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sabato 31 ottobre 2015

Blog d'ottobre - Ray Bradbur... ah no, io

Ottobre oggi è arrivato ottobre con il suo cappotto nero e piove sulle finestre dove milioni di persone sole vanno avanti e indietro in cerca del presente cercando una risposta a questo cielo a specchio di Novembre… ecco, sì, è praticamente da quando è uscita che io passo i miei mesi di ottobre a canticchiare Maggese di Cesare Cremonini. Il cd dei Lunapop è stato il primo che ho acquistato da sola, con la mia paghetta settimanale messa da parte con tanto impegno e da allora ho continuato a seguire Cremonini anche quando il gruppo si è sciolto.

Ma stiamo divagando. Dunque, oggi finisce ottobre, domani inizia novembre, stasera vado con Linus nel suo orto ad aspettare il Grande Cocomero e quindi il post di riepilogo mensile ve lo beccate stamattina. Il titolo del post è una rivisitazione di Paese d'ottobre di Ray Bradbury... una raccolta di racconti bellissima, che forse vi consiglio ancor più di Farenheit 451.


Un mese ricco di letture e di eventi, questo Ottobre.
Prima di tutto ho assistito alla mia prima partita di Quidditch babbano. Già, ci sono dei pazzi , fan sfegatati di Harry Potter, che hanno deciso di prendere lo sport magico per eccellenza e spostarlo anche nel mondo di noi poveri esseri umani. Il risultato è divertentissimo. (Lo stesso giorno sono andata anche a Portici di carta, la rassegna torinese che porta bancarelle di librerie ed editori per le vie del centro… ma capite anche che, dopo aver visto pluffe e boccini, l’evento sia passato un po’ in secondo piano).

La settimana dopo, invece, ho fatto da supporter, nonché scenografa, al lettore e al fratello rampante che hanno partecipato alla loro prima esposizione di Lego, al Brick Expo di San Giorgio Canavese. Sì, lo so, con i libri non c’entra niente, ma è stato bello e mi sembrava giusto citarlo anche qui. Anche perché il Darth Vader con i biscottini ha riscosso un successo strepitoso.



Poi, il 24 ottobre il blog ha compiuto 6 anni. Auguri, auguri, auguri! Sei anni sono tantissimi, soprattutto per il tempo del web. Ma anche per me, in realtà, anche perché mi sembra ieri quando ho scritto il primo post e le prime, terrificanti ammettiamolo, recensioni. Però siamo ancora qua, più vivi e attivi che mai.


E ora passiamo alle letture e alle recensioni.

Il mese è iniziato bene, con Un posto al mondo di Wendell Berry, edito da Lindau e tradotto da Vincenzo Perna. Di nuovo a Port William, dove ero già stata con Jayber Crow e Hannah Coulter, di nuovo quelle sensazioni di pace e di tranquillità anche in mezzo alle tempeste, che Wendell Berry riesce a trasmettere così bene.

Subito dopo è toccato a Gli anni della leggerezza, primo volume della Saga dei Cazalet di Elizabeth Jane Howard, pubblicato in Italia da Fazi con la traduzione di Manuela Francescon. Una bella saga familiare, ricca di personaggi, nella Londra degli anni ’30. Non vedo l’ora che escano i volumi successivi.

Il parnaso ambulante di Christopher Morley era invece un libro che volevo leggere da tantissimo tempo. Che tutti gli amanti dei libri dovrebbero leggere. Un libricino sull’amore per i libri e sull’amore in generale, con una buffa traduzione anni ’50 che, per un volta, anziché penalizzarlo lo rendono ancor più piacevole.

Poi è stato il turno di Un anno con Salinger di Joanna Rakoff,  pubblicato da Neri Pozza e tradotto da Martina Testa . Che libro, ragazzi. La storia di Joanna e dell’anno in cui ha lavorato nell’agenzia letteraria che rappresentava, tra gli altri, il vecchio Jerry. Sì, Jerry Salinger. Da leggere, anche se non conoscete Salinger.

Largo ai piccoli editori per la mia lettura successiva. Piccoli editori, ma che sono garanzie come lo è per me Casasirio. Il libro è Il posto giusto di Simona Garbarini, che mi ha ricordato tanto La leva calcistica del ’64 di Francesco De Gregori e che parla di calcio, ma anche, e soprattutto, di seconde possibilità.

Mercoledì delle ceneri di Ethan Hawke, pubblicato da Beat e tradotto sempre da Martina Testa, è stata una vera rivelazione. Oltre a salire su un banco e farmi commuovere, sa scrivere il ragazzo. Mi sono piaciuti i suoi due personaggi, questo ragazzo e questa ragazza che si amano o forse no, ma che comunque vogliono provarci.

Poi sono andata in a Cuba con Guillermo Cabrera Infante e il sua La ninfa incostante, edito da Sur con la traduzione di Gordiano Lupi. Un libro di boleri e di fenomenali giochi di parole. 
Ed eccoci quasi alla fine. La penultima lettura è stata  Mi chiamavano piccolo fallimento di Gary Shteyngart (devo copiare e incollare il nome dalla pagina di Guanda perché proprio non ci riesco a scriverlo giusto), tradotto da Katia Bagnoli, che l’autobiografia dell’autore, da quando è emigrato negli Stati Uniti da Leningrado fino alla pubblicazione del suo primo romanzo. Bel libro, soprattutto se avete già letto qualcosa di suo, altrimenti un pochino si perde.

L’ultimo libro di ottobre è Le fragili attese di Mattia Signorini, pubblicato da Marsilio. Un libro delicato in una Milano quasi irriconoscibile. Molto autunnale e adatto alla stagione, anche se forse in alcuni punti avrebbe potuto osare un po’ di più.

E il vostro ottobre com’è stato?

giovedì 29 ottobre 2015

LE FRAGILI ATTESE - Mattia Signorini

La pensione Palomar aveva tutta l'aria di un posto di passaggio, simile a una piccola stazione di paese ficcata in mezzo alla campagna. Eppure intorno tutto era città. Agglomerati di cemento, strade lunghe chilometri, palazzi alti da non vederne la fine. Con i suoi due piani, vecchia come molte vite, se ne stava lì a testimoniare di un tempo che non era più.



Milano è una città che conosco poco e che, devo essere sincera, non mi ha mai attirata. Mi ha sempre dato l'idea di una città grigia, più grigia della Torino che tanto amo in questa stagione, una città spenta, piena di nebbia, in cui è facile perderti e scomparire in mezzo alla folla, senza che nessuno se ne accorga. Sicuramente è perché la conosco poco e perché sono un po' troppo campagnola per riuscire a immaginarmi a  mio agio a camminare tra le sue vie.

Eppure, un salto alla pensione Palomar, in quel quartiere della periferia milanese dove è ambientato Le fragili attese di Mattia Signorini, ce lo farei volentieri.

Mi piacerebbe andare a conoscere Italo, che la gestisce da quarantasette  anni, da quando è arrivato a Milano in fuga dalla campagna per cercare lavoro come operaio e ha invece deciso di rilevare quella palazzina con i soldi che aveva da parte. Mi piacerebbe mangiare una crostata di Emma, la mattina per colazione. Sedermi a giocare a carte con Adolfo Trento, che proprio in quella pensione va in villeggiatura ogni anno, e con Lucio Ormea, arrivato in città per cercare un padre che non l'ha mai voluto. Mi piacerebbe sentire Ingrid suonare l'arpa di notte e chiedere a Guido come si fa a insegnare l'inglese a una bambina muta.
Sono loro che popolano la pensione Palomar nella sua ultima settimana di apertura. Eh sì, perché Italo ormai è anziano e ha deciso che è giunta ora di chiudere e di dedicarsi un po' a se stesso, di fare un viaggio, magari, sebbene avere una pensione sempre piena è un po' come viaggiare, perché chiunque arriva porta un con sé un posto e la sua storia.
Sono loro che in quest'ultima settimana di apertura si ritrovano a condividere fragilità e paure, passato e presente, in cerca del loro posto nel mondo, dopo che quello che avevano pensato per loro è stato distrutto o non è mai esistito.
Non ci rendiamo mai conto di cosa stiamo diventando. Succede tutto in un momento. È come se la vita bussasse alla nostra porta, mentre prima se ne stava comodamente sulla soglia, senza disturbare, e d'un tratto ci dicesse: sto passando.
L'espediente scelto da Mattia Signorini non è certo originale. Prendere dei personaggi e metterli insieme in un albergo, in un condominio, in un contesto in cui volenti o nolenti devono interagire tra loro non è una cosa nuova in letteratura. Eppure, il senso di già letto, già sentito,  non c'è. Forse perché ognuno dei personaggi che ruota intorno alla pensione Palomar porta con sé una sua storia molto particolare. Ognuno ha suo dolore che tiene ben nascosto e che lo porta a comportarsi in modo strano nel presente. Ognuno sta vivendo una fragile attesa, come dice il titolo, di un cambiamento, di qualcosa che lo riscatti o che gli permetta di ritornare a essere felice. 

È un libro poetico Le fragili attese. Un libro delicato, se questo aggettivo può avere senso associato a un libro. Il problema è che è talmente tanto delicato, a volte, che manca la dovuta profondità in certi personaggi (la storia di Guido e di Penelope, e un po' anche quella di Emma, ad esempio) . Forse è voluto, perché di una persona non puoi poi conoscere così tanto in una sola settimana, forse lo stesso Signorini aveva paura di rompere tutte queste fragilità se avesse detto di più.

Nel complesso comunque, Le fragili attese è stata una bella lettura. Dolce e amara, triste e allegra, come lo sono tutti i romanzi che parlano di ricordi e di occasioni, mancate o ancora da cogliere. Ed è perfetto per l'autunno, non solo per i colori della copertina o perché è ambientato a Novembre, ma perché è l'emozioni che trasmette assomigliano molto, almeno per quanto mi riguarda, a quelle che mi lascia questa stagione, in cui tutto prima si colora e poi muore, per poi rinascere ancora. 

Anche se non sono così convinta che tutto questo, nella nebbia milanese, si veda.



Titolo: Le fragili attese
Autore: Mattia Signorini
Pagine: 250
Editore: Marsilio
Acquista su Amazon:
formato brossura: Le fragili attese

lunedì 26 ottobre 2015

MI CHIAMAVANO PICCOLO FALLIMENTO - Gary Shteyngart

Mi laureai con lode e questo migliorò il mio status agli occhi di Mama e Papa, ma quando parlavo con loro si dava per scontato che ero comunque una delusione. Siccome da bambino (come da adulto) mi ammalavo spesso e mi gocciolava il naso, mio padre mi chiamava Sopljak, Moccioso. Mia madre stava elaborando un'interessante fusione di inglese e russo e, di sua iniziativa, aveva coniato il termine Failurča, ovvero Piccolo Fallimento

Per parlarvi di Mi chiamavano piccolo fallimento di Gary Shteyngart, pubblicato in Italia di Guanda con la traduzione di Katia Bagnoli, devo iniziare da Jonathan Franzen.
Un giorno ho visto un intervista fatta a Jonathan Franzen in occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo, Purity. In quel video, lo scrittore, dai più considerato misantropo e antipatico, mi è sembrato semplicemente un orsacchiotto goffissimo e timidissimo, simpatico a modo suo, ma non sempre in grado, come succede a tutti i timidi d'altronde, di trasmettere questa sua simpatia agli altri. Mi sono poi messa a chiacchierare di questa mia impressione con Holden & Company e lui mi ha girato un video, in cui c’è un cameo di Jonathan Franzen. Quel video era, ovviamente, il book trailer di Mi chiamavano piccolo fallimento.




Inutile dire che, dopo averlo visto, oltre a provare ancor più simpatica per Johnny, ho deciso che avrei dovuto leggere quel libro.

Mi chiamavano piccolo fallimento è l’autobiografia di Gary Shteyngart, scrittore nato a Leningrado e trasferitosi con i genitori a New York quando aveva sette anni. Gary è un bambino malaticcio, che soffre di continue crisi d’asma, e che, all'inizio, mal si adatta alla sua vita americana. È figlio di migranti, che pur iniziando a lavorare e a farsi una vita in America, proprio non ne vogliono sapere di abbandonare la lingua e le tradizione del loro paese natio. Gary va a scuola ed è un emarginato, ha pochi amici, figuriamoci ragazze, e si accanisce contro chi è ancor più debole di lui. Ma è anche un ragazzino ricco di talento per la scrittura, che diventerà fin da subito la sua forma di riscatto. Poi Gary cresce, le cose un po’ cambiano, si fa amici, si innamora e si scrive a un’università umanistica, perché la scrittura rimane la sua strada. Beve un po’ troppo, fuma un po’ troppo, segue una strada non proprio buona, tra mentori che da lui vorrebbero qualcosa di più e donne pazze, pronte a prendere chiunque a martellate, e soprattutto sempre più lontano dai genitori, che forse non lo capiscono o che forse è lui a non capire. Finché non arriva la pubblicazione del suo primo romanzo e, soprattutto, il suo ritorno in patria dopo anni e anni di assenza. Dove tutto è cominciato.

La prima cosa che ho apprezzato di Gary Shteyngart è stata la sua incredibile ironia e autoironia, anche nei momenti più difficili. Soprattutto quando era bambino, un bambino malaticcio che soffre di vertigini e che con la sua faccia da ebreo fatica ad ambientarsi in un posto così grande come New York. Vuole risalire la scala sociale e diventare un vero americano, perché sa che solo così riuscirà a farsi accettare da tutti, ma al tempo stesso non può e non vuole dimenticare le sue origini, che ne hanno fatto quello che è ora.

La storia è quella di un migrante come ce ne sono tanti, con le difficoltà ad ambientarsi e la voglia di farlo, con un po’ di vergogna verso i proprio genitori, ma al tempo stesso orgoglio per quello che sono riusciti a fare, a cui si aggiunge però la storia, diciamo, editoriale di Gary, di quando ha iniziato a scrivere (e tutti gli scrittori dovrebbero avere una nonna come la sua!) e di come la scrittura, almeno in parte, l’abbia salvato dal vero fallimento.
Permettetemi di ripeterlo: non so fare niente. Non so friggere un uovo, non so preparare un caffè, non so guidare, né fare l’assistente di un avvocato o pareggiare i conti, non so saldare un pannello madre a un pannello maschio, né tenere al caldo e al sicuro un bambino durante la notte. Ma non ho mai avuto il cosiddetto blocco dello scrittore. La mia mente corre alla velocità dell’insonnia. Le parole si mettono nei ranghi come i soldati all'adunata. Mettetemi davanti a una tastiera e riempirò uno schermo.
Eppure, nonostante l’ironia e lo stile dell’autore, Mi chiamavano piccolo fallimento è stata una lettura a tratti faticosa. Credo per colpa mia, perché non conoscevo Gary Shteyngart, non ho letto nessuno dei suoi romanzi precedenti, e, di conseguenza, mi sono persa molti dei suoi riferimenti. Forse le autobiografie degli scrittori andrebbero lette quando gli scrittori si conoscono già, per non rischiare, appunto, di perdersi qualcosa per strada, di non capire e di non apprezzare tutto come invece meriterebbe. Bella la sua storia, bella la sua vita, bello il suo modo di raccontare il suo strano rapporto con i genitori. Ma mi è mancato qualcosa.

Per fortuna posso ancora ancora rimediare. E sicuramente lo farò perché secondo me questo Gary Shteyngart se lo merita proprio.


Titolo: Mi chiamavano piccolo fallimento
Autore: Gary Shteyngart
Traduttore: Katia Bagnoli
Pagine: 390
Editore: Guanda
Acquista su Amazon:

sabato 24 ottobre 2015

La lettrice rampante compie 6 anni... tanti auguri!

C'era una volta un re...
...diranno i miei piccoli lettori.
Ma no, vi state sbagliando, c'era una volta... una ragazza con una passione incredibile per la lettura.
Leggeva sempre e ovunque, un po' per passare il tempo,ma soprattutto perché non riusciva a farne a meno. E dopo aver letto ogni libro, sentiva il bisogno di esprimere la sua opinione e di condividerla con altri.
Per farlo, ha creato questo blog. Un posto dove poter dire liberamente quello che si pensa di un libro (con commenti per niente imparziali), elogiandolo e criticandolo in qualità di lettori.
Ogni post sarà accompagnato da una Nota alla Traduzione, un aspetto che non sempre viene considerato ma che spesso influenza la qualità di un libro.
Buona lettura!

È stato questo il primo post comparso su questo blog, esattamente 6 anni fa. Il 24 ottobre era un sabato anche nel 2009. Mi ricordo che avevo passato quasi due ore a cercare di decidere come chiamarlo, altrettante per lo sfondo e alla fine, sfinita, ho scritto un po’ la prima cosa che mi era capitata.
Già, sono passati sei anni. Auguri, mio piccolo blog letterario!
Con il tempo sono cambiate tante cose. Lo so, lo dico ogni anno in questo giorno, ma effettivamente di anno in anno, da quando l’ho aperto, le cose tanto o poco sono sempre cambiate.

Dal 24 ottobre del 2014, ho tradotto due libri, ad esempio. Il primo è uscito a giugno, il secondo vedrà la luce tra un paio di settimane. Che soddisfazione, ragazzi. Non solo perché è quello per cui ho studiato e che sogno di fare sempre, ma proprio il tenere in mano una cosa che sai che hai contribuito a farla conoscere ad altri. Non so se il blog abbia qualche merito nell'aver spinto quell'editore a chiedermi di tradurre per lui, però mi piace pensare di sì, mi piace pensare che quel “tu sei fatta per lavorare a contatto con i libri” derivi proprio da questo blog.
Ho continuato a editare e a scrivere, per quella casa editrice e quel giornale con cui ormai collaboro da anni.

A marzo, il 27, sono poi finita in tv a parlare di libri. Già, io che sono timidissima e riesco a esprimermi senza dire cazzate o andare in iperventilazione solo per iscritto, mi sono ritrovata in un piccolo e molto carino studio televisivo in diretta per ben due ore. A Siamo noi, una trasmissione pomeridiana che va in onda su TV2000. Che ansia, che paura di impappinarsi o di dire le cose sbagliate. E quanta valeriana che ho bevuto nei giorni prima! Però poi è stato anche tutto molto divertente e, a parte i capelli un tantino spettinati, ho scoperto di non essere poi così poco telegenica. Il prossimo passo sarà Che tempo che fa e poi il messaggio di Capodanno a reti unificate, sono sicura.



Durante il Salone del libro ho lavorato un giorno come digital PR per un editore. Parlare di libri ed essere pagati per farlo, per noi blogger appassionati, o almeno per me, è davvero una cosa strana. Un piccolo traguardo raggiunto, soprattutto perché non si dovevano pubblicizzare libri a caso, ma semplicemente partecipare a incontri e twittare. Nessuna marchetta, nessun problema morale (tant’è che poi di uno dei libri protagonisti di quel giorno ho parlato poco bene senza che nessuno mi sgridasse). Certo, è stato un po’ strano vedere che insieme a me c’erano blogger che con i libri non hanno niente a che fare: fashion blogger, blogger di mamme e di viaggi. Forse i book blogger non vengono ancora riconosciuti come possibili influencer (ed effettivamente forse a volte sembriamo più invasati che altro).

Sempre per il Salone del libro ho avuto anche il mio picco di megalomania, facendomi stampare una bella borsina e delle penne a tema (solo cinque, che costano!).

Poi beh, ho seguito incontri, conosciuto autori e autrici (Marco Missiroli, giusto per citare quello di cui più mi sono innamorata, ma  anche Alessio Torino, Francesco Piccolo  e Fabio Geda grazie a La Grande Invasione a Ivrea), approfondito la conoscenza con altri blogger e abbandonato definitivamente altri con cui, alla fin fine, non mi trovavo. Ho organizzato una partita di Trivial Pursuit letterario virtuale e persino assistito a due incontri di Quidditch.
E soprattutto ho letto, letto tantissimo e, devo dire, tanti bei libri, almeno finora. Quasi troppi, forse. al punto che a fine anno avrò qualche difficoltà nel stilare la lista dei dieci migliori e dei dieci peggiori.
Credo che l'affinarsi dei gusti sia un segno del tempo che passa. E non me ne posso proprio lamentare.

Certo, nell’ultimo anno ho anche perso il lavoro, che effettivamente però mi stava esaurendo molto più di quanto non mi esaurisca ora l’essere sempre in cerca e sperare in una mail di qualche altro editore che mi propone qualche altro lavoro. Quindi, sì, fa un po’ paura pensare che a fine mese non si ha uno stipendio fisso, ma almeno il fegato è abbastanza sano.
E poi sì, Casa Rampante procede e procede bene. È più di un anno e mezzo che io e il mio lettore conviviamo e, oltre a non esserci ancora tirati nessuna padella, ci divertiamo sempre un sacco. 

E il futuro? Cosa mi riserverà questo piccolo blog nei prossimi mesi e nei prossimi anni? Non ne ho la più pallida idea, vi devo dire la verità. Ogni tanto penso di chiuderlo o di prendermi almeno una pausa. Ma so che mi mancherebbe troppo e non ci riuscirei. E quindi, caro bloggino, continueremo ancora un po’ a farci compagnia, a scrivere recensioni e resoconti di incontri, qualche polemica magari e qualche post scemo pure.

E allora, tanti auguri a noi!


giovedì 22 ottobre 2015

LA NINFA INCOSTANTE - Guillermo Cabrera Infante

«Quando ci rivediamo?»
Ci sono domande che suonano come boleri.



Guillermo Cabrera Infante è un altro di quegli scrittori sudamericani che conoscevo praticamente solo di nome. Avevo sentito parlare, durante il corso di letteratura ispanoamericana all’Università, del suo Tre tristi tigri, ma, un po’ per la mia difficoltà a pronunciare il titolo, un po’ senza alcun motivo vero e proprio, ne ho sempre rimandato la lettura.
Poi mi è capitato per caso in mano La ninfa incostante, pubblicato in Italia da Sur con la traduzione di Gordiano Lupi. Ne ho letto la quarta di copertina e ho deciso che sì, forse era giunto il momento di leggere qualcosa di questo autore.

La ninfa incostante è una storia d’amore e di passione, tra un giornalista e una volubile ragazzina, Estela, incontrata per caso mentre saliva su un autobus e che di lui fa un po’ quello che vuole. Una relazione che dura solo un estate, fatta di pochi baci e poco sesso, ma tante parole, e che lascia nel protagonista, alter ego di Carbrera Infante, un ricordo indelebile.
La ama e la odia, questa Estela. Al punto da non sapere se volerla sposare o ammazzare, mentre insieme a lei scappa da una madre e da una moglie e gira l’Avana in lungo e in largo per cercare di placare la sua passione. Una passione che non si capisce nemmeno se sia corrisposta o meno, perché sta ragazzina è davvero una ninfa incostante, che non parla mai d'amore, non capisce quasi mai ciò che lui le dice e che ammalia un po’ tutti, soprattutto amici e parenti di Cabrera Infante.  
Un bolero, una canzone d’amore romantica e passionale, un tira e molla continuo, che segnerà per sempre la vita dell’uomo.

La baciai.
«Perché l’hai fatto?».
«Perché ti amo. L’amore, come sai, dà il diritto di andare dritti al sodo».
sembrava che volesse schiaffeggiarmi e alla fine lo fece: Schiaf! Me lo diede così forte che sembrò uno zaf con la zeta.
«Perché l’hai fatto?»
«Perché credo di amarti ma non voglio»
si avvicinò a me e, lo crediate o meno, mi baciò. Mi allontanai da lei.
«Allora, perché mi baci?».
«Perché voglio».

Ancor prima della trama, che rivisita un po’ tutte le storie d’amore letterarie più conosciute, la cosa che più di tutto si nota è lo stile di Guillermo Cabrera Infante. Uno stile che ho trovato geniale, fatto di giochi di parole (che rendono molto anche in traduzione, e possono immaginare quanto sia stato complesso per Gordiano Lupi riuscire in questo intento, quindi bravo!), rime, citazioni letterarie e strofe di boleri, battute e ironie che l’autore ha messo in bocca al suo alter ego cartaceo.

Come dice Mario Vargas Llosa nel saggio “Cabrera Infante, l’illusionista delle parole”, pubblicato in calce al romanzo:
L’umorismo è il suo modo di scrivere, ovvero qualcosa di molto serio, che compromette profondamente la sua esistenza. È il suo modo di difendersi dalla vita, il metodo sottile di cui si avvale per disattivare le aggressioni e le frustrazioni che lo minacciano ogni giorno, scomponendole in miraggi retorici, giochi e scherzi
E qui, in La ninfa incostante, questo umorismo, questi giochi verbali, vengono usati dal protagonista proprio per cercare di placare la valanga di emozioni contrastanti che questa ragazzina gli provoca, soprattutto perché lei ne sembra completamente immune (la maggior parte delle volte lei risponde di non aver capito nulla di quello che l’uomo sta dicendo).

Non è una lettura semplice questa. O meglio, lo è, ma solo se ci si lascia trasportare dalle parole senza rifletterci troppo. E non è facile fidarsi così tanto di uno scrittore da lasciarsi condurre da lui. 
Ma se vi lasciate andare, se vi affidate a lui, vi ritroverete coinvolti in un gran bolero per le vie dell’Avana. Magari vi perderete qualcosa, tra tamburi e musica appassionata, tra baci e parole, ma alla fine non potrete che rimanere a bocca aperta.
L’Avana era una città dove si ricominciava sempre. L’Avana pare- appare- indistruttibile nel ricordo: questo la rende immortale. Perché le città, come gli uomini, muoiono. Una battuta che andava di moda nella Cuba del 1955 diceva:« Dimentica il tango e canta un bolero». Voleva dire: lascia perdere il lato drammatico delle cose e racconta quello sentimentale. Non poteva esserci cosa più vera – allora come oggi.



Titolo: La ninfa incostante
Autore: Guillermo Cabrera Infante
Traduttore: Gordiano Lupi
Pagine: 267
Editore: SUR
Acquista su Amazon:
formato brossura: La ninfa incostante

lunedì 19 ottobre 2015

MERCOLEDÌ DELLE CENERI - Ethan Hawke

La gente non vuole sentirsi dire cosa si prova veramente a essere innamorati, perché è una sensazione che fa schifo. È come un diamante: visto dall'esterno sembra bellissimo, ma dentro è duro, spigoloso, tagliente. Amare davvero una persona non va mai confuso con il divertimento. Amare una persona è altrettanto doloroso e deludente che arrivare a conoscere se stessi. Probabilmente è l’unica cosa che valga la pena di fare nella vita, ma questo non vuol dire che sia una passeggiata.


Io conosco Ethan Hawke principalmente come quel ragazzo timido e insicuro che sale in piedi su un banco e dice, rivolto a Robin Williams, “O capitano, mio capitano”, nella scena finale di uno dei miei film preferiti, L’attimo fuggente. Lo so quasi a memoria, eppure quando arrivo a quella scena non riesco a fare a meno di piangere come una fontana.
Ethan Hawke in realtà di film ne ha fatti tanti, oltre ad averne anche diretti e sceneggiati, eppure io non riesco ad andare oltre a quella scena, a quell'immagine. O almeno, non ci riuscivo prima di aver letto Mercoledì delle ceneri, suo secondo romanzo, pubblicato in Italia da minimum fax e poi nei tascabili Beat, con la traduzione di Martina Testa.

Mercoledì delle ceneri è una storia d’amore un po’ sgangherata. C’è un lui, Jimmy,  un adolescente trentenne (definizione strana ma del tutto calzante, visto il personaggio), che si è arruolato nell’esercito per cercare di superare un trauma e che dell’esercito però ama solo le fumate e le bravate con i suoi commilitoni. E c’è una lei, Christy, un’infermiera molto responsabile, al limite dell’eccesso. Jimmy ha lasciato Christy proprio quando lei stava per dirgli che era incinta. Ma non era tanto convinto, in realtà, perché comunque lui la ama e quindi parte per riprendersela. Tra un viaggio in auto su una vecchia Nova che non parte mai al primo colpo, un matrimonio che non si capisce se è d’amore o riparatore, tra sesso, tenerezze e litigate pazzesche, e un bel Carnevale a New Orleans, si scopre il passato e il presente di questi due ragazzi, che insieme cercano, con mille dubbi e mille paura, di costruirsi un futuro.
Ma la felicità è sopravvalutata. Nessuno può essere felice per il resto della sua vita: a meno che non gli rimangano, che so, solo due giorno da vivere. Quindi la felicità lasciamola perdere. La domanda interessante è: siamo in grado di mettere su casa insieme? È possibile? E che cos'è una casa?
Mi sono avvicinata a questo libro piena di curiosità e senza avere in realtà la minima idea di quale fosse l’argomento. Ogni tanto lo faccio, di acquistare libri d’impulso, fidandomi solo della casa editrice che li pubblica, o del titolo, o della copertina. E in questo caso tutto mi aspettavo fuorché di trovarmi di fronte a una storia d’amore così bella. Sì, perché è bella, anche se sia Jimmy sia Christy hanno un passato alle spalle che condiziona il loro presente, anche se non si sentono pronti e forse proprio non lo sono, anche se hanno paura e questa paura li porta a fare qualche cazzata, come sposarsi all'improvviso o giocare a basket contro dei ragazzini, e a dirsi e rinfacciarsi cose che non dovrebbero. Perché a volte l’amore è folle, l’amore fa male, fa paura. Al punto da volerlo evitare, ma al tempo stesso da non poterne fare a meno.

Pensi che una volta presa una decisione, devi andare avanti fino in fondo al duecento per cento, anche se è insensata. Per te è sempre o tutto o niente. Però, vedi, stavolta ti eri persa questa novità: che ti amo come un pazzo, che possono cambiare, e che non voglio lasciarti. Dovresti elaborare questo dato qui e poi, se vuoi, modificare le tue coordinate.

Mi sono piaciuti sia Jimmy, eterno adolescente, che sa di avere dei problemi ad accettare il suo passato, ma che comunque vuole prendersi le sue responsabilità, sia Christy con la sua falsa sicurezza, che nasconde una grande fragilità. E mi è piaciuto molto lo stile di Ethan Hawke e la scelta di, raccontare la storia dei due ragazzi a capitoli alternati, così da far vedere al lettore entrambi i punti di vista.

Come vi dicevo, Mercoledì delle ceneri è stata una lettura inaspettata, soprattutto se si considera che è stata scritta da un attore (sì, che è anche sceneggiatore, ma sceneggiature e libri non funzionano allo stesso modo). Ma soprattutto, Mercoledì delle ceneri è stata una lettura per me molto, molto bella.


Titolo: Mercoledì delle ceneri
Autore: Ethan Hawke
Traduttore: Martina Testa
Pagine: 251
Editore: BEAT
Acquista su Amazon:
formato brossura: Mercoledì delle ceneri

giovedì 15 ottobre 2015

IL POSTO GIUSTO - Simona Garbarini

Il dolore non sempre ha dei connotati precisi. Lo si scorge in un gesto un po’ smanioso, in una smorfia appena accennata, in un’espressione svagata. Lo si scorge in uno sguardo spento, in due occhi grigi che si intravedono da quelle fessure in cui un tempo brillava il ghiaccio, e ora…
Il dolore è la consapevolezza che quando esci di casa ci sono migliaia di ragazzi che prendono il pullman, vanno a scuola, si allenano in un campo di periferia con la speranza di vincere un qualsiasi campionato da nulla, pur sapendo che non diventeranno mai chissà chi.  E invece il tuo è lì, che vive da segregato e altro non ha se non guarda una, due, tre partire di calcio… E sognare. Che cosa poi?


È da quando ho chiuso Il posto giusto, romanzo d’esordio di Simona Garbarini pubblicato da Casasirio, che nella mia testa risuona una canzone di Francesco De Gregori. La leva calcistica del ’68… la conoscete? Quella il cui ritornello dice: Nino non aver paura di tirare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore. Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia…Chissà quanti ne hai visti e quanti ne vedrai, di calciatori che non hanno vinto mai…

Non so bene perché, perché a parte il sogno di giocare a pallone e la nascita in un quartiere e in una famiglia problematici, Nino e Toni, il protagonista di Il posto giusto, almeno all'apparenza, in comune non hanno molto altro. 

Toni viene da una casa famiglia, la madre è morta anni fa e il padre, dopo anni di abusi, è in galera per droga. Toni gioca a calcio in un campo fangoso della Falchera, un quartiere della periferia nord di Torino che negli anni '80, periodo in cui è ambientata la vicenda, era molto degradato.  Gioca in mezzo ad altri bambini come lui e sogna di fare il calciatore, da grande. Un sogno che sembra realizzarsi, quando nella vita di Toni non compare Guido, medico delle giovanili del Toro, che un giorno si ritrova a vedere proprio una partita di Toni, in quel campo sgangherato della Falchera. Da lì alla presa in custodia il passo e breve. E da lì, a farlo giocare nelle giovani del Toro anche. Perché Toni ha talento, tanto talento. Ma ha anche un passato pesante, che torna a fargli visita e compromette, oltre che il rapporto con Guido, anche il suo futuro. Toni sparisce per un po’, e poi quando ritorna deve cominciare tutto da capo, con addosso una fama davvero difficile da cancellare in quell'ambiente. Ma, dicevamo, Toni ha talento, tanto talento. Come il Nino di De Gregori. E anche altruismo e coraggio, che lo portano a un finale inaspettato.

È un bel romanzo, Il posto giusto di Simona Garbarini. Che parla di calcio, sì, ma come espediente per far capire quanto un sogno possa aiutare a rialzarsi e a cambiare la propria vita. Ma parla anche di altro. Di abusi, di case famiglia e di adozioni. Di droga e cattive strade. Di amicizia e di solitudine. E di amore: quello tra padri e figli, che a volte non c’è, che a volte c’è anche se il sangue non è lo stesso, che a volte deve rimanere nascosto ma è più forte che mai.

Forse alcuni temi, tipo quello delle adozioni e della droga, vista la loro importanza, avrebbero dovuto essere approfonditi un po’ di più. Vengono quasi sempre solo sfiorati, quel tanto che basta a farci capire cosa è successo o sta succedendo, senza mai però analizzarli a fondo. Credo che dipenda anche dal fatto che Il posto giusto è fondamentalmente un romanzo per adolescenti, che in certi dettagli potrebbero perdersi. 
A parte questo, comunque, devo dire che il romanzo mi è piaciuto molto. Si legge di un fiato e lascia tanto su cui riflettere.

Non lo so se poi Nino quel calcio di rigore sia riuscito almeno una volta a tirarlo e a non sbagliarlo. So invece che Toni ha fatto molto, molto di più.


Titolo: Il posto giusto
Autore: Simona Garbarini
Pagine: 196
Editore: Casasirio
Acquista su Amazon:
formato brossura: Il posto giusto
formato ebook: Il posto giusto

martedì 13 ottobre 2015

UN ANNO CON SALINGER - Joanna Rakoff

Un tipo olandese – Salinger aveva un grande seguito in Olanda, a giudicare dalla posta che riceveva – innamorato del Giovane Holden aveva seguito, durante un viaggio a New York di qualche mese prima, le tracce di Holden in giro per la città. Anche se era inverno aveva visto delle anatre a Central Park. Lo sapeva, Salinger, che adesso le anatre restavano a Central Park per tutto l’inverno?



Ho letto Il Giovane Holden di J.D Salinger qualche anno fa, e non mi ricordo quasi niente. I Nove racconti, invece, li ho letti da poco e ancora adesso mi sto interrogando sul loro significato. Forse non mi fa molto onore ammettere questa ignoranza nei confronti di questo autore americano, dai più considerato un mostro sacro della letteratura americana Però è anche inutile che vi dica “Sì, a me è piaciuto tanto” se, a parte la storia del titolo, delle anatre e dei pescibanana, io non mi ricordi quasi niente.

Quando ho visto per la prima volta il libro Un anno con Salinger di Joanna Rakoff, pubblicato in Italia da neri Pozza con la traduzione di Martina Testa, ho fatto finta di niente. Per quanto mi piacesse la copertina, perché avrei dovuto leggere qualcosa che avrebbe amplificato questa mia ignoranza?
Poi però qualcuno, che nemmeno mi conosce così tanto in realtà, mi ha detto che questo libro quasi sicuramente sarebbe stato un libro per me. Perché sì, è vero, io di Salinger non so quasi niente, ma nemmeno Joanna, autrice nonché protagonista del libro, aveva mai letto niente quando ha iniziato a lavorare nell'agenzia editoriale che lo rappresentava. Eppure gli parlava al telefono e lo chiamava tranquillamente Jerry. Quindi, fregatene se conosci poco Salinger e leggi Una anno con Salinger.

Il libro racconta la storia  vera di Joanna, fresca fresca di laurea a Londra, che torna a New York e va a lavorare per l’agenzia editoriale che, tra gli altri, rappresenta proprio Salinger. Ha una direttrice un po’ all'antica, che non accetta l’avanzare della modernità e che impone ai suoi collaboratori regole molto ferree nel trattate con i propri clienti. Tra cui, appunto, c’è anche Salinger. È il 1996, quindi è un Salinger un po’ anziano, un po’ sordo e che non pubblica libri da anni. Joanna, tra le altre mansioni, ha quella di rispondere alle lettere dei fan a lui indirizzate. Ci sono adolescenti, che si riflettono in Holden Caulfield e che leggendo la sua storia si sono sentiti meno soli. Ci sono reduci di guerra, proprio come lo è Salinger, che cercano un confronto con qualcuno che ha vissuto la stessa cosa. Ci sono persone da tutto il mondo che sentono il bisogno di dire a un autore che uno dei suoi libri ha cambiato loro la vita. Joanna a poco a poco si fa sempre più coinvolgere da queste lettere, a cui fatica a mandare la risposta standard. Ma si appassiona anche a Salinger, Jerry, e alla vita dell’agenzia, che la porta ad avere contatti con scrittori e giornali importanti, oltre che a rimettere in discussione tutto quello che ha fatto finora e, soprattutto, quello che vuole.

Un anno con Salinger mi ha coinvolta tantissimo. Forse perché parla di libri dal punto di vista degli addetti ai lavori e mostra il funzionamento, un po’ antiquato in questo caso, certo, perché siamo nel 1996, delle agenzie editoriali e dei contatti con autori e riviste, e sa il Cielo quanto mi piacerebbe lavorare in quel mondo.

Lei non aveva mai passato interi giorni stesa sul letto a leggere, notti intere a inventarsi mentalmente storie complicatissime. Non aveva mai sognato di catapultarsi nel mondo di Anna dai capelli rossi e Jane Eyre per poter avere degli amici veri, amici che capissero l'intrico spinoso dei suoi sogni e dei suoi desideri. Come faceva a passare le giornate - la vita - ad accompagnare dei libri verso la pubblicazione senza amarli come li amavo io, come dovevano essere amati?
Guardai per un attimo i suoi occhi freddi e intelligenti. Mi sbagliavo? Avevo capito male? Forse una volta lei era esattamente come me? E il tempo - e l'editoria - l'avevano cambiata?

Ma c’è stato anche qualcosa di più. La vita di Joanna fuori  e dentro l’agenzia, con le sue insicurezze, le sue paure, il suo primo approcciarsi al mondo del lavoro, la sua strana situazione sentimentale, ma anche la sua empatia con i fan che scrivono a Salinger o con il vecchio Jerry stesso,  le sue prime soddisfazioni ma anche il suo sentirsi tonta fragile (sì, con la o), insomma, tutto l’insieme di questo libro mi ha stupita, quasi come se fossi io… (parte del merito va anche al modo in cui Joanna Rakoff è riuscita a raccontare di sé, e a come Martina Testa ha reso il suo stile in traduzione).
Proprio come mi aveva detto chi me l’aveva consigliato: questo è un libro per me. 

E se amate i libri, ma anche tutto quello che c’è dietro, da quando nascono a quando arrivano ai lettori che li fanno propri, se adorate come me il lato umano degli scrittori e tutte le curiosità e le manie ad essi collegate, questo libro è anche un libro per voi. Anche se non avete mai letto Salinger.

Non so se ora andrò a rileggere Il giovane Holden o a cercare ancora una volta di trovare un senso ai Nove racconti. Forse mi prenderò ancora del tempo e poi lo farò, immaginando dietro a quelle parole il Jerry ormai anziano che Joanna Rakoff racconta così bene. 

Titolo: Un anno con Salinger
Autore: Joanna Rakoff
Traduttore: Martina Testa
Pagine: 287
Editore: Neri Pozza
Acquista su Amazon:
formato brossura: Un anno con Salinger
formato ebook: Un anno con Salinger

lunedì 12 ottobre 2015

Ciao, io vado allo stadio a Torino a vedere il Quidditch

Sul numero 3124 di Topolino, quello della settimana scorsa per intenderci, c’è un articolo dedicato al Quidditch per babbani. Cinque Toporeporter (da bambina ho sempre sognato di fare la Toporeporter) hanno partecipato agli allenamenti dei "Meneghins", la squadra milanese di Quidditch.
Non credo serva che vi spieghi che cos’è il Quidditch, il gioco ufficiale del mondo dei maghi inventato da J.K. Rowling. Lì si gioca su scope volanti, con pluffe, bolidi e boccini altrettanto magici.
Avevo già sentito parlare di una versione babbana, nata negli USA nel 2005, ma non mi ero mai informata bene su come potesse funzionare.
Ho poi pubblicato su Facebook la foto del Topolino e tra i fan della pagina ce n’è uno, Saverio, che mi ha detto che non solo lui gioca al Quidditch, ma anche che sabato 10 e domenica 11 a Torino ci sarebbe stato una sorta di torneo dimostrativo in un parco.

Ma tu guarda, proprio il sabato in cui il lettore rampante e io avevamo già intenzione di andare a Torino per Portici di carta. Vuoi mica non fare una piccola deviazione? 
Siamo arrivati in piazza d’Armi, un bellissimo parco torinese vicino allo stadio Olimpico, nel primo pomeriggio con l’intenzione di dare un’occhiata, magari vedere un pezzo di partita, una mezz’oretta e poi via in centro, giusto per farci un’idea di come potesse funzionare la versione babbana di un gioco magico con addosso tutto lo scetticismo possibile. 

Piazza d'Armi e lo stadio Olimpico
Alla fine siamo rimasti quasi due ore, di partite ne abbiamo viste due e ci siamo divertiti parecchio, al punto che la passeggiata sotto i portici del centro è stata quasi in più.
Ma com’è il Quidditch per babbani? Diciamolo subito: i giocatori non hanno scope volanti. E sì, questo sicuramente toglie un po’ del fascino originale, però, ecco, il divertimento c’è comunque.
Le regole sono abbastanza semplici: ci sono sette giocatori per squadra, che non possono essere più di quattro maschi o di quattro femmine (ma, come ci ha spiegato Saverio, in realtà non è una questione di sesso anagrafico ma di come uno si sente. Una cosa che detta così può sembrare strana, ma che se ci si pensa bene è molto bella), divisi nei ruoli tradizionali del Quidditch. Tre cacciatori, identificati con una fascetta bianca legata in fronte; due battitori, con una fascetta nera; un portiere, con fascetta verde e un cercatore con fascetta gialla.

Il campo da Quidditch

In più c’è un giocatore neutrale, che fa da boccino umano: chi gioca in questo ruolo infatti ha un calzino legato in vita che contiene una pallina da tennis, il boccino d’oro. Questo giocatore entra in campo dopo 18 minuti dall’inizio della partita e, insieme a lui, entrano anche i cercatori delle due squadre. Il loro compito è quello di riuscire a prendere calzino e pallina.
Intanto, gli altri giocatori cercano di  far entrare la pluffa (che è una palla da pallavolo) nei tre anelli o di impedire alla squadra avversaria di segnare bombardandoli con i bolidi (che sono tre palloni da dodgeball).
Ogni pluffa andata a segno vale 10 punti, mentre il boccino ne vale 30. La partita finisce quando il boccino viene preso.
Sì, ma le scope, vi starete chiedendo voi? Le scope sono dei semplici bastoni che ogni giocatore deve avere in mezzo alle gambe. Se la scopa cade, il giocatore deve correre a toccare la propria porta prima di poter ricominciare a giocare. E idem se si viene colpiti da un bolide.

In linea di massima le regole sono queste. Sembra un po’ macchinoso, ma in realtà, una volta iniziata la partita il tutto diventa più chiaro. E anche se non lo diventasse, ci si diverte talmente tanto a vederlo, che quasi non importa  se non si capisce niente (avevo provato una sensazione simile quando ero andata a vedere l’hockey… non avevo capito niente, ma mi ero divertita un sacco).
Davvero, da spettatrice scettica (scettica perché io, come molti della mia generazione, sono cresciuta a pane, salame ed Harry Potter), non me lo aspettavo così appassionante. Vedi questi ragazzi (ieri giocavano in squadre miste, con giocatori provenienti da diverse squadre nazionali più una francese, di Lione) che corrono su queste scope, vedi bolidi volare da un giocatore all’altro, pluffe tolte dagli anelli all’ultimo secondo e alla fine non puoi che tifare un po’ per tutti.

I tre anelli e la pluffa in volo
Poi beh, quando entra in campo il boccino la cosa si movimenta ancora di più. Soprattutto nella prima partita che ho visto io, quando a tenere il boccino d’oro era un ragazzo decisamente spesso che doveva difenderlo da due cercatori un po’ mingherlini. Una rissa, insomma…. E senza Madama Chips a curare i feriti (non ce ne sono stati, ci tengo a precisare. Anzi, tutti si è svolto nel massimo fair play possibile, con abbracci e foto collettive finali).

Il boccino d'oro
Non è un gioco per bambini, sicuramente, anche se, come ci ha poi detto Saverio, in realtà il modo di giocare cambia in base all’avversario… nelle partite che abbiamo visto noi i giocatori erano tutti adulti e quindi è normale che ci fosse un po’ più di foga. E poi i bambini hanno una versione a loro dedicata, il Kidditch.
Ho scoperto poi che esistono anche un campionato mondiale, un campionato europeo e, ovviamente, un campionato italiano, in cui giocano una decina di squadre. In Italia, non è ancora una sport riconosciuto a livello agonistico, ma ha una sua federazione e piano piano sempre più adepti (per maggiori informazioni c’è un sito apposito: www.italiaquidditch.com)
Una delle cose più belle del nostro pomeriggio è stata  vedere le persone avvicinarsi al campo, accessibile a tutti perché in mezzo a un parco, e fermarsi a guardare le squadre giocare. C’erano bambini che spiegavano ad altri bambini cosa fosse quel bizzarro gioco e genitori che, per non fare brutte figure con i figli, cercavano su wikipedia cosa fosse il Quidditch promettendo poi di recuperare i libri e i film.

L’unico problema adesso è che il lettore rampante vuole la maglia del Torino Quidditch.

giovedì 8 ottobre 2015

IL PARNASO AMBULANTE - Christopher Morley

Signora – esclamò- quando si vende un libro a una persona, non gli si vendono soltanto dodici once di carta con inchiostro e colla, gli si vende un’intera nuova vita. Amore e amicizia e umorismo e navi in mare di notte; c’è tutto il cielo e la terra in un libro, in un vero libro, intendo.


Il Parnaso ambulante di Christopher Marley, pubblicato da Sellerio con la traduzione di Rosanna Pelà ed Enrico Piceni, è un piccolo gioiello. Per gli amanti dei libri e dei librai, soprattutto, ma anche delle storie d’avventura e dell’amore.

È la storia di Elena, che un giorno decide di prendersi una vacanza dall'accudire la fattoria e il suo presuntuoso fratello scrittore, per girare un po’ il mondo e vendere libri a bordo del Parnaso ambulante, vendutole da Roger Mifflin, un buffo ometto che ha fatto del diffondere l’amore per i libri e la lettura la sua missione di vita ma che ora è un po' stanco e vuole ritirarsi a scrivere il suo, di libro. Una decisione presa all'improvviso, quella di Elena, e che la porterà ad affrontare tante avventure e, soprattutto, a riflettere su se stessa e sull'amore, per i libri e per gli altri.
Leggere dei buoni libri rende umili, io credo. Quando un libro veramente grande ci mostra le meraviglie intime dell’animo umano, ci si sente piccoli per forza, come quando si guarda il Dipper in una notte serena, o si ammira il levar del sole d’inverno, uscendo a raccogliere le uova. E ogni cosa che ci fa sembrare piccoli è ottima per noi.
Non serve fare un riassunto della trama, perché il libro è corto e qualunque cosa vi dicessi, rischierei di rovinarvi la sorpresa e il divertimento di scoprirlo da soli.
C’è tanto in queste centosessanta pagine. C’è l’amore per i libri e per la lettura, dicevamo, come strumenti di evasione o di distrazione da un mondo che a volte ci sembra un po’ stretto, ma anche una critica verso certi editori che non conoscono i loro lettori (e fa impressione quanto possa essere attuale un romanzo scritto nel 1948) e verso certi scrittori a cui il successo ha tolto un po’ di umiltà. 
Ho sempre avuto la convinzione che sia meglio leggere un buon libro che scriverne uno cattivo.
C’è l’avventura, una sorta di romanzo picaresco con protagonista una donna, un camioncino pieno di libri, un cane, un cavallo e un buffo omino. E c’è l’amore, che può nascere a ogni età e anche nelle situazioni più bislacche.
Il Parnaso ambulante mi è piaciuto un sacco, grazie anche allo stile ironico e garbato di Christopher Morley, che la letteratura la doveva proprio amare tanto. E mi è piaciuto anche in questa vecchia traduzione, che anziché irritarmi, come spesso fanno le traduzioni così antiquate, mi ha fatta sorridere più e più volte (i nomi propri tradotti, le parole che risultavano intraducibili lasciate semplicemente così, lo stile molto antiquato della lingua… ) e ha dato, secondo me, ancor più forza al libro e al suo valore, portandoti direttamente nell'epoca in cui è stato scritto e nei luoghi di campagna in cui è ambientato. 
Insomma, è un piccolo grande libro che tutti gli amanti dei libri dovrebbero leggere. Per le ossa di Byron!


Titolo: Il Parnaso ambulante
Autore: Christopher Morley
Traduttore:Rosanna Pelà ed Enrico Piceni
Pagine: 161
Editore: Sellerio
Acquista su Amazon:
formato brossura: Il parnaso ambulante

martedì 6 ottobre 2015

LA SAGA DEI CAZALET: Gli anni della leggerezza - Elizabeth Jane Howard


Non dev'essere per niente semplice scrivere una saga familiare. Bisogna delineare e caratterizzare bene tutti i personaggi, principali e di contorno; avere ben chiaro il contesto, familiare ma anche storico e politico,  in cui farli muovere; far incastrare perfettamente tutte le loro storie e le loro interazioni. A pensarci sembra un’impresa impossibile. Eppure di saghe familiari ne sono state scritte tante, e tanto sono ben riuscite.

Tra queste c’è sicuramente La saga dei Cazalet di Elizabeth Jane Howard, il cui primo dei quattro volumi che la compongo, Gli anni della leggerezza, è stato da poco pubblicato in Italia da Fazi editore, con la traduzione di Manuela Francescon.

Elizabeth Jane Howard, dicevamo, riesce in tutto questo. Prende una famiglia, i Cazalet, formata dai capostipiti, William Cazalet, che ha fondato un’imponente azienda di legnami,e la moglie Kitty, per tutti “la duchessa, dai tre figli maschi, Hugh, Edward e Rupert e dalle rispettive mogli, e dalla figlia nubile Rachel, più tutta un piccolo esercito di nipoti di tutte le età. 
Li prende e li colloca nell'Inghilterra della seconda metà degli anni ’30, quando la minaccia della guerra si stava facendo sempre più persistente. E ne racconta le storie: Hugh, il figlio maggiore, è tornato dalla prima guerra mondiale senza una mano e con schegge di proiettile in testa, ama follemente la moglie Sybil e i tre figli, soprattutto la primogenita Polly. Teme l’arrivo di un conflitto e non sa come tenere a bada questa sua paura. Edward è il secondogenito, ed è sempre stato quello più sicuro di sé, più spavaldo. Anche lui ha fatto la guerra, tornandosene a casa però senza un graffio. È sposato con Viola, anche se forse non si amano poi così tanto, e ha amanti sparse per tutta Londra. Per ultimo c’è Rupert, l’unico a non lavorare nell'azienda di famiglia per inseguire il suo sogno di diventare pittore. E’ sposato in seconde nozze con Zoë, una donna che sfrutta la sua bellezza per ottenere tutto quelle che vuole. E ha due figli, la piccola e solitaria Clary e il malaticcio Neville. E infine Rachel, che si prende cura dei genitori e di tutti, dimenticandosi forse un po’ troppo di se stessa
.
Poi però lo spettro della guerra si fa ancora più vicino e tutti i fratelli con le rispettive famiglie si ritrovano in campagna, nell’enorme casa di William Cazalet e Kitty, dove trascorrono le vacanze estive tutti gli anni, ritenuta più sicura di Londra nel caso arrivassero le bombe. Qui i personaggi si muovono, interagiscono tra di loro, crescono e affrontano i loro rapporti e i loro cambiamenti. Vengono fuori le paure e le fragilità dei più piccoli, ma anche le debolezze e le insicurezze dei più grandi. 

E tu, lettore, ti ritrovi lì in mezzo alla famiglia Cazalet, senza essere visto. A sapere tutto di tutti, senza che gli altri sappiano nulla. A commuoverti per la dolcezza di Polly e per la fragilità di Clary. Ad arrabbiarti per gli atteggiamenti di Edward, ma un po’ anche per quelli di Sybil. A detestare un po’ Zo ë e poi di colpo un po’ anche a capirla. A provare pena per Rachel e la sua vita spesa per gli altri, e ad invidiare il grande amore tra Hugh e Sybil.

Gli anni della leggerezza è un gran bel libro. Di quelli che ti tengono sveglia la notte perché non riesci a interrompere la lettura. E che, una volta finito, ti porta subito a sperare che il secondo volume non si faccia attendere troppo (non si farà attendere troppo, vero, mia adorata Fazi?), perché ora muori dalla curiosità di sapere che cosa succederà dopo.

È un libro assolutamente da leggere, per i temi che tratta (alcuni molto importanti se si pensa all’epoca in è cui ambientato), per lo stile di Elizabeth Jane Howard e per le emozioni che suscita leggendolo. Se siete amanti delle saghe familiari e se vi piace Londra, l’Inghilterra e scoprire la vita del passato, Gli anni della leggerezza fa decisamente per voi.


Titolo: La saga dei Cazalet - Gli anni della leggerezza
Autore: Elizabeth Jane Howard
Traduttore: Manuela Francescon.
Pagine: 606
Editore: Fazi editore
Anno: 2015
Acquista su Amazon:

venerdì 2 ottobre 2015

UN POSTO AL MONDO - Wendell Berry

Il sole, quasi al tramonto, trapassa le nubi e proietta una calda luce arancione sul paese, sulla fattoria, sulla collina su cui si trova. Port William ora è una silhouette che si staglia contro il chiarore delle nuvole a ovest. L'intrico dei rami nudi degli alberi spicca nitido sopra i tetti delle case. La parete della stalla si accende di un bianco intenso. I colori si fanno più carichi. La luce ravviva il minimo accenno di verde del pascolo. L'umidità lasciata dalla pioggia luccica.
Mat indugia nel cambiamento di luce, immobile eppur diverso da prima. D'ora in avanti non penserà più che è ancora inverno perché adesso la primavera è diventata immaginabile. 


Sebbene mi mancasse molto, ho aspettato che arrivasse l’autunno per tornare a Port William. Sapevo che pioggia e cielo grigio fuori, una coperta, una tazza di the, in quella che l’immagine forse più comune e un po’ stereotipata del lettore, erano gli elementi essenziali per me per immergermi nelle pagine di Un posto al mondo, ultimo romanzo di Wendell Berry pubblicato in Italia, sempre per Lindau e sempre con la traduzione di Vincenzo Perna, dopo Jayber Crow e Hannah Coulter.

Un posto al mondo una vera e propria trama non ce l’ha. O meglio, ce l’ha come ce l’ha qualsiasi paese, qualsiasi comunità del mondo, soprattutto del passato: ci sono i campi da arare, le bestie da accudire, le partite a carta al negozio e le bislacche avventure di un uomo anziano che si diverte a far disperare la sua padrona di casa. Ci sono figli da far nascere e persone da seppellire. Vicini di casa in difficoltà da aiutare e strane scorribande notturne sotto gli effetti dell’alcool. E sullo sfondo, lontana geograficamente ma molto molto vicina, c’è la seconda guerra mondiale ormai agli sgoccioli, che si è già presa molti dei giovani di Port William. Alcuni torneranno, altri no, altri ancora non si sa. E quindi tutti gli abitanti del paese, a partire da Mat Felter e sua moglie Margareth, ma anche Burley Coulter e Ida, aspettano un ritorno che non sanno se avverrà e intanto trovano un modo per continuare a vivere.

Tornare a Port William è un po’ come tornare a casa, anche se dista migliaia di km da qui a livello spaziale e più di settanta a livello temporale. È come tornare in un posto sicuro dove sai che, nonostante il dolore a volte sia insopportabile, si continua a vivere e si guarda avanti. Dove sai che ci sarà sempre qualcuno che verrà ad aiutarti, senza che nemmeno tu glielo debba chiedere. Un posto dove sai che non sarai mai lasciato solo.

Di Wendell Berry adoro la capacità di rendere eccezionale qualcosa di tanto semplice, di tanto naturale, come la campagna e i suoi abitanti. La capacità di mettere insieme gioia e dolore, risate e lacrime, senza mai lasciarsi andare a melodrammi, senza mai giudicare nessuno. E la capacità di guardare di affrontare la vita e guardare al futuro, sempre e comunque, anche quando fa male.

C’è poesia in queste pagine. Come c'è in un bosco che rinasce in primavera o che volge all'arancione in autunno. Come ce n’è in una distesa di campi con il granoturco da tagliare. In una vacca che partorisce il suo vitellino. In una donna che porta un bottiglione d’acqua a un uomo che le sta riparando il tetto senza che lei lo abbia chiesto. In un gruppo di amici che si ubriaca per festeggiare e da quell'ubriacatura e quei festeggiamenti viene fuori l’incredibile legame che li lega. In un uomo che prende per mano sua nuora incinta e la porta a passeggiare nei boschi. Sono cose forse banali, che spesso nemmeno notiamo, ma che rendono la nostra vita più bella.

Quando ho chiuso Un posto al mondo il mio primo pensiero è stato “e adesso cosa faccio?”. Mi sarebbe piaciuto prendere un aereo, andare nel Kentucky da Wendell Berry e abbracciarlo e ringraziarlo. Ma dal momento che logisticamente era un po’complicato, ho pensato che la cosa migliore che possa fare è quella di parlare dei suoi libri, della sua Port William e dei suoi abitanti, per far sì che tanti altri lettori possano andarci e conoscerli. E sentirsi a casa.

Titolo: Un posto al mondo
Autore: Wendell Berry
Traduttore: Vincenzo Perna
Pagine: 440
Editore: Lindau
Anno: 2015
Acquista su Amazon:
formato brossura:Un posto al mondo