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venerdì 29 aprile 2011

RABBIA- Chuck Palahniuck

"Rabbia" prende la forma di una storia (romanzesca) orale di Buster "Rant" Casey, nella quale un assortimento di amici, nemici, ammiratori, detrattori e familiari dicono la loro su questo personaggio malvagio (ma forse no), morto in circostanze tanto misteriose quanto leggendarie, che forse è stato il più efficiente serial killer di questa epoca. Buster era il tipico ragazzino di una cittadina nel bel mezzo del nulla, alla ricerca di emozioni forti in un mondo di video games e di film di avventure e di azione. Dopo le prime ribellioni al liceo scappa dal suo villaggio natale di Middleton e va nella grande città, dove ben presto diventa il leader di un gruppo di giovani dediti a una sorta di rito-gioco di demolizione urbana chiamato Party Crashing: nelle notti prescelte i partecipanti decorano in modi bizzarri le loro auto e quando arriva il momento cominciano ad attaccarsi a vicenda cercando di cozzare colle proprie vetture contro quelle degli altri. In occasione di una di queste violente cacce notturne Casey incontra la morte al volante. E dopo la sua morte spettacolare, i suoi amici raccolgono le testimonianze necessarie a ricostruire una storia orale della sua breve vita. Ma Casey è morto davvero?

Leggere un libro di Palahniuck mi richiede sempre uno sforzo terribile. Ma nel caso ad esempio di "Soffocare" lo sforzo era stato ripagato da quel che comunque, nel bene e nel male, si può definire un buon romanzo. Cosa che però con "Rabbia" (mi raccomando, è la malattia, non il sentimento) non è successo. Mi perdonino i fan di questo controverso autore, ma "Rabbia" è un libro insulso. Un libro che, a parte qualche frase ad effetto, non lascia quasi nulla, se non un senso di confusione e di incomprensione. Non ho capito dove volesse arrivare l'autore. Non ho capito contro cosa o chi ce l'avesse questa volta.
L'idea di fare un romanzo di testimonianze è indubbiamente molto bella. Una biografia scritta da chi ha conosciuto Rant Casey, da chi lo ha odiato e amato. Ma il libro si ferma qui.

O forse semplicemente devo rassegnarmi all'idea che Palahniuck non faccia per me.

Nota alla traduzione: niente da dire.

martedì 19 aprile 2011

LA CITTA' E LA CASA- Natalia Ginzburg

Pubblicato nel 1984, è un romanzo epistolare che racconta la disgregazione della famiglia, la crisi dei ruoli tradizionali, il vuoto drammatico che accompagna la vita dei nostri giorni. La mancanza di virilità, l'assenza della figura paterna, l'insicurezza dei figli compongono i frammenti di un'armonia ormai dispersa in un fitto susseguirsi di eventi spesso drammatici tra Roma, l'Umbria e l'America. Lettera dopo lettera, padri, figli, amici, amanti vengono messi di fronte a se stessi e al loro bisogno di verità. L'autrice ricostruisce le schegge di queste vite e racconta nel consueto stile, asciutto e lirico insieme, la perdita di quel senso di appartenenza che ha il suo simbolo più evidente nella casa: perché «uno le case può venderle o cederle ad altri finche vuole, ma le conserva ugualmente per sempre dentro di sé».


Sono arrivata per caso a questo libro. Mi è stato consigliato così, tra una chiacchera e l'altra, e me ne stavo anche per dimenticare. Ma poi me lo sono fatta prestare, perché tendo a leggere quasi tutti i libri che mi vengono consigliati (QUASI eh!), soprattutto quando viene fatto con tanto entusiasmo.
Questo libro è veramente bello. Un romanzo epistolare, che si dispiega attraverso le lettere che i vari personaggi si inviano per raccontare e raccontarsi quello che sta succedendo nelle loro vite. Lettere che sono di sfogo, lettere piene di speranze e piene di amarezza, lettere di grandi rivelazioni e lettere inutili scritte tanto per essere scritte, lettere scritte a persone lontane (Giuseppe che decide di mollare tutto e partire per gli USA) e lettere scritte a vicini di casa e amici (Lucrezia, Simona, Albina, Egisto). Tutte persone vicine, che si ritrovavano nella casa in campagna Le Margherite e che di improvviso vedono le loro vite cambiare, più o meno consapevolmente.
Se proprio vogliamo dire qualcosa di negativo (ma non siamo obbligati eh), si potrebbe far notare alla Ginzburg che le lettere non sono abbastanza caratterizzate e che probabilmente, se a inizio lettera non ci fossero scritti mittente e destinatario, potrebbero confondersi un po'.
Ma resta comunque un bel romanzo epistolare e un primo mio personale approccio alla Ginzburg decisamente positivo.

"Tu non sei uno che lacera, sei uno che passa avendo cura di non lacerare, non calpestare, non distruggere niente. Sei uno della mia razza. Sei di quelli che perdono sempre."

"La noia nasce quando ciascuno sa tutto dell'altro, o crede di sapere tutto dell'altro e se ne infischia. Ma no, sbaglio. La noia nasce non si sa perché"

domenica 17 aprile 2011

BLA BLA BLA- Giuseppe Culicchia

E se un giorno uno di noi scegliesse la libertà assoluta, abbandonando tutto e tutti? Se uno di noi, improvvisamente, rifiutasse le sicurezze e le frustazioni, gli affetti e le incomprensioni, il lavoro e il divertimento forzato? Il protagonista di "Bla bla bla" decide di perdersi nel flusso della metropoli, nel caos ruvido della realtà. Intraprende un viaggio alla scoperta del lato oscuro del mondo dove viviamo, verso il buio dove sprofondano le illusioni. Come un urlo, come un lungo mormorio solitario, come un fiotto di sangue, la sua voce racconta la propria silenziosa e allucinata ribellione.


Eppure avrei dovuto saperlo che questo romanzo di Culicchia non mi sarebbe piaciuto. Perché questo autore mi aveva già dimostrato di appartenere a quella categoria di autori in grado di scrivere un solo capolavoro nella loro vita. E quello di Culicchia è indiscutibilmente "Il Paese delle Meraviglie". Tutti gli altri che ho letto, da "Tutti giù per terra" a "Un'estate al mare" mi hanno lasciato un senso di insoddisfazione e inutilità.
Eppure il titolo di questo (che per fortuna non ho comprato ma trovato per caso in una libreria non mia) mi aveva attirato un sacco. "Bla, bla, bla", gente che parla, parla, parla ma non dice niente. Gente che finge di ascoltare ma non sente nulla. Che l'autore si sia immedesimato troppo nel titolo?
Perché è esattamente questo: un libro insulso che si trascina per pagine (poche e veloci da leggere per fortuna) senza dire niente, senza lasciare niente, in un delirio incomprensibile senza capo nè coda. O forse sono io che non ho capito dove voleva arrivare il protagonista, che fugge dalla moglie in un supermercato e diventa un barbone. Libertà assoluta, come recita la copertina? Scoperta del lato oscuro del mondo? O semplicemente i deliri di un autore che a parte l'exploit del già citato "Il paese delle meraviglie" non è riuscito e non riuscirà più a scrivere un bel libro?

Scusami Culicchia (e mi scusino anche i suoi fan) ma questo libro fa proprio pena.

RADICI- Alex Haley

Nella seconda metà del Settecento il giovane Kunta Kinte viene strappato dal suo villaggio africano e portato in America come schiavo. La sua vita cambierà, come quella dei suoi discendenti: Bell, Kizzy, Chicken George e tutti gli altri, fino a giungere ad Alex Haley, l'autore di queste pagine.

Leggere un libro come "Radici" richiede uno sforzo non indifferente. Vuoi per la traduzione, ancora oggi in commercio, di quasi quarant'anni fa, vuoi perché si tratta di una lunga saga famigliare che inizia in Africa nella prima metà del '700, attraversa l'oceano e arriva nel Nord America e nel secondo dopoguerra.
Ma se vi armate di un po' di coraggio e di tanta pazienza, questo romanzo alla fine vi piacerà parecchio. Parla di tradizioni secolari, parla della tratta degli schiavi africani e della loro vita nelle piantagioni del Nord America, dei loro rapporti con i padroni, della sofferenza e delle torture subite per ottenere la tanto agognata libertà.

Adoro le saghe famigliari, del passato e del presente. E sebbene a volte in questo romanzo sia facile confondersi tra i vari personaggi e i salti temporali siano a volte un po' troppo bruschi e rapidi, si tratta di un romanzo che merita di essere letto e che narra un periodo della storia dell'umanità che non dovrebbe essere dimenticato.
Un po' noioso il finale, in cui Alex Haley, autore nonchè discendente della famiglia del romanzo, racconta le sue peripezie per ottenere tutte queste informazioni. Ma merita comunque.

Nota alla traduzione: un cane che si morde la coda: non lo ritraduco perché non lo compra nessuno, non lo compra nessuno perché la traduzione fa schifo.

mercoledì 6 aprile 2011

COL CORPO CAPISCO- David Grossman

Grossman invita il lettore ad affrontare uno dei sentimenti più potenti: la gelosia. E lo fa in due lunghi racconti in cui un personaggio narra ad un altro (ma sarebbe meglio dire a se stesso) una storia di tradimento della quale è o si sente vittima. Nel primo è Shaul a confessare con quanta passione lui stesso vive la relazione che sua moglie intrattiene con un altro uomo. Nel secondo a parlare è Rotem, tornata al capezzale della madre morente per leggerle un racconto in cui, dopo anni di distacco, ha cercato di ricostruire l'intensa relazione nata, quando lei era ancora adolescente, fra la madre ed un ragazzo che le era stato affidato affinché lo aiutasse a «diventare uomo».


Adoro David Grossman. Ma forse si era già capito da mie recensioni passate. E' che sono pochi gli autori che ti entrano dentro così tanto, che descrivono così tanto bene passioni e pulsioni umane, rendendole reali e al tempo stesso incredibili. Qui lo fa con due racconti, "Follia" e "Col Corpo Capisco". Il primo parla di gelosia e tradimento. Un uomo racconta a sua cognata di come ha vissuto dieci anni sapendo della relazione di sua moglie con un altro uomo. Non l'ha mai seguita, non l'ha mai spiata, non l'ha mai interrogata eppure sa tutto, ogni minimo dettaglio di questa relazione. Una relazione che accetta per amore, perchè sa che la donna ama l'altro ma ama anche lui. Ma una relazione che lo turba anche, lo rende geloso e folle, al punto da intraprendere un viaggio notturno con una gamba ingessata solo per avvicinarsi a lei. Viaggia e racconta, aprendosi con la cognata e constringendola a fare i conti anche con se stessa e con quella sicurezza che pensava di avere. Incredibile.
Ma forse il secondo, "Col Corpo Capisco", è ancor più profondo. Una figlia raggiunge la madre morente, una madre con cui ha sempre avuto un rapporto difficile e conflittuale, e le legge un racconto, che ha per protagonista la madre stessa quando era giovane e insegnava yoga. La madre che ha aiutato un quindicenne a scoprire sè stesso e ad accettarsi, a diventare uomo, portandosi via un pezzo di lei. Le ultime cinque pagine di questo racconto sono tra le pagine più intense che abbia mai letto in vita mia.

Bella in entrambi i racconti l'idea che sia qualcuno a raccontare la storia, parlando o per iscritto, così da renderla ancora più reale e umana. Bello lo stile, profondo e intenso, con metafore che si mischiano a realismo nudo e crudo.
Forse se non avete mai letto Grossman questi due racconti non sono il miglior punto di partenza. Ma per chi ha già conosciuto questo autore, valgon la pena di essere letti.

Nota alla traduzione: non c'è male!



Comunicazione di Servizio: affetta forse da qualche mania di grandezza, ho creato la pagina de La Lettrice Rampante su Facebook... lì pubblicherò i link alle recensioni e qualche notizia dal mondo letterario. Se vi va, diventate fan :)

domenica 3 aprile 2011

PIAN DELLA TORTILLA- John Steinbeck

"Pian della Tortilla" è il quartiere di Monterey in cui vivono i 'paisanos', un luogo dove sopravvivere è il fine primario. Discendenti dei primi californiani, formano una colonia di gente povera ma felice, di perdigiorno amorali ma intimamente incoscienti nelle cui vene si intreccia sangue messicano, indio e spagnolo. Tra questi vive Danny, che ha ereditato due case e vive con sette 'paisanos' cui ha concesso il diritto di vivere nelle sue proprietà. Le giornate passano tra bevute e corteggiamenti, truffe ed espedienti, mentre il lavoro viene considerato l'ultima risorsa per procurarsi i mezzi di sussistenza. Dotati di spirito cavalleresco, i personaggi che popolano le pagine di questo capolavoro della narrativa americana vivono con umanità e grande dignità la propria decadenza morale e materiale nell'illusione di un domani migliore. Con uno stile narrativo lucidissimo e vibrante e un gusto per la descrizione quasi cronachistico, Steinbeck rende omaggio a tutti coloro che hanno attraversato la frontiera.

La prima cosa che viene da pensare appena si chiude questo libro è che andrebbe sicuramente ritradotto. Ci troviamo di fronte a quelle traduzioni fatte da scrittori, le tanto conclamate "belle ma infedeli" che andavano di moda trenta-quaranta anni fa. E' che questa traduzione non è nemmeno bella e un lettore di oggi è tentato di abbandonare il libro dopo poche pagine, talmente desueto è il linguaggio usato da Vittorini (ogni volta che leggevo UBBRIACO scoppiavo a ridere...)
Dovrebbe essere un romanzo picaresco, che narra le avventure di cinque amici che vivono sotto lo stesso tetto nella California degli anni 30. Eppure qualcosa manca, i personaggi non suscitano grande simpatia e a tratti manca continuità anche all'interno dello stesso capitolo. Non riesco però a capire se si tratta di nuovo di un problema "traduttivo" (le belle infedeli molto spesso stravolgono completamente il romanzo originale) o se proprio Steinbeck in questo suo primo romanzo arrivato in Italia è ancora troppo acerbo per appassionare.
Peccato, perchè La Valle dell'Eden (letto in lingua originale) è un vero e proprio capolavoro.

Decidete voi se leggerlo o meno... la traduzione che viene venduta oggi è la stessa di Vittorini di quando è uscito...