de Cataldo. All'ARENA PIEMONTE


Ecco, gli incontri sono questi. Mi rendo conto che ci siano cose che con i libri c'entrano poco o nulla, ma sogno di incontrare Checco Zalone da una vita, Antonino Cannavacciuolo come chef in tv mi fa impazzire e Sio e i suoi fumetti assurdi mi fanno sempre un sacco ridere (lo conoscete Scottex, vero?).
E poi dai, qualche evento letterario c'è!.

Per quanto riguarda gli editori, come al solito eviterò gli stand di quelli grandi perché saranno come sempre troppo affollati e tanto, tanto anonimi, e andrò da quelli più piccolini a cui sono tanto affezionata (marcos y marcos, NN editore, Spartaco, Gorilla Sapiens, Keller, etc etc...) e a conoscerne magari qualcuno di nuovo.

«E cosa comprerai?» vi starete chiedendo poi. Beh, la mia lista è, purtroppo, in continuo allungamento... spero di riuscire poi a darmi una regolata una volta là dentro e di uscire con ancora qualche soldo in tasca (anche se dubito che ci riuscirò).

Voi verrete al Salone? Se sì, quando? Ci vediamo magari per un caffè? Io avrò la borsa ufficiale rampante, mi riconoscerete da quella. (Vi avviso già da ora che dal vivo sono molto meno intelligente e spigliata di quello che forse sembro qui sul blog, quindi se quando mi parlate me ne esco con frasi sceme o divento tutta rossa, portate pazienza).